Dopo oltre 17 anni di guerra, lunedì gli Stati Uniti hanno per la
prima volta ammesso il raggiungimento di una bozza d’accordo con i
Talebani per reintegrare il movimento fondamentalista islamico nelle
strutture di governo dell’Afghanistan in parallelo al ritiro delle forze
di occupazione americane dal paese centro-asiatico.
I dettagli dell’intesa devono essere ancora negoziati e, visti anche i precedenti, è del tutto possibile che i colloqui di pace finiscano nel nulla. La sola notizia proveniente da Kabul, tuttavia, rappresenta una clamorosa ammissione di sconfitta da parte di Washington, assieme alla conferma delle nuove priorità strategiche degli Stati Uniti, spostate dalla “guerra al terrore” e orientate sempre più verso il confronto con potenze rivali come Russia e Cina.
L’annuncio dell’accordo di massima è stato dato nella capitale afgana dall’inviato speciale dell’amministrazione Trump, Zalmay Khalilzad, a capo della delegazione americana che nell’ultima settimana è stata protagonista di intense discussioni con i rappresentati talebani a Doha, nel Qatar. I due punti chiave su cui le parti hanno trovato una convergenza sono la promessa da parte dei Talebani di non trasformare l’Afghanistan in una nuova base operativa di un qualsiasi gruppo terroristico e, appunto, il ritiro del contingente militare USA, oggi attestato sulle 14 mila unità.
I Talebani dovrebbero anche impegnarsi a sottoscrivere una tregua nel paese e ad aprire negoziati direttamente con il governo del presidente Ashraf Ghani. Quest’ultimo aspetto dell’intesa appare come il più problematico, poiché i Talebani hanno sempre definito i gabinetti succedutisi a Kabul come semplici fantocci degli Stati Uniti, preferendo perciò discussioni e trattative con gli americani. Le stesse modalità che hanno permesso la bozza di accordo presentata questa settimana, cioè quasi all’insaputa delle autorità di governo, confermano in larga misura la tesi fin qui sostenuta dai Talebani.
La decisione di Washington di accettare almeno come argomento di trattativa il ritiro delle forze di occupazione e, di conseguenza, permettere ai colloqui di giungere a un esito potenzialmente positivo, è in primo luogo la diretta conseguenza dell’impegno del presidente Trump a chiudere l’avventura bellica in Afghanistan. La revisione della strategia della Casa Bianca era infatti già sfociata nell’ordine di ritiro della metà delle truppe ancora dispiegate in questo paese.
Le ragioni del disimpegno voluto da Trump sono da ricondurre in parte a motivi di ordine elettorale, vista l’impopolarità di una guerra lunghissima e che ha fatto quasi 2.300 morti tra i militari americani. La decisione di accelerare sul fronte diplomatico risponde anche al tentativo di contrastare le recenti iniziative di pace in Afghanistan promosse dalla Russia, così come il riavvicinamento strategico tra l’Iran e i Talebani.
Ancora di più, però, è la necessità a cui si è già accennato di impegnare forze e risorse per contrastare la minaccia russa e cinese alla supremazia statunitense nel pianeta ad avere convinto almeno una parte della classe dirigente USA a preferire un disimpegno da un conflitto impossibile da vincere e che, secondo alcune stime, è costato l’incredibile cifra di mille miliardi di dollari.
Ciò non esclude ovviamente che gli interessi strategici che avevano portato la macchina da guerra americana in Afghanistan nell’autunno del 2001 vengano abbandonati in caso di pace con i Talebani. Al centro delle manovre afgane degli Stati Uniti c’è stato e continua a esserci l’obiettivo di esercitare un certo controllo su un’area strategicamente cruciale sia per la prossimità di ingenti risorse energetiche sia per il passaggio di rotte commerciali sempre più importanti nell’ambito dell’integrazione euro-asiatica promossa ad esempio da Pechino.
A ben vedere, in ogni caso, proprio il consolidarsi della presenza russa e cinese in quest’area del continente nell’ultimo decennio testimonia del fallimento dei disegni americani inaugurati da George W. Bush. Forse anche per questo, tuttavia, è improbabile che Washington decida alla fine di abbandonare l’Afghanistan senza cercare di conservare una qualche influenza anche in un futuro nel quale i Talebani potranno tornare ad avere un ruolo di primo piano.
Furono gli USA, d’altra parte, a promuovere in funzione anti-sovietica la guerriglia integralista che avrebbe anticipato la presa del potere degli stessi “studenti del Corano” a Kabul. Quei Talebani, cioè, che le amministrazioni americane avevano corteggiato fino alla vigilia dell’11 settembre 2001 e che proprio l’inviato speciale di Trump, Zalmay Khalilzad, raccomandava di utilizzare in opposizione al vicino Iran sciita prima di diventare uno degli architetti della crociata contro i protettori di Osama bin Laden.
Nei negoziati di Doha e in quelli che a breve dovrebbero affrontare i dettagli delle questioni in sospeso è praticamente certo dunque che sia stata e verrà trattata l’ipotesi di lasciare almeno una base americana in Afghanistan, con ogni probabilità quella di Bagram. Fonti del Pentagono hanno infatti già manifestato l’intenzione di mantenere un certo numero di forze speciali o dell’anti-terrorismo a Kabul, dove il loro compito ufficiale sarà quello di colpire eventuali gruppi terroristici che continueranno a operare in Afghanistan.
L’invasione e l’occupazione di questo paese da parte degli Stati Uniti e degli alleati NATO rappresentano comunque una tragedia di proporzioni enormi e hanno causato una serie di crimini ancora difficili da quantificare. I numeri più o meno ufficiali contribuiscono a rendere un’idea di ciò che ha provocato la guerra in Afghanistan. Oltre ai già ricordati soldati americani caduti, circa 1.100 sono le vittime tra gli altri contingenti stranieri che si sono succeduti, a cui vanno aggiunte le decine di migliaia segnati da danni fisici e psicologici permanenti.
Di gran lunga più pesante è poi il conto pagato dalla popolazione afgana. Militari e membri delle forze di sicurezza indigene, addestrati dagli americani e incaricati teoricamente di garantire la pace e la stabilità dell’Afghanistan, continuano a essere oggetto di attentati sanguinosi, mentre i civili morti dal 2001 solo a causa delle conseguenze dirette del conflitto sono almeno 200 mila.
La notizia dell’accordo preliminare tra USA e Talebani ha comprensibilmente innescato un acceso dibattito sulla stampa d’oltreoceano. Se il tutto andrà a buon fine è però difficile da prevedere, visti i fattori ancora avvolti dall’incertezza. Le condizioni concordate a Doha dovranno essere ad esempio discusse all’interno della leadership dei Talebani e il nodo più complicato potrebbe essere l’avvio di colloqui diretti tra questi ultimi e il governo afgano.
Proprio a Kabul rischiano inoltre di emergere le resistenze più forti a un processo di pace guidato da Washington. Le prime reazioni del presidente Ghani e di uomini del suo entourage hanno confermato come sia diffuso il terrore di vedersi travolti dall’ondata talebana una volta che gli americani avranno lasciato il paese. Lo stesso presidente afgano lunedì ha ricordato come le prospettive di pace dopo il ritiro sovietico finirono in un bagno di sangue, con l’allora presidente, Mohammad Najibullah, giustiziato sommariamente dai Talebani.
Negli ambienti di potere di Kabul si teme in particolare che gli USA abbiano promesso ai Talebani un governo di transizione in cui essi potrebbero entrare, usando la loro posizione per cambiare la Costituzione e tornare a imporre il regime precedente l’11 settembre. In definitiva, le ansie delle élites afgane sono legate al fatto che la loro sopravvivenza – politica e non solo – dipende unicamente dalla presenza militare americana e i cosiddetti “insorti” sono visti da una parte della popolazione come una forza di liberazione del paese. Senza quest’appoggio, infatti, i Talebani difficilmente avrebbero potuto allargare il loro controllo su circa la metà del territorio afgano di fronte all’esercito e all’alleanza militare più potenti dell’intero pianeta.
Resistenze infine si stanno già registrando anche a Washington. In molti hanno subito criticato l’amministrazione Trump per la fretta con cui potrebbe avvenire il ritiro del contingente di occupazione. In questo caso, il pericolo è individuato nel venir meno degli strumenti per garantire la difesa degli interessi americani in Asia centrale, anche se, ufficialmente, gli scrupoli sono quelli di lasciare un paese nel caos e nuovamente esposto alla minaccia del fondamentalismo islamico.
I dettagli dell’intesa devono essere ancora negoziati e, visti anche i precedenti, è del tutto possibile che i colloqui di pace finiscano nel nulla. La sola notizia proveniente da Kabul, tuttavia, rappresenta una clamorosa ammissione di sconfitta da parte di Washington, assieme alla conferma delle nuove priorità strategiche degli Stati Uniti, spostate dalla “guerra al terrore” e orientate sempre più verso il confronto con potenze rivali come Russia e Cina.
L’annuncio dell’accordo di massima è stato dato nella capitale afgana dall’inviato speciale dell’amministrazione Trump, Zalmay Khalilzad, a capo della delegazione americana che nell’ultima settimana è stata protagonista di intense discussioni con i rappresentati talebani a Doha, nel Qatar. I due punti chiave su cui le parti hanno trovato una convergenza sono la promessa da parte dei Talebani di non trasformare l’Afghanistan in una nuova base operativa di un qualsiasi gruppo terroristico e, appunto, il ritiro del contingente militare USA, oggi attestato sulle 14 mila unità.
I Talebani dovrebbero anche impegnarsi a sottoscrivere una tregua nel paese e ad aprire negoziati direttamente con il governo del presidente Ashraf Ghani. Quest’ultimo aspetto dell’intesa appare come il più problematico, poiché i Talebani hanno sempre definito i gabinetti succedutisi a Kabul come semplici fantocci degli Stati Uniti, preferendo perciò discussioni e trattative con gli americani. Le stesse modalità che hanno permesso la bozza di accordo presentata questa settimana, cioè quasi all’insaputa delle autorità di governo, confermano in larga misura la tesi fin qui sostenuta dai Talebani.
La decisione di Washington di accettare almeno come argomento di trattativa il ritiro delle forze di occupazione e, di conseguenza, permettere ai colloqui di giungere a un esito potenzialmente positivo, è in primo luogo la diretta conseguenza dell’impegno del presidente Trump a chiudere l’avventura bellica in Afghanistan. La revisione della strategia della Casa Bianca era infatti già sfociata nell’ordine di ritiro della metà delle truppe ancora dispiegate in questo paese.
Le ragioni del disimpegno voluto da Trump sono da ricondurre in parte a motivi di ordine elettorale, vista l’impopolarità di una guerra lunghissima e che ha fatto quasi 2.300 morti tra i militari americani. La decisione di accelerare sul fronte diplomatico risponde anche al tentativo di contrastare le recenti iniziative di pace in Afghanistan promosse dalla Russia, così come il riavvicinamento strategico tra l’Iran e i Talebani.
Ancora di più, però, è la necessità a cui si è già accennato di impegnare forze e risorse per contrastare la minaccia russa e cinese alla supremazia statunitense nel pianeta ad avere convinto almeno una parte della classe dirigente USA a preferire un disimpegno da un conflitto impossibile da vincere e che, secondo alcune stime, è costato l’incredibile cifra di mille miliardi di dollari.
Ciò non esclude ovviamente che gli interessi strategici che avevano portato la macchina da guerra americana in Afghanistan nell’autunno del 2001 vengano abbandonati in caso di pace con i Talebani. Al centro delle manovre afgane degli Stati Uniti c’è stato e continua a esserci l’obiettivo di esercitare un certo controllo su un’area strategicamente cruciale sia per la prossimità di ingenti risorse energetiche sia per il passaggio di rotte commerciali sempre più importanti nell’ambito dell’integrazione euro-asiatica promossa ad esempio da Pechino.
A ben vedere, in ogni caso, proprio il consolidarsi della presenza russa e cinese in quest’area del continente nell’ultimo decennio testimonia del fallimento dei disegni americani inaugurati da George W. Bush. Forse anche per questo, tuttavia, è improbabile che Washington decida alla fine di abbandonare l’Afghanistan senza cercare di conservare una qualche influenza anche in un futuro nel quale i Talebani potranno tornare ad avere un ruolo di primo piano.
Furono gli USA, d’altra parte, a promuovere in funzione anti-sovietica la guerriglia integralista che avrebbe anticipato la presa del potere degli stessi “studenti del Corano” a Kabul. Quei Talebani, cioè, che le amministrazioni americane avevano corteggiato fino alla vigilia dell’11 settembre 2001 e che proprio l’inviato speciale di Trump, Zalmay Khalilzad, raccomandava di utilizzare in opposizione al vicino Iran sciita prima di diventare uno degli architetti della crociata contro i protettori di Osama bin Laden.
Nei negoziati di Doha e in quelli che a breve dovrebbero affrontare i dettagli delle questioni in sospeso è praticamente certo dunque che sia stata e verrà trattata l’ipotesi di lasciare almeno una base americana in Afghanistan, con ogni probabilità quella di Bagram. Fonti del Pentagono hanno infatti già manifestato l’intenzione di mantenere un certo numero di forze speciali o dell’anti-terrorismo a Kabul, dove il loro compito ufficiale sarà quello di colpire eventuali gruppi terroristici che continueranno a operare in Afghanistan.
L’invasione e l’occupazione di questo paese da parte degli Stati Uniti e degli alleati NATO rappresentano comunque una tragedia di proporzioni enormi e hanno causato una serie di crimini ancora difficili da quantificare. I numeri più o meno ufficiali contribuiscono a rendere un’idea di ciò che ha provocato la guerra in Afghanistan. Oltre ai già ricordati soldati americani caduti, circa 1.100 sono le vittime tra gli altri contingenti stranieri che si sono succeduti, a cui vanno aggiunte le decine di migliaia segnati da danni fisici e psicologici permanenti.
Di gran lunga più pesante è poi il conto pagato dalla popolazione afgana. Militari e membri delle forze di sicurezza indigene, addestrati dagli americani e incaricati teoricamente di garantire la pace e la stabilità dell’Afghanistan, continuano a essere oggetto di attentati sanguinosi, mentre i civili morti dal 2001 solo a causa delle conseguenze dirette del conflitto sono almeno 200 mila.
La notizia dell’accordo preliminare tra USA e Talebani ha comprensibilmente innescato un acceso dibattito sulla stampa d’oltreoceano. Se il tutto andrà a buon fine è però difficile da prevedere, visti i fattori ancora avvolti dall’incertezza. Le condizioni concordate a Doha dovranno essere ad esempio discusse all’interno della leadership dei Talebani e il nodo più complicato potrebbe essere l’avvio di colloqui diretti tra questi ultimi e il governo afgano.
Proprio a Kabul rischiano inoltre di emergere le resistenze più forti a un processo di pace guidato da Washington. Le prime reazioni del presidente Ghani e di uomini del suo entourage hanno confermato come sia diffuso il terrore di vedersi travolti dall’ondata talebana una volta che gli americani avranno lasciato il paese. Lo stesso presidente afgano lunedì ha ricordato come le prospettive di pace dopo il ritiro sovietico finirono in un bagno di sangue, con l’allora presidente, Mohammad Najibullah, giustiziato sommariamente dai Talebani.
Negli ambienti di potere di Kabul si teme in particolare che gli USA abbiano promesso ai Talebani un governo di transizione in cui essi potrebbero entrare, usando la loro posizione per cambiare la Costituzione e tornare a imporre il regime precedente l’11 settembre. In definitiva, le ansie delle élites afgane sono legate al fatto che la loro sopravvivenza – politica e non solo – dipende unicamente dalla presenza militare americana e i cosiddetti “insorti” sono visti da una parte della popolazione come una forza di liberazione del paese. Senza quest’appoggio, infatti, i Talebani difficilmente avrebbero potuto allargare il loro controllo su circa la metà del territorio afgano di fronte all’esercito e all’alleanza militare più potenti dell’intero pianeta.
Resistenze infine si stanno già registrando anche a Washington. In molti hanno subito criticato l’amministrazione Trump per la fretta con cui potrebbe avvenire il ritiro del contingente di occupazione. In questo caso, il pericolo è individuato nel venir meno degli strumenti per garantire la difesa degli interessi americani in Asia centrale, anche se, ufficialmente, gli scrupoli sono quelli di lasciare un paese nel caos e nuovamente esposto alla minaccia del fondamentalismo islamico.
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