giovedì 30 maggio 2019

Sfruttare l’immigrato sì, ma con il sorriso

Il tema immigrazione è, da ormai molti anni, ostaggio di un pericoloso scontro retorico tra due visioni apparentemente diverse, ma del tutto convergenti nel vedere nello straniero un oggetto, un mero strumento da valutare nel suo impatto sul benessere economico degli italiani.
All’odiosa schiera, sempre più nutrita, degli xenofobi di professione e dei fomentatori di odio, coloro che nello straniero vedono il pericolo principale per la stabilità sociale e l’integrità culturale ed una serissima minaccia per i posti di lavoro degli italiani, rispondono, con numeri e dati sciorinati meticolosamente, coloro secondo i quali senza stranieri il Paese andrebbe a scatafascio, l’economia collasserebbe e lo stato sociale non potrebbe più essere finanziato.
La prima visione semina odio e guerra tra poveri; la seconda, apparentemente conciliante nelle conclusioni, semina in verità un similissimo razzismo strisciante e una mostruosa concezione reificata e strumentale dell’immigrato e di tutti soggetti economici subalterni.
Una recente indagine della UIL e dell’istituto di ricerca EURES, riportata con entusiasmo da diversi periodici di ispirazione liberal-progressista, ha simulato cosa accadrebbe nella regione Lazio se d’un tratto scomparissero tutti i lavoratori stranieri: “Scompaiono colf, babysitter, muratori, infermieri, cuochi, commercianti e imprenditori. Le aule si svuotano, diminuiscono i matrimoni. Tremano le casse dell’Inps. Le città sono in tilt. Cosa accadrebbe se sparissero di colpo tutti gli immigrati in una regione come il Lazio? Il Pil regionale crollerebbe di 19 miliardi di euro, i conti della previdenza registrerebbero un buco milionario, salterebbero 80mila imprese e 300mila occupati”.
Così, con questa serie di numeri e dati da panico collettivo, un articolo di Repubblica introduce la descrizione della ricerca UIL-Eures. Entrando nel merito dello studio, i numeri riportati dimostrerebbero dapprima che interi settori dell’economia regionale subirebbero un drammatico tracollo: in agricoltura con 20.000 posti di lavoro persi; nel lavoro domestico (pulizie e badanti) dove l’84% degli occupati sarebbe costituito da stranieri con conseguenze drammatiche (sic!) sulla vita degli anziani non autosufficienti. Poi viene affermato, con un artificio retorico già usato insistentemente dall’ex presidente dell’INPS Tito Boeri, un inevitabile tracollo del sistema previdenziale dovuto al fatto che i lavoratori stranieri, data la composizione anagrafica, versano molti più contributi di quanti ne ricevano i pensionati stranieri.
Si passa poi alla scuola asserendo che l’ipotetica scomparsa di tutti gli studenti stranieri dalle scuole comporterebbe uno svuotamento delle aule con un esubero di ben 6800 insegnanti. Ed infine, ciliegina conclusiva, crollerebbe persino il numero di matrimoni visto che gli italiani si sposano sempre meno mentre le coppie straniere sempre di più. Insomma grazie agli stranieri la nostra economia e società starebbe evitando quello che, altrimenti, sarebbe un inevitabile collasso!
Sembrerebbe quasi superfluo rimarcare la disarmante banalità e sciattezza di questi dati usati come presunta dimostrazione dell’utilità della popolazione straniera negli equilibri socio-economici del sistema economico italiano. Vale però la pena entrare nel merito del ragionamento di fondo che fa da sfondo all’elencazione dei presunti effetti benefici della presenza degli immigrati nell’economia del paese.
Quando ad esempio si afferma che il settore agricolo o quelli dei servizi di badanti, colf e lavoratori domestici crollerebbero e che i nostri anziani si troverebbero senza possibilità di assistenza si sta commettendo un doppio e gravissimo scivolone: da un lato si dipinge lo straniero come un soggetto stabilmente dedito a determinate attività a bassa qualificazione, una sorta di ruolo eterno che il migrante di turno sarebbe condannato a svolgere adempiendo così a quelle funzioni vitali che il lavoratore italiano non vorrebbe più compiere; inoltre si rappresenta l’economia come un sistema di relazioni cristallizzate, in cui i salari sono dati, le condizioni di lavoro sono date e, di conseguenza, l’ipotetica sparizione della popolazione straniera farebbe automaticamente fallire l’intera agricoltura italiana, dando per scontato che un italiano quel lavoro non lo svolgerebbe mai perché mal pagato e massacrante.
Un pregiudizio economico e culturale che parte dal doppio assunto che un’ora di lavoro agricolo o domestico venga pagata con salari da fame immutabili e che esistano lavori che, in quanto tali, nei paesi più sviluppati vengano a priori scartati dai lavoratori locali e che uno Stato non possa intervenire nell’economia per fornire servizi (ad esempio alla popolazione anziana oggi presa in cura dal sistema dei badanti stranieri).
Il secondo spauracchio agitato è quello dei conti pensionistici che finirebbero inesorabilmente in rosso senza lavoratori stranieri. Anche qui si mischiano numerosi pregiudizi e credenze tipiche dell’ideologia dominante.  Da un lato il consueto terrorismo infondato sull’insostenibilità strutturale dei sistemi pensionistici nei paesi a demografia declinante come l’Italia; dall’altro l’idea secondo cui l’immigrato è e sempre sarà un oggetto itinerante destinato a non radicarsi, a lavorare come schiavo per qualche anno per far funzionare la macchina economica del paese versando anche contributi previdenziali, per poi ritirarsi altrove senza percepire la pensione avendo così un’eterna posizione di contribuente netto.
Infine, la boutade conclusiva sulle scuole, per cui si perderebbero 6800 posti di lavoro tra gli insegnanti, è totalmente priva di senso. La scuola italiana ha un disperato bisogno di personale e di manutenzione. Classi-pollaio, evasione scolastica, aule sporche e strutture pericolanti sono problemi che poco hanno a che fare con la platea di studenti iscritti e molto con i vincoli imposti alla finanza pubblica. Non è certo dalla prolificità degli immigrati, ancora una volta ridotti a strumento (stavolta per l’occupabilità degli insegnanti) che dobbiamo aspettarci un aumento degli investimenti in istruzione, un miglioramento del sistema scolastico, un dimensionamento adeguato del corpo docenti. Questi dovrebbero essere obiettivi delle politiche pubbliche indipendentemente dalla questione migratoria.
In definitiva, i risultati della ricerca UIL ed EURES forniscono il tipico quadro ad uso e consumo di chi nell’immigrato lavoratore vede uno strumento usa e getta di valorizzazione del profitto dei capitalisti, ma copre ideologicamente questa funzione asserendo improbabili teoremi sul ruolo imprescindibile dei lavoratori stranieri come strumenti irrinunciabili per il funzionamento del sistema economico.
Un teorema costruito su deleteri pregiudizi culturali, su una visione segregante della società, sprezzante nei confronti tanto dell’immigrato quanto del lavoratore autoctono, nonché su una lettura liberista del sistema economico.
Una concezione del mondo in cui l’immigrato è e deve restare l’ultima ruota del carro, costretto a svolgere lavori temporanei, dequalificati e mal pagati e a supplire alle inevitabili carenze di uno stato sociale ormai a brandelli.
Una narrazione in cui il lavoratore italiano è invece il “privilegiato” che non vorrebbe mai fare quei lavori, come se i livelli salariali fossero una variabile indifferente.
Una concezione in cui la distribuzione del reddito e la produzione di beni e servizi sono determinate dal mercato e in cui lo Stato non è capace di determinare i livelli occupazionali, offrire servizi e garantire il funzionamento del sistema pensionistico.
Se questi fossero davvero i miseri argomenti economici e culturali per arginare il razzismo dilagante, non ci sarebbero allora speranze.  Il razzismo buonista del mito dello straniero che salva un’economia altrimenti insostenibile non fa altro che incrementare esponenzialmente il razzismo cattivista di reazione di chi nello straniero individua un capro espiatorio per spiegare la propria condizione di subalternità, in una spirale senza fine.
Soltanto una concezione radicalmente diversa del sistema economico e del ruolo dei lavoratori, tutti, nella loro dignità di classe sociale e di persone, può ribaltare ogni pregiudizio razzista e classista, arginando l’onda del pensiero segregante che sta devastando il tessuto sociale del paese e rilanciando la lotta di classe.

lunedì 27 maggio 2019

Parte il risiko europeo nel settore auto: Fca vuol sposare Renault

Mentre il clamore si concentra su elezioni e umori, il capitale vero – quello multinazionale – non dorme mai…
Da tempo il fumo usciva dai piani alti della Fca ex Fiat, segnata dalla morte di colui che l’aveva salvata dalla morte e condotta alla conquista dell’America. O meglio, a esser conquistata da un partner statunitense messo ancora peggio e resuscitato solo dai finanziamenti governativi garantiti da Barack Obama (anche se sotto la forma del prestito da restituire, e restituito; lassù sui soldi pubblici non si scherza come in Italia, dove Fiat ha scavato negli anni fosse molto più profonde di tutti in tangentisti messi insieme).
Al fumo è seguito il più scontato degli arrosti: una proposta di fusione cone Renault, al 50%. Sembra un gioco partitario, ma non può esserlo. Con tutti i problemi sorti o venuti al pettine con l’arresto in Giappone di Carlos Ghosn, ex amministratore delegato con fama di mago, Renault è infatti già partner di un’alleanza mondiale con Nissan e Mitsubishi.
Dunque la fusione fifty-fifty sarebbe soltanto sul lato europeo della triangolazione, mentre l’addentellato americano e quelli nipponici vanno a delineare un player globale “occidentale”, contrapposto in primo luogo ai rampanti produttori cinesi. Né si può far finta di non sapere che il gruppo francese ha come primo azionista – non “di controllo” nel senso usuale, ma sicuramente sì dal punto di vista politico e nazionalistico – proprio lo Stato.
Certamente il gruppo nascente – se nascerà – può coprire tutti i segmenti di mercato, dalle city car al lusso (Fca si porta dietro Ferrari e Maserati), con uno sguardo sulle auto elettriche meno distante di quello fin qui tenuto dalla sola Fiat.
E proprio il passaggio dell’intero settore auto alla trazione elettrica sembra alla base del furioso moltiplicarsi di ipotesi di fusione che attraversano tutto il pianeta come risposta ad una crisi ormai prossima dei modelli tradizionali (motori a combustione). Pochi giorni fa, per esempio, Ford ha annunciato un taglio da 7.000 dipendenti (il 10% del totale), svelando l’inconsistenza della strategia immaginata da Trump per riportare il lavoro negli States.
DI sicuro, il tentativo Fca si propone come un deciso passo in direzione della “costruzione dei campioni europei”, ossia di colossi multinazionali con il “cuore” inserito in un sistema economico-politico altamente competitivo verso l’esterno e sempre più concentrato – tendenzialmente monopolistico – all’interno. Con buona pace della concorrenza e delle regole antitrust (di cui non a caso le varie Confindustria continentali chiedono l’abrogazione, insieme alla legalizzazione degli “aiuti di Stato” alle imprese; e solo a loro, sia chiaro…).
Gli investimenti necessari per la riconversione del settore dalla trazione a idrocarburi verso quella ad “energie alternative” sono del resto fuori dimensione per qualsiasi “campioncino nazionale”. A meno di non essere, per l’appunto, cinesi…
Ed anche i tagli occupazionali giganteschi derivanti dall’incrocio tra eliminazione delle “sovrapposizioni merceologiche” (Fca e Renault, per capirci, hanno modelli concorrenti praticamente in ogni segmento di massa, da Panda-Twingo fino ai modelli top e soprattutto nel “segmento C”) e sviluppo dell’automazione sulle linee di montaggio, potranno essere affrontati soltanto da un “governo europeo”.
Ovviamente gli amministratori di Fca si sono preoccupati di “garantire” che resteranno aperti tutti gli stabilimenti italiani e che non ci saranno ricadute occupazionali negative… Le stesse cose dette a suo tempo dal maestro Sergio Marchionne su Pomgliano, Mirafiori o Termini Imerese.
Sappiamo tutti com’è andata poi e come sta andando ora.

giovedì 23 maggio 2019

Uscire dai trattati e la necessità di un Piano B.

Il 18 aprile è uscito nelle librerie “La France tra Macron e Mélenchon. La sfida di France Insoumise” (Pgreco Edizioni, 2019) di Giacomo Marchetti, Andrea Mencarelli e Lorenzo Trapani. Il libro indaga tre differenti “oggetti politici”: l’affermazione e la crisi del Macronismo, la crescita e il posizionamento politico de La France Insoumise, lo sviluppo e le dinamiche del grande movimento di protesta popolare dei Gilets Jaunes.
Le questioni sono numerose, articolate, intrecciate, complesse, risultato di una realtà oggettiva che richiede uno sforzo maggiore di comprensione, andando a coniugare all’attenzione quotidiana un approfondimento concreto, soprattutto in una fase di accelerazione degli eventi e di loro continua evoluzione. Il libro rappresenta un tentativo in questa direzione, attraverso una cronaca ragionata basata sulla rielaborazione dei contributi pubblicati in chiave giornalistica, interviste inedite e traduzioni dei documenti.
Senza alcuna presunzione didattica, si cerca di offrire una fotografia dinamica del contesto politico e sociale francese negli ultimi due anni, andando a cogliere quegli aspetti fondamentali che segnano l’evoluzione e la trasformazione del panorama d’oltralpe.

Pubblichiamo l’intervista a Manuel Bompard (secondo candidato sulla lista de La France Insoumise alle europee) realizzata da Andrea Mencarelli e contenuta nel libro.
***
Vorrei iniziare con una questione che considero importante per comprendere la forza politica della France Insoumise, soprattutto oggi. Si tratta delle perquisizioni giudiziarie contro il movimento, presso la sua sede e presso la casa di Mélenchon e di altri deputati. In quell’occasione, avete parlato di un colpo di forza di polizia, giudiziario e politico. Potresti spiegarci meglio cosa è successo e motivare la vostra posizione?
Si tratta di un’operazione che ha avuto luogo in ottobre ed è stata per noi molto sorprendente per le dimensioni del dispositivo di polizia che è stato utilizzato. Infatti, sono stati mobilitati circa 100 agenti di polizia, che normalmente è il numero di persone che si mobilitano per far fronte a eventi su temi di terrorismo, criminalità organizzata, ecc. Quindi siamo rimasti francamente ed estremamente sorpresi da queste perquisizioni, che fanno seguito a due “casi” (come sono stati considerati dal governo).
Il primo è la questione degli assistenti parlamentari di Mélenchon: fondamentalmente i sospetti sono di aver utilizzato i suoi assistenti parlamentari per compiti diversi da quelli per i quali sarebbero preposti, cosa che ovviamente noi contestiamo con prove alla mano. Al di là di questo, è una storia che nasce da una denuncia di una eletta del Front National, poiché essi stessi sono stati presi di mira da queste stesse questioni e quindi potremmo dire che “non siamo gli unici”. Ma in ogni caso, non avevano il diritto e il motivo di impiegare un dispositivo di tale portata.
Il secondo argomento riguarda i conti della campagna presidenziale, perché questi in Francia sono regolamentati in modo rigoroso attraverso regole molto severe. I conti della nostra campagna sono stati convalidati e c’è una commissione nazionale per i conti della campagna che li convalida, ma il governo ha preteso di indagare ulteriormente su un certo numero di casi di finanziamento in cui vengono avanzate accuse di sovrafatturazione, cioè operazioni per le quali ci si accusa di aver aumentato artificialmente il prezzo. Noi contestiamo le accuse presentate.
C’è un solo elemento che permette di dimostrare tutto ciò: la campagna di Mélenchon è stata la più lunga campagna presidenziale perché è iniziata nel febbraio 2016 per un’elezione che si è svolta nell’aprile 2017 ed è stata la meno costosa, se rapportata al numero di voti. Siamo stati accusati di sovrafatturazione quando non abbiamo nemmeno utilizzato l’intera somma di denaro consentita in questa campagna presidenziale.
Si è trattato quindi di un dispositivo giudiziario molto duro, che abbiamo effettivamente considerato come un modo per colpire la nostra credibilità, per attaccare la nostra capacità di essere un’alternativa. Tutto ciò, dal nostro punto di vista, è stato chiaramente guidato e ordinato dal potere politico del governo *.
Passando all’attualità delle mobilitazioni di queste settimane, tu sei tra quelli che non hanno esitato a indossare il gilet giallo. Potresti darci brevemente la sua opinione su questo movimento, sulle sue rivendicazioni e soprattutto sulle sue prospettive?
Prima di tutto per noi si tratta di un tipo di movimento sociale abbastanza nuovo, poiché i movimenti sociali tradizionali sono stati organizzati intorno alle rivendicazioni in un’azienda o intorno a una grande questione sociale, spesso guidati e strutturati da organizzazioni sindacali. In questo caso, si tratta di un movimento che è nato completamente dall’autorganizzazione, senza ricorrere a strutture preesistenti.
Si tratta di un movimento che è nato intorno ad una questione che ha rappresentato una sorta di goccia che ha fatto traboccare il vaso, ovvero l’aumento delle accise sul prezzo dei carburanti. É un movimento che sta crescendo attraverso i social network e altre nuove forme di comunicazione per mettere in contatto i cittadini.
Riteniamo che questo sia un momento molto interessante, soprattutto perché fa parte delle nostre riflessioni strategiche su quella che abbiamo chiamato “rivoluzione cittadina”, ovvero l’idea che l’attore rivoluzionario del XXI secolo non è il proletariato organizzato nelle fabbriche, ma è il popolo. Oggi il popolo si organizza intorno a questioni legate alla capacità di integrazione nello spazio urbano, quindi sulla questione dei servizi e dell’accesso ai bisogni primari. Non per niente questo movimento è iniziato su una questione come quella relativa al trasporto e alla mobilità.
Con un po’ di ironia ma con molta serietà, troviamo molte analisi che erano già state fatte nel libro di Mélenchon intitolato ” L’ère du peuple“, un libro che ha cercato di analizzare quali potrebbero essere i processi rivoluzionari del XXI secolo. Vediamo che non ci si è affatto sbagliati sulle previsioni… anche se tutto non accade esattamente come descritto nei libri. In ogni caso, abbiamo avuto delle intuizioni non troppo falsate su quello che potrebbe essere oggi un grande movimento sociale del XXI secolo e pertanto è il punto di vista che abbiamo sul movimento dei Gilets Jaunes.
Abbiamo scelto fin dall’inizio di sostenere questo movimento: siamo stati criticati per questo, soprattutto perché è un movimento di collera, di rabbia, che al tempo stesso porta con sé proteste estremamente diverse. Sì, ci potrebbero essere in questi movimenti di protesta espressioni che non sono affatto le nostre, come quelle che considerano l’immigrato come un problema. Noi, per ciò che abbiamo visto e analizzato, crediamo che, anche se ci dovessero essere idee di questo tipo, queste in realtà sono estremamente minoritarie nel movimento e, in ogni caso, non è ciò che oggi emerge tra le principali rivendicazioni sociali e politiche.
Le principali rivendicazioni di questo movimento possono essere classificate in tre categorie. C’è una richiesta di giustizia fiscale: le persone non sono totalmente contrarie alle imposte tout court, ma si oppongono a un’imposizione iniqua, concentrandosi molto sulla questione dell’abolizione de l’Impôt de Solidarité sur la Fortune (l’imposta sul patrimonio) decisa da Macron. Quindi, le persone accettano senza problemi di pagare le tasse, se solo queste sono relazionate e progressive rispetto al loro reddito e permettono di finanziare i servizi pubblici… solo che oggi paghiamo più tasse e abbiamo meno servizi pubblici.
Inoltre, c’è il bisogno di lottare contro l’elevato costo della vita, con persone che affermano che oggi non sia possibile vivere in questa società, un caro-vita troppo elevato che non permette di arrivare alla fine del mese. Di conseguenza, vengono richiesti l’aumento dei salari, l’aumento delle pensioni, un’aliquota IVA ridotta per i beni di prima necessità… insomma, chiare rivendicazioni sociali.
Infine, un terzo punto molto forte, che è arrivato un po’ più tardi nel movimento, riguarda le rivendicazioni di partecipazione democratica, legate all’idea che l’attuale Quinta Repubblica in Francia abbia preso le distanze dal popolo, limitando la sovranità popolare, con i cittadini che non si sentono ascoltati. A loro viene chiesto una volta ogni cinque anni di esprimersi, di votare nelle elezioni presidenziali e subito dopo gli viene detto di tornare a casa, perché “ci occupiamo noi di tutto”.
Inoltre, ci sono anche altri argomenti presenti, tra cui la questione ecologica: mentre questo movimento è stato presentato a priori come anti-ecologico, in realtà da più parti è stato ribadito che il movimento dei Gilets Jaunes è interessato alle questioni ecologiche, ma quelle di un’ecologia popolare e non quella dove è il popolo che deve pagare il conto mentre le multinazionali inquinano e distruggono il pianeta.
Su questo movimento hai detto che “il popolo è salito sul tavolo”. Quali sono le responsabilità della sinistra oggi? 
Dal punto di vista delle tematiche sull’ecologia, il 95% di queste affermazioni sono quelle che si trovano anche nel nostro programma, quindi non ci sarebbe motivo per non sostenerlo. Ma, al di là di questo, riscontriamo soprattutto delle divergenze con parte della sinistra tradizionale. Infatti, noi crediamo che il posto della sinistra sia al fianco, insieme, dentro al popolo e ai settori popolari, soprattutto quando questi si mobilitano e anche se a volte ci possono essere punti sui quali non si è totalmente d’accordo.
Il nostro compito è quello di condurre la battaglia culturale per convincere queste persone che il problema non è l’immigrato ma è il banchiere, ovvero fare un lavoro diretto di organizzazione, non di restare a distanza e dare lezioni dall’alto di un piedistallo per dire che non sono “brave persone”. Noi abbiamo fatto il contrario, ci siamo uniti a questo movimento, e ora lo sosteniamo. Non abbiamo mai cercato di mettere il cappello sulle persone che vi partecipano. Ci sono molte persone provenienti dalla France Insoumise che vi partecipano, ma non si presentano come insoumis all’interno di questo movimento, piuttosto come cittadini.
Abbiamo la percezione che a poco a poco la gente stia cominciando a capire che anche la France Insoumise sta portando avanti le stesse rivendicazioni, infatti siamo sempre stati ben accolti sulle rotatorie e nelle manifestazioni. Per noi, quello dei Gilets Jaunes, è un movimento che va nella giusta direzione per le sue rivendicazioni sociali e non credo per niente all’idea che sarebbe alla fine il Front National che potrebbe trarne beneficio. Questa è soltanto una manovra mediatica per cercare di stigmatizzare questo movimento.
La mobilitazione continuerà e non credo assolutamente che si fermerà o si accontenterà del “grande dibattito” lanciato da Macron. Penso che il movimento proseguirà ogni sabato – è quello che speriamo – e credo alla fine tutto ciò si tradurrà in un ritorno al voto.
Hai citato l’abolizione dell’ISF… vorrei parlare un po’ della Macronie in generale, perché possiamo leggere questa serie di politiche antisociali nel contesto dell’austerità imposta dall’Unione Europea. Inoltre, penso ha quello che ha affermato di recente Mélenchon, ovvero che “Macron dice sì a tutto ciò che la Merkel chiede”. Qual è la tua opinione generale sulle politiche messe in atto dal governo di Macron?
Penso che, contrariamente a quanto volevano far apparire, Macron non è una novità francese e voi, in Italia, conoscete bene il modello del macronismo, che ormai si è diffuso in gran parte dell’Europa e che si sostanzia in realtà in un sistema di grande coalizione tra i socialdemocratici e la destra. Ritengo che Macron sia riuscito ad elaborare un modello di grande coalizione proprio all’interno del suo partito, pertanto non c’è più bisogno di costruire una grande coalizione attraverso un’alleanza tra i socialdemocratici e la destra liberale a livello nazionale, perché l’ha già fatta da sé.
Se vogliamo caratterizzare il macronismo, penso che si tratti di politiche economiche ultra-liberiste. Dietro la facciata della novità e quella simpatia c’è un regime autoritario, capace di una brutalità e di una violenza sociale di classe inaudita. Eppure si avvolgono nella bandiera della novità e del rinnovamento. In Francia ci sono stati molti articoli sul fatto che Macron ha rinnovato il “personale politico” ed è probabilmente vero in termini di volti, ma non in termini di diversità sociale nella sua rappresentanza nazionale. Penso che, per quanto Macron possa avere una propria forma e faccia, egli rappresenti l’ultima risorsa del sistema, ovvero come diceva uno scrittore italiano ” cambiare tutto affinchè non cambi nulla”.
Inoltre, c’è un filosofo francese – un filosofo dell’oligarchia in Francia – che si chiama Alain Minc e che ha definito Macron come un “populista mainstream”, ovvero egli ha vestito i panni del rinnovamento per mascherarsi e poter preservare il sistema. È così che vedo Macron e penso che la sua elezione faccia parte di un’ondata di disimpegno politico in Francia, dove tutte le forme tradizionali sono state messe a distanza. Lui è stato un po’ il joker del sistema per cercare di catturare questa ondata di disimpegno, senza che ciò potesse portato ad una trasformazione radicale di questo sistema.
Credo che oggi Macron sia anche in grande difficoltà e, avendo vinto con una mossa di poker, questa è ancor più grave perché non ha una base sociale solida. Si avverte che ci sono dei problemi all’interno del suo movimento. É chiaro che, approcciando alla politica come un movimento di grande coalizione già al proprio interno, lui stesso iscrive chiaramente la sua politica negli orientamenti del liberismo dell’UE e dell’ortodossia tedesca. Il discorso è sempre lo stesso: “credetemi, vedete che farò cambiare idea alla Merkel, la costringerò ad essere accondiscendente, ma poi alla fine ogni volta torna indietro dicendo che è d’accordo“.
Quindi non ci sarà mai alcun cambiamento in Europa con Macron a capo della Francia.
Hai parlato delle elezioni europee e come France Insoumise avete detto che queste sono un’opportunità per sanzionare la politica di Macron. A mio avviso, c’è qualcosa di più. Avendo tradotto integralmente il vostro programma politico per le elezioni europee, non si può far a meno di notare che avete scritto espressamente che “bisogna uscire dagli attuali trattati europei”. Inoltre, alla Convenzione di Bordeaux del 2018, hai affermato che “l’Europa è una grande idea, ma i trattati che la organizzano sono un colossale disastro”. Come si può cambiare questa situazione – se può essere cambiata – con una strategia come quella del piano A / piano B?
C’è una dimensione nazionale nella campagna europea e questa rappresenta una sorta di referendum anti-Macron. C’è ovviamente anche una dimensione europea più generale, nella quale articoliamo la nostra concezione e la nostra visione dell’Unione Europea, condannando fermamente l’UE dei trattati che organizza l’austerità, che impone un orientamento economico a tutti i suoi Stati membri, che respinge l’armonizzazione sociale e fiscale, che promuove il dumping e la concorrenza tra i popoli, che porta l’Europa in una situazione di totale disastro.
Oggi molti popoli, soprattutto quelli privilegiati, stanno optando per soluzioni per loro stessi, perché per molti cittadini oggi l’UE è un problema e non è assolutamente parte della soluzione. É da molto tempo che diciamo che questa Unione Europea non può continuare così e abbiamo bisogno di una strategia chiara per affrontare le istituzioni europee. Abbiamo osservato che da 30 anni in questo paese i socialisti si sono battuti dicendo “domani cambieremo l’Europa” e poi, una volta che finalmente sono arrivati al potere, hanno ceduto e lo hanno fatto per una semplice ragione: i Trattati europei dicono che in ogni caso, se si vuole cambiare qualcosa, bisogna avere l’unanimità degli Stati membri.
Tuttavia, sappiamo benissimo che non si avrà mai l’unanimità degli Stati membri.
Abbiamo quindi bisogno di una strategia, una strategia che sia in grado di imporre un rapporto di forza e che utilizzi il peso della Francia – un paese importante all’interno dell’Unione Europea – per spezzare questa camicia di forza dell’unanimità e costringere alla rinegoziazione. Questo può essere possibile a partire dal rapporto di forza che la Francia può far valere a livello europeo.
Nelle elezioni europee parleremo del “piano A/piano B” e parleremo dell’Europa come la vediamo noi, ma non pensiamo che siano le elezioni europee stesse a rendere possibile il cambiamento. Crediamo che per cambiare radicalmente l’Unione Europea – per uscire dai trattati – dobbiamo prendere il potere a livello nazionale. Il “piano A/piano B” sarà utilizzato nelle elezioni europee, ma è soprattutto una strategia nazionale con un governo della France Insoumise.
Prima di tutto, dobbiamo ricordare che non siamo per il Frexit, la nostra linea non è lasciare l’Europa domani, ma è di imporre un rapporto di forza mettendo sul tavolo una serie di condizioni. Questo è il piano A da attuare, dicendo agli altri paesi “questo è quello che vogliamo”: la fine dell’indipendenza della Banca Centrale Europea, il ritiro degli articoli dei trattati che proibiscono l’armonizzazione sociale e fiscale, la fine della difesa europea, la fine dell’inclusione della difesa europea nella NATO, l’abolizione della direttiva sul distacco dei lavoratori, la fine delle due deregolamentazioni Two Pack e Six Pack, che richiedono bilanci di austerità.
In breve, stabiliamo un certo numero di condizioni, dicendo agli altri Stati membri che possiamo mobilitarci e negoziare. Ma sappiamo molto bene che in una trattativa di questo tipo, se arrivi imponendo tutto ciò ma non hai possibilità di alternative, la persona di fronte a te risponde “molto bene, ma non siamo d’accordo” e ti rimanda a casa. Per questo dobbiamo avere un piano B affinché il piano A sia credibile.
Il piano B non è che la Francia farà tutto da sola. Il Piano B entra nella fase negoziale del Piano A: quando diciamo che siamo intenzionati a metter fine all’indipendenza della Banca Centrale Europea, ad esempio, ci saranno altri paesi dell’Unione Europea che diranno “siamo d’accordo con le rivendicazioni francese”. Dunque, se alla fine non ci riusciamo è perché al tavolo delle negoziazioni ci sono quelli – soprattutto tedeschi – che non condividono questa visione.
In questo caso, l’idea è di dire che costruiremo un’altra cooperazione europea con i paesi che hanno detto “siamo d’accordo con la Francia”. Perché spesso veniamo caricaturati, dicendo che il piano B significa la Francia si sta ritirando su sé stessa. Al contrario, è la Francia che si impegna a costruire una cooperazione europea diversa da quella dell’Unione Europea.
Ma se non hai questo piano B, cioè la possibilità tutto ciò in modo diverso, gli altri non si arrenderanno mai. Quello che noi vogliamo è il piano A, non il piano B; ma per riuscire ad avere il piano A abbiamo bisogno del piano B, quindi avere la possibilità di utilizzare un’arma nel rapporto di forza che dice “attenzione, che ti prenderai una pesante responsabilità se non dici nulla, perché noi lo faremo lo stesso con gli altri”.
Tutti sanno molto bene che la Francia non è la Gran Bretagna: non può uscire nello stesso modo perché, se la Francia lascia l’Unione Europea o decide di costruire una cooperazione con altri, non c’è più l’Unione Europea come la conosciamo oggi.
Si tratta di una logica necessaria ad evitare di replicare la capitolazione di Tsipras del 2015.
Infatti, il Piano B è nato dal riflesso di come Tsipras si trovò finalmente di fronte ad un muro di istituzioni europee e senza la capacità di un piano alternativo; ciò che lo costrinse ad accettare le condizioni che gli erano state imposte, il che in realtà era insopportabile per il popolo greco. Non vogliamo arrivare al potere e trovarci nella stessa situazione. Ci impegniamo per l’ideale europeo, perché pensiamo che la Francia non debba fare tutto da sola, ma non può contribuire all’Unione Europea che oggi ci distrugge e fa soffrire i cittadini.
In questo contesto, se dovessimo scegliere tra l’Unione Europea e dover vivere… beh, preferiamo vivere. Ribadisco, per chiarezza, che il piano A è la priorità, stabilire le condizioni e utilizzare l’arma del piano B nel rapporto di forza per ottenere ciò che vogliamo.
Mélenchon ha detto che “l’Europa si sta dirigendo verso il disastro”. In tutta Europa prevale l’idea del “There Is No Alternative”. Abbiamo parlato di questa strategia piano A/piano B che fa parte anche del manifesto “E ora il popolo!”. Quali sono le prospettive politiche del cosiddetto appello di Lisbona?
“E ora il popolo” è per il momento una coalizione europea, un movimento europeo, che è stato lanciato inizialmente con Podemos in Spagna e Bloco de Esquerda in Portogallo, al quale da allora si sono uniti diversi movimenti e diversi partiti in Europa. L’obiettivo per noi era quello di collegare e consentire l’azione congiunta di forze politiche emerse negli ultimi dieci anni, che spesso erano movimenti piuttosto che partiti – anche se il Bloco de Esquerda non aveva esattamente lo stesso status degli altri – in una struttura diversa da quella tradizionalmente esistente in Europa, ovvero il PGE o il GUE.
In particolare perché consideriamo che queste strutture oggi sono un po’ dominate da un asse tra i tedeschi e Syriza, mentre noi vogliamo fare qualcosa di diverso da quello che è successo in Grecia con Tsipras. Non possiamo partecipare a un movimento europeo con Syriza, quindi abbiamo voluto creare un’altra coalizione.
Ha uno status ibrido, cioè ci sono membri di questa coalizione che sono anche membri del PGE – non abbiamo chiesto loro di fare altrimenti – ma volevamo che questo manifesto permettesse di iniziare a costruire questa alternativa, in definitiva, della nuova sinistra europea.
Quali sono i suoi obiettivi? C’è una campagna europea, il nostro obiettivo è proporre e mettere in campo iniziative congiunte da parte della coalizione di “E ora il popolo!”, con quei soggetti che possono affermare che “quello che noi stiamo portando avanti in Francia nella battaglia europea, è lo stesso che viene anche in Spagna da Podemos o in Portogallo dal Bloco de Esquierda“. Quindi, si tratta, durante la campagna, di organizzare iniziative congiunte, linee comuni di comunicazione, partecipazione a riunioni di confronto a Parigi, Madrid, ecc…
Poi, dopo le elezioni, speriamo di essere costituiti in un nuovo gruppo grazie a “E ora il popolo!” o in un sottogruppo (non è ancora deciso da parte di tutti) all’interno del gruppo di sinistra, ma sempre con una visione critica e alternativa all’Unione Europea.
Penso che tutte le opzioni sono sul tavolo e tutto questo dipenderà un po’ dal rapporto di forza durante e dopo le elezioni europee. Il progetto, in ogni caso, è quella di aver avviato una coalizione europea per espandersi e creare essere al tempo stesso un luogo in cui possiamo agire insieme, dibattere e confrontarci, agire per preparare la presa del potere nei diversi paesi europei. E questo perché se uno di noi salirà al potere nel suo paese, potrà anche condividere la sua esperienza con gli altri paesi, per promuovere le loro possibilità e le loro capacità di arrivare al governo.
É così che vedo la coalizione “E ora il popolo!” e spero vivamente che continui ad espandersi nelle prossime settimane.
* La legge ordinaria francese, soprattutto nel c.p.p. francese, prevede un potere di direttiva del Ministro della giustizia con riferimento all’esercizio dell’azione penale, tanto in termini generali, di politica criminale, quanto con riferimento al caso di specie, sul quale dovrà poi pronunciarsi la magistratura giudicante; il pubblico ministero è comunque indipendente nelle scelte relative al processo orale (ovvero sul modo di condurre in porto l’inchiesta “ordinata” o “suggerita” dal governo attraverso il Ministro della giustizia.

mercoledì 22 maggio 2019

Guerra Usa alla Cina? Mica tanto facile

L’impressione è che gli Stati Uniti, come spesso è accaduto alle potenze in crisi di egemonia, abbiano dato il via ad una “guerra” senza fare un calcolo preciso delle forze in campo. Insomma, come la la loro potenza fosse così straripante da non richiedere altro che l’attivazione della catena di comando per eseguire gli ordini.
Con Grenada o Panama te lo potevi permettere, con l’Iraq di Saddam anche. Ma col passare del tempo i problemi aumentano, si fanno più complessi, man mano che il tuo strapotere diventa visibilmente meno totalizzante… Fino al punto che devi fare un passo indietro proprio quando avevi annunciato di volerne fare due avanti.
A sole 24 ore dalla rivelazione dell’agenzia Reuters, poi confermata (“Google rompe il contratto di fornitura con Huawei per il sistema operativo Android e tutte le app proprietarie”), come conseguenza delle sanzioni decise da Trump contro il colosso delle comunicazioni cinese, “il governo americano concede una tregua di 90 giorni”. Parte delle restrizioni vengono per il momento sospese fino al 19 agosto.
Perché?
Sul piano dei rapporti diplomatici tra i due paesi c’è sicuramente in ballo il contenzioso sui dazi commerciali. Per quanto faccia la voce grossa, non è interesse di Trump – più ancora che degli Stati Uniti – andare davvero fino in fondo. Le contromisure cinesi, infatti, colpiscono prodotti come la soia o la carne di maiale, quindi direttamente i produttori agricoli del Midwest, che costituiscono la vera spina dorsale del blocco sociale a suo sostegno.
L’incontro con Xi Jinping non è stato ancora cancellato, dunque lo stop and go (“voglio trattare, ma ho la pistola posata sul tavolo”) è nella logica delle cose, dal punto di vista yankee.
Ci sono poi i problemi tecnologici e commerciali. Scrivere un ordine di espulsione è facile, e Trump sorride sempre soddisfatto mentre firma qualche scemenza delle sue. Ma disaccoppiare le tecnologie è impresa che richiede tempo, e non garantisce nemmeno successo.
Banalmente, ci sono milioni di cittadini statunitensi che usano dispositivi Huawei, aziende che hanno adottato router cinesi, compagnie telefoniche che utilizzano le sue centraline e dispositivi di rete, reti di negozi dedicate, tecnici che lavorano sulla manutenzione di quelle reti e device, ecc.
Se non si dà il tempo di trovare alternative tecnologicamente all’altezza – e non ce ne sono moltissime, specie sui dispositivi di rete – il rischio per gli Usa è di spararsi sui piedi. Tre mesi, a questo scopo, sono anche pochi…
Anche perché, come spiegato in un’intervista da Ren Zhengfei – il fondatore della società sotto attacco – “gli Stati Uniti sottostimano la forza di Huawei, che si era già preparata a questa eventualità accumulando delle riserve di chip nei magazzini e all’occorrenza è in grado di trovare fornitori alternativi o produrli da soli, continuando così lo sviluppo della tecnologia 5G”.
Ma c’è un terzo capitolo, in questo confronto geostrategico, di cui si parla poco perché ignorato dai più, anche se probabilmente è uno di quelli decisivi: le terre rare. Scientificamente, si tratta di gruppo di 17 elementi chimici della tavola periodica, precisamente scandioittrio e i lantanoidi.
Ma è sul piano industriale che oggi valgono quasi più del petrolio.
E sarà un caso, ma proprio ieri – riferisce l’agenzia cinese Xinhua – Xi Jinping ha visitato oggi uno dei principali impianti minerari e di lavorazione di questi minerali a Ganzhou, nella provincia di Jiangxi. Insieme a lui c’era il vice-premier Liu He, ossia il capo-negoziatore commerciale della Cina nei colloqui con gli Stati Uniti.
Le terre rare sono decisive in molte delle applicazioni industriali hi-tech: superconduttori, magneti, leghe metalliche, catalizzatori, componenti di veicoli ibridi, applicazioni di optoelettronica (laser, ecc), fibre ottiche, risonatori a microonde e via elencando.
La Cina è al momento il principale estrattore ed esportatore di questi materiali quasi introvabili. Anzi, praticamente l’unico. E proprio le terre rare non figurano nella sterminata lista di importazioni cinesi su cui apporre dazi Usa del 25%. Curioso, vero?

L’ipotesi di una diminuzione di queste esportazioni, o addirittura il blocco totale come risposta alla guerra commerciale, costituisce di per sé un potente disincentivo alla prosecuzione della schermaglia armata.
Anche perché i possibili fornitori alternativi sono relativamente pochi (Sudafrica, Brasile, Australia, India) e non tutti dispongono esattamente degli stessi elementi, dispersi in quantità quasi impercettibili in terreni argillosi. E tantomeno degli stessi quantitativi.

Certo, per gli Stati Uniti c’è un grande giacimento di risorse alternativo molto più vicino a casa e fin qui quasi non sfruttato: ma si chiama Venezuela.

martedì 21 maggio 2019

Google toglie Android a Huawei. Fine dell’informatica globale

S/globalizzare è la parola d’ordine che arriva da Washington. Se fin qui erano state minacce, adesso si passa ai fatti.
La “guerra dei dazi” aveva preparato il terrreno, anche se fin qui con conseguenze minime. La decisione di bandire Huawei dal mercato statutitense, invece, segna l’apertura ufficiale delle ostilità sul terreno industriale. E rompe l’unitarietà dei mercato tecnologico mondiale, forse la più evidente e popolare manifestazione empirica della “globalizzazione”.
L’ukaze di Donald Trump contro il colosso hi-tech cinese ha obbligato Google a bandire Huawei dai propri contratti di fornitura. Significa che i prossimi modelli di smartphone (ma il mercato riguarda comparti anche molto diversi e ancora più complessi) non potranno adottare il sistema operativo Android, creato proprio dalla società di Mountain View.
A cascata, non saranno disponibili per quei modelli tutte le app di fabbricazione Google, come Play Store, Gmail, YouTube, ecc. Di fatto, è la fine di un mondo, delle sue abitudini e di un immaginario comune a tutti. Giaà nei prossimi giorni il mercato consumer farà vedere le sue reazioni, con il prevedibile crollo delle vendite su tutti i marchi e tutti i modelli. Come si fa a spendere per un device se non si è sicuri che tra pochi mesi non diventerà inservibile?
Sul fronte dell’hardware, anche i costruttori yankee di processori – come Intel, Qualcomm, Xilinx, Broadcom, ecc – hanno dovuto annunciare la rottura dei contratti con Huawei, il che avrà sicuri effetti immediati sulla sua capacità produttiva.
Non c’è al momento una reazione ufficiale del colosso asiatico, che in questo momento è senza avversari nella corsa alle tecnologie 5G (internet ad altissima capacità e velocità) e che, dunque, era il candidato naturale a fare da locomotiva dello sviluppo tecnologico in questi settori.
Inevitabil che società Usa (quelle europee neanche esistono) dovranno ora impegnarsi a rincorrere sul 5G, sviluppando quel che fin qui non erano neanche riuscite ad immaginare. E al contrario i cinesi doranno accelerare nel disegnare un proprio sistema operativo “android compatibile”, per non perdere defnitivamente le ampie quote di mercato, soprattutto europeo.
Le voci, da mesi, danno per certo un frenetico lavorio delle migliori menti informatiche di Shenzen per coprire questo “buco”. In fondo, il deterioramento dei rapporti sino-statunitensi non è roba degli ultimi giorni…
Il distacco dei due mondo non è comunque cosa immediata. un portavoce di Google afferma che Mountain View si sta “conformando all’ordine e valutando le ripercussioni. Per gli utenti dei nostri servizi, Google Play e le protezioni di sicurezza di Google Play Protect continueranno a funzionare sui dispositivi Huawei esistenti”. Ma è ovvio che questa “assistenza ai clienti” non durerà in eterno. Anzi, sarà anch’essa sottoposto allo stress delle pressioni geopolitiche.
Come del resto sta avvenendo da mesi in Europa, dove tutti i paesi vengono “tampinati” energicamente dagli Usa per stracciare i contratti di sperimentazione del 5G firmati con Huawei. La motivazione ufficiale è banale: “impedire che la tecnologia americana venga utilizzata da entità straniere in un modo tale da minare la sicurezza nazionale o gli interessi di politica estera”.
Mentre appare palese che glli Usa sperano così di rallentare – per via politica, giudiziaria (la vicepresidente e figlia del fndatore è stata arrestata in Canada e trasferita negli Usa su mandanto di cattura yankee) e, all’occorrenza, anche militare.
La competizione interimperialista – si sarebbe correttamente detto qualche decennio fa – segna dunque un inaudito salto di qualità, che investe non solo la “certezza dei contratti” firmati da società private in ogni angolo del pianeta, ma ridisegna confini invalicabili (altro che i muri di Salvini…) tra macroaeree economiche continentali.
E’ scontato infatti che la reazione cinese sarà “direttamente proporzionale” alla durezza dell’attacco subito. E quindi contribuirà a delineare “mercati rigidamente separati” là dove – ancora stamattina e per qualche settimana ancora – vigeva un “ambiente unico”, fatto di hardware cinese a sistemi operativi Usa (Europa non pervenuta).
E proprio le caratteristiche delle tecnologie avanzate rende questi mercati separati molto più impenetrabili di quelli fisici.
Ma solo un cretino – un trumpiano, insomma – può pensare che con queste mosse si possa mantenere la leadership mondiale dello sviluppo tecnologico. Se Huawei, Honor e altri marchi – non sempre e solo cinesi – hanno conquistato tanto spazio di mercato è perché i vettori di quello sviluppo (ottime scuole di ogni ordine e grado, università di altissimo livello e aperte alle menti migliori senza barriere di censo, investimenti di grandi dimensioni in ricerca e sviluppo, ecc) non sono più da tempo alla base del sistema statunitense (ed europeo).
Come sotolinea malignamente la stessa nota stampa diffusa dall’azienda cnese: «Huawei ha dato un contributo sostanziale allo sviluppo e alla crescita di Android in tutto il mondo. Come uno dei principali partner globali di Android, abbiamo lavorato a stretto contatto con la loro piattaforma open-source per sviluppare un ecosistema che ha portato benefici sia agli utenti che all’industria. Huawei continuerà a fornire aggiornamenti di sicurezza e servizi post-vendita a tutti i prodotti Huawei e Honor esistenti per smartphone e tablet che coprono quelli venduti o ancora disponibili a livello globale. Continueremo a costruire un ecosistema software sicuro e sostenibile, al fine di fornire la migliore esperienza per tutti gli utenti a livello globale».

lunedì 20 maggio 2019

Neanche una madonna potrà salvare Salvini…

I segnali si moltiplicano, e sono tutti trailer di un film molto semplice: Salvini ha stufato.
Soprattutto nella città che ospita la Scala – e che sfortunatamente gli ha dato i natali – si dovrebbe capire meglio che, a forza di alzare i toni, si rischia “la stecca”. Un pessimo cantante, una volta steccato, prova a mantenere quel trend, cadendo di nuovo e più di frequente nello stesso errore. Il pubblico, a quel punto si alza e fischia, invitandolo ad andarsene…
Quello che sta accompagnando Salvini verso l’uscita è ormai un coro. Interclassista, se vogliamo dire così. Unisce la gente dei quartieri, soprattutto del centro-sud ma sempre più spesso anche nel Nord, i “democratici dei quartieri alti” (preoccupati da un’escalation retorica che temono possa tramutarsi in conflitto fisico), e ormai esplicitamente anche quelle gerarchie ecclesiatiche che aveva puntato a conquistare con l’ultrareazionario meeting di Verona.
In poche ore, il ministro dell’interno che recitava la parte del “decisionista” ha dovuto incassare devastanti mazzate da tutte le parti; costringendolo a rivelare la sua abissale ignoranza sul funzionamento delle istituzioni e sulle dinamiche della realtà.
Da giorni “il capitano” fascioleghista andava ripetendo che la nave Sea Watch, con a bordo alcuni naufraghi salvati in mare, non sarebbe mai entrata in un porto italiano. Poi, nella serata di domenica, mentre stava ripetendo davanti al servizievole Gilletti le sue giaculatorie celoduriste, ha dovuto assistere in diretta tv allo sbarco proprio di quei migranti nel porto di Licata.
A conferma della carattere unicamente mediatico del suo esercizio del ruolo di ministro, Salvini è sbottato senza neanche riflettere un attimo o cercare di avere informazioni adeguate: “Sono pronto a denunciare per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina chiunque sia disponibile a far sbarcare gli immigrati irregolari su una nave fuorilegge. Questo vale anche per organi dello Stato: se questo procuratore autorizza lo sbarco, io vado fino in fondo“.
Il procuratore in questione è Luigi Patronaggio, della Procura di Agrigento (lo stesso che aveva ipotizzato il “sequestro di persona” nel caso della nave militare Diciotti), che aveva disposto il sequestro probatorio della nave mettendo contemporaneamente sotto indagine il comandante per “violazione dell’articolo 12 del testo unico dell’Immigrazione” e “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”.
Non proprio un atto “amichevole” nei confronti della Ong, ma comunque una decisione che – per essere eseguita – rendeva necessario l’approdo in porto e lo sbarco delle persone presenti a bordo.
Ma di questo a Salvini non frega nulla, consapevole che il “suo elettorato” non si interroga più sul perché degli avvenimenti, ma guarda solo all’aspetto superficiale garantito dalle immagini: se gli immigrati sbarcano, Salvini non ha alcun potere reale ed ha perso.
Di qui l’attacco bilioso contro il magistrato, la ridicola minaccia di “denuncia” (ma davvero c’è un ministro non conosce la differenza tra i propri desideri-ordini e il codice penale?), il farfugliamento propagandistico sparso sopra la sua rivelata impotenza.
E’ passata una decina di giorni da quando scrivevamo che, in fondo, il tonitruante Matteo era solo nu guappo ‘e cartone (simile solo nella postura a quelli in carne, ossa e armi alla cintura). Oggi possiamo aggiungere che su quel cartone, come su tutta l’Italia, è caduta davvero tanta pioggia. Con le conseguenze che si vedono…
Ma anche così, lo scasso istituzionale provocato da questi trogloditi del potere ha dimensioni sistemiche. O meglio: rivela che il sistema istituzionale descritto dalla Costituzione non tiene più. E che si va a tentoni…
Dover sentire l’ex procuratore di Torino Armando Spataro – ex specialista dell’”antiterrorismo”, erede del “teorema Caselli” per quanto riguarda la repressione “fantasiosa” del movimento No Tav, avversario perenne di ogni movimento di contestazione, ecc – chiamare alla manifestazione di “piazza in onore dei magistrati di Agrigento” dà la misuradella scomparsa di relazioni certe – ossia basate su Costituzione e leggi – tra i poteri dello Stato.
A questo va aggiunto il Vaticano, ormai quotidiano protagonista – dal cardinale Elemosiere all’ultimo dei parroci – di scudisciate che portano via la patina cristianoide dei fascioleghisti e sacche di consenso elettorale.
Il rosario brandito da Salvini e i fischi della folla a papa Francesco, ecco il sovranismo feticista“, titolava domenica Famiglia Cristiana (il settimanale più venduto in Italia, direttamente nelle parrocchie) sulla manifestazione di Milano dove “è andato in scena l’ennesimo esempio di strumentalizzazione religiosa per giustificare la violazione sistematica nel nostro Paese dei diritti umani. Mentre il capopolo della Lega esibiva il Vangelo un’altra nave carica di vite umane veniva respinta e le Nazioni Unite ci condannavano per il decreto sicurezza“.
Acido e definitivo il post Facebook di padre Antonio Spadaro, direttore della Civiltà Cattolica (la rivista dei gesuiti, l’ordine da cui viene Bergoglio): “Rosari e crocifissi sono usati come segni dal valore politico, ma in maniera inversa rispetto al passato: se prima si dava a Dio quel che invece sarebbe stato bene restasse nelle mani di Cesare, adesso è Cesare a impugnare e brandire quello che è di Dio”.
Ancora più autorevole e “indicativo” il commento del segretario di stato vaticano, il cardinale Pietro Parolin, a margine della Festa dei Popoli a San Giovanni in Laterano: Io credo che la politica partitica divida, Dio invece è di tutti. Invocare Dio per se stessi è sempre molto pericoloso“.

venerdì 17 maggio 2019

Un “decreto sicurezza” che fa impallidire il Ventennio

Un delirio nazista in piena regola. Il “decreto sicurezza 2” che Salvini vorrebbe far approvare dal governo farebbe vergognare persino i gerarchi del Ventennio.
Esageriamo? Nemmeno un po’, ma andiamo con ordine.
I primi tre articoli del provvedimento sono dedicati al tema principale della retorica salviniana: l’immigrazione, e dunque il “contrasto” al questo fenomeno epocale. Il delirio si concretizza in pochi fotogrammi. Il primo articolo aggiunge un solo comma al dl 286 del 1998, teso a impedire il salvataggio in mare di naufraghi, ma solo se “migranti”. In pratica, gli armatori delle navi che dovessero in futuro prestare soccorso verranno multati con una cifra variabile da 3.500 5.500 euro a testa, per ogni persona tratta in salvo. In caso di “reiterazione” del reato (chessò, due salvataggi a distanza di tempo) potrebbe essere sospesa la licenza di navigazione.
Già nell’immaginare che il soccorso in mare possa diventare un “reato” – è un obbligo previsto dagli accordi internazionali e dalla cosiddetta “legge del mare”, in vigore da millenni – c’è qualcosa di profondamente malato. Naturalmente l’aspirante “legislatore” prova a nascondere questa follia dietro frasi in aperta contraddizione tra loro: le imbarcazioni, infatti, “sono tenute ad attenersi a quanto stabilito dalle convezioni internazionali in materia (che impongono il salvataggio, ndr) ed alle istruzioni operative emesse dalle autorità responsabili dell’area in cui ha luogo l’operazione”.
Istruzioni operative che, nel caso ad esempio dei tagliagole rinominati “guardia costiera libica”, consistono nella pura e semplice negazione del dovere di soccorrere i barconi in difficoltà…

E’ l’antico sotterfugio dell’azzeccagarbugli italico: non tocco la regola generale (non era neanche possibile, visto che è internazionale), ma ne rendo impossibile l’applicazione.
Salvini prova – con l’articolo 2 – un piccolo golpe rispetto alle competenze dei ministeri, attribuendo a se stesso (al ministro dell’Interno) il potere di “limitare o vietare il transito e la sosta di navi mercantili o unità da diporto o da pesca nel mare territoriale per motivi di ordine e sicurezza pubblica”. L’incompetenza attuale in materia, ricordiamo, è alla base della inefficacia dei suoi ordini (“chiudere i porti!”). Tocca infatti al ministro delle infrastrutture, ovvero all’impalpabile Toninelli (che, invece di mandare a quel paese l’invasivo “collega”, si limita fin qui a dire che “se ne parla dopo le europee”).
Ma il delirio nazista si precisa con gli articoli successivi, dedicati tutti al contrasto delle manifestazioni dell’opposizione sociale e politica. Ovunque e in qualsiasi forma.
L’articolo 4 prevede il “potenziamento delle operazioni di polizia sotto copertura”, ovvero un maggiore uso di infiltrati e provocatori nei comitati, organismi, partiti, movimenti che i futuri ministri dell’interno riterranno di dover distruggere o invalidare.
Il top viene raggiunto però con l’art. 5, che aggrava e peggiora addirittura il “regio decreto n. 773 del 18 giugno 1931”, ovvero una legge del regime fascista. Va infatti a colpire nientemeno che il diritto di riunione.
Il comma a prevede infatti la reclusione “fino a un anno” coloro che partecipino a riunioni “in cui vengano commessi i reati di devastazione e saccheggio” (peraltro ridefiniti in modo particolarmente “elastico”, cosicché possano essere contestati anche per episodi risibili…). La cosa grave è che il riferimento va a peggiorare una norma (fascista, appunto) per cui “E’ considerata pubblica anche una riunione, che, sebbene indetta in forma privata, tuttavia per il luogo in cui sarà tenuta, o per il numero delle persone che dovranno intervenirvi, o per lo scopo o l’oggetto di essa”. Prevedendo infatti che “Con le stesse pene sono puniti coloro che nelle riunioni predette prendono la parola”!
Al punto che “Il Questore, nel caso di omesso avviso ovvero per ragioni di ordine pubblico, di moralità o di sanità pubblica, può impedire che la riunione abbia luogo e può, per le stesse ragioni, prescrivere modalità di tempo e di luogo alla riunione”.
Ripetiamo: stiamo parlando di riunioni, anche private (in una casa o in una sede, in un teatro), che per il numero dei partecipanti o il tema potrebbe venir vietate o comunque limitate (nell’orario, per esempio) dagli organi di polizia…
Non è finita. Viene peggiorata anche la mortifera Legge Reale del 1975, quella che provocò – tra l’altro – centinaia di morti uccisi dalle varie polizie ai posti blocco, tra automobilisti che se ne accorgevano in ritardo. L’articolo che prevede il divieto di indossare “caschi protettivi” o di “travisamento” trasforma infatti quella che fin qui è una “contravvenzione” in un “reato punibile con la reclusione da uno a due anni”.
Di più. La stessa misura viene applicata a chi “utilizza scudi o altri oggetti di protezione passiva”. Insomma: vi dovete far manganellare senza resistenza o attenuazione dei danni, da qualsiasi poliziotto voglia farlo.
E, visto che c’era, il “legislatore” si preoccupa pure di trasformare in “pericolosi reati” l’uso di “razzi, bengala, fuochi artificali, petardi, strumenti per l’emissione di fumo o di gas visibile”, oltre alle più ovvie “mazze, bastoni, oggetti contundenti”. Con pena da uno a quattro anni!
Che l’ossessione sia quella di impedire manifestazioni, presidi, contestazioni varie – quelle che stanno distruggendo l’icona del “ministro forzuto amato dalle folle” (e “dalle donne”, come da patetico ma fascistissimo libercolo edito con Casapound) – è confermato dall’articolo 8, che si preoccupa di aggravare misure e condanne previste dal codice penale fascista del 1930 (il “Codice Rocco”, mai abrogato dalla Resistenza in poi).
Non c’è molto da commentare… Una lista di pensate naziste, e dunque manifestamente incostituzionali, che in tempi normali non sarebbe stata neppure immaginabile presentare alla discussione pubblica. Ma che invece – complice l’ottusità o l’indifferenza grillina per le libertà politiche – rischia addirittura di iniziare l’iter parlamentare.
Per fortuna, vien da pensare, che la crisi di governo è alle porte. Anche se c’è da essere sicuri che un eventuale “governo tecnico ultra-europeista” – con un programma “lacrime e sangue” di titpo greco – potrebbe tranquillamente apprezzare un po’ di norme naziste “a difesa dell’ordine pubblico”.
C’è l’esempio di Macron, del resto, di che vi lamentate?

mercoledì 15 maggio 2019

Italia in piena stagnazione economica. Desolante rapporto della Confcommercio

Per radiografare la situazione economico-sociale dell’Italia, ormai sta diventando difficile anche trovare i titoli. Oggi le agenzie battono la sintesi di un rapporto della Confcommercio che può essere così riassunto: “niente ripresa, ma neppure recessione”. E quindi? Praticamente siamo in piena stagnazione. Ma proprio così non si può raccontare all’opinione pubblica,soprattutto alla vigilia delle elezioni, ed allora ci si arrampica sugli specchi.
Secondo la Confcommercio, ad aprile c’è stato un micro rimbalzo dei consumi su marzo, con turismo, auto e un po’ di alimentare. Il Pil nel secondo trimestre potrebbe collocarsi tra 0 e +0,2 congiunturale. Si conferma, quindi, un quadro di stagnazione, con proiezione della “crescita” attorno a +0,3% nel complesso del 2019.
Ma, a causa delle tensioni internazionali come la guerra dei dazi scatenata da Trump e l’ipoteca delle clausole di salvaguardia sull’Iva, i rischi di peggioramento dello scenario in Italia appaiono prevalere sulle possibilità di correzioni al rialzo.
Il rapporto afferma che i principali indicatori congiunturali continuano ad evidenziare una dinamica molto debole, con andamenti non omogenei. A marzo la produzione industriale, dopo un bimestre positivo, ha segnalato un brusco ridimensionamento registrando, al netto dei fattori stagionali, una contrazione dello 0,9% congiunturale e dell’1,5% su base annua. Per contro l’occupazione ha evidenziato a marzo una crescita con un +0,3% rispetto al mese precedente e, come a febbraio, un +0,5% nel confronto annuo. Ma parliamo solo di occupazione “quantitativa” e non “qualitativa”, infatti i salari rimangono vergognosamente bassi e i contratti di lavoro prevalenti sono quelli a termine ed a part time.
Per Confcommercio poi a confermare la fragilità del quadro economico, c’è la riduzione della “fiducia di imprese e famiglie” che si è ridotta nel mese di aprile. E’ scesa infatti dello 0,6% congiunturale, mentre il sentiment delle imprese dello 0,4% (-6% il tendenziale).
Dato l’andamento dei principali indicatori, a maggio, la stima del Pil mensile presenta una variazione congiunturale nulla, e una variazione dello 0,1% rispetto allo stesso mese del 2018. Lo 0,1%, capite, è lo 0,1%. Praticamente stagnazione.

martedì 14 maggio 2019

Il libero pensiero secondo i social

La chiusura di 23 pagine Facebook italiane – buona parte “tifose” della Lega o dei Cinque Stelle – è una classica “novità” da esaminare con attenzione.
La decisione dei vertici del social fondato a Mark Zuckerberg è arrivata dopo un’inchiesta condotta da Avaaz, una ong internazionale che ha censito con cura una serie di account intestati a nomi improbabili e che “informazioni false e contenuti divisivi contro i migranti, antivaccini e antisemiti”.
Roba da chiudere anche a mazzate, insomma. E, fin qui, nulla da eccepire. Siamo tutti tormentati quotidianamente da centinaia di post “condivisi” – spesso da gente che si fa abbindolare solo da un titolo studiato apposta – che sparano idiozie di ogni tipo. Noi stessi, quasi ogni giorno, segnaliamo ai nostri lettori fake news di grande rilevanza, magari diffuse dai più accreditati media mainstream…

Stiamo parlando qui di pagine abbastanza seguite (un totale di quasi due milioni e mezzo di followers), che contribuivano insomma a creare un pubblico intossicato da “informazioni” false, slogan razzisti, credenze antiscientifiche, ecc. Gente che poi vota in base a quel che crede di “sapere”…

I problemi su cui ragionare, dunque, non riguardano affatto la “difesa della libertà di espressione” – che ai falsari consapevoli va sempre negata (gli errori sono un’altra cosa, e li commettono tutti: si riconoscono, si chiede scusa e si va avanti) – ma sull’origine di questa operazione di “pulizia”.
Che è totalmente privata. Lo è l’ong Avaaz; lo è soprattutto Facebook, il social con più utenti al mondo, che sulle scemenze e i profili individuali rivenduti sul “mercato” ha costruito l’immensa fortuna del suo fondatore.
Un “privato” può indubbiamente negare a chiunque creda l’accesso sulla sua piattaforma. Ma questo toglie parecchio fascino a un “luogo” che è stato presentato come un palestra di libera espressione. In futuro, per esser chiari, a seconda delle vicende politiche del mondo, potrebbero essere “bannate” altre tipologie di utenti o creatori di pagine, in base a criteri decisi soltanto dal “proprietario”.
Non si tratta di un’illazione, in quanto tra motivazioni addotte c’è esplicitamente anche la capacità di quelle pagine di “influire sulle elezioni”. Se questa volta l’operazione “repulisti” ha colpito gente che poteva essere tranquillamente repressa dalla “mano pubblica” (ma ce lo vedete voi Salvini chudere le pagine dei contafrottole che l’hanno gonfiato come un pallone nei consensi?), la prossima potrà toccare ad altre forze o ideologie sgradite al “proprietario”.
Una volta inaugurata la prassi dell’esclusione “per via privata”, insomma, non c’è teoricamente o legalmente alcun limite: tutto dipende dagli interessi di mr. Zuckerberg (sia commerciali che politici o geopolitici).
In questo senso, si conferma in mondo concreto che la “globalizzazione” è finita. E con essa l’indifferenza per le varie opzioni, idee, concezioni del mondo, ideologie. E Facebook tende a trasformarsi in “piattaforma dell’Occidente”, contrapposta a quelle cinesi o russe o – se ne esistessero, nella decadente Unione Europea dell’austerità e della ridottissima ricerca scientifica – europea. Anzi, di un Occidente politically correct il cui baricentro viene fissato da un solo azionista…
Non è l’unico punto critico nascosto sotto questa notizia. C’è il tema dell’impotenza degli Stati – specie quelli meno grandi e meno dottati sul piano tecnologico – davanti allo strapotere delle multinazionali (come se non bastassero le “oscillazioni di mercato” e lo spread). Il fatto che la legalità di alcuni contenuti – la loro “propagandabilità” – sia decisa non da istituzioni democraticamente elette, ma da singoli imprenditori, segna un fondamentale punto di crisi nello sviluppo della democrazia.

C’è il tema del significato reale delle presunte “condivisioni”, istituzionalmente ridotte a impressioni senza alcun fondamento. La superficialità con cui, su qualsiasi social network, si concede un like o si gira un contenuto – rendendolo potenzialmente virale – è un risultato di un lungo processo di svuotamento del pensiero. Sia individuale che collettivo.
Pensateci un attimo. Si dedica meno tempo – e riflessione – a un atto del genere, potenzialmente creatore di un senso comune politicamente influente, piuttosto che a qualsiasi altro gesto della banalissima vita quotidiana. Al punto che ci si “affilia” a una linea ideologica con molta meno attenzione di quanto non si dedica alla cottura di due uova al tegamino.

lunedì 13 maggio 2019

Il tabu del debito pubblico nasconde chi ci guadagna

Il debito pubblico, spiegava Marx, è l’unica cosa davvero comune a tutta la popolazione in una società divisa in classi. Come per ogni “bene comune”, però – per quanto “negativo” come il debito – c’è sempre una modo per avvantaggiare alcuni a scapito di altri.
Fuori da ogni disputa ideologica – che è “falsa coscienza”, ovvero “narrazione” fasulla per coprire il reale – occorre guardare a questo debito con occhi decisamente diversi da quelli totalmente strabici di un Cottarelli, Giannini, Alesina, Giavazzi, Monti e via cantando sulle note dell’austerità.
Un editoriale di Guido Salerno Aletta per Milano Finanza aiuta – come spesso ci accade – a chiarire alcuni dettagli che svuotano di senso quella narrazione, illuminando su altre soluzioni. Quelle proposte da Carlo Messina, amministratore delegato di Banca Intesa, e riprese da questo editoriale, non sono ovviamente le nostre. Ma mostrano quasi fisicamente che si possono seguire altre strade anche restando in ambito totalmente capitalistico.
Ma, se si possono seguire altre persino garantendo al mondo del business di continuare a far soldi, allora sono possibili anche starde che portano da tutt’altra parte. In entrambi i casi – ed è questo l’interessante – viene distrutta la narrazione per cui “non c’è alternativa”. Un’autentica tortura mediatica (pensiamo solo alla quantità di volte che Carlo Cottarelli viene invitato da Fabio Fazio o Paolo Floris…) che ha anestetizzato le capacità critiche soprattutto della cosiddtta “sinistra”, incapace oggi persino di articolare un pensiero senzato di fronte alla più devastante delle domande: “ma dove si trovano i soldi?”.
La strada dell’a.d. di Banca Intesa, per esempio, rivela che non solo “i soldi ci sono”, e in misura persino eccessiva rispetto allo scopo di abbattere il debito pubblico, ma soprattutto che quella domanda retorica da talk show nasconde gli interessi reali che hanno guadagnato ricchezze colossali: “Dietro il moralismo del rigore si cela la tesaurizzazione del patrimonio, garantita dalla rendita parassitaria sul debito pubblico”.
Detto altrimenti, l’attuale intreccio tra dimensioni del debito pubblico e “regole europee” favorisce la rendita, deprime l’economia reale, aiuta a comprimere i salari e i consumi, rende disponibili ampie quote dell’industria a essere svendute per un tozzo di pane. In pratica, è un meccanismo distorsivo “di classe” e anche un modo per cambiare gli equilibri tra “partner-competitori all’interno dell’Unione Europea.
Restare a subire questa forca è privo di senso. Non “guariremo” mai (il debito aumenta sistematicamente in virtù proprio di questo meccanismo “austero”) e alla fine saremo tutti morti. Come lavoratori e come sistema-paese.

Ora, se una cosa del genere può esser detta da chi guida una delle due principali banche italiane, che conosce a menadito la struttura della ricchezza in questo paese, si vede che la situazione sta diventando davvero esplosiva. E che ulteriori misure in questa direzione – come la spaventosa “manovra da 40 miliardi” che il prossimo governo (tecnico?) dovrà mettere in cantiere per il 2020 rischia di essere la mazzata finale per un sistema-paese già da tre decenni sottoposto a una “dieta” che sta ammazzando il paziente.
Materiale per riflettere, insomma, non roba da prendere così com’è. Ma siamo sicuri che i nostri lettori sappiano pensare da sé…
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Debito pubblico: garantire la rendita finanziaria o fare sviluppo
Guido Salerno Aletta
Tanto tuonò che piovve. Quale strategia adottare per ridurre il debito pubblico? È questo il tema dell’evento dal titolo “Riduzione del debito pubblico: l’esperienza dei Paesi avanzati negli ultimi 70 anni”, che si terrà lunedì 13 maggio a Torino, presso l’Auditorium della Fondazione Collegio Carlo Alberto.
L’iniziativa, come informa il comunicato stampa, è stata promossa dalla Fondazione Collegio Carlo Alberto e dall’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. E sarà l’occasione per presentare una nuova ricerca, curata da Sofia Bernardini, Carlo Cottarelli, Giampaolo Galli e Carlo Valdes, in cui vengono discusse le strategie di riduzione del debito pubblico adottate nelle economie avanzate nei 70 anni successivi alla seconda guerra mondiale. L’illustrazione dei risultati sarà seguita da momenti di confronto tra personalità del mondo economico e politico italiano.
La questione non è nuova, soprattutto per Milano Finanza che ha dedicato a questo argomento grande attenzione sin dal 2010, quando il cosiddetto contagio della crisi greca cominciò a creare difficoltà sul mercato secondario dei titoli di Stato italiani, con l’aumento degli spread.
La crisi iniziata nel 2008 non solo ha vanificato tutto il processo di riduzione del rapporto debito/pil iniziato nel 1992, dopo la crisi valutaria che coinvolse la lira italiana, il franco francese e la sterlina inglese, ma lo ha portato ad un livello mai raggiunto prima in tempo di pace. Per due motivi: la bassa inflazione, assolutamente inusuale per l’Italia, ha abbattuto il tasso nominale di crescita, mentre quello reale ha subito le conseguenze della duplice recessione.
Ci sono due strategie in campo. Da una parte c’è quella consueta: pareggio strutturale del bilancio, arrivando ad con un livello dell’avanzo primario in misura tale da coprire integralmente la spesa per interessi. E’ la scelta che è stata compiuta dal ’92 ad oggi: consiste nel dedicare una quota crescente delle entrate tributarie al servizio del debito. Ha come controindicazione la bassa crescita che deriva dalla sottrazione alla economia reale di quote rilevanti di risorse, che potrebbero arrivare fino al 3%, ovvero al 4 % del pil, in considerazione dell’ammontare complessivo degli interessi sul debito.
Questo non aumenterebbe più in termini nominali, data l’assenza di deficit, ma varierebbe in rapporto al pil in funzione della crescita reale e dell’inflazione, ferma restando la soggezione agli shock esterni. Data per scontata la bassa crescita reale e la bassa inflazione derivanti dall’avanzo primario, si determina un drenaggio continuo di risorse dall’economia reale al sistema finanziario: considerando, infatti, la proporzione prevalente tra il gettito delle imposte sui redditi e sui consumi e quello delle imposte sui capitali e sulle rendite finanziarie, il pagamento di interessi sul debito pubblico ormai detenuto per oltre il 70% da residenti in Italia, comporta un trasferimento di ricchezza dai primi ai secondi. Dalla produzione e dal consumo, alla rendita.
La bassa crescita, come abbiamo sperimentato, penalizza l’economia nel suo complesso, con la tendenza alla stagnazione degli investimenti. La competitività si fonda sui bassi salari, avvitandosi verso il basso.
Come la storia recente ci ha purtroppo confermato, basta una crisi di origini esogene per vanificare decenni di sacrifici. Una dieta lunga, inflessibile, lascia sfiancati e pericolosamente vulnerabili.
Va poi considerata la inesistenza di coperture da parte della Banca centrale europea: già a partire dal Trattato di Maastricht non può sovvenire in alcun modo a favore degli Stati, neppure con anticipazioni di cassa. Gli Stati, dopo la adozione dell’euro, sono esposti alla speculazione sui loro debiti così come in precedenza erano esposti alla speculazione sulle rispettive valute. Ma, allora, potevano infine svalutare o per l’intanto manovrare i tassi di interesse per disincentivare l’esportazione di capitali; ora non più. Di situazioni così anomale è inutile cercare analogie nella storia economica moderna: l’euro è una costruzione senza precedenti.
Per fortuna, c’è chi la pensa diversamente: la soluzione per la riduzione del debito pubblico passa dalla mobilitazione del patrimonio finanziario delle famiglie italiane. Ad averlo affermato, più volte, è stato Carlo Messina, amministratore delegato di Banca Intesa: “Ridurre lo stock del debito, i 2,3 trilioni di euro che paralizzano il Paese, deve essere la priorità della politica economica. E non si può farlo semplicemente guardando alle regole europee, al rapporto tra deficit e Pil e quindi tra debito e Pil. Non basta ridurre il rapporto crescendo di più o contenendo la spesa. Occorre tagliare lo stock per liberare risorse”.
Ed ancora, ha precisato: “Le basi ci sono. Bisogna collegare i nostri punti di forza: è inaccettabile che non si valuti come poter ridurre un debito pubblico da 2.300 miliardi quando nel Paese ci sono 10.500 miliardi di ricchezza privata e oltre 1.000 miliardi di asset pubblici…. Quelli immobiliari possano essere valorizzati con un programma pluriennale, indipendentemente dalla loro appartenenza all’amministrazione centrale o periferica. Come? Mettendoli in connessione con l’enorme ricchezza finanziaria degli italiani”.
Da parte di Messina, la contrarietà ad una patrimoniale è netta: “No, non è quella la strada per valorizzare entrambi, patrimonio pubblico e ricchezza privata. Bisogna creare degli strumenti finanziari ad hoc, sulla scia di quanto fatto con i Pir. Fondi immobiliari, anche locali, che investano in questi asset e vengano poi collocati presso i piccoli risparmiatori, con garanzie sui rendimenti e incentivi fiscali. Gli immobili tra l’altro, non sarebbero svenduti e resterebbero in Italia. Banche, assicurazioni, Cdp potrebbero affiancare i piccoli risparmiatori. Penso che con un’operazione di questo tipo il nostro spread si avvicinerebbe a quello francese. E comunque scenderebbe sotto i 150 punti base”.
D’altra parte, su uno stock di debito che nel 2018 è stato del tutto analogo rispetto a quello dell’Italia, 2.315 miliardi di euro rispetto a 2.322 miliardi, la Francia ha pagato interessi per 40 miliardi di euro netti, rispetto ai 65 miliardi dell’Italia. Tanto pesa il differenziale sui tassi. Non potendo forzare il mercato sui tassi, occorre tagliare lo stock del debito. I benefici sarebbero consistenti.
Messina conclude così: “Liberandoci dalla zavorra del debito, il gap di fiducia si ridurrebbe. E anche gli investitori comincerebbero a guardare meglio ai nostri fondamentali. L’Italia potrebbe così concentrarsi sullo sviluppo, sulla lotta alla povertà e sul sostegno della classe media. Il nostro Paese decollerebbe, tornerebbe a primeggiare in Europa e potrebbe anche investire per il futuro…. Dove? Infrastrutture, strade, ospedali, scuole e porti, soprattutto al Sud. E poi istruzione, ricerca e innovazione. Ci sono 150 miliardi di risorse pubbliche già stanziate. Noi ci affiancheremmo per garantire un effetto leva: lo scorso anno Intesa ha erogato nuovo credito a medio e lungo termine per 50 miliardi, possiamo continuare a farlo nei prossimi anni anche in misura maggiore”.
C’è chi insiste ancora, in favore di una sterile e micragnosa austerità. Dietro il moralismo del rigore si cela la tesaurizzazione del patrimonio, garantita dalla rendita parassitaria sul debito pubblico. Sottende una strategia volta a smantellare i servizi sociali, rosicchiandone la sostenibilità un po’ alla volta. Dall’altra parte, c’è la mobilitazione del risparmio privato, per valorizzare il patrimonio pubblico, che è già tutto degli italiani.
Accumulazione di ricchezza per alcuni, oppure maggiore crescita collettiva. La differenza, in fondo, sta tutta qui. E non è poco.