giovedì 29 dicembre 2016

Salvataggio Mps: una cura “alla greca” contro tutti noi

Nuovi capitoli del caso MPS. Questo paese non sarà più lo stesso dopo il “salvataggio” (lo abbiamo già ipotizzato in questo articolo sui tagli a welfare e sanità). In molti lo intuiscono ma a volte manca il dettaglio per avere tutti i pezzi davanti.
Guardate questo titolo dal sito finanza.com: “Mps: Bce chiede 8,8 miliardi di aumento, vuole trattamento alla greca. Oggi titoli sospesi”. Voi direte, ma come prima di Natale i miliardi necessari, per la ricapitalizzazione, erano 5 e ora sono quasi 9? E’ solo una parte del problema come è solo una parte del problema il fatto che questi soldi sono sottratti ai servizi alla sanità e alla spesa sociale. Come è solo una parte del problema quanto ci rimetteranno i risparmiatori, gente come ne conosciamo tanta.
Il problema più grosso, l’avete capito da soli, è quel “alla greca”. Vediamo se dalle parole di Varoufakis si intuisce qualcosa. Ecco come il popolare ex ministro greco commenta il complesso dell’operazione di salvataggio delle banche greche: “malgrado le iniezioni di capitale [soldi dei greci che si sono ridotti in miseria ndr] per circa 47 miliardi di euro…, la quota del patrimonio netto dei contribuenti [il peso del settore pubblico nelle banche] è passata da oltre il 65% a meno del 26%, mentre gli hedge fund e gli investitori stranieri (ad esempio, John Paulson, Brookfield, Fairfax, Wellington e Highfields) si sono accaparrati il 74 per cento del patrimonio bancario [greco] investendo appena 5,1 miliardi di euro”.
Così si capisce cosa significa alla greca. Noi investiamo, in soldi altrimenti destinati a uno stato sociale che ne ha bisogno, la maggioranza dei soldi per salvare MPS (mangiata dal PD tra l’altro) e i grandi investitori esteri, con la minoranza dei soldi si beccano il controllo facendo il bello e il cattivo tempo nelle politiche bancarie. Avendo così peso, come in Grecia, per chiedere ulteriori privatizzazioni etc.

mercoledì 28 dicembre 2016

Crisi, ancora un Natale dimesso. Gli italiani pensano ai tempi magri che li aspettano

Feste all'insegna della sobrieta' quelle che le famiglie italiane si preparano a trascorrere al termine di questo 2016. Secondo i dati raccolti da Conflavoro PMI per il 56,3% sara' meno di 200 euro il budget totale stanziato per i regali. Per il 31% degli intervistati, dal Nord al Sud del Paese, la spesa sale fino a 400 euro, mentre per qualche "fortunato" (4,4%) la cifra destinata ai regali raggiunge i 600 euro.
Secondo le previsioni dell’Adoc, rispetto allo scorso anno le famiglie italiane, infatti, taglieranno sensibilmente la spesa, riducendola in media di un quarto. “Per i cenoni e pranzi delle feste prevediamo una riduzione del 7% della spesa da parte delle famiglie italiane”, dicono dall’associazione. Una scelta legata alla necessità di risparmiare ma anche ad una nuova sensibilità alimentare “anti-spreco”.
Difatti, “la tendenza sarà ridurre la quantità puntando sulla qualità dei prodotti e sul recupero dei piatti “poveri” tradizionali”, fa notare Roberto Tascini, presidente Adoc. “Stimiamo infatti una crescita pari al 20% dei consumi di prodotti regionali e locali, o di produzione biologica. Riteniamo inoltre che oltre la metà dei prodotti che imbandiranno le tavole saranno di origine italiana, legati al territorio o biologici”.
Non sarà un Natale di grandi regali per gli italiani,quindi. Avranno in tasca qualche soldo in più ma il maggior reddito a disposizione sarà usato per le spese destinate alla casa, per gli alimentari, per qualche vacanza, per rimettere in sesto il bilancio familiare. Ai regali in senso stretto sarà destinata una spesa procapite di 164 euro (un paio di euro in meno rispetto allo scorso anno). A pesare è una crescita ancora debole e l’assenza di una direzione precisa per il futuro del paese. Così Confcommercio vede quest’anno i consumi natalizi.
Dal punto di vista economico, la spesa media per singolo commensale sarà tra i 18 e i 23 euro, per cui per una tavolata di 10 persone si spenderanno circa 205 euro. Segno che si può tranquillamente preparare un bel cenone senza spendere cifre esagerate.
La spesa delle famiglie per i regali di Natale segna una flessione continua dal 2010 a oggi: il calo in quattro anni è stato di quasi il 40% con una flessione di oltre 82 euro nel budget a disposizione, passato dagli oltre 200 euro del 2010 agli attuali 125 euro a famiglia. Questa è la stima dell’Osservatorio nazionale di Federconsumatori che sottolinea come quest’anno sarà uno dei Natali più “freddi” degli ultimi anni in tema di consumi. Secondo quanto rilevato dall’Osservatorio negli ultimi anni c’è stata una inarrestabile caduta della spesa per i regali di Natale.
Un andamento che si conferma anche quest’anno, con una contrazione del 6,2% rispetto allo scorso anno, ma se si estende il confronto al 2010 emerge che la flessione della spesa delle famiglie per i regali di Natale è pari al 39,9%. Sono oltre 82 euro a famiglia. La spesa di ogni famiglia per i regali di Natale è infatti passata, nel dettaglio, dai 208,33 euro del 2010 (pari a un giro d’affari complessivo di 5,2 mld di euro) ai 166 euro del 2011, poi è scesa ancora a 148 euro nel 2012, a 131 euro l’anno scorso e quest’anno si fermerà a 125,70 euro. I settori che hanno risentito maggiormente di tale andamento – e questo è noto da tempo – sono quello dei mobili, dell’arredamento e degli elettrodomestici, seguito da abbigliamento e calzature e dal turismo.
Il 71,7% degli italiani prevede “un Natale molto dimesso” (erano il 72,9% nel 2015 e appena il 33,7% nel 2009), mentre l’86% dichiara che effettuerà regali contro l’85,9% dello scorso anno e il 91% del 2009. Eppure, secondo l’analisi dell’Ufficio studi di Confcommercio, in tasca gli italiani avranno più soldi rispetto al dicembre dell’anno scorso: l’ammontare netto delle tredicesime sarà di 40 miliardi, di cui il 12% sarà messo da parte e il 30% circa sarà destinato ai consumi. Ogni famiglia spenderà dunque 1.331 euro da tredicesima, il 3,1% in più su base annua. Questa dicotomia tra aumento del reddito disponibile e stasi dei consumi natalizi è dovuta per Confcommercio a una “congiuntura particolarmente oscura: il Paese non ha trovato una chiara direzione di marcia e molte sono le debolezze dal punto di vista della crescita. La politica dei bonus funziona nel breve termine, serve invece un messaggio chiaro alle forze produttive con il taglio generalizzato alle aliquote Irpef”.
Pochi giorni fa il presidente della Comunita' di Sant'Egidio Marco Impagliazzo nel corso della conferenza stampa di presentazione
dell'edizione 2017 di 'Roma Dove', la guida su dove mangiare, dormire e lavarsi dedicata ai senza fissa dimora della capitale ha sottolineato che in Italia ci sono 4,5 milioni di persone in poverta' assoluta nel 2016 - a fronte di un dato del 2005 sotto la soglia dei due milioni -, 8 milioni quelli in poverta' relativa, pari al 13% della popolazione italiana. Dati allarmanti che si legano ad un trend in crescita anche nella capitale e fotografano la difficolta' del Paese ad uscire dalla crisi. "Le difficolta' economiche- sottolinea Impagliazzo- riguardano principalmente le famiglie e le famiglie con tre o piu' figli.

martedì 27 dicembre 2016

Renzi è andato via ma Padoan è rimasto. Ed un motivo c’è

Un po’ di valzer, tanti discorsi discorsi ma lui il prof. Pier Carlo Padoan è rimasto al suo posto. I Renzi cambiano i Padoan invece no. In giro ce ne sono molti meno ed il loro addestramento ha richiesto molto più tempo.
Il governo Gentiloni con Padoan sempre al suo posto serve a non alterare gli equilibri parlamentari con pericolose elezioni popolari ed a proteggere la continuità della forza normativa e operativa che arriva dai centri direzionali europei e dell’area occidentale. Padoan è un “nodo” di una rete amministrativa dove i significati e i principi morali della gestione dell’economia non possono e non devono cambiare. Padoan è funzionale ad una serie di aggiustamenti che possono oscillare solo dentro una scala di parametri decisi a tavolino.
La contraddizione più grossa dentro l’idea di sviluppo economico che questi economisti asserviti continuano a promuovere è l’inefficacia della governance riformista davanti ai dati reali di un insuccesso ormai conclamato.
Lo sviluppo economico che genera disoccupazione, degrado sociale e ambientale non crea effetti al margine trascurabili ma agita milioni di persone. Sono effetti negativi fondamentali il cui corso non è mai stato né interrotto né invertito. Ci sono stati tentativi riformisti imposti senza consenso sia interno, a livello comunitario, sia a livello internazionale dove il processo competitivo ha aperto e chiuso guerre finanziarie dal dopoguerra ad oggi.
Attualmente con la gran paura che la Cina vada dritta al raggiungimento della prima posizione nella classifica del prodotto interno lordo e nelle dotazioni patrimoniali sovrane (anziché prendere atto che l’innovazione tecnologica debba esser spinta a favore della tutela dei beni comuni anziché creare profitti privati o fondi di garanzia a favore di big fail) si continua a spingere sul calo del costo del lavoro portando i paesi europei dell’area mediterranea allo sfinimento e nel lungo periodo allo spopolamento.
La prima risposta che l’umanità mette in campo di fronte alla scarsità di risorse e di opportunità di vita e lavoro in un luogo è l’emigrazione.
La seconda è la chiusura nei confronti dell’esterno nella pia illusione di essere autosufficienti. Operazione tanto istintiva quanto senza senso promossa da insulsi della politica, il leghismo e ogni altra formula di semplificazione dell’agire economico e sociale.
Il risultato finale in questo caso potrebbe rivelarsi ben peggiore dell’inefficienza riformista messa in atto dallo sconclusionato governo europeo e dei singoli stati appartenenti.
Così l’attenzione ricade su Padoan e sul suo ruolo. Per capirlo evitiamo lo sforzo di andare su wikypedia ma leggiamo il suo “L’economia europea” combinandolo anche semplicemente con una sua recente uscita in occasione di un evento promosso da Affari & Finanza titolata Va fermato il declino ora investiamo sul futuro (http://www.mef.gov.it/ufficio-stampa/articoli/article.html…)
Molte sono le analisi condivisibili nel suo sforzo di ricostruzione storica dal dopoguerra ad oggi ma rivolgere lo sguardo al futuro senza voler accettare ciò che riportano i dati a questo link (https://data.oecd.org/unemp/unemployment-rate.htm) significa continuare una carriera nell’asservimento di qualcuno che dall’alto ti dice cosa fare oppure non sentirsi sicuro dei propri mezzi, della propria economia di provenienza, quella dello Stato in cui te che sei Ministro di Economia e Finanza svolgi il tuo ruolo.
In ultima battuta, quando si sente rammentare il terrorismo come pesante causa da risolvere viene automatico reagire perché è proprio la certezza dell’inconsistenza del futuro che generando disoccupazione e disperati tentativi di emigrazione, italiani compresi che se ne starebbero anche volentieri a casa, porta tutto alle estreme conseguenze e reazioni.
Dagli anni ’60 abbiamo visto crescere i PIL ma la quota dei salari, di cui sono componente appunto del reddito aggregato, è rimasta molto indietro, in Italia come in ogni altro paese. Questo è accaduto volutamente a più riprese affinché non si creassero eccessi di domanda di beni che avrebbero spinto in alto l’inflazione danneggiando gli interessi della finanza internazionale. Una storia di sfruttamento delle masse che da millenni si ripete e che ancora oggi non trova discontinuità anzi spesso sono le masse stesse a legittimarla appena raggiunto un tenore di vita con un livello di consumi accettabile.
Visto quindi che Padoan tocca spesso il nodo della formazione dovremmo proprio pensare di cambiare dalla base le coscienze mettendo in atto processi didattici e formativi che contemplino altre economie chiudendo per sempre il disumano capitolo della competizione capitalistica.
Di fronte agli Helycopter Money, i Quantitative Easing, quei 60 miliardi al mese erogati dalla Bce per salvare i bilanci degli stati e di grandi aziende compresi i salvataggi pubblici di interi sistemi bancari, sia in US che in Europa e in Italia, come si fa a non considerare lo sviluppo di economie differenti? Il recupero, il risparmio delle risorse, la tutela ambientale, la gestione globale della scarsità potranno mai diventare una volta per tutte le priorità reali?
Si continua a credere nelle riforme senza mai spingere sulla vera essenza della norma ossia il suo contenuto, il principio, la ratio, l’approccio di eventuali nuove economie.
Se non accade questo passaggio le masse, di cui noi tutti siamo parte, rimarranno ancora a lungo tempo imprigionate in conflitti interni dell’uno contro l’altro e del debole contro il più debole.
Si devono per forza oggi considerare i dati della disoccupazione nella comunità europea accostandoli alla caduta della capacità di spesa dei redditi delle persone fisiche e non si può attendere ulteriormente un’apertura e un passaggio determinato alle nuove economie in un sistema monetario che è allo sbando. Solo la mano pubblica può cambiare il fatiscente paradigma dell’economia dei commerci, della mobilità del capitale e della deportazione di milioni di persone da un’area produttiva ad un’altra, dal rurale alle aree metropolitane.

venerdì 23 dicembre 2016

Il futuro il futuro di servizi sociali, scuola, sanità? Occhio al prossimo decreto salvabanche

Una grave, e lunga, crisi bancaria si intreccia a misure che finiranno, vedremo in che modo e grandezza, a incidere sulla spesa pubblica, sui servizi, sull’educazione e le prestazioni sanitarie
Entro pochi giorni, se non addirittura ore, è in arrivo il decreto salvabanche del governo. Forse verrà chiamato salvarisparmio ma va capito bene cosa, in effetti, fa risparmiare. Detto in estrema sintesi, il decreto verrà emanato, dopo l’avvenuta autorizzazione in parlamento, per far fronte alla grave crisi di MPS. Fin qui le notizie date con ragionevole certezza. Poi c’è la dimensione dell’incerto, quella largamente più estesa, che riguarda non solo le modalità di applicazione ma anche la sua possibilità di successo.
E’ bene essere chiari: dal modo con il quale verrà emanato prima, e applicato poi, il decreto dipende una parte importante del futuro dei nostri servizi sociali. Perché le cifre che sono in ballo sono di quelle serie, dai 20 ai 60 miliardi di euro a seconda degli scenari che si creeranno. Ed è serio anche il possibile impatto sull’economia: sia perché anche l’ipotesi minore, 20 miliardi di debito in più, può avere un effetto depressivo, oltre a provocare tagli ai servizi, sia perché il mondo del risparmio può subire ulteriori crisi. Diciamo che gli scenari, grosso modo, in questo senso si restringono a due. Entrambi con delle variabili ma semplifichiamo, anche per motivi di lettura, il quadro in ipotesi light e in quella hard.
Ipotesi light. Ipotesi che, alla fine, tanto light non è visto che comunque verranno sottratte risorse a una società che ha bisogno di allocarle in ben altri settori. Secondo Padoan il decreto di salvataggio dovrebbe stanziare 20 miliardi (e dove e come vengano allocati è incerto e tutt’altro che un dettaglio) che andrebbero posizionati su due fronti. Il primo è quello della garanzia per il ripristino della capacità di finanziamento di MPS (e non solo) a medio e lungo termine. Il secondo è quello della partecipazione diretta nelle banche (MPS e vedremo chi) dopo la conversione forzosa delle obbligazioni dei risparmiatori in azioni. E in quest’ultimo punto sta un dettaglio non da poco: quanto i risparmiatori lasceranno sul campo e che effetto, sull’economia e sulla politica, avrà questo sacrificio. Poi c’è la questione di come verranno messi a bilancio questi 20 miliardi e come verranno smaltiti. L’importo (20 miliardi) è pari all’intervento per la riduzione del deficit della manovra Monti. Manovra che arrivò a 30 miliardi ma è anche vero che al governo Gentiloni l’ “Europa” ha chiesto di rientrare, leggi tagliare, almeno 5 miliardi rispetto alla manovra elettorale di Renzi. L’ipotesi light è che il governo Gentiloni riesca a fare un decreto con qualche danno ma non catastrofico: diluire lo smaltimento dei 20 miliardi, il peso sui risparmiatori, convincere l’”Europa”, allontanare le clausole di salvaguardia, leggi aumento dell’IVA in caso di mancati tagli, lasciate in eredità da Renzi. Alla fine, come dice qualche analista serio e per niente filogovernativo, se il governo azzecca il decreto e le modalità di intervento di MPS magari i miliardi impiegati possono essere meno di venti. Entro un quadro di interventi duro, per la società, ma non catastrofico. Oltre a Forza Italia, il gruppo di Verdini si è già espresso in aula a favore del decreto. Se l’ora è grave, e il voto pesa, Denis non manca mai. Anche se Silvio, vista la vicenda Vivendi, l’aiuto del governo se lo tiene già caro di suo.
Ipotesi hard. L’ipotesi hard parte da una analisi interna al mondo finanziario. Bloomberg ha stimato la cifra necessaria per il salvataggio delle banche italiane in 60 miliardi. Il triplo di quanto eventualmente stanziato, e vedremo come, dal governo italiano. Se questa analisi viene adottata dai mercati finanziari non è impossibile che il quadro del valore di borsa delle banche italiane vada verso il basso, magari non subito, anche in presenza del decreto. Questo scenario potrebbe intrecciarsi con un altro: la bocciatura del decreto italiano su MPS da parte delle autorità europee di supervisione degli accorsi sull’Unione bancaria. E, a quel punto, la richiesta di rientro, al governo Gentiloni, del deficit eccessivo contratto dal governo Renzi potrebbe, sempre per le autorità europee, farsi automatica in parallelo a questa bocciatura. Se consideriamo che lo stesso governo Renzi ha lasciato in eredità una clausola di salvaguardia (tagli sicuri oppure aumento IVA) il conto, per la società italiana, si farebbe salato. Diverse decine di miliardi (60 miliardi sono due manovre Monti del 2011) per le banche, una manovra correttiva per i 5 miliardi, lasciati per strada dal governo Renzi, e una per evitare che scattino le clausole di salvaguardia per l’aumento dell’Iva (seriamente depressivo per l’economia). Uno scenario decisamente hard, economicamente il peggiore dalla fine della seconda guerra mondiale. Scenario che non terminerebbe qui. La Frankfurter Allgemeine, per mano del suo corrispondente a Roma, ha chiesto il commissariamento delle banche più interessate dalla crisi secondo le regole ESM. E non è la prima testata tedesca che invoca queste regole per l’Italia. Quelle del fondo chiamato, con discreto coraggio, salvastati. In poche parole arriverebbe, sempre dall’” Europa”, una struttura commissariale non solo delle banche ma anche della parte di bilancio dello stato necessario a smaltire la loro crisi. In caso di precipitazione degli eventi, come sempre negli ultimi vent’anni e più, comunque tutto dipende dalla Germania. E da quale strategia, per l’Italia, sceglierà la cancelliera nel 2017, anno elettorale. Anno difficile anche per la Germania alle prese con cambiamenti di scenario globale tutti, anche per lei, da decifrare.
I fatti ci faranno capire quale ipotesi prevarrà oppure cosa, degli scenari hard e light, finirà per mescolarsi per comporre lo scenario vero. Resta, nel frattempo, la realtà: una grave, e lunga, crisi bancaria si intreccia a misure che finiranno, vedremo in che modo e grandezza, a incidere sulla spesa pubblica, sui servizi, sull’educazione e le prestazioni sanitarie. L’impatto per servizi sociali, scuola, sanità ci sarà comunque. Il punto sta nella violenza o meno di questo impatto. Il resto è retorica.
Ovviamente l’economia internazionale farà la sua parte in tutto questo. Un paio d’anni di ripresa americana, accompagnata dal rialzo tassi Usa, o una crisi cinese, magari esplosa per lo stesso motivo, possono incidere in un senso o in un altro. Come incideranno le modalità –economiche, logistiche e tecnologiche- di ristrutturazione del sistema bancario. Modalità che incedono con i ritmi di una vera e propria rivoluzione. Il punto, quello che interessa, è capire quante risorse per la società, e i servizi di cui necessita, ci sono dopo questi passaggi. E anche chi le governa. Temi non da poco mentre si va verso un altro anno che si annuncia tutt’altro che facile

giovedì 22 dicembre 2016

Cresce l’uso di voucher: +32%. Poletti: “Pronti a ripensare le norme

Nel periodo gennaio-ottobre 2016 sono stati venduti 121,5 milioni di voucher destinati al pagamento delle prestazioni di lavoro accessorio, del valore nominale di 10 euro, con un incremento, rispetto ai primi dieci mesi del 2015, pari al 32,3%. Lo comunica l’Inps, sottolineando che nei primi dieci mesi del 2015 la crescita dell’utilizzo dei voucher, rispetto al 2014, era stata pari al 67,6%.
Il governo è pronto a «rideterminare dal punto di vista normativo il confine dell’uso dei voucher» spiega il ministro Giuliano Poletti, parlando a Fano. «Abbiamo introdotto la tracciabilità, e dal prossimo mese vedremo l’effetto. Se è quello di una riduzione della dinamica di aumento e di una messa sotto controllo di questo strumento, bene. Se invece i dati ci diranno che anche questo strumento non è sufficiente a riposizionare correttamente i voucher la cosa che faremo è rimetterci le mani» ha spiegato.
Se necessario in sostanza, ha detto Poletti rispondendo alle domande dei giornalisti in un incontro presso la Coop Pesce Azzurro, «ridetermineremo un’altra volta dal punto di vista normativo il confine dell’uso» dei voucher. «Pensiamo che i voucher siano uno strumento che ha una sua utilità - ha sottolineato il ministro del Lavoro - ma che deve essere limitato a determinate condizioni...,i lavori saltuari sono nati così».
Poi, ha ammesso, «c’è stata una dinamica...che peraltro non è una dinamica collegata al Jobs act, perché questo cambiamento di norma l’hanno fatto il Governo Monti e la Fornero, non l’abbiamo fatta noi la liberalizzazione dei voucher». Oggi, ha concluso, «bisogna riportarla ad una condizione che sia una condizione compatibile, perché noi vogliamo un mercato del lavoro stabile, non un mercato del lavoro precario. Quindi se abbiamo una strumentazione che induce a precarietà bisogna cambiarla

mercoledì 21 dicembre 2016

20 miliardi dal governo per salvare Mps (e non solo)

Nuovo regalo ai parassiti che hanno fatto il loro nido nel mondo della finanza. Chi pagherà? Ciò che resta del nostro welfare:dalla sanità all’assistenza, dalla formazione alla ricreazione, dalle bellezza all’utilità delle nostre città. Il Fatto quotidiano, 20 dicembre 2016 Mesi passati a smentirlo, pochi minuti per approvarlo e presentarlo alla stampa alle nove di sera con una conferenza lampo convocata senza nessun preavviso: il governo approva così la bozza di intervento per soccorrere il sistema bancario. Il Consiglio dei ministri metterà sul piatto 20 miliardi che serviranno allo Stato per ricapitalizzare diversi istituti di credito in difficoltà: in testa Monte dei Paschi di Siena, ma anche le due popolari venete (Vicenza e Veneto Banca), Carige e le 4 banchette nate dalle ceneri di Etruria, Marche, Carife e Carichieti. Che la situazione sia seria lo conferma la modalità “notturna” dell’annuncio e le facce funeree che il premier Paolo Gentiloni e il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan mettono su in sala stampa. Anche il nome (“Operazione salva risparmio”) dà l’idea della portata: puntellare diverse banche per evitare una crisi sistemica dopo gli interventi disastrosi fatti negli ultimi due anni.
Le misure vere finiranno in un decreto già scritto da tempo e limato negli ultimi giorni. “Le modalità saranno da definire”, spiega Padoan, ma a grandi linee l’ennesimo “salva banche” è chiaro. Matteo Renzi se l’è tenuto nel cassetto per settimane, ritardando fino a dopo il referendum la resa dei conti. D’altronde ammettere che la carta bianca data a Jp Morgan sul futuro di Monte dei Paschi si sta rivelando una fregatura non era un bel biglietto per presentarsi agli elettori. Il decreto conterrà anche garanzie pubbliche per la liquidità del settore. Il governo Renzi aveva ottenuto a luglio scorso una deroga dall’Ue per garantire le emissioni obbligazionarie delle banche “solvibili” ma con difficoltà a rifinanziarsi: un problema che all’epoca non esisteva e invece oggi sì, proprio a causa del mancato intervento del premier, consapevole da mesi di dover intervenire. Il decreto farà salire il debito nel 2017 e proprio perché modificherà i saldi di finanza pubblica dovrà essere approvato attraverso il percorso previsto dall’articolo 81 della Costituzione sul pareggio di bilancio: il governo dovrà prima ottenere dal Parlamento – a maggioranza assoluta – il permesso di peggiorare i saldi. Ieri il Cdm ha autorizzato proprio questa richiesta da fare alle Camere, in un voto forse già mercoledì. La fretta è per i guai di Mps.
La prima indiziata è infatti proprio la banca senese, alle prese con un aumento di capitale da 5 miliardi che Renzi – in forza del 4 per cento detenuto dal Tesoro – ha affidato alla banca dell’amico Jamie Dimon (con commissioni stellari). Gli investitori sono rimasti freddi: terminerà giovedì, mercoledì invece si chiude l’offerta di conversione volontaria delle obbligazioni subordinate in azioni riaperta la scorsa settimana. La banca, con l’avallo della Consob (che in due settimane si è smentita) punta a convincere i 40 mila piccoli risparmiatori che hanno in tasca bond per 2,16 miliardi. Ma non basta. E il governo è pronto a un “intervento precauzionale” partecipando all’aumento di capitale. “Anche sottoscrivendo azioni di nuova emissione”, spiega Padoan.
Problema: dal 2013 l’Ue vieta agli Stati di risolvere le crisi bancarie senza prima accollare una parte dei costi ai creditori degli istituti: è il cosiddetto burden sharing. Se lo Stato ci mette i soldi, almeno gli obbligazionisti subordinati devono contribuire, possibilmente con una conversione forzata dei bond in azioni. A rimetterci sono anche gli azionisti. Se il governo interverrà, una parte (o tutta) dei 4,3 miliardi di obbligazioni di Mps seguiranno questa strada. L’accordo con l’Antitrust Ue, guidato dalla Commissaria Margrethe Vestager, prevede che poi lo Stato possa risarcire i piccoli risparmiatori (forse all’80%). Questo intervento è “precauzionale”, perché non riguarda banche non in dissesto. Altrimenti si applicherebbe il “bail-in” previsto da una direttiva del 2014: il conto del dissesto viene scaricato sugli azionisti, poi sugli obbligazionisti e se necessario perfino sui depositanti sopra la soglia dei 100.000 euro garantiti. È l’approccio che il governo ha applicato a novembre 2015 per Etruria scatenando il panico.
Il Tesoro non userà subito i 20 miliardi. Prima di natale o capodanno farà un decreto con le misure più urgenti per il settore: la sospensione dell’obbligo di trasformazione in spa (forse per sei mesi) delle popolari, resa necessaria visto che il Consiglio di Stato ha stroncato la riforma e chiamato in causa la Consulta; un’ulteriore rata che sarà chiesta a tutte le banche italiane per ripulire Etruria & C. e permetterne la vendita (il conto è ormai di oltre 4 miliardi) e ulteriori sgravi fiscali.
Il governo aveva pensato di fare un decreto unico, ma l’entità della cifra l’ha obbligato a passare dalle Camere. A Mps servono 5 miliardi, per le venete si parla di 3, tra i 500 milioni e 1 miliardo per Carige e un altro (pare) per CariCesena e CaRim. Tutto questo perché il fondo salva banche Atlante, partecipato dal settore ma anche dalla pubblica Cdp, messo in piedi in fretta e furia a marzo scorso ha finito i soldi.

martedì 20 dicembre 2016

Mediaset, Telecom e non solo. Lo shopping delle multinazionali francesi nel Belpaese

Appare quantomeno irrituale il cicaleccio – tardivo e strumentale – del governo e dei mass media sulla “colonizzazione” straniera dell'economia italiana. L'occasione è data dalla scalata ostile del gruppo francese Vivendi alla Mediaset. Sui poco onorevoli risvolti politici della vicenda (salvare le aziende di Berlusconi per garantire una stampella al prossimo governo del Pd), abbiamo scritto in altra parte del giornale. Sul fatto che al Vivendi sia stata venduta la quota di maggioranza di una vera azienda “strategica” come Telecom solo pochi hanno dato dimostrazione di memoria e coerenza.
Resta invece da portare alla luce come l'incursione ostile di Vivendi sul sistema delle comunicazioni in Italia (Telecom e Mediaset) sia solo la punta dell'iceberg di un vero e proprio shopping a prezzo di saldo che le aziende francesi e tedesche hanno realizzato negli anni verso aziende italiane. Una svendita di patrimonio industriale, tecnologico e sistemi che in qualche modo giustifica la categoria di colonizzazione usata tardivamente in questa occasione da alcuni commentatori.
Oggi le aziende francesi hanno partecipazioni azionarie su aziende quotate alla Borsa di Milano per un controvalore di 34,5 miliardi di euro. Il doppio di quelle italiane in Francia. Facendo un stock degli ultimi dieci anni, il rapporto diventa di cinque a uno (29 miliardi le acquisizioni francesi in Italia, 6,3 quelle italiane in Francia). Il 7% del listino di Piazza Affari parla francese, così come quasi un quinto delle partecipazione estere nelle aziende del Belpaese. In termini assoluti è assai meno di quanto controllino alcuni fondi di investimento statunitensi come Blackrock, Vanguard, Carlyle etc. La differenza è che quelli statunitensi sono investimenti solo finanziari, quelli francesi “mordono” invece la struttura industriale, creditizia e di brand del nostro paese.
Si tratta della Edf con Edison, di Lactalis con la Parmalat, di Lvmh con Loro Piana e Bulgari, di Bnp Paribas e Crèdite Agricole con banche come Bnl e Carparma. Meno bene sono andate le scorrerie di Auchan e Carrefour nella grande distribuzione in cui sono scesi al 15,8% del mercato. “I numeri dicono chiaramente che in questi anni il nostro paese è stato terra di conquista delle aziende francesi” commenta il Sole 24 Ore di giovedi.
Più infingarda è invece la strategia delle multinazionali tedesche, le quali già dai tempi dell'acquisizione della Miralanza da parte della Benckiser, hanno un atteggiamento più cannibalesco. Spesso acquisiscono aziende italiane per chiuderle e prendersi la loro quota di mercato. Secondo un rapporto di KPMG del 2015 negli ultimi sette anni, le imprese italiane cedute ai tedeschi sono 72, più di 10 all’anno. E la metà, aggiunge l’autorevole società di revisione olandese, apparteneva al comparto industriale, ultima in ordine di tempo l'Italcementi, per un valore complessivo delle acquisizioni pari a 15 miliardi di euro. Con una strategia chiara: le aziende tedesche puntano ad inglobare dei potenziali concorrenti, togliendoli dal mercato.
Si calcola che dal 2008– l'anno in cui l'ultima crisi si è manifestata con forza – più di 850 aziende italiane secondo alcune fonti, sono passate sotto il controllo o la partecipazione decisiva di aziende straniere. Superfluo rammentare che a parte alcuni casi come Alitalia, la maggior parte sono andate in mano a multinazionali francesi e tedesche.
Ma perchè alle aziende straniere piace così tanto fare shopping di aziende italiane? Secondo uno studio curato dal Censis insieme all'Associazione delle Banche Estere durante il governo Renzi, l’attrattività dell’Italia è dovuta principalmente alla qualità delle risorse umane (giudicate con un punteggio di 8,11 lungo una scala da 1 a 10), seguono la solidità del sistema bancario (7,24), scendono invece gli indicatori sulla stabilità politica (5,97), l’efficacia dell'azione di governo (5,95), la disponibilità di reti e infrastrutture logistiche (5,82), la flessibilità del mercato del lavoro (5,53). La perdurante compressione dei salari e la approvazione del Jobs Act hanno fatto salire indubbiamente quest'ultimo indicatore. Eppure gli investimenti esteri in Italia non hanno prodotto i grandi benefici tanto decantati. Secondo un rapporto del European Attractiveness Survey, nel 2015 solo 1.383 posti di lavoro in più, niente rispetto ai 43mila in Gran Bretagna o ai 19.651 in Polonia o ai 7.126 della Spagna, addirittura la metà di quelli in Portogallo (3.469). Effetti della cannibalizzazione, appunto

lunedì 19 dicembre 2016

Dove sono finiti i soldi del quantitative easing della BCE?

A giugno 2016 la BCE lancia l'ennesimo piano per provare a rilanciare l'economia del vecchio continente. Visto che anni passati a "stampare soldi" tramite il quantitative easing (www.nonconimieisoldi.org) non hanno dato i risultati sperati, ecco il passo ulteriore: con questi soldi acquistare non solo titoli di Stato, ma anche obbligazioni di imprese private. Corporate Europe Observatory - CEO, l'organizzazione che da anni studia e denuncia il peso delle lobby nelle decisioni europee, è andata a vedere quali siano le imprese e i settori che hanno beneficiato di tali acquisti. La ricerca appena pubblicata (www.corporateeurope.org) non lascia spazio a dubbi: "il risultato è inquietante, a meno che non pensiate che petrolio, auto di lusso, champagne e gioco d'azzardo siano il posto migliore in cui mettere soldi pubblici".
In ultima analisi l'intervento della BCE è un sostegno ad alcune delle più grandi multinazionali. Le obbligazioni sono una forma di finanziamento, il cui costo segue la legge della domanda e dell'offerta: se sono in molti a volere i titoli di una determinata impresa, questa potrà offrire tassi di interesse minori. Se al contrario nessuno o quasi le vuole comprare, gli interessi che dovrà garantire l'impresa per finanziarsi salgono. Se la BCE interviene acquistando determinate obbligazioni, il soggetto corrispondente si trova quindi avvantaggiato rispetto ai concorrenti. Non parliamo di spiccioli. La BCE avrebbe investito 46 miliardi di euro a fine novembre 2016 e prevederebbe di arrivare a 125 miliardi per settembre 2017.
Dalla Shell alla Repsol, dalla Volkswagen alla BMW, troviamo alcune delle più grandi imprese dei combustibili fossili e dell'automobile. Anche dimenticandoci dello scandalo che solo pochi mesi fa ha investito la Volkswagen, nel momento in cui l'Europa sbandiera la sua politica "verde" e i suoi obiettivi contro i cambiamenti climatici, siamo certi che sostenere tali settori con decine di miliardi sia la strategia migliore per rispettare gli impegni presi? E poi multinazionali del calibro di Nestlè, Coca Cola, Unilever, Novartis, Vivendi, Veolia, Danone, Renault e chi più ne ha più ne metta.
E l'Italia? Eni, Enel, Terna, Hera, Snam, ACEA, Assicurazioni Generali, Exor (la società di casa Agnelli che controlla Fiat e Ferrari), A2A, Telecom Italia, Autostrade per l'Italia e poche altre. Non sembra esattamente l'elenco delle imprese che hanno le maggiori difficoltà ad avere accesso al credito. All'esatto opposto, sono con ogni probabilità quelle che indipendentemente dal sostegno della BCE (che nella scelta dei titoli si appoggia alle banche centrali nazionali, quindi anche a Banca d'Italia) possono già finanziarsi alle migliori condizioni.
Per l'ennesima volta regole e procedure europee cucite su misura per i gruppi industriali e finanziari di maggiore dimensione, a scapito di piccole imprese e settori più innovativi. In Italia la stretta sull'erogazione di credito - o credit crunch - per anni ha colpito pesantemente piccole imprese, famiglie, artigiani. Così come il quantitative easing ha gonfiato i mercati finanziari senza rilanciare l'economia, così il nuovo piano della BCE sembra inefficace se non controproducente. Che si guardi alla finanza pubblica o a quella privata, ciò a cui assistiamo è un gigantesco eccesso di soldi per i più forti, mentre mancano risorse per un vero rilancio di economia e occupazione e per enormi bisogni che non trovano un finanziamento. La casa europea sta bruciando, ma i pompieri gettano acqua in una piscina piena mentre lasciano divampare l'incendio.
Se come ripetono i libri di testo il compito principale della finanza, anzi il suo stesso motivo di esistere, è "l'allocazione ottimale" delle risorse nell'economia reale, stiamo quindi parlando del più macroscopico fallimento dell'era moderna. Non solo provoca crisi a ripetizione, aumenta le diseguaglianze, pretende di piegare l'intera società ai propri diktat, ma al culmine del paradosso questo sistema finanziario semplicemente non funziona e non fa l'unica cosa che dovrebbe fare. Alla faccia dei "mercati efficienti", vero pilastro su cui poggiano le teorie economiche che hanno dominato gli ultimi decenni e dominano ancora le istituzioni europee.
Cosa sarebbe accaduto con politiche monetarie ed economiche differenti? Cosa sarebbe accaduto se le centinaia di miliardi della BCE che oggi gonfiano i mercati finanziari e sussidiano le multinazionali, fossero invece stati destinati a un piano di investimenti pubblici, alla ricerca, l'occupazione, la riconversione ecologica dell'economia? Tecnicamente non ci sarebbero problemi a farlo: invece di acquistare obbligazioni della Coca Cola o della Shell, la BCE compra titoli della Banca Europea per gli Investimenti - BEI, una banca pubblica alla quale le istituzioni europee potrebbero dare un mandato chiaro per impiegare le risorse per gli obiettivi che la stessa Europa si è data in materia di inclusione sociale, lotta alle diseguaglianze e ai cambiamenti climatici. Farlo o non farlo non è quindi questione di trattati europei - ammesso che per qualche misterioso motivo non sia possibile cambiarli - è questione di volontà politica.
Una volontà totalmente assente in un'Europa che a dispetto dei disastri attuali rimane schiacciata su una visione liberista e su politiche monetarie ed economiche fallimentari. Non ci si può allora stupire della crescita delle destre xenofobe e populiste e del concreto rischio che l'incendio porti a una disgregazione della stessa UE. L'unica cosa che stupisce è una testardaggine che rasenta il fanatismo nel vedere che a dispetto di tali disastri, le scelte di fondo non vengono in nessun modo rimesse in discussione.

venerdì 16 dicembre 2016

L’ITALIA RAPPRESENTA UN’ENORME MINACCIA PER L’EURO E LA UE

La tragedia del 2016 è stata la cronica incapacità di distinguere tra ciò che è desiderabile e ciò che è probabile. Le pie illusioni stanno diventando una minaccia per la sopravvivenza del liberalismo stesso.
Questa tendenza è particolarmente evidente nella discussione che riguarda il futuro dell’Italia nell’eurozona. Coloro che tendono all’ autocompiacimento dicono che l’Italia è sempre brava a cavarsela in qualche modo, che l’establishment troverà il modo di aggiustare il sistema elettorale al fine di prevenire la vittoria di un partito estremista. In ogni caso la costituzione italiana non consente un referendum sull’uscita dall’euro. Dunque questa eventualità non può accadere.
Ma davvero? Io non credo. Iniziamo con la divergenza nella performance economica tra Italia e Germania. Un metro di misura sono gli squilibri nel Target 2, il sistema di pagamenti dell’eurozona. Alla fine di novembre il livello di squilibrio ha raggiunto il punto più elevato dalla crisi dell’eurozona del 2012. Il surplus della Germania ammontava a 754 miliardi di euro, per contro l’Italia era in deficit per 359 miliardi di euro. Una parte dello squilibrio è legata al programma di quantitative easing della Banca Centrale Europea, e dunque è innocua. Ma il grosso dello squilibrio è dovuto a ciò che potrebbe essere descritto come una silenziosa corsa agli sportelli.
L’insostenibilità non implica necessariamente un’uscita. In teoria è possibile che la politica prevalga anche in maniera permanente sulle necessità economiche. Oppure è possibile che l’insostenibile venga ad un certo punto reso sostenibile. Affinché ciò avvenga, deve verificarsi almeno una di cinque condizioni.
La prima è che l’Italia e la Germania possano convergere. A tale scopo l’Italia dovrebbe intraprendere delle riforme economiche per riordinare il sistema giudiziario e la pubblica amministrazione, tagliare le tasse e investire in tecnologie che aumentino la produttività. La Germania dal canto suo dovrebbe impegnarsi in un maggiore deficit fiscale. Seconda opzione, i paesi dell’Europa del nord dovrebbero accettare di effettuare ampi trasferimenti fiscali verso il sud. Terzo, la UE potrebbe creare un’autorità politica federale che abbia il potere di raccogliere tasse e trasferire risorse dai redditi più alti verso quelli più bassi. Quarto, la BCE potrebbe trovare un modo per rinnovare all’infinito il debito italiano sia privato che pubblico. Quinto, il governo italiano potrebbe continuare a sostenere l’appartenenza all’eurozona all’infinito.
Anche una sola di queste cinque condizioni potrebbe essere sufficiente affinché l’italia resti membro della zona euro. Il problema è che ciascuna di queste prese singolarmente è estremamente improbabile. Non riuscirei a pensarne una sesta.
Le riforme economiche di Matteo Renzi sono state insignificanti, a parte una piccola riforma del lavoro. L’ex primo ministro italiano ha scelto di concentrarsi invece sulle riforme politiche, e ha perso in un referendum in cui il NO ha prevalso per il 60 percento. Dopo il suo fallimento non è in vista alcun altro governo riformista.
La scelta di Paolo Gentiloni come sostituto di Matteo Renzi non è destinata a cambiare questo stato di cose. Il suo governo, dopotutto, ha un mandato molto limitato. D’altra parte non riesco nemmeno a immaginare che la Germania salvi l’eurozona – né prima né dopo le elezioni politiche del prossimo anno. La costituzione del paese impone un bilancio in pareggio. Nessun altro paese dell’Europa del nord è disponibile ad accettare ampi trasferimenti fiscali, figurarsi una unione politica.
E che dire della BCE? La scorsa settimana ha esteso il quantitative easing a tutto il 2017. Il programma ha aiutato l’Italia, ma non è sufficiente per rinnovare il debito del paese all’infinito, specialmente a causa dell’esiguità dei programmi per affrontare l’ampio debito pubblico totale.
Ed eccoci dunque giunti alla politica italiana. Dei tre grandi partiti, solo il centro-sinistra del Partito Democratico (PD), il partito di Renzi, è pro-euro. Teoricamente c’è la possibilità che il PD si riprenda e vinca le prossime elezioni. Non sono certo che ciò avvenga ma sono sicuro che il PD non resterà comunque per sempre al potere.
Un giorno l’Italia sarà guidata da un partito favorevole all’uscita dall’euro. Quando questo avverrà, l’uscita dall’euro diventerà una profezia che si autoavvera. Ci sarà una corsa agli sportelli in Italia e una svendita dei titoli pubblici.
Il destino dell’Italia nell’eurozona e la possibilità di una presidenza di Marine Le Pen in Francia sono due grosse minacce all’esistenza dell’eurozona e della UE. Se l’Italia vuole restare nell’euro, deve mandare alla Germania e agli altri paesi del nord dei segnali molto chiari sul fatto che l’eurozona è su un sentiero di autodistruzione a meno che non si cambino i parametri.
Il prossimo primo ministro italiano avrà il compito di spiegare al prossimo cancelliere tedesco, presumibilmente alla stessa Angela Merkel, che la scelta davanti alla quale si trova non è tra unione politica o no, ma tra unione politica o uscita dell’Italia dall’euro.
La seconda opzione implicherebbe il più grande default della storia. Lo stesso sistema bancario tedesco rischierebbe di crollare, e la più grande economia europea perderebbe la competitività così duramente accumulata nel corso degli ultimi 15 anni.
Il fatto che una serie di primi ministri italiani, uno dopo l’altro, abbiano evitato questo necessario confronto e abbiano pensato che restare fuori dai radar rappresentasse una valida strategia è stato un fallimento storico

giovedì 15 dicembre 2016

REFERENDUM E CRISI BANCARIA

Il sistema bancario in Italia è come un piatto di spaghetti super-cucinati e mal conditi. Non si trova nè l’inizio nè la fine di ogni spaghetto. Tutti aggrovigliati, sembrano un serpente dalle mille teste, ma tutti sono infettati dallo stesso male, i loro crediti inesigibili. La cosa grave è che, dato che l’Italia è la terza economia dell’Unione Europea, una crisi bancaria in questo paese sarebbe una minaccia mortale per l’euro e non potrà essere scopata sotto il tappeto.
Per il primo ministro Matteo Renzi, il referendum della scorsa domenica sulle riforme costituzionali avrebbe fornito un impianto più dinamico all'amministrazione pubblica per uscire dalla paralisi politica e dalla stagnazione economica. Ma i critici della riforma hanno rifiutato la maggiore centralizzazione del potere politico ed economico risultante dalla vittoria del Si.
Il risultato è stato schiacciante: circa il 60 per cento dei votanti hanno rifiutato le riforme proposte. In alcune regioni dove la disoccupazione è più elevata (ad esempio nel Mezzogiorno) il rifiuto ha raggiunto il 70 per cento.
Cos’ha a che fare tutto questo con le banche italiane e l’euro?
Immersa nella stagnazione e nella disoccupazione, l’Italia affronta anche la più grave instabilità bancaria della sua storia. La verità è che l’economia italiana non ha recuperato dalla crisi del 2008. Dal 2009 ha sofferto una contrazione più alta del 10 per cento e l’anno scorso è cresciuta solo dello 0,8 per cento, il che ha aggravato il problema dei crediti inesigibili che oggi raggiungono i 400 mila milioni di euro (circa il 20 per cento del PIL).
Dopo vari tentatiti, falliti, di riscattarle e rimetterle di nuovo in piedi, le banche italiane continuano la loro discesa all’inferno dei numeri rossi. Tra le banche più importanti con problemi gravi si trovano il Monte dei Paschi di Siena (la banca più antica del mondo), la Banca Popolare e Unicredit. Tutte hanno un coefficiente di crediti inesigibili a capitale (più le riserve) superiore a 100, il che significa che non hanno sufficienti risorse per coprire le loro perdite.
Quando scoppiò la crisi finanziaria, molte banche italiane comprarono buoni del Tesoro, pratica promossa allora dalla Banca Centrale Europea (BCE).
Ma la crisi in Grecia dimostrò che non era una buona idea e la BCE e l’Unione Europea (UE) fecero marcia indietro quando si resero conto che il livello della leva finanziaria del governo italiano era eccessivo.
Oggi la politica sui salvataggi nella UE cerca di impedire che un governo dia aiuti per ricapitalizzare le proprie banche e sostiene l’idea che, in caso di crisi, i primi ad assorbire le perdite siano gli investitori delle banche stesse. Le nuove regole vorrebbero evitare i salvataggi ‘perversi’ in cui l’irresponsabilità dei padroni delle banche sia ricompensata con risorse fiscali e che il debito privato si trasformi in debito pubblico. Questo ha un senso, ma i salvataggi privati ignorano l’interdipendenza del sistema bancario e le conseguenze sistemiche di un collasso di una delle grandi banche.
L’irritazione che le nuove regole hanno provocato in Italia è notevole perché esistono centinaia di migliaia di piccoli investitori che hanno comprato titoli delle banche deteriorate e oggi vedono minacciati i loro risparmi. Questo spiega una parte del voto di castigo contro il primo ministro italiano nello scorso referendum.
Per superare l’ostacolo imposto dalle nuove regole della UE, Renzi e il suo ministro delle finanze Pier Carlo Padoan hanno adottato l’idea di creare una banca “cattiva”, cioè una banca privata capace di comprare i titoli tossici delle banche italiane più esposte. Il risultato è stato due fondi speciali, Atlante I e II, per ricapitalizzare e comprare crediti inesigibili, rispettivamente.
Ma gli Atlanti non hanno sufficienti risorse per affrontare un problema di questa grandezza. Oltre alla mancanza di trasparenza delle loro decisioni su quali banche dovevano essere aiutate, i fondi non hanno potuto tranquillizzare i mercati che ritengono che, prima o poi, dovrà esserci un’altra iniezione di fondi pubblici, con il che il debito pubblico aumenterà e, con esso, i problemi del suo finanziamento sui mercati di capitali internazionali.
Il governo italiano e l’euro sono di fronte ad un grave dilemma. I fondi Atlante (la banca cattiva) non sono riusciti a portare a termine il salvataggio delle banche. Ed è evidente che un governo che annega in un pantano di debiti non possa continuare ad operare questo salvataggio con denaro pubblico (la relazione debito/PIL in Italia supera il 132 per cento, il che colloca questo paese al secondo posto dopo la Grecia). E neppure si vede un’uscita dal lato di un’iniezione di risorse di paesi come la Germania.
La crisi della banche italiana è anche la crisi delle banche europee, le cui azioni sono cadute quest’anno. Così, anche se non è più vero che tutte le strade portano a Roma, la verià è che oggi la crisi delle banche europee passa per l’Italia.

mercoledì 14 dicembre 2016

Il referendum che nessuno fa mai

La maggioranza degli italiani, sfidando i poteri forti schierati con Renzi, ha sventato il suo piano di riforma anticostituzionale. Ma perché ciò possa aprire una nuova via al paese, occorre un altro fondamentale No: quello alla «riforma» bellicista che ha scardinato l’Articolo 11, uno dei pilastri basilari della nostra Costituzione.
Le scelte economiche e politiche interne, tipo quelle del governo Renzi bocciate dalla maggioranza degli italiani, sono infatti indissolubilmente legate a quelle di politica estera e militare. Le une sono funzionali alle altre. Quando giustamente ci si propone di aumentare la spesa sociale, non si può ignorare che l’Italia brucia nella spesa militare 55 milioni di euro al giorno (cifra fornita dalla Nato, in realtà più alta).
Quando giustamente si chiede che i cittadini abbiano voce nella politica interna, non si può ignorare che essi non hanno alcuna voce nella politica estera, che continua ad essere orientata verso la guerra. Mentre era in corso la campagna referendaria, è passato sotto quasi totale silenzio l’annuncio fatto agli inizi di novembre dall’ammiraglio Backer della U.S. Navy: «La stazione terrestre del Muos a Niscemi, che copre gran parte dell’Europa e dell’Africa, è operativa».
Realizzata dalla General Dymanics – gigante Usa dell’industria bellica, con fatturato annuo di 30 miliardi di dollari – quella di Niscemi è una delle quattro stazioni terrestri Muos (le altre sono in Virginia, nelle Hawaii e in Australia). Tramite i satelliti della Lockheed Martin – altro gigante Usa dell’industria bellica con 45 miliardi di fatturato – il Muos collega alla rete di comando del Pentagono sottomarini e navi da guerra, cacciabombardieri e droni, veicoli militari e reparti terrestri in movimento, in qualsiasi parte del mondo si trovino.
L’entrata in operatività della stazione Muos di Niscemi potenzia la funzione dell’Italia quale trampolino di lancio delle operazioni militari Usa/Nato verso Sud e verso Est, nel momento in cui gli Usa si preparano a installare sul nostro territorio le nuove bombe nucleari B61-12.
Passato sotto quasi totale silenzio, durante la campagna referendaria, anche il «piano per la difesa europea» presentato da Federica Mogherini: esso prevede l’impiego di gruppi di battaglia, dispiegabili entro dieci giorni fino a 6 mila km dall’Europa. Il maggiore, di cui l’Italia è «nazione guida», ha effettuato, nella seconda metà di novembre, l’esercitazione «European Wind 2016» in provincia di Udine. Vi hanno partecipato 1500 soldati di Italia, Austria, Croazia, Slovenia e Ungheria, con un centinaio di mezzi blindati e molti elicotteri. Il gruppo di battaglia a guida italiana, di cui è stata certificata la piena capacità operativa, è pronto ad essere dispiegato già da gennaio in «aree di crisi» soprattutto nell’Europa orientale.
A scanso di equivoci con Washington, la Mogherini ha precisato che ciò «non significa creare un esercito europeo, ma avere più cooperazione per una difesa più efficace in piena complementarietà con la Nato», in altre parole che la Ue vuole accrescere la sua forza militare restando sotto comando Usa nella Nato (di cui sono membri 22 dei 28 paesi dell’Unione).
Intanto, il segretario generale della Nato Stoltenberg ringrazia il neo-eletto presidente Trump per «aver sollevato la questione della spesa per la difesa», precisando che «nonostante i progressi compiuti nella ripartizione del carico, c’è ancora molto da fare». In altre parole, i paesi europei della Nato dovranno addossarsi una spesa militare molto maggiore. I 55 milioni di euro, che paghiamo ogni giorno per il militare, presto aumenteranno. Ma su questo non c’è referendum.

martedì 13 dicembre 2016

Monte dei Paschi e le altre

È assai probabile che si arrivi a un provvedimento di intervento pubblico nel capitale non solo nel Monte dei Paschi, ma anche delle altre banche in difficoltà. Si ipotizza così uno stanziamento di 15 miliardi di euro
E’ di ieri la notizia che le autorità di Francoforte hanno respinto la richiesta di una proroga nei tempi di scadenza, concordati per la fine di dicembre, per la messa in sicurezza del Monte dei Paschi di Siena, i cui ultimi dati economici e finanziari appaiono in questi mesi in rilevante peggioramento.
Il caso della banca toscana è per molti versi, dall’inizio alla fine, uno specchio fedele di alcuni dei mali del nostro paese.
Intanto nessuno aveva visto venire la crisi della banca, né il consiglio di amministrazione, né il collegio sindacale, né il management, né la stampa, né la Fondazione che controllava l’istituto, né i partiti che facevano contorno, né la Regione, né il Parlamento, né gli organi di controllo, dalla Banca d’Italia alla Consob. Anzi un dirigente che aveva retto le sorti dell’istituto per qualche tempo era stato poi premiato con la nomina a presidente dell’Abi, dove anche ovviamente nessuno si era accorto di nulla. Sembra proprio che nel nostro paese i controlli non esistano, a nessun livello.
E così la banca, ad un certo punto, si è ritrovata ad essere inserita nell’elenco, che speriamo non si allunghi ancora troppo nei prossimi mesi, dei nostri istituti in difficoltà, il cui andamento allarma da tempo la stampa internazionale e alimenta cattivi presagi sul nostro paese.
Si tratta, tra l’altro, dell’Unicredit, l’unica banca sistemica nazionale, che dovrebbe essere ricapitalizzata per 13 miliardi di euro mentre sta vendendo alcuni dei gioielli della corona, dopo che il suo management per anni aveva negato la necessità di intervenire, poi delle due banche venete (Popolare di Vicenza e Veneto Banca) e dei “fantastici quattro” istituti (Etrutria, Banca delle Marche, Cariferrara, Carichieti) da tempo sotto i riflettori, oltre ad alcuni casi minori. Il tutto condito dalla presenza di 200 miliardi di crediti in sofferenza e di 160 miliardi di crediti incagliati.
Ricordiamo che, mentre si tende a attribuire le cause delle difficoltà dei nostri istituti esclusivamente alla crisi economica, in realtà esse sono da attribuire, almeno per una larga parte, anche ad alcune altre non brillanti caratteristiche del nostro sistema economico e politico, la corruzione diffusa, la cattiva gestione (le due cose spesso si uniscono), i rapporti incestuosi con il potere politico, la scarsa vigilanza.
Su tutto questo calderone il governo Renzi si è mosso sin dall’inizio con delle decisioni quasi sempre maldestre, come del resto da tempo accade da noi. Ricordiamo, tra tutte, il tentativo di scaricare gli obbligazionisti subordinati delle quattro banche sopra citate, tentativo finito poi nel caos, sino al pasticcio architettato nei giorni scorsi con l’MPS sempre sugli obbligazionisti subordinati, che a suo tempo avevano acquistato dei titoli con un livello moderato di rischio e si sono ritrovati, pena la perdita di tutto, a doverli sostituire con degli altri titoli molto più rischiosi. Sottolineiamo infine la bocciatura recente, da parte della Corte Costituzionale, del progetto governativo di riforma delle banche popolari, studiato come al solito con molta fretta ed improvvisazione.
Soprattutto, comunque, il governo Renzi non voleva sentir parlare di nazionalizzazione della banca senese, avendo, tra l’altro, una visione fanaticamente liberista dell’economia. E così le aveva provate tutte. In particolare, si era rivolto agli amici americani, nella persona in particolare di Jamie Dimon, della JPMorgan, a suo tempo fanatico oppositore negli Stati Uniti di ogni intervento pubblico di regolazione del sistema finanziario.
Si era così messa in piedi una cordata di banche internazionali che promettevano di trovare la via per aumentare il capitale della banca dei cinque miliardi necessari, mentre il fondo Atlante avrebbe pensato a coprire la partita dei crediti in sofferenza.
Ma si è visto poi che, nella sostanza, si trattava di propaganda pre-referendum e il cinque di dicembre il tavolo è saltato.
Noi non sappiamo cosa succederà ora veramente, le cose non sono ancora del tutto chiare, ma appare del tutto evidente che bisognerà arrivare nei prossimi giorni all’annuncio di un provvedimento di intervento pubblico nel capitale, sotto qualche forma, non solo nel Monte dei Paschi, ma probabilmente anche in quello delle altre banche in difficoltà. Si ipotizza così uno stanziamento di 15 miliardi di euro. Non sappiamo poi quali saranno le contropartite che ci chiederà la Bce, né quale sarà la sorte dei creditori dell’istituto. Ignoriamo anche cosà succederà alle altre banche e a tutti gli attori che si sono mossi intorno al loro salvataggio.
Noi siamo da tempo sostenitori di un intervento pubblico nel settore bancario, ma lo vedevamo nell’ambito di un disegno strategico che puntasse a fare delle banche nazionalizzate il perno di una nuova politica del credito, concentrata sul sostegno alle piccole e medie imprese, sull’incremento dell’occupazione, sulla crescita degli investimenti pubblici e dell’innovazione tecnologica, su una forte spinta, infine, al settore dell’economia verde.
Purtroppo, per come si presenta ora la cosa, come una via obbligata che non si aveva nessuna intenzione di percorrere, per di più con un governo in crisi e con la politica che pensa a tutt’altro, l’intervento potrebbe facilmente rivelarsi come il solito pasticcio, cui bisognerà poi porre in qualche modo rimedio.

lunedì 12 dicembre 2016

Il Renzi-bis si chiama Gentiloni

Se ne parlava da giorni e il nome era già stato anticipato da tutte le fonti di stampa possibili, che avevano potuto assistere alle "consultazioni parallele" che avvenivano a Palazzo Chigi mentre il Presidente della Repubblica conduceva quelle "istituzionali". In pratica, Renzi ha voluto far sapere a tutti che anche il nuovo governo è il "suo", e che dunque non molla affatto le mani sul potere. Messaggio per addetti ai lavori, mentre – sempre dagli stessi giornali di regime – si fa fotografare in quel di Pontassieve (residenza privata) con tanto di tiyoli "torno a casa davvero".
Sciocchezze e "scortesie" istituzionali che poco cambiano nel quadro generale. Paolo Gentiloni, ex rutelliano, ex Margherita, ministro degli esteri solo dopo che Federica Mogherini era stata lanciata sulla poltrona di "Lady Pesc" (ministro degli esteri dell'Unione Europea), è forse il più incolore tra i molti papabili dell'entourage stretto di Matteo Renzi.
Nella sua lunga carriera può vantare una clamorosa sconfitta alle primarie Pd per la candidatura a sindaco di Roma, superato superato facilmente nientepopodimeno che da Ignazio Marino.
Gentiloni insomma è l'uomo giusto per tenere canda la poltrona, senza troppe pretese di protagonismo, in attesa che "il caro leader" ricostruisca una narrazione credibile per potersi presentare "rinnovato" alle prossime elezioni politiche. L'enfasi sull'"io torno a casa davvero" è un pezzo dello storytelling in fase di costruzione per ricostruirsi e ricostruirgli l'immagne devastata dal risultato del referendum.
Dal punto di vista istituzionale, detto freddamente, non c'erano probabilmente molte altre soluzioni (nome del presidente del consiglio a parte), visto che il Pd controlla la maggioranza assoluta dei deputati alla Camera e un terzo ei senatori. Quind qualsiasi governo senza il Pd era semplicemente impossibile, a meno di una clamorosa spaccatura in quel partito. Che è, sì, dilaniato dalle ambizioni personali e/o di corrente dopo il disastro nel referendum, ma pur sempre popolato da vecchi o nuovi marpioni del potere che non hanno alcuna intenzione di suicidarsi separandosi in questo momento.
Bisogna infatti ricordare che in questo momento non c'è una legge elettorale utilizzabile per rinnovare il Parlamento. E' uno dei risultati del "genio" di Rignano sull'Arno, che ha imposto l'Italicum per la sola Camera a colpi di maggioranza, senza metter mano a una legge "omogenea" per il Senato, nella convinzione ottusa che al referendum avrebbe vinto e che, quindi, non sarebbe servita.
Di fatto, l'Italia geneticamente modificata da Renzi e Napolitano è l'unico paese del mondo che non più più neanche andare a nuove elezioni. O, perlomeno, che possa andarci con la ragionevole speranza di eleggere comunque un governo (Camera e Senato avrebbe al momento certamente delle maggioranze differenti, impedendo di fatto qualsiasi esecutivo durevole).
Di questo disastro, ovviamente, ben pochi osservatori fanno cenno; o lo addebitano chiaramente al "duo malefico" che negli ultimi tre anni ha spinto questo paese sulla via disegnata dalla Troika, mentre la fanfara della "narrazione" creava fondali di cartone con su scritto "crescita", "occupazione", "semplificazione", "efficienza", "merito", ecc.
Renzi dunque resta una carta da giocare nel breve termine per continuare questo gioco. Ma il risultato del referendum la rende assai meno efficace di prima; la straordinaria maggioranza della popolazione (non solo periferie, giovani, precari, mezzogiorno, ma anche laureati, professionisti, partite Iva) ha infatti bocciato clamorosamente l'intera politica del governo appena dimesso.
Vedremo dalla lista dei ministri quanto il Renzi-bis chiamato Gentiloni sarà una fotocopia dell'originale o una "discontinuità" anche solo minima.
Di certo, le scadenze internazionali che attendono il nuovo "esecutivo del sì" (sarà sostenuto apetamente solo dai gruppi parlamentari che hanno perso la scomessa referendaria) non saranno agevoli. O perlomeno non permetteranno di continuare a raccontare la favoletta delle "politiche espansive, per la crescita e l'occupazione".
Come ricordava ieri Ferruccio De Bortoli sul Corriere della Sera
La legge di Bilancio, che contiene finalmente misure importanti di stimolo agli investimenti oltre ai provvedimenti per la ricostruzione e l’emergenza immigrati, non è priva di spese dirette a conquistare (con scarsa fortuna) il consenso. Il prossimo governo dovrà trattare con Bruxelles modifiche non banali.
A marzo, insomma, bisognerà mettere in cantiere una "manovra correttiva" che cancellerà tutte le promesse infilate nella legge di stabilità appena approvata, e che dovevano servire a comprare consenso referendario.
Anche Renzi, e soprattutto Pier Carlo Padoan, lo sapevano benissimo, perché Bruxelles non aveva affatto nascosto le sue – diciamo così – "perplessità davanti a spese una tantum per pensioni minime, bonus vari, "80 euro" buttai qui e là, ecc. Ma pensavano o speravano di poter affrontare la correzione da una posizione di forza ormai acquisita. La vittoria del "sì" avrebbe infatti fossilizzato un assetto costituzionale tutto sbilanciato a favore dell'esecutivo. Anche protestare, insomma, sarebbe diventato più difficile, tendenzialmente "illegale". Come avevano provato a spiegare, le "zone rosse" dichiarate dal governo sarebbero state allargate fino alla porta della vostra (e nostra) casa.
Ma con questa crisi e il cambio di premier, comunque, si rompe pesantemente anche la "narrazione" che aveva precariamente gestito il rapporto tra establishment e popolazione negli ultimi tre anni. Quel pasticcio molto berlusconiano tra tagli alla spesa e "riforme" contro il lavoro (Jobs act, "buona scuola", pubblica amministrazione, ecc), tra sottrazione di diritti esigibili e piccole regalie temporanee, non può più andare avanti. E non solo perché – per tutto il tempo che ci separa dalle prossime elezioni – mancherà l'apporto del "grande attore" che ha dominato gli schermi televisivi negli ultimi tre anni.
Non c'è però una "narrazione di riserva". E dovranno rispolverare il lettian-montiano "lo vuole l'Europa". Che da parte sua farà sentire nuovamente la mano dura, anziché quella temporaneamente tollerante.
Un'opposizione sociale e politica seria, antagonista e di sinistra effettiva, come quella messasi in moto per il NO al refrendum, ha largo spazio per attivare il "blocco sociale". Che ha già fatto il suo votando per impedire la controriforma reazionaria e golpista, ma che chiaramente ha bisogno di molto di più.

mercoledì 7 dicembre 2016

Ceto medio italiano nel mirino delle potentissime lobby finanziarie

I dati dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico indicano che i cittadini italiani sono in assoluto tra i meno indebitati del mondo, meno degli Americani, meno dei Francesi e meno dei Britannici.
Il Regno Unito presenta addirittura il record di indebitamento delle famiglie. Contrariamente a ciò che ci si potrebbe aspettare, la disoccupazione e la precarietà costituiscono un incentivo all’indebitamento. E dove ci sono più disoccupati, cioè tra i giovani, vi è anche meno percezione dei rischi connessi all’uso della carta di credito. Il quotidiano “Il Sole-24 ore” comunica a riguardo un dato sconcertante, secondo il quale almeno il 5% dei giovani utenti inglesi di carte di credito non ha neppure la consapevolezza che il denaro speso vada restituito.
Se i dati OCSE confermano invece l’attitudine prudente e risparmiatrice degli Italiani, l’informazione ufficiale non perde comunque l’occasione per ricordare che il debito pubblico italiano appare ancora fuori controllo. I due dati però non sono affatto in contraddizione come ci si vorrebbe far credere. Se gli Italiani sono poco indebitati è perché sono in gran parte creditori dello Stato, cioè tendono a risparmiare in titoli pubblici nonostante i consigli in senso contrario delle banche, le quali vorrebbero riservare per loro stesse quel tipo di investimento così scevro da rischi.
Attualmente il debito pubblico italiano è di nuovo quasi tutto interno ed un governo meno prono alle lobby finanziarie potrebbe facilmente renderlo tutto interno, perché c’è un ceto medio ancora capace di comprarlo, quindi oggi l’emergenza-spread appare più fittizia che mai. Ciò dovrebbe sfatare molto del terrorismo che ancora si diffonde circa i disastri di un’eventuale uscita dell’Italia dall’euro. Evocare continuamente l’esempio della Grecia per avallare questi terrori non tiene conto del fatto che il debito pubblico greco è nella gran parte nei confronti di creditori esteri.
Probabilmente gli “euristi” fanno tanto terrorismo poiché sono a loro volta terrorizzati; infatti non ci viene spiegato come mai, in quattordici anni di storia, l’euro non sia mai diventato una valuta di riserva, cioè una moneta di pagamento per gli scambi internazionali che fosse alternativa, o almeno complementare, al dollaro. Il punto è che l’euro va bene per tenere compatto il gregge europeo sotto lo stemma NATO, ma non certo per dar fastidio agli Stati Uniti, ovviamente se si vuole rimanere vivi ed in salute (e ciò spiega la persistente pavidità anche di quegli esponenti della “sinistra” e di quei dirigenti sindacali che, a differenza di Renzi, non possono affidare la propria salvezza personale alla prospettiva di farsi cooptare in qualche lobby multinazionale).
Il motivo per cui in Italia c’è meno indebitamento delle famiglie non è genericamente culturale, ma è dovuto appunto alla presenza di un ceto medio vasto e consistente; un ceto medio che costituisce un notevole datore di lavoro attraverso il fenomeno dei badanti e che svolge anche la funzione di ammortizzatore sociale per i giovani lavoratori precari e privi di garanzie che trovano nella famiglia il proprio punto d’appoggio. Ci sarebbe comunque da dubitare circa il carattere lusinghiero e confortante dei dati OCSE sullo scarso indebitamento delle famiglie italiane. Quei dati indicano infatti che gli Italiani rappresentano un target dei “servizi finanziari” ancora tutto da colonizzare.
Nel settembre scorso la Banca Centrale Europea ha rilasciato dichiarazioni di apprezzamento sui risultati del renziano “Jobs Act”, il quale avrebbe impresso “dinamismo” all’occupazione. La stessa BCE si lamenta però del fatto che l’Italia ha contribuito scarsamente alla ripresa economica in Europa. Le dichiarazioni della BCE sono quindi contraddittorie o quantomeno equivoche. In realtà se ci fosse stato davvero un aumento dell’occupazione in Italia, questo si sarebbe riflesso anche in un aumento della produttività e del PIL, che invece non c’è stato. Non per niente la BCE, invece di parlare di aumento dell’occupazione, adopera un’espressione ambigua come “dinamismo”, che può voler dire tutto e niente.
Le mistificazioni spudorate del nostro compatriota Mario Draghi dimostrano chiaramente per quale lobby coloniale lavori, quella che vuole sostituire i redditi da lavoro con i prestiti, ciò che in termini tecnici si può definire come “finanziarizzazione dei rapporti sociali”. Il credito/debito diviene quindi la relazione sociale fondamentale, quella a cui tutte le altre sono subordinate. E questo è ancora niente, in quanto occorre considerare che il credito elargito in denaro elettronico/digitale è a rischio zero, poiché l’eventuale insolvenza del debitore non comporta per le banche nessuna perdita di liquidità. Il rischio è quindi interamente a carico del debitore. Non si era mai verificata nella Storia una relazione sociale così squilibrata. La finanziarizzazione dei rapporti sociali non rappresenta una “fase” del capitalismo, bensì costituisce l’esito scontato dell’assistenzialismo per ricchi ogni qual volta i rapporti di forza lo consentano, ovvero quando la disoccupazione sia ormai cronicizzata.
Gli obiettivi del “Jobs Act” si inquadrano perciò nel progetto recessivo dell’euro, cioè impoverire e precarizzare la popolazione lavoratrice e logorare il ceto medio per costringere tutti ad accedere maggiormente a “servizi finanziari”. Non a caso la stessa BCE, dopo gli apprezzamenti sul “Jobs Act”, non rinuncia alla solita ramanzina sul debito pubblico; proprio quel debito pubblico che costituisce tuttora il rifugio del risparmio delle famiglie e che fa da ombrello persino alle banche italiane.
Sino alla caduta del Muro di Berlino il ceto medio proprietario di immobili e titoli era stato uno dei capisaldi della reazione al comunismo, mentre oggi la lobby finanziaria globale sta facendo di tutto per spolparlo. Il ceto medio italiano è più nel mirino di altri perché dispone ancora di parecchio da saccheggiare. Questo ceto medio ha difficoltà a difendersi a causa della sua vulnerabilità ideologica nei confronti degli slogan del “rigore” e dell’ “abbiamo vissuto al di sopra dei nostri mezzi”; ciò in conseguenza di una tradizionale mentalità pauperistica e di un atteggiamento punitivo nei confronti del lavoro. Tale mentalità può spesso camuffarsi di slogan progressisti e di moralismo anti-consumistico, ma si smaschera per la sua tendenza a colpevolizzare le rivendicazioni salariali. Un’alleanza tra il ceto medio in via di “proletarizzazione” e la classe operaia rimane quindi problematica e forse impossibile.

martedì 6 dicembre 2016

Referendum, il Comitato per il No: "Renzi dica dove ha preso i soldi per la campagna"

La stampa ha iniziato a fare i conti in tasca al Sì: più o meno dieci milioni di euro spesi per la campagna referendaria. Non avevamo dubbi che si sarebbe trattato di una sfida impari. Non è esagerato richiamare la sfida di Davide, il Comitato per il NO, contro il Golia del il Sì, sostenuto governo, Pd e un ricco Comitato, che non dovrà rendere conto di chi ha sottoscritto e di come ha speso le risorse; malgrado questo riceverà mezzo milione di euro di soldi pubblici. «E' eticamente discutibile - dichiara Alfiero Grandi, vice presidente del Comitato per il No - che il Presidente del Consiglio giri un assegno di 500mila euro di rimborso elettorale al suo Comitato per il Sì, di cui per di più firma le lettere. Un Golia potente, che ha occupato senza scrupolo tutti gli spazi di informazione, televisivi e non, sovrapponendo ruoli istituzionali e di partito e che per di più spende e spande soldi dei quali non sapremo mai la provenienza perché non esiste obbligo di rendicontazione. Sfidiamo il Comitato del Sì - aggiunge Grandi - a fare come noi: renda pubblici i finanziamenti ricevuti e presenti un rendiconto di come sono stati impiegati i fondi».
Il Comitato per il No ha potuto fare una campagna elettorale, ancorché spartana, grazie alla generosa sottoscrizione popolare lanciata in rete attraverso la piattaforma change.org e grazie alle pagine internet e social. Antonello Falomi, tesoriere del Comitato, spiega che dal 14 luglio a oggi, 2 dicembre, sono stati raccolti - grazie al contributo di 3075 donatori - 301.746 euro, che sono stati spesi, tra l'altro, per spot e messaggi autogestiti tv e radio, per stampa, spedizione e affissione di 150.000 manifesti e un milione e mezzo di volantini, per la pubblicità nelle piccole stazioni ferroviarie, sulle riviste e online, per l'affitto di attrezzature e sedi, per contributi ad iniziative locali, per le copie anastatiche della Costituzione italiana spedite ai sottoscrittori.
Insomma, il Comitato per il No non ha avuto milioni a disposizione, ma ha potuto contare sull'impegno di tanti cittadini, grazie ad una campagna referendaria condotta per mesi in tutte le piazze italiane e alla presenza sul territorio di 710 comitati locali. «Dobbiamo ringraziare per l'impegno e la dedizione migliaia di elettrici ed elettori - continua Grandi - che in Italia e all'estero si sono impegnati con slancio per il No. Senza di loro questa campagna non sarebbe stata possibile. Il loro entusiasmo è il nostro entusiasmo. Grazie a tutti».
«Quando siamo partiti l'11 gennaio 2016 presentando pubblicamente il Comitato per il No, che Renzi ha avuto la bontà di definire dei gufi (per altro splendidi animali) e dei professoroni, la cui competenza tutti ci invidiano, l'esito del referendum sembrava una passeggiata, un plebiscito per Renzi. Invece oggi nessuno sa come finirà, come dimostra la preoccupazione evidente di Renzi di fallire l'obiettivo. Fino all'ultimo - conclude Grandi - tutto il nostro Comitato si impegnerà per far vincere il No, unica garanzia che anche l'Italicum verrà buttato nel cestino per poi andare ad approvare una nuova legge elettorale per la Camera e per il Senato, tale da permettere finalmente agli elettori di scegliere i loro rappresentanti in Parlamento»

lunedì 5 dicembre 2016

Post-neoliberismo e la politica della sovranità

La crisi della globalizzazione neoliberista che si sta manifestando a diverse latitudini, e che è stata dimostrata in maniera eclatante dalla vittoria della campagna per la Brexit nel Regno Unito e dal successo di Donald Trump nelle presidenziali americane, ha risuscitato una delle più antiche e polverose tra tutte le nozioni politiche: l'idea di sovranità.
Di solito intesa come l'autorità dello Stato di governare sul suo territorio, la sovranità è stata a lungo considerata un residuo del passato in un mondo sempre più globale e interconnesso. Ma oggi questo principio viene invocato in maniera quasi ossessiva dall'insieme di nuove formazioni populiste e dai nuovi leader che sono emersi a sinistra e a destra dell'orizzonte politico a seguito della crisi finanziaria del 2008.
La campagna per la Brexit in Gran Bretagna, con la sua richiesta di "riprendere il controllo", si è incentrata sulla riconquista della sovranità dall'Unione europea, accusata di privare il Regno Unito del controllo sui propri confini. Nella campagna presidenziale americana Donald Trump ha fatto della sovranità il suo leitmotiv. Ha sostenuto che il suo piano sull'immigrazione e la sua proposta di revisione degli accordi commerciali avrebbero garantito «prosperità, sicurezza e sovranità» al paese. In Francia, Marine Le Pen pronuncia la parola "sovranità" ad ogni buona occasione, nel contesto delle sue filippiche contro l'Unione europea, la migrazione e il terrorismo, e ha reso chiaro che questa idea sarà l'architrave della sua campagna per le prossime elezioni presidenziali francesi. In Italia il Movimento 5 Stelle ha spesso fatto appello al principio di sovranità. Uno dei suoi leader, Alessandro di Battista, ha recentemente dichiarato che «la sovranità appartiene al popolo» e che l'Italia dovrebbe abbandonare l'euro per riacquistare il controllo sulla propria economia.
La questione della sovranità non è stata solo appannaggio delle formazioni di destra e di centro. Richieste di recupero della sovranità sono venute anche da sinistra, un campo in cui questo principio è stato a lungo guardato con grande sospetto, a causa della sua associazione con il nazionalismo. In Spagna, Pablo Iglesias, il leader di Podemos, la nuova formazione populista di sinistra fondata ad inizio 2014, ha spesso descritto se stesso come un "soberanista" e ha adottato un discorso fortemente patriottico, facendo appello all'orgoglio e alla storia nazionali. Pur rifiutando la Brexit, Iglesias ha sostenuto che gli Stati nazionali devono recuperare la loro «capacità sovrana» all'interno della UE. Negli Stati Uniti, Bernie Sanders ha criticato ferocemente la finanza globale e, in modo simile a Donald Trump, il commercio internazionale. In merito al Partenariato Trans-Pacifico (TPP), un trattato commerciale tra gli Stati Uniti e 11 paesi nell'area pacifica, Sanders ha sostenuto che avrebbe «minato la sovranità degli Stati Uniti».
La rivendicazione progressista dell'idea di sovranità può essere fatta risalire al cosiddetto "movimento delle piazze" del 2011, un'ondata di proteste che comprende la primavera araba, gli indignados spagnoli, gli aganaktismenoi greci e Occupy Wall Street. Nonostante questi movimenti siano stati spesso descritti come "neo-anarchici", in continuità con la lunga ondata di movimenti anti-autoritari, anarchici ed autonomi post-1968, una delle loro caratteristiche chiave è stata la domanda di carattere tipicamente populista, piuttosto che neo-anarchico, di recupero della sovranità e dell'autorità politica a livello locale e nazionale in opposizione alle élite finanziarie e politiche.
Le risoluzioni delle assemblee popolari di Occupy Wall Street hanno spesso invocato il preambolo «We the People» della Costituzione americana, e hanno chiesto un recupero delle istituzioni dello Stato da parte del popolo e una regolamentazione del sistema bancario per contrastare la speculazione finanziaria e immobiliare. Anche nelle acampadas spagnole e greche, la sovranità è emersa come una questione centrale nelle discussioni su come resistere al potere della finanza e della Banca centrale europea, accusate di frustrare la volontà del popolo.
Questa abbondanza di riferimenti alla sovranità sia alla destra che alla sinistra dello spettro politico suggeriscono come la sovranità sia diventata il significante chiave nel discorso politico contemporaneo: un termine che costituisce un campo di battaglia discorsivo e politico in cui si decideranno le sorti dell'egemonia politica nell'era post-neoliberista, e che determinerà se la biforcazione post-neoliberista prenderà una direzione progressiva o regressiva.
Questo nuovo orizzonte solleva questioni scottanti per la sinistra, che finora è stata tiepida nell'abbracciare la questione della sovranità. L'associazione della sovranità con lo Stato-nazione, con la sua lunga storia di conflitti internazionali e di controlli repressivi sui migranti, hanno portato molti a concludere che questo principio sia inconciliabile con una politica realmente progressista. Tuttavia bisogna notare che la sovranità - e in particolare la sovranità popolare - ha costituito un concetto fondamentale nello sviluppo della sinistra moderna, come si vede nel lavoro di Jean-Jacques Rousseau e nella sua influenza sui giacobini e sulla rivoluzione francese. Può la rivendicazione di sovranità vista nelle proteste del 2011, e nel discorso di Podemos e Bernie Sanders, preannunciare l'emergere di una nuova sinistra post-neoliberista che ritorna a vedere la questione della sovranità come un elemento chiave per costruire il potere popolare e combattere le disuguaglianze estreme e il deficit democratico che attanagliano le nostre società? Quali forme di sovranità possono essere realisticamente recuperate in un mondo interconnesso a livello globale? E fino a che punto è davvero possibile sviluppare in senso progressista l'idea di sovranità?
Riprendere il controllo in un mondo fuori controllo
Il ritorno della questione della sovranità negli dibattiti politici contemporanei rivela che ci troviamo di fronte ad una profonda crisi del neoliberismo, che sta dando nuova linfa alla domanda di controllo democratico sulla politica e sulla società, che erano considerate superate nell'era neoliberista.
La crisi finanziaria del 2008, con il disagio sociale che ha prodotto per milioni di persone, ha messo a nudo molte contraddizioni di fondo che erano visibili solo in parte negli anni '90 e primi anni 2000, quando il neoliberismo era trionfante. Le ansie che caratterizzano questa fase di transizione si concentrano particolarmente su una serie di flussi - commercio, finanza e persone - che costituiscono il sistema circolatorio dell'economia globale.
Se al culmine dell'era neoliberista, questi flussi - e prima di tutto i flussi finanziari e commerciali - venivano presentati dalla classe dirigente e percepiti dalla maggior parte della popolazione come fenomeni positivi e fonte di ricchezza, in un mondo caratterizzato dalla stagnazione economica, dall'insicurezza e dall'instabilità geopolitica, la globalizzazione e i suoi flussi appaiono a molti più come una fonte di rischio che di opportunità: forze che mettono in ridicolo ogni pretesa di controllo delle istituzioni politiche sul territorio che ricade nella loro giurisdizione.
È da questa percezione di assenza di controllo che scaturisce quel desiderio di "riprendere il controllo" che è la cifra del populismo contemporaneo, come abbiamo visto nello slogan più famoso della Brexit: riprendere il controllo come risposta ad un mondo che appare fuori controllo a causa dell'effetto destabilizzante dei flussi globali che sfuggono al controllo delle istituzioni democratiche.
La percezione di una perdita di controllo territoriale riflette il modo in cui la globalizzazione neoliberista ha scientificamente demolito le diverse forme di autorità e regolazione territoriale, nella speranza di trasformare il pianeta in un "spazio liscio", facilmente attraversato da flussi di capitali, merci e servizi. La sovranità è stata di fatto il nemico giurato del neoliberismo, come si vede nei frequenti attacchi lanciati contro questo principio nella teoria economica neoclassica e nella filosofia neoconservatrice che ha informato lo sviluppo del neoliberismo. Autori come Ludwig von Mises, Friedrich von Hayek e Milton Friedman hanno considerato le istituzioni sovrane come ostacoli agli scambi economici e ai flussi finanziari; interferenze al primato del mercato e alla libertà economica di imprenditori e consumatori. Gli Stati-nazione avrebbero dovuto lasciare spazio ad un mercato globale, l'unico legittimo sovrano secondo la Weltanschauung neoliberista.
Questo progetto ha trovato la sua applicazione concreta nelle politiche neoliberiste di deregolamentazione economica e finanziaria che sono state sviluppate a partire dalla fine del regime di Bretton Woods e dalla crisi petrolifera del 1973, per poi esplodere negli anni '80 e '90. Le grandi imprese multinazionali che si sono sviluppate nel secondo dopoguerra hanno costituito presto una minaccia al potere territoriale degli Stati-nazione, che hanno spesso ricattato con la minaccia di trasferire altrove le proprie attività per ottenere normative fiscali e sul lavoro più favorevoli ai loro interessi. La creazione dei paradisi fiscali, che è andata di pari passo con lo sviluppo delle multinazionali, è servita come mezzo per vanificare il controllo sovrano sulla tassazione e sui flussi di capitale. Come descritto da Nicholas Shaxson in Le isole del tesoro, i paradisi fiscali hanno sovvertito il sistema di sovranità territoriale, rivolgendo questo principio contro se stesso e rivendicando sovranità per piccole isole e micro-Stati come il Lichtenstein o San Marino, usati come una sorta di covo dei pirati: territori extraterritoriali in cui nascondere proventi illeciti sottratti alle tesorerie nazionali. Gli espedienti utilizzati negli ultimi anni da aziende digitali come Google, Facebook e Amazon per evadere le tasse non sono che l'ultimo capitolo di questo attacco di lunga data alla sovranità fiscale.
Inoltre, la liberalizzazione commerciale, realizzata attraverso una serie di trattati commerciali globali e la formazione dell'Organizzazione mondiale del commercio, è stata anch'essa finalizzata a indebolire la sovranità degli Stati-nazione, privandoli di qualsiasi capacità di proteggere le loro industrie locali attraverso l'uso delle tariffe e altre barriere commerciali, ed esponendo così i lavoratori ad una corsa al ribasso globale sul salario e sulle condizioni di lavoro.
Dunque, nonostante il sospetto che alberga a sinistra rispetto all'idea di sovranità, è evidente che è stato esattamente il suo svuotamento il fattore che ha consentito gli effetti più nefasti del neoliberismo. È stata la demolizione delle giurisdizioni sovrane attraverso i paradisi fiscali e i trattati di libero commercio che ha favorito l'accumulazione di immense ricchezze da parte dei super-ricchi, a spese della gente comune, portando ad una situazione in cui, come documentato da un famoso rapporto della ONG britannica Oxfam pubblicato nel gennaio 2016, 62 persone controllano il 50% della ricchezza mondiale.
Alla luce di questi effetti nefasti della guerra del neoliberismo contro la sovranità, non dovrebbe sorprendere nessuno che di fronte alla crisi dell'ordine neoliberista, la sovranità venga vista nuovamente come un elemento necessario per costruire un ordine politico e sociale alternativo. Al centro di questa nuova politica della sovranità c'è la domanda di nuove forme di autorità territoriale per controllare i flussi globali: quei flussi che il neoliberismo ha visto come necessariamente virtuosi, e che molti oggi percepiscono più come una minaccia al loro benessere e alla loro sicurezza.
La domanda di sovranità è il punto nodale della politica post-neoliberista e il punto di sovrapposizione tra il populismo di destra e di sinistra, tra la politica di Trump e quella Sanders, tra la visione del Movimento 5 Stelle e quella di Podemos. Tuttavia i nuovi populisti di destra e di sinistra sono in profondo disaccordo rispetto a cosa si intenda esattamente per sovranità, quali siano i flussi globali che costituiscono effettivamente un rischio per la sicurezza e il benessere e che dovrebbero quindi essere controllati. Se l'idea di sovranità è al centro della disputa politica, la battaglia che si gioca intorno a questo concetto ha a che fare in buona parte con il significato che le viene assegnato, e il contenuto politico che ne consegue.
La sovranità popolare contro la sovranità nazionale
Ciò che il discorso della sovranità proposto da formazioni e candidati altrimenti agli antipodi come Trump e Sanders, Brexiters e Podemos hanno in comune è l'idea che per costruire un nuovo ordine sociale sulle macerie della globalizzazione neoliberista sia necessario rivendicare il diritto di comunità politiche definite su base territoriale (che si tratti di comuni, regioni, nazioni o continenti) di gestire la loro vita collettiva in modo relativamente autonomo dalle interferenze esterne; ovvero rivendicare alle comunità un certo grado di indipendenza rispetto alle forze e ai flussi globali che sembrano frustare qualsiasi tentativo di controllo reale da parte delle comunità sul proprio destino. Questa comunanza spiega come mai, nonostante le loro enormi differenze, ci siano dei punti di sovrapposizione tra populisti di destra e di sinistra. Ad esempio Trump e Sanders hanno entrambi proposto forme di protezionismo economico, e di intervento dello Stato nell'economia, attraverso uno stimolo alla costruzione di nuove infrastrutture.
Fatta eccezione per tali elementi di somiglianza, la sinistra e la destra populista sono in profondo disaccordo rispetto a ciò che significa realmente la sovranità, e che tipo di controllo territoriale debba essere ricostruito. Per i populisti xenofobi di destra, la sovranità è prima di tutto la sovranità nazionale, proiettata su un immaginario etnico Blut und Boden ('sangue e suolo'), spesso definito lungo linee etniche e isolazioniste e mobilitato contro coloro - stranieri e migranti - che sembrano mettere in dubbio l'omogeneità e la sicurezza del popolo. La visione di sovranità che si associa a questa logica politica riecheggia la filosofia politica di Thomas Hobbes, per cui la sovranità si reggeva sulla garanzia di sicurezza e protezione offerta dal sovrano ai suoi sudditi.
Il tipo di flusso globale che questa visione reazionaria della sovranità considera come la minaccia principale è evidentemente la migrazione. La sovranità in questa prospettiva significa innanzitutto la chiusura delle frontiere ai migranti, compresi i profughi in fuga dalla guerra, ma anche l'emarginazione delle minoranze interne indesiderate, e in particolare dei musulmani, sospettati di mettere in pericolo la sicurezza e la coesione sociale. Questa interpretazione xenofoba della sovranità era evidente nel dibattitto sulla Brexit, dove la campagna "Leave" ha vinto sfruttando la paura dei migranti, percepiti e additati come responsabili per il calo dei salari e il peggioramento dei servizi pubblici.
La visione progressiva della sovranità che è al centro della politica populista di sinistra, da Podemos a Bernie Sanders, ha un'accezione molto diversa. Essa rivendica la sovranità come sovranità popolare e non solo nazionale. Inoltre vede la sovranità come mezzo di inclusione - di reintegrazione nello Stato di una cittadinanza che da esso si sente alienata - piuttosto che di esclusione. Questa rinnovata domanda progressista di sovranità è memore degli albori della sinistra moderna, tra la fine del 18esimo secolo e l'inizio del 19esimo secolo. L'idea di sovranità popolare è stata invocata negli scritti di Jean-Jacques Rousseau, in cui era centrale l'idea che il potere doveva passare dalle mani del monarca a quelle del popolo, e ha profondamente influenzato i giacobini e la rivoluzione francese e le insurrezioni popolari del 19esimo secolo. Tuttavia l'idea di sovranità è caduta in discredito presso molti movimenti radicali durante l'era neoliberista. La sovranità è stata vista come un concetto autoritario, estraneo a una politica di emancipazione, come visto nella critica di questo concetto sviluppata da Michael Hardt e Antonio Negri in Impero. Tuttavia la nuova sinistra populista che è sorta dopo il crash finanziario del 2008 ha riscoperto la questione della sovranità, e si è convinta che una vera democrazie è impossibile senza il recupero di forme di autorità territoriale.
Il recupero progressista dell'idea di sovranità, come proposto da fenomeni come Sanders e Podemos, ha come principale nemico le banche, gli imprenditori senza scrupoli ed i politici corrotto al loro soldo, non gli stranieri, i rifugiati e le minoranze etniche. I flussi della finanza e del commercio, piuttosto che i flussi migratori, sono quelli che vengono visti come la principale minaccia al benessere e alla sicurezza delle comunità. In questo contesto la sovranità è concepita come un'arma che può essere usata dal Popolo contro l'Oligarchia, dai Molti contro i Pochi, dall'insieme della cittadinanza contro tutte quelle élite che prevaricano la volontà popolare: l'alta finanza che fa leva sulla mobilità dei capitali in un mondo senza frontiere per demolire ogni pretesa di controllo sull'economia, e i potentati internazionali, come la troika e il Fondo monetario internazionale, che vedono la democrazia come un pericolo per i mercati.
Se leader populisti progressisti come Iglesias e Sanders spesso hanno fatto uso di sentimenti patriottici e hanno visto lo Stato-nazione come lo spazio centrale di mobilitazione contro il sistema neoliberista, la loro visione di sovranità è certamente più multi-scala e inclusiva di quella del populismo di destra e comprende il livello locale, regionale, nazionale e continentale. La sovranità è stata infatti spesso invocata anche a livello locale dalle formazioni "municipaliste" che hanno conquistato i governi locali di Madrid e Barcellona. Le amministrazioni di Manuela Carmena e Ada Colau hanno usato il potere delle giurisdizione locali per sostenere l'economia locale, limitare i processi di gentrificazione e combattere la rapacità delle compagnie della cosiddetta "sharing economy", come Airbnb e Uber. Bernie Sanders si è invece appellato alla sovranità delle comunità dei nativi americani, in occasione delle proteste contro la costruzione dell'oleodotto Dakota Access Pipeline (DAPL).
È evidente che in un mondo globalizzato e interconnesso come quello in cui viviamo, una vera sovranità popolare, per essere efficace, deve essere esercitata anche a livello sovranazionale. Il caos provocato in Gran Bretagna dalla Brexit, e l'incertezza che ha generato sul futuro economico del paese, dimostrano che non è possibile nell'era contemporanea un semplice ritorno alla scala nazionale, o quantomeno quest'opzione non è possibile per gli Stati-nazione europei, che sono troppo piccoli per poter esercitare un reale controllo su processi economici di scala planetaria. Una politica progressista della sovranità deve trovare il necessario bilanciamento tra il livello nazionale e quello sovranazionale. Questo è il motivo per cui le richieste di democratizzare l'Europa come quelle avanzate dal movimento DIEM25 guidato dall'ex ministro delle Finanze greco Yanis Varoufakis sono così importanti.
Confini porosi
Una visione progressiva della sovranità deve ammettere che lo Stato-nazione non è l'unico spazio di esercizio della sovranità, e che nel mondo contemporaneo la sovranità funziona a diverse scale, tutte con la loro legittimità, e tutte utilizzabili come un mezzo per perseguire un programma politico progressista. Viviamo del resto in un tempo in cui il luogo della sovranità è incerto e la definizione stessa di sovranità è oggetto di uno scontro simbolico. In questi tempi siamo chiamati a ripensare e reinventare la sovranità per adattarla ai contorni mutevoli di territori, diritti e istituzioni. Dobbiamo costruire nuove territorialità, concepite non come uno spazio a chiusura stagna, ma piuttosto come uno spazio delimitato da confini porosi, che possono essere aperti a migranti e rifugiati ed al contempo chiusi ai flussi di capitale speculativi e a forme dannose di commercio globale.
Il futuro ci dirà quale visione di sovranità sarà quella che prevarrà nel panorama post-neoliberista e se saranno i populisti di sinistra o di destra a vincere la battaglia per l'egemonia in questa nuova fase. Al momento è la destra populista ad apparire in chiaro vantaggio. Questo è dovuto da un lato al fatto che la maggioranza delle persone continua ad associare la politica della sovranità con lo Stato-nazione ed il nazionalismo, e in parte a causa delle esitazioni delle forze di sinistra e dei movimenti sociali nel rivendicare il principio di sovranità.
Ciò che è chiaro è che la sinistra non può permettersi il lusso di lasciare il discorso della sovranità alla destra. La domanda di recupero della sovranità scaturisce da un'esperienza reale di sofferenza e di umiliazione scatenata dalla demolizione neoliberista delle forme di protezione offerte un tempo dello Stato-nazione. Per rispondere alla rabbia e al disordine provocato dalla crisi economica, politica e morale del neoliberismo, la sinistra ha urgente bisogno di costruire una visione progressiva della sovranità nella quale il controllo del territorio non significhi l'esclusione degli stranieri e delle minoranze etniche e religiose, ma l'inclusione di diverse comunità a livello locale, nazionale e transnazionale nelle decisioni che le riguardano.