venerdì 29 maggio 2020

Già iniziata la campagna di delegittimazione dell’Istituto Superiore di Sanità

L’attacco di Libero nei confronti dell’Istituto Superiore di Sanità (e Il Giornale gli è andato subito dietro, ndr) è una dimostrazione del livello di barbarie che caratterizza lo scontro politico di questi tempi.
Oltre ad essere del tutto infondato, l’articolo che accusa di assenteismo i lavoratori dell’ISS è palesemente strumentale allo scontro che si sta realizzando intorno alla gestione dell’epidemia nella regione Lombardia.
Non a caso si tira dentro l’Istituto Superiore di Sanità che ha avuto il merito di indicare la strada giusta per contenere l’epidemia e consentire oggi al Paese di respirare e guardare con cauto ottimismo al domani.
Forse il quotidiano Libero sta dalla parte di coloro che durante l’epidemia minimizzavano gli effetti del Covid-19 (è come l’influenza), criticavano la politica del lockdown reclamando aperture, teorizzavano la scelta dell’immunità di gregge.
Oggi difendono il sistema sanitario regionalizzato che è stata una delle cause di maggiore difficoltà, soprattutto inizialmente, nel contrasto all’epidemia. Ed in particolare la sanità lombarda che si è mostrata del tutto inadeguata a fronteggiare l’emergenza perché vittima negli anni di tagli e privatizzazioni e solo grazie alla grandissima professionalità dei medici, degli infermieri e degli operatori sanitari è riuscita a limitare la catastrofe.
L’ISS ha praticato quello che ha chiesto al resto del Paese, ha semplicemente applicato le giuste misure di contenimento previste dai provvedimenti del Governo, mantenendo un’operatività contro l’epidemia h24 sette giorni su sette, mettendo al servizio del Paese le sue competenze e la professionalità ed il senso del sacrificio dei suoi dipendenti.
Come USB ci siamo sempre battuti per un Servizio Sanitario Nazionale centralizzato universalistico e solidale, i fatti dimostrano che avevamo ragione. Mai come oggi forse si comprende meglio l’importanza della Ricerca Pubblica e il suo rapporto con la committenza sociale che USB ha sempre rivendicato a fronte di una ricerca privata che anche su questa pandemia lavora esclusivamente per il profitto.
Riteniamo come lavoratori dell’ISS di aver contribuito a limitare i danni che avrebbe potuto causare la pandemia calata su un Paese il cui Servizio Sanitario Nazionale è stato ridotto ai minimi termini dalle politiche neo liberiste cui nessun governo si è sottratto.

lunedì 25 maggio 2020

Crolla pure il mito della magistratura. Finalmente

Chiunque abbia affrontato un processo, in vita sua, sa che qualsiasi sentimento può esser provato tranne che “avere fiducia nella magistratura”. Quando capiti in mano a un giudice la prima cosa che ti chiedi è “chi è? Come la pensa? A chi dà conto di solito?”.
Se ciò accade anche ad imputati “qualsiasi”, di peso zero nella scala sociale, a maggior ragione la domanda si impone quando a finire nel “registro degli indagati” è qualcuno che conta. In quel caso la sua prima domanda diventa “per incarico di chi, questo stronzo mi indaga?
Non parliamo poi di quando le indagini della magistratura riguardano altri magistrati. Lì si va direttamente nella guerra politica tra correnti, individui, consorterie e fratellanze (solo i militari, forse, hanno più frequentazioni dei magistrati quanto a logge massoniche…).
L’inchiesta perugina che ha puntato su Luca Palamara – ex presidente dell’Anm, ex componente togato del Csm, ex sostituto Procuratore a Roma (uno dei tanti che si è dilettato con il “caso Moro”) – scoperchia un verminaio piuttosto fetido. Che ha certamente per protagonista un “pezzo grosso” tra le toghe, ma che richiede qualche ragionamento sull’intera casta di appartenenza.
Per quanto uno possa esser bravo nel suo mestiere, infatti, è singolare la serie di incarichi accumulati in pochi anni da un 51enne in un mondo dove il potere, di solito, è solidamente in mano agli ultra-sessantenni.
Le intercettazioni tra lui, i colleghi, i politici, i giornalisti e persino gli attori (Raul Bova che chiede “protezione” contro la condanna per evasione fiscale…), sono da sole un testo da commedia dell’arte.
Ma soprattutto rivelano che la famosa “indipendenza della magistratura” esiste solo nelle parole della Costituzione, oltre che nei libri sulla “tripartizione dei poteri in democrazia”. Ma nei fatti è l’esatto contrario…
Non nel senso banale che i giudici siano “servi del capitale” (viviamo in un assetto capitalistico, ovvio che istituzionalmente non possano esser altro). Ma in quello assai più concreto per cui ogni magistrato è altamente consapevole di disporre di un potere fortissimo (decide sulla libertà e il successo di chi capita a tiro) e lo usa per motivazioni che nulla hanno a che fare con le istituzioni della Repubblica.
La carriera personale al primo posto, come confessa – sconfortato – il presidente dimissionario dell’Anm, Luca Poniz. Sottolineando come non ci sia nei fatti troppa distinzione tra “membri togati” (ossia magistrati di carriera eletti dai colleghi) e “membri laci” (di nomina politica) nel Consiglio Superiore della Magistratura, cosiddetto “organo di autogoverno della magistratura” presieduto formalmente dal Presidente della Repubblica.
Si discute molto dei togati, ma non ci si preoccupa che negli anni la componente togata ha espresso candidati molto più vicini alla politica di quanto fosse in passato”. Traduzione semplice, ma utile: significa che le differenze sono ormai solo nei titoli universitari e nel ruolo ufficialmente ricoperto, non nel concreto operare quotidiano.
Poi, certo, ci sono sempre le eccezioni, e tutti si nascondono velocemente dietro le statue erette a Falcone e Borsellino, per poter continuare a fare i propri “magheggi”.
Establishment è del resto definizione flessibile, che abbraccia chiunque abbia un ruolo rilevante negli assetti di governance di un Paese, indipendentemente dal ruolo momentaneamente esercitato. Il passaggio da un ruolo all’altro (dalla magistratura alla politica, o alle strutture commissariali o ai vertici aziendali) è la norma, non il caso raro.
E la frequentazione continua, di tutti con tutti, è la condizione sine qua non per restare a galla, avanzare, rintuzzare i concorrenti più pericolosi, arricchirsi. Sembra un quadro di “Cafonal”, ma è molto peggio…
Le intercettazioni smentiscono che il “far politica” attraverso inchieste e sentenze sia una prerogativa delle “toghe rosse”. Le differenze tra correnti sono infatti inessenziali, e lo prova lo stesso Palamara. Il quale, mentre concerta con Flavio Lotti (ricordate? Il braccio destro di Matteo Renzi che a volte prendeva deleghe ai servizi segreti, in altre il ministero dello sport e – tutti i giorni – brigava per le nomine in magistratura), contemporaneamente briga con magistrati che per realizzare le proprie ambizioni “sentono la Lega”.
E’ la fogna normale della “classe dirigente” di questo disgraziato Paese. Quella melma che rende molto problematico qualsiasi progetto di radicale cambiamento sociale, perché ha maciullato competenze, etica, “professionalità”, rigore morale, senso del bene pubblico e quant’altro è indispensabile per ricostruire un assetto funzionante per gli interessi collettivi.
Di questo non porta la responsabilità solo “il capitalismo” – che c’è ovunque. Accontentarsi di questa “spiegazione” lascia impotenti di fronte a una struttura (e una cultura) del Potere che affonda nello Stato sabaudo, nelle gerarchie vaticane, nei residui borbonici, nella “modernizzazione fascista” e nella “mancata epurazione” repubblicana.
Un inguacchio che fa funzionare male anche lo stesso capitalismo (a pezzi oggi per la crisi sistemica mondiale) e che minaccia di sopravvivere e condizionare qualsiasi sviluppo futuro.
Per decenni, di recente, siamo stati bombardati con il mito della magistratura e delle polizie, come se questi corpi separati fossero per ragioni incomprensibili immuni dal “contagio”.
Finalmente crolla. E forse si può cominciare a ragionare guardando la realtà e cercando le soluzioni. Senza più affidarsi a “santi” che sono solo un travestimento degli stessi demoni.

martedì 19 maggio 2020

Il dittatore dello stato libero di Repubblica

Cadono le foglie di fico e si vede tutto. C’è proprio poco, diciamolo subito!
Sotto le giaculatorie sulla “libertà di stampa”, in un Paese in cui ben pochi giornali – in genere molto minori – sono in mano a “editori puri” (imprenditori che fanno dell’editoria il proprio business principale, in termini di fatturato e ricavi), si cela una realtà servile piuttosto squallida.
La situazione è peggiorata – anche se non sembrava possibile – con il doppio salto mortale della proprietà di Repubblica-L’Espresso e La Stampa. Con Debenedetti – da una vita proprietario del giornale fondato da Eugenio Scalfari – che prima compra il quotidiano torinese da sempre proprietà della famiglia Agnelli, poi (sotto la pressione dei figli) rivende tutto… agli Agnelli.
I quali, con la classe che li contraddistingue da sempre, cambiano il direttore di Repubblica, Carlo Verdelli, proprio nel giorno della mobilitazione nazionale in suo favore, minacciato più volte da fascisti rimasti fin qui sconosciuti (bisogna ammettere che la vista della polizia italiana è su questo fronte particolarmente deficitaria…).
Se uno fosse un po’ dietrologo potrebbe sospettare che la sostituzione sia arrivata a coronamento di un’operazione piuttosto spericolata.
Ma lasciamo perdere le malignità, anche se fondate su “coincidenze oggettive”…
John Elkann, principale erede dell’impero dell’Avvocato, mette al suo posto Maurizio Molinari, che fino a quel giorno aveva diretto il quotidiano torinese. Mentre a La Stampa approda Massimo Giannini, onnipresente prezzemolino televisivo del neoliberismo redazionale, cresciuto e allevato proprio a Repubblica. Deve essere una garanzia di fedeltà, crediamo…
Personaggio parecchio controverso anche Molinari, con una vita trascorsa a fare l’inviato in Israele e negli Stati Uniti, senza che nessuno abbia mai potuto registrare un qualche timido accenno di critica verso le politiche di quei due Paesi. E dire che non sarebbero mai mancati fondati motivi…
Anche qui le voci di redazione, da una vita, lo avvicinano ripetutamente al Mossad o alla Cia, con più insistenza sulla prima “ditta”. Ma sono certamente malignità, sapete come sono fatti i giornalisti…
Comunque sia, in un solo mese Molinari ha ridisegnato Repubblica – un giornale di destra liberista, iper-establishment fighettoso, per motivi incomprensibili catalogato tra la “stampa di sinistra” (forse in omaggio a quando L’Espresso bastonava il potere democrisiano, invece di fargli da palo come negli ultimi 40 anni…) – in un fogliaccio para-trumpiano, anti-cinese e anti-russo (lo era anche prima, ma con toni un po’ meno da Pentagono…) e naturalmente confindustriale in stile Assolombarda.
Il tutto in nome della “difesa della democrazia” e della “libertà di stampa”.
Poi accade che ci sia quella scabrosa notizia della Fiat-Fca che, non riuscendo a convincere Banca Intesa – sua storica fiancheggiatrice torinese – a prestarle 6,3 miliardi di euro, si fa venire la brilante idea di chiedere allo Stato italiano di farle da “garante”.
Non serve essere degli economisti sofisticati per capire che significa. Se la Fiat-Fca non dovesse essere in grado di restituire quei soldi a Banca Intesa – cosa quasi certa, visto il precipizio in cui è sprofondato il mercato automobilistico con la pandemia – a Banca Intesa glieli daremo noi. I contribuenti che pagano le tasse (Fiat non lo fa più, ha messo la sede fiscale in Olanda…).
Una sfrontatezza un po’ eccessiva anche per i navigati giornalisti di Repubblica, che si riuniscono in assemblea e approvano un comunicato critico su come il loro giornale sta affrontando il tema (un classico caso di “conflitto di interessi” giornalistico, tra verità e business padronale).
Il Comitato di Redazione (la struttura sindacale) ne chiede la pubblicazione, come previsto dal contratto di lavoro (quello dei giornalisti è un po’ più garantista di quello metalmeccanico o dei braccianti…).
E Molinari mostra la vera faccia della “democrazia” in Uso a Tel Aviv o Washington. E si rifiuta di pubblicarlo.
Punto.
Non si critica il padrone, ma dove vi credete di essere…

lunedì 18 maggio 2020

Business, reality, collasso antropologico

Negli ultimi tre mesi, mentre le borse andavano a picco, e tutti si attendevano un periodo di «Bear market», di letargo delle contrattazioni, limitate ai movimenti per liberarsi dei titoli più rischiosi, il volume degli scambi per i broker elettronici è cresciuto costantemente, e non mostra segni di cedimento (cnbc.com).
Gli investitori al dettaglio, dice cnbc.com, durante l’emergenza Covid hanno raddoppiato le attività di trading. In particolare, gli E-broker Ameritrade ed E-Trade hanno segnato un +144% e un +129%.
All’aumento delle puntate ha sicuramente contribuito l’azzeramento delle commissioni – dice Rich Repetto, analista di Piper Sandler. Ma da solo questo azzeramento non giustifica un aumento delle contrattazioni così marcato.
Protagonisti di questo boom sono stati i Millennials. Quando le azioni hanno iniziato a crollare, facendo registrare il «Bear market» più veloce e più disastroso della storia, molti di loro, per la prima volta, hanno aperto conti presso gli E-trader, determinando una crescita degli account del 170%.
Trovandosi chiusi in casa, sempre a contatto con un dispositivo elettronico, con commissioni ridotte a zero, i giovani hanno ceduto al fascino discreto della finanza.
Sia come sia, queste circostanze, da sole, non giustificano lo straordinario aumento delle attività di E-trade. Richard Thaler (Nobel per l’economia 2017), interpellato dal Newyorker, dice che un suo amico gli ha confidato che l’E-trading sta sostituendo il gioco d’azzardo. I casinò sono chiusi e non ci sono sport su cui scommettere.
L’ipotesi dell’amico del premio Nobel non è stramba. Dave Portnoy, per esempio, fondatore di Barstool Sports, un blog di sport e gioco d’azzardo, dice che quando il coronavirus ha imposto il blocco di tutte le competizioni sportive, inibendo di conseguenza la possibilità di scommettere su di esse, lui, invece di lamentarsi, ha visto in ciò un’opportunità.
Ho prelevato 3 dei 163 milioni di dollari incassati dalla vendita del 36% di Barstool Sports a Hollywood Casino, e li ho piazzati in un account E-Trade (businessinsider.com). Il 23 marzo – dice – sono diventato un trader a tempo pieno. Le scommesse in borsa hanno perfettamente sostituito le scommesse sulle corse e sugli atleti. Prima di questa avventura, dice, credo di aver comprato uno o due titoli. Non ero quello che si dice un esperto del ramo. Eppure mi sono tuffato e ho iniziato a fare trading. È più semplice di quello che si crede, più semplice di scommettere sulle partite.
Poi ho cominciato a trasmettere tutto in diretta su Twitter. Non è una serie TV. È più un reality.”
Ha puntato su Boeing e ha perso 2 milioni di dollari, in un attimo. Poi ha recuperato con una serie di operazioni su altri titoli, ma è comunque andato sotto.
Il suo live non è un corso su come si guadagna in borsa, tipo quei programmi sui numeri giusti da giocare al Lotto o panzane di questo tipo, che vanno in onda in Italia, su quei canali a tre cifre del digitale terrestre. Si tratta di un livello successivo, di qualcosa “punto 4” o “punto 5”.
Si tratta di vita vera, di un giocatore vero, che punta e rischia i proprio soldi, che gioca con la propria vita più di un Jim Morrison o di un Jimi Hendrix. Di qualcuno che esprime a pieno la “poetica romantica”, ovvero l’unione tra vita e opera, tra spettacolo e vita vissuta, trasformando, come dicevano appunto i romanici, la vita in un’opera d’arte, facendola diventare un reality show.
Affinché tutto funzioni, bisogna impedire che il punto di attaccatura tra questa realtà e il mondo banale del business, vanga, non nascosto, ma dissimulato, magari esponendolo in primo piano.
Per il suo Davey Day Trader su Twitter, Portnoy ha siglato un accordo di sponsorizzazione con una società di abbigliamento. Questo evento – l’attaccatura, il tornaconto, ciò che dovrebbe togliere l’alone di realtà a tutto lo show, mostrando come il rischio e le perdite in borsa siano calcolati, e come la vita veramente vissuta di questo trader è fare soldi con la pubblicità, scopo questo molto più prosaico che puntare e perdere 2 milioni, eccetera – questo evento non è occultato, ma è posto in primo piano, e presentato come un elemento della vita vissuta in comunione col pubblico.
Vedete, vuol dire Portnoy, io vesto come voi, sono come voi, metto le stesse magliette della nike e le stesse scarpe adidas che mettete voi, porto lo stesso lupetto che portate voi. Voglio tirare su un milioncino come voi. La mia vita è così come la vedete. Se espongo le mie miserie, oppure mio figlio – Fedez a Gomez – non è un esporre, semplicemente non lo nascondo. Uso i social network come fanno tutti. Metto la foto di mio figlio con le magliette con il brand. Non c’è niente da nascondere. Sono magliette che mi piacciono, e mi piacciono come piacciono a voi. Cosa dovrei fare? mettere una maglietta No-logo, scimmiottare l’intellighenzia No-logo per fare il figo? Io non appartengo a questa gente, mangio quello che mangiate voi, ho i vostri stessi desideri e i vostri stessi patemi. Indosso le magliette che vedete, perché mi piacciono, e se ci tiro su un po’ di soldi, che male c’è? lo fareste pure voi. Non è questa la realtà?”
Cosa c’è di più reale di vestire come il proprio pubblico; cosa c’è di più reale di avere le stesse debolezze del pubblico.
So che ci sono delle persone che vedono in tutto ciò uno sporco trafficare. Queste persone, dice Portnoy, sono i Mismatched Collars. Sono i comunisti col rolex, i rivoluzionari da salotto. E voi ve la prendete con me, mi date addosso! … Tutto ciò mi fa venir voglia di urlare, la ridicola sproporzione della colpa! Voglio che questo mondo di bacchettoni – ma qui a parlare è il Portnoy di Philip Roth – voglio che questo mondo, zeppo di ipocrisie e di perbenismo, di tabù e sensi di colpa, eccetera, voglio, insomma, che questo mondo che puzza di naftalina, si lasci andare, si lasci fare.”
Il mio eroe, dice Portnoy (quello vero), è Jordan Belfort (Di Caprio) di Wolf of Wall Street. Il mio slogan è quello di Philip Roth: Consideratevi liberi di godere, lasciate libero il vostro pisello. La mia politica mi è finita interamente nella nerchia! artisti segaioli del mondo unitevi!
Affinché lo spettacolo funzioni, e la realtà sembri vera, bisogna dare a questo losco trafficare la parvenza di una tragedia. Bisogna cercare di giustificare la propria schifezza con la schifezza del mondo intero.
Se volete conoscere dei veri porci – direbbe il Portony di Roth – entrate nelle stanze dei politici o dei Broker, quelli veri, date un’occhiata alle pratiche che gestiscono, e vedrete chi sono i veri porci! Le cose che combinano questi qui… e passandola liscia! Mentire, tramare, corrompere, rubare… il ladrocinio, signori miei, perpetrato senza battere ciglio.”
Mi vengono in mente i lamenti dei giovani trapper italiani, che cercano di giustificare la fame di denaro e droga, il sesso violento, il maschilismo spinto, il plagio e la sciatteria artistica, indirizzando l’attenzione su un presunto mondo di schifosi perbenisti, comunisti da salotto con Mismatched mini-bag e rolex.
Si sgonfia il mondo circostante (l’Itala fa schifo, i partiti fanno schifo, il sindacato è venduto e le lauree comprate) per gonfiare l’ego.
Robert Shiller (premio nobile per l’economia 2013) dice che la gente crede più a Portnoy che alle valutazioni economiche serie, crede più alle lacrime versate in un Reality che ai listini dei prezzi.
Una narrazione, dice, è emotivamente più avvincente e risonante di un grafico o di un’equazione (newyorker.com).
I narcisisti come Portnoy (e i loro giovani apprendisti) sono cresciuti in quel brodo di romanticismo e libertinaggio liberista che sono il frutto – scrive D. F. Wallace – del mirabile individualismo e voglia di libertà della Me Generation di Roth & Compagni bella.
I lamenti e le lacrime di Portnoy e Fedez sono lacrime vere, parlano di disgrazie vere, vissute da persone vere, lacrime cartolarizzate e cedute al pubblico di follower, ma senza avvertirlo che si tratta di spazzatura.
Inquadrato dalla webcam mentre piange, con 1 milione e 200 mila followers che piangono con lui, a Portnoy mai una volta, però, gli viene in mente che il motivo di tanta infelicità sia che lui è uno stronzo.

giovedì 14 maggio 2020

La Nato entra in guerra… contro le “fake news”?

Ci aveva abituato alle manovre militari con carri armati, navi ed aerei, ricordiamo l’installazione degli euromissili in Europa o dei sistemi antimissile ai confini, la ricordiamo protagonista dell’aggressione militare contro la ex Jugoslavia. Ma che la Nato del 2020 dichiari guerra alle fake news è decisamente un passaggio che colpisce e ci incuriosisce.
A esplicitare questa priorità strategica è stato proprio il segretario della Nato, un caso di nomen omen visto che si chiama Stoltenberg.

Secondo Stoltemberg la minaccia sono la Cina e la Russia che con la loro propaganda, con la loro disinformazione sul Covid 19 sono impegnate in atti destabilizzanti contro l’Occidente per guadagnare influenza politica sui partner di Nato ed Unione europea.
In una intervista al quotidiano La Repubblica, ormai completamente embedded nella Nato dopo il recente cambio di proprietà e direzione, Stoltemberg sostiene che “Attori governativi e non governativi cinesi e russi hanno diffuso una massa di disinformazione e propaganda per distorcere la verità”.
Per il segretario della Nato si tratta di un atteggiamento sbagliato, di “un tentativo di Mosca e Pechino di influenzare il dibattito nei partner di Nato e Unione europea, non vedo altra ragione di tanta propaganda e disinformazione”.
Insomma quella che nella Guerra Fredda era la disinformatja, torna ad inquietare la fiducia reciproca e i rapporti euroatlantici. Stoltemberg denuncia “la disinformazione propagata con dichiarazioni pubbliche di soggetti governativi cinesi e russi, c’è tutto un filone di false notizie da fonti nascoste. Un esempio lampante è la fake news secondo la quale la Nato sarebbe stata in procinto di ritirare le truppe dalla Lituania a supporto della quale è stata fatta circolare una falsa lettera a mia firma”.
Il segretario della Nato non dice molto di più ed è costretto ad ammettere di non poter entrare in “dettagli di intelligence”, ma è chiaro che “non è stata l’opera di un dilettante bensì parte di una campagna organizzata e molto complessa spalmata su varie piattaforme e tradotta in diverse lingue. Dobbiamo rimanere molto vigili”.
Ma qual è la vera preoccupazione che rivela questa intervista e l’ossessione che manifesta? E’ l’indebolimento, la perdita di credibilità e l’insignificanza di prospettive economiche comuni dell’alleanza e degli storici rapporti euroatlantici. Stati Uniti ed Unione Europea fanno a sportellate sui dazi e le relazioni commerciali; le sanzioni Usa e Ue hanno chiuso all’Italia e ai paesi europei i mercati come la Russia, l’Iran, il Venezuela etc., dentro l’Unione Europea crescono le spinte centrifughe e l’insofferenza verso la supremazia tedesca; il modello mercantilista fondato sull’export sconta la precipitazione dei “mercati altrui” e viene emergendo la necessità di rafforzare la domanda interna ai vari paesi.
In questa crepa si è inserita rapidamente la Cina fornendo mercato e investimenti, agisce la Russia fornitrice di risorse energetiche e di mercati nell’est. La tempestività e l’enfasi sugli aiuti cinesi, russi, cubani durante la prima fase della pandemia di Covid 19 in Italia e, contestualmente, l’assenza e la scarsezza degli aiuti dei partner euroatlantici, hanno scosso profondamente percezioni e rendite di posizione storiche su chi sono e potranno essere gli amici di domani.

Che questo sia una contraddizione ormai aperta lo si capisce dalle parole di Stoltemberg nell’intervista a La Repubblica: “Io ho mobilitato la Nato e gli alleati hanno fatto molto per aiutarsi reciprocamente contro il virus. In generale, sono i governi a decidere se accettare assistenza da chi è disponibile a offrirla. Però è importante che gli aiuti non siano usati per disinformare”. E si capisce anche che la partita è tutt’altro che chiusa: “Dobbiamo essere pronti a una seconda ondata di contagi: se e quando ci sarà, dovremo avere aumentato la nostra resilienza assicurandoci la capacità di non perdere il controllo delle infrastrutture critiche”.
La sostanza di questo ragionamento? Se state nella Nato e nell’Unione Europea dovete accettare di buttare un mucchio di soldi per le spese militari, di vedere precipitare le condizioni di vita della popolazione e il valore delle vostre aziende. Noi le acquisteremo a due soldi e vi daremo una mano a tenere le proteste sociali sotto il tallone di ferro dichiarando che siete comunque una democrazia. Ma guai se accetterete di commerciare o agevolare gli investimenti cinesi in Italia.
Un messaggio chiaro che richiederebbe anche nel nostro paese una risposta altrettanto chiara: lo sganciamento dalla vecchia e ormai suicida gabbia euroatlantica, una politica estera neutrale e di non allineamento, una proiezione delle relazioni econoniche e commerciali internazionali dell’Italia senza più i vincoli che la stanno strangolando ormai da decenni.

mercoledì 13 maggio 2020

Regione Lombardia… Meravigliateci !

Nella giornata di martedì nell’aula del Senato della Repubblica si è ascoltato qualcosa di inusuale per i tempi che corrono. A cosa ci si riferisce?
Il senatore di “Articolo 1”, Francesco Laforgia, intervenendo ha posto quella che in gergo parlamentare si chiama interrogazione, o per meglio dire, come una delle prassi che viene seguita per aver risposta su fatti, tra l’altro notori all’opinione pubblica.
Sin qui, nulla di particolare, se non fosse che la richiesta posta è tale da non passare inosservata. Per farla breve, La Forgia ha chiesto la nomina di un Commissario ad acta in Lombardia.
È sotto gli occhi di tutti che la Regione in questione, la Lombardia, è al primo posto per contagi (circa il 37% dell’intero ammontare di positivi del Paese) per le migliaia di morti, con riferimento particolare a quelle avvenute per esempio nelle RSA sia di natura pubblica che privata (Pio Albergo Trivulzio e Fondazione Don Gnocchi docent), per le inadempienze, per i ritardi, per l’avvenuto corto circuito delle strutture ospedaliere pubbliche determinatosi soprattutto nelle prime 7 settimane, con il rischio che il numero di terapie intensive non bastassero più.
Insomma, roba da far tremare i polsi al Buddha in persona….
Certamente attendiamo con trepidazione la risposta che il Governo Conte darà, considerando tra l’altro che al suo interno il Ministro della Salute è l’on. Speranza (in quota Leu, come dire dello stesso gruppo parlamentare di La Forgia).
Quindi è per lo meno auspicabile pensare che vi sia consapevolezza che la questione debba andare in una direzione evidentemente concordata, chiarendo tra l’altro che il tutto ha avuto origine da una petizione on line (Change.org) che ha raccolto, allo stato dell’arte, più di 80 mila firme,
Insomma la quadratura del cerchio sembrerebbe completa.
L’attesa verrà ricompensata? Chissà….

martedì 12 maggio 2020

Quando l’Italia divorziò dalla DC

Il 12 e 13 maggio 1974 si tenne il primo referendum abrogativo della storia repubblicana. In discussione era l’abrogazione della legge Fortuna-Baslini, approvata dalla Camera il primo dicembre 1970. L’iter parlamentare della legge fu abbastanza rapido, poiché il deputato socialista Loris Fortuna aveva depositato il progetto di cui era promotore durante la prima seduta della nuova camera dei deputati il 5 giugno 1968.
Tale progetto era firmato da un nutrito gruppo di deputati dei partiti di sinistra, PSI, PCI e PSIUP e fu in seguito unificato con un’analoga proposta di un gruppo di liberali, primo firmatario Antonio Baslini.
La seduta del 5 giugno 1968 vide tra l’altro l’elezione a presidente della camera di Sandro Pertini, la presentazione da parte di Pietro Ingrao della proposta di voto ai diciottenni, e la riproposizione della formazione di una commissione d’inchiesta sull’emigrazione, già avanzata nel 1964, firmata dall’on. Luzzatto e da altri esponenti del PSIUP. L’Italia era ancora un paese con milioni di emigranti.
La relativa rapidità dell’iter parlamentare non significa che la legge non fosse stata contrastata, La sua approvazione avvenne infatti alle cinque del mattino, al termine di una seduta protrattasi 19 ore. Votarono a favore 319 deputati contro 286. Anche al Senato la maggioranza non fu ampia; 319 si e 286 no. L’alta presenza in aula, inoltre, testimonia l’asprezza dello scontro sulla legge a cui si opponevano tenacemente la DC e i neofascisti del MSI.
Prima d’allora, il tema del divorzio era arrivato in Parlamento dodici volte, ma senza successo. Già nel 1902 il governo Zanardelli aveva presentato una proposta di legge che prevedeva il divorzio in caso di sevizie, condanne gravi e adulterio che ottenne solo tredici voti favorevoli su quattrocento.
Dopo il fascismo, il socialista Luigi Renato Sansone propose nel 1954 e poi nel 1958 una sorta di “piccolo divorzio” limitato ad alcuni casi gravi, ma la legge non fu nemmeno discussa. Anche in sede di Costituente, peraltro, non era stato facile far accettare alla DC che nell’art. 29 delle Costituzione il matrimonio non fosse indicato come indissolubile.
La DC, attraverso l’impegno di esponenti cattolici a lei legati, come l’ex sindaco di Firenze, Giorgio La Pira, il filosofo Augusto Del Noce, il giurista Gabrio Lombardi, formò un Comitato nazionale per il referendum sul divorzio che, entro il giugno 1971, raccolse ben 1.370.134 firme in calce alla proposta.
Un numero di firme così alto fece credere ai promotori che la vittoria fosse certa. Ma le cose non andarono in quel modo, il 12 e 13 maggio 1974 il 59,26% degli italiani votò NO all’abrogazione del divorzio.
Guardando alla distribuzione regionale dei voti, in tutto il centro-nord tranne che in Veneto e in Trentino prevalse il NO mentre il SI vinse in Molise, Puglia, Basilicata, Campania e Calabria. Molto significativa la vittoria dei NO in Sicilia e in Sardegna, a testimonianza dello sgretolarsi di poteri atavici, soprattutto grazie all’impegno delle donne.
Nell’analisi dei dati regionali, peraltro, va considerata anche l’immigrazione interna, che aveva portato molti giovani lavoratori del sud nelle regioni settentrionali, in cui erano spesso diventati punto di forza delle lotte operaie, nelle quali avevano maturato concezioni avanzate anche su temi come la famiglia,
La vittoria del NO era il segno di un’Italia che cambiava. Il sessantotto aveva portato con sé una nuova visione dei rapporti familiari, il rifiuto dell’autoritarismo familistico e patriarcale, che andava di pari passo alla contestazione dei rapporti autoritari sui luoghi di lavoro e nella scuola. Era nata anche una nuova visione dei rapporti tra i generi.
Tutto ciò, va ricordato, era associato ai veri e propri drammi vissuti da centinaia di migliaia di coppie “irregolari” che vivevano situazioni di semiclandestinità, Il reato di adulterio, che penalizzava quasi sempre le donne, era stato cancellato solo nel 1968.
La totale riconsiderazione dei rapporti familiari e tra i sessi portata dal divorzio fu anche una leva importante per la messa in discussione dell’arcaico istituto del “delitto d’onore”, cioè la forte riduzione di pena a cui aveva diritto chi uccidesse il coniuge – che poi era in pratica sempre la coniuge – ma anche la sorella o la figlia che avessero disonorato la famiglia allacciando una “illegittima relazione carnale”. Insomma, un diritto di proprietà, con possibilità di decidere vita o morte, sulle donne della famiglia.
L’articolo 587 del Codice penale ereditato dal fascismo. relativo a questo obbrobrio giuridico, fu sempre meno applicato nei tribunali dopo l’approvazione del divorzio, del nuovo diritto di famiglia del 1975 e della legge 194 sull’aborto, sino alla sua cancellazione avvenuta nel 1981.
Una delle motivazioni contro il divorzio, portate in parlamento dalla deputata democristiana Maria Eletta Martini, relatrice di minoranza, fu quella che le donne erano economicamente più fragili e che la possibilità del divorzio le avrebbe messe in grande difficoltà.
Anche questa argomentazione, nella sua verità, fu ribaltata dal movimento delle donne. Non era giusto continuare ad accettare le catene perché si era deboli, piuttosto era necessario cambiare le condizioni e i salari nel mondo del lavoro, verso l’eguaglianza tra uomini e donne.
Il referendum del 12 maggio 1974 scosse profondamente i rapporti tra i sessi, verso la parità in famiglia e sul lavoro, e questo non può essere considerato solo un fatto di diritti civili, bensì di lotta di classe, visto che sin dagli scritti di Marx tale contraddizione ne è considerata uno dei terreni fondamentali
Più in generale credo sia sbagliato ciò che si è letto molte volte, vale a dire che la vittoria nel referendum del 12 maggio 1974 abbia costituito un avanzamento sul piano dei diritti civili, che non trovò altrettanto riscontro sul terreno sociale. Fatto salvo che negli anni settanta questa distinzione non era pertinente, il referendum sul divorzio deve essere inquadrato in un decennio in cui i due piani correvano, come è giusto, paralleli. Quindi, in quella battaglia, si affermarono diritti sociali ed egualmente civili come è per esempio la parità tra uomo e donna in famiglia e sul lavoro.
Gli anni settanta non furono, come molti tendono oggi a narrarli, anni “di piombo” bensì anni di grandi conquiste dei lavoratori e del movimento popolare sull’onda dei forti movimenti studenteschi e in seguito operai del 1968 e 1969, seguiti poi dal movimento del 77. Movimenti che avevano veramente messo alle corde la borghesia italiana, che, stretta dall’alleanza tra movimento operaio e studentesco e dallo schierarsi con loro della piccola borghesia impiegatizia, aveva dovuto arretrare su molte e importanti questioni.
Nel 1970 fu approvato lo Statuto dei lavoratori, una legge certamente di mediazione politico-sindacale, non completamente soddisfacente (tanto che PCI e PSIUP si astennero dall’approvarla) ma che sancì comunque una serie di diritti importanti, contenendo per esempio il famoso articolo 18 diventato uno dei grandi punti di battaglia politica degli ultimi venti anni Inoltre in quella legge fu riconosciuto il diritto all’istruzione per i lavoratori, con l’istituzione delle 150 ore, una conquista che usciva dal semplice terreno della lotta sindacale in fabbrica, per porsi su quello più generale dei diritti sociopolitici.
Inoltre, gli anni settanta furono costellati da molte altre lotte e conquiste, come le battaglie sulla questione della salute in fabbrica, ancora oggi tanto attuali, che trovarono in quel decennio la loro nascita. Il movimento operaio usciva dalla semplice rivendicazione salariale o sull’orario di lavoro per affrontare questioni più generali, come la salute oppure la casa. Si poneva così la questione della gestione e delle regole della società nel suo complesso.
La lotta sui temi della salute trovò un approdo significativo nell’istituzione, nel dicembre del 1978, del Sistema Sanitario Nazionale, in seguito purtroppo regionalizzato, ed entrato in collaborazione con il privato. con le conseguenze di cui oggi ci rendiamo conto. Pochi mesi prima, la cosiddetta “Legge Basaglia” aveva chiuso i manicomi, incubo non solo sanitario, ma anche politico, perché luoghi di repressione di comportamenti non accettati nella società borghese.
Intanto, nel maggio del 1978, era stata approvata anche la legge sull’aborto. Una legge non esente da limiti quale l’obiezione di coscienza concessa ai medici, ma che affermò il principio generale della gravidanza come scelta esclusiva della donna. Un passo avanti decisivo a cui in seguito la DC si oppose con un altro referendum tenuto nel 1981 che la portò alla seconda bruciante sconfitta referendaria.
Il segretario della DC, Fanfani, aveva previsto già durante la campagna referendaria del 1974 i possibili effetti a cascata di una vittoria del NO quando aveva affermato: “Volete il divorzio? Allora dovete sapere che dopo verrà l’aborto. E dopo ancora, il matrimonio tra omosessuali. E magari vostra moglie vi lascerà per scappare con la serva!”
Il referendum del 1974 portò con sé anche una definitiva scomposizione del mondo cattolico, di cui la DC perse il monopolio della rappresentanza Se già dal 1968 i fermenti di rottura dei cattolici progressisti con la DC erano evidenti (lo testimonia, per esempio, la costituzione, anche se non fortunata, del Movimento Politico dei Lavoratori di Livio Labor) il referendum sul divorzio ne fu la sanzione.
Infatti, se Comunione e Liberazione fu attivissima per il SI, molti altri cattolici come Pietro Scoppola, Pierre Carniti, Raniero La Valle e Adriana Zarri rifiutarono di sottomettersi alle gerarchie ecclesiastiche. Il caso più eclatante fu quello di don Giovanni Franzoni, abate della Basilica Ostiense, sospeso a divinis per avere preso posizione pubblica a favore del divorzio. A Venezia, il Patriarca Albino Luciani, futuro papa, sciolse la FUCI, associazione degli universitari cattolici, che si era dichiarata a favore del divorzio.
Tutto ciò servì a chiarire che la DC non era più, se mai lo era stata, rappresentante di tutti i cattolici. Una realtà che purtroppo il PCI, come sappiamo, sottovalutava nella sua costante ricerca di mediazione con la DC.
La distorsione della visione gramsciana dei rapporti tra comunisti e cattolici ha caratterizzato il PCI nel dopoguerra sino alla teorizzazione del compromesso storico, Relativamente al tema di cui ci occupiamo, il PCI non aveva compreso nemmeno il valore e l’importanza del movimento del 68 e la sua forza dirompente sull’assetto dei rapporti tradizionali e autoritari nella società e anche all’interno della famiglia.
Il referendum del maggio 1974 deve quindi essere ricordato come una tappa di una lunga serie di lotte che costellarono oltre un decennio di storia italiana cambiandone profondamente molti aspetti politici e sociali e anche come un momento decisivo della crisi dell’egemonia democristiana in Italia.

lunedì 11 maggio 2020

Lepri e avvoltoi

Quando il PD e il centrosinistra mettono mano al mondo del lavoro, i lavoratori non possono far altro che iniziare a tremare. Con l’abbandono di Renzi, la cui segreteria aveva ispirato e attuato il Jobs Act e l’ennesima ondata di precarizzazione del mercato del lavoro in Italia, pare che nulla sia cambiato da questo punto di vista.
Si legge, sulle pagine di Repubblica, della proposta presentata l’8 gennaio, a prima firma del deputato PD Maurizio Lepri (ma co-firmato dai più noti Martina, Orlando, Serracchiani e Gribaudo) per ridurre l’orario di lavoro riducendo proporzionalmente il salario. Per dirla in soldoni, ciò significherebbe istituzionalizzare il part-time involontario.
Conviene soffermarsi su questa proposta di legge, per comprendere quale sia il paradigma teorico e politico di riferimento che la ispira e per sottolineare, a differenza del quotidiano che la riporta, quali potrebbero essere gli effetti deleteri, per i lavoratori, di questa proposta ora che la drammaticità della situazione economica del paese si paleserà con tutta la sua virulenza.
Sono di questi giorni le stime impietose della Commissione europea che parlano di una caduta del PIL pari a 9,5 punti percentuali e un conseguente aumento del tasso di disoccupazione fino a toccare la soglia del 12%. Scenari più tragici fanno riferimento a un crollo della produzione del 15% e un tasso di disoccupazione al 17%.
Inevitabilmente, questo drammatico quadro macroeconomico avrà ripercussioni sulle condizioni materiali di vita di milioni di persone che perderanno il lavoro e, in mancanza di un adeguato intervento pubblico, il reddito.
La proposta del PD, concretamente, ha l’obiettivo di incentivare l’adozione di contratti a tempo indeterminato part-time da parte delle imprese tramite una riduzione del cuneo fiscale di 4 punti (dal 33% al 29%) che si distribuisca in maniera equa (2% a testa) tra lavoratore e impresa.
In sostanza, lo Stato si incaricherebbe di garantire manodopera più economica ai datori di lavoro, mentre il lavoratore, magari costretto ad accettare un lavoro part-time in assenza di meglio, si troverebbe a guadagnare pochi spiccioli, con il contentino di una riduzione delle trattenute contributive.
Va, a questo punto, ricordato che il vecchio adagio “Lavorare meno, lavorare tutti” ha una connotazione positiva, per i lavoratori, solo se alla riduzione dell’orario di lavoro non si accompagna una riduzione della retribuzione.
La proposta del PD, invece, lungi dall’essere una fonte di miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori, rappresenta l’ennesima trappola. La retribuzione, nella proposta di cui ci stiamo occupando, si abbassa in maniera corrispondente alle ore non lavorate.
Ma come viene giustificata, dai proponenti, questa scelta? Lepri, nell’articolo di Repubblica, dice di temere la perdita di competitività per le merci prodotte che deriverebbe dal dover pagare lo stesso salario per meno ore lavorate. Questa considerazione ci permette di ricordare alcune conclusioni che abbiamo più volte sottolineato.
In primo luogo, il PD giustifica e trova naturale che i padroni rispondano con aumenti dei prezzi a un qualsiasi aumento dei salari per mantenere inalterato il loro margine di profitto. Ma l’idea del “Lavorare meno, lavorare tutti”, a parità di salario, nella declinazione più favorevole ai lavoratori, presuppone una riduzione dei margini di profitto.
In assenza di barriere ai movimenti di capitale, una tale riduzione dei margini di profitto darebbe il via a un’ulteriore ondata, rispetto a quelle a cui abbiamo già assistito, di delocalizzazioni, ovvero di chiusure di stabilimenti industriali in Italia atte a spostare la produzione in paesi con costi del lavoro più contenuti.
Ma la libertà indiscriminata dei movimenti di capitale non è una disgrazia impostaci dai numi. È, bensì, la conseguenza di deliberate scelte di politica economica, tutte indirizzate a un unico disegno: imporre ai lavoratori di scegliere se accettare riduzioni negli standard di vita o rimanere senza un posto di lavoro.
Questa proposta ci permette, inoltre, di sottolineare come nel contesto dell’Unione Europea, la deflazione salariale sia l’unica strategia di crescita che si prospetta. La ricerca della competitività, quindi di salari più bassi, è la via per continuare a vendere le proprie merci, in un contesto di cambi fissi (senza, dunque, la possibilità di rendere le proprie merci più appetibili tramite una svalutazione della valuta nazionale) e risorse scarse (generate dai limiti alla spesa pubblica e al deficit, imposte dai Trattati europei), mantenendo inalterata, o addirittura peggiorando, la distribuzione del reddito.
Una prospettiva questa, di cui il Partito Democratico è da sempre un fiero alfiere.
Inoltre, persino lo scopo apparente di questa proposta, redistribuire il carico di lavoro tra una platea maggiore di lavoratori risulterebbe vano. La cronica stagnazione della domanda interna italiana ha infatti prodotto le pessime performance del mercato del lavoro a cui siamo abituato e che sono limpidamente cristallizzate nel 9,7% del tasso di disoccupazione nel 2019.
La drammatica crisi a cui andiamo incontro, certificata come detto anche dalla Commissione Europea, già aggravata dall’impossibilità dello Stato di intervenire poderosamente a sostegno dell’economia e del reddito dei lavoratori, non lascerà invariate le ore lavorate, ma anzi, ne deprimerà la già fiacca dinamica.
I dati ci dicono, infatti, che mentre il numero di occupati è cresciuto fino a superare il numero di teste occupate prima della crisi, le ore lavorate per occupato sono diminuite drasticamente (erano circa 1810 nel 2009 e 1722 nel 2018).
Inoltre, la quota di part-time involontari sul totale degli occupati, che era pari all’8,2% nel 2011, ammontava all’11,9% nel 2018. Inoltre, se si considera soltanto l’occupazione a tempo parziale, si noterà come, tra tutti coloro che hanno un contratto di lavoro part-time, ben il 64% (era il 52% nel 2011) ha sottoscritto questo contratto perché senza alternative a tempo pieno.
Ciò testimonia il drammatico aumento del fenomeno dei sottoccupati, vale a dire di coloro che sarebbero disposti a lavorare più ore ma che, per contingenze non dipendenti dalla loro volontà, sono costretti a lavorare di meno.
Queste considerazioni non solo confermano l’ormai endemica debolezza del mercato del lavoro italiano, causata da tagli e austerità, ma rendono palese come le “riforme” dell’ultimo ventennio abbiano fatto il loro corso permettendo di assumere lavoratori per orari e tempi sempre minori.
In altri termini, la pratica di assumere lavoratori per un tempo di lavoro ridotto, nonostante essi siano disposti a lavorare a tempo pieno, e pagando loro un salario ridotto rispetto ai contratti “regolari” è presente e cronicizzata nell’economia italiana, favorita dalle riforme e indotta dalle pessime dinamiche dell’occupazione e della domanda aggregata.
La proposta del PD quindi, oltre ad assumere i connotati della farsa in cui i drammaturghi non conoscono l’oggetto del proprio copione, rischia di rivelarsi l’ennesimo boomerang contro i lavoratori. Metterla in atto approfittando dell’emergenza pandemica ed economica che stiamo vivendo significherebbe attuarle in un contesto in cui la produzione subirà un calo drammatico.
Il ricorso a tali forme contrattuali sarà dettato, quindi, non dalla legittima aspirazione dei lavoratori a lavorare di meno, conseguendo lo stesso salario, ma dalla necessità, per le imprese, di scaricare il costo della crisi sui lavoratori. Le nuove assunzioni a tempo parziale involontario risulterebbero addirittura incentivate (e pagate) dallo Stato.
Per chi vuole sinceramente migliorare le condizioni dei lavoratori la battaglia è sempre la stessa: politiche pubbliche per aumentare la domanda aggregata e perseguire la piena occupazione, sostegno al reddito dei lavoratori rimasti senza lavoro e aumento dei salari di tutti i lavoratori

venerdì 8 maggio 2020

Aumenti dei prezzi durante l‘emergenza sanitaria. Indaga l’Antitrust

Sui rincari di beni alimentari e detergenti durante l’emergenza coronavirus, è stata avviata una indagine dell’Authority Antitrust.  
L’authority ha inviato richieste di informazioni a numerosi aziende della grande distribuzione “per acquisire dati sull’andamento dei prezzi di vendita al dettaglio e dei prezzi di acquisto all’ingrosso di generi alimentari di prima necessità, detergenti, disinfettanti e guanti, per individuare eventuali fenomeni di sfruttamento dell’emergenza sanitaria a base dell’aumento di tali prezzi”.
Le richieste di informazioni riguardano oltre 3.800 punti vendita, soprattutto nell’Italia centrale e meridionale, pari a circa l’85% del totale censito da Nielsen nelle province interessate.
Dalle analisi preliminari svolte sui dati Istat, secondo l’Antitrust “sono emersi a marzo, per i prodotti alimentari, aumenti dei prezzi rispetto a quelli correnti nei mesi precedenti differenziati a livello provinciale. I maggiori aumenti si riscontrano in aree non interessate da ‘zone rosse’ o da misure rafforzate di contenimento della mobilità”.
L’Antitrust si è dovuta mettere all’opera sulla base di segnalazioni che indicavano un aumento dei prezzi nelle settimane di piena emergenza coronavirus e che molti di noi hanno potuto verificare sulla base di dati empirici.
Se prima due borse di spesa al supermercato si portavano via un pò più di cinquanta euro, in questo periodo ne abbiamo lasciato alle casse almeno una settantina per un paniere di prodotti simile a quello dei mesi precedenti. Una verifica analoga è registrabile anche nella spesa nei mercati rionali per i prodotti freschi ortofrutticoli. E non ci si venga a parlare di “percezione”, perchè il dato è facilmente rilevabile dagli effetti concreti sui portafogli delle famiglie.
I principali destinatari delle richieste di informazioni sono: Carrefour Italia, MD, Lidl, Eurospin, F.lli Arena, alcune cooperative Conad (Conad Sicilia, Conad Nord-Ovest, PAC 2000, Conad Adriatico, nonché Margherita Distribuzione), alcune cooperative e master franchisor Coop (Unicoop Firenze, Unicoop Tirreno, Coop Centro Italia, Coop Liguria, Novacoop, Coop Alleanza 3.0, Tatò Paride), diversi Ce.Di. aderenti a SISA (per esempio SISA Sicilia), SIGMA (per esempio Ce.Di. Sigma Campania) e CRAI (per esempio CRAI Regina).
L’Antitrust “ha ritenuto di non poter escludere che tali maggiori aumenti siano dovuti anche a fenomeni speculativi.
Infatti, non tutti gli aumenti osservati appaiono immediatamente riconducibili a motivazioni di ordine strutturale, come il maggior peso degli acquisti nei negozi di vicinato, la minore concorrenza tra punti vendita a causa delle limitazioni alla mobilità dei consumatori, le tensioni a livello di offerta causate dal forte aumento della domanda di alcuni beni durante il lockdown e dalle limitazioni alla produzione e ai trasporti indotte dalle misure di contenimento dell’epidemia”.

giovedì 7 maggio 2020

Pronto il Memorandum “strangola-Pigs

La sentenza della Corte Suprema tedesca, due giorni fa, ha acceso i riflettori sulle gravissime incongruenze dell’architettura europea, piazzando cariche esplosive nei punti critici.
Il punto politico rilevante è piuttosto chiaro: le regole europee scritte nei Trattati e valide per tutti i Paesi, obbligati a tradurle all’interno delle rispettive legislazioni e Costituzioni, sono apertamente messe in discussione dal Paese economicamente più forte del Vecchio Continente.
Non era mai accaduto prima, anche se sono cronaca costante i mal di pancia e le “forti contrarietà” tedesche rispetto alle poche decisioni non perfettamente sagomate sui desiderata di Berlino. Prima fra tutte la scelta del Quantitative Easing varato da Mario Draghi, come presidente della Bce, nel 2015, oggetto ora della sentenza di Karlsruhe.
Di conseguenza, nella discussione che prosegue nell’Eurogruppo convocato per domani (i ministri delle finanze di tutti i Paesi membri), sugli strumenti per finanziare il contrasto sanitario alla pandemia e la “ricostruzione” di un’economia continentale data in caduta libera (-7,7% nel 2020), si può dare per scontata una accentuata “rigidità” da parte del “blocco del Nord” (Germania, Olanda, Austria, Finlandia).
La previsione pressoché unanime è che sul tavolo, per i Paesi in maggiore difficoltà – come l’Italia e la Spagna – ci sarà soltanto il famigerato Mes, sia pure a “condizionalità ridotte e/o posticipate”. Il lavoro preparatorio per l’Eurogruppo ha già partorito un pre-accordo che la dice lunga:
a) i Paesi richiedenti i fondi del Mes dovranno firmare comunque un “Memorandum of Understanding”. Ma siccome questo termine evoca immediatamente la tragedia della Grecia – anche quella nel 2015 – gli è stato cambianto il nome: ora si dice Template response plan. In pratica un “modulo” contenente un elenco di voci di spesa consentite e considerate “idonee”, da finanziare con i prestiti concessi dal Mes (ricordiamo che sono soldi messi a suo tempo dagli stessi Stati membri, quindi per il 17% anche dall’Italia, non dallo spirito santo).
b) le “condizionalità” e la sorveglianza saranno più light rispetto a quanto applicato nei confronti di Atene, ma in futuro la Commissione europea potrà usare la sua autorità per chiedere ad un paese di rientrare nei ranghi, ossia nelle regole del Patto di stabilità e crescita. Non c’era neanche bisogno di aggiungerlo, perché questa eventualità è prevista dai trattati europei che regolano il percorso della legge di stabilità annuale dei singoli Paesi (Six Pack e Two Pack). Ma ci hanno tenuto a precisarlo. In pratica, a chi chiede il ricorso al Mes verrà applicato un laccio al collo, e sarà la Commissione a decidere tempi, modi e intensità della stretta.
c) Il “fronte del Nord” preme comunque per la determinazione di tempi abbastanza stretti per pianificare la restituzione del prestito del Mes, mentre ovviamente i paesi Pigs (Portogallo, Italia, Grecia, Spagna, ma anche Francia) preferirebbero tempi molto più dilazionati. Diciamo che questo è l’ultimo spazio di finta contrattazione rimasto nella riunione di domani. In pratica una preghiera di “stringere piano” quel cappio…
E’ il caso di ricordare che questa follia sta avvenendo a fronte della più grave crisi verificatasi in Europa a partire dalla fine della Seconda Guerra mondiale (ricorre proprio domani il 75 anniversario), causata oltretutto da un evento “esogeno” rispetto alla sfera economica.
Una situazione, insomma, che richiede strumenti e idee “eccezionali”. E a cui si risponde con la robotizzata indifferenza di un algoritmo pensato per i tempi di vacche grasse, in altri millenni

mercoledì 6 maggio 2020

Il diktat della Germania alla UE: “austerità o rottura

La Corte Costituzionale della Germania ha seppellito definitivamente i recovery bond ed ogni forma di gestione della crisi economica che allarghi le maglie dei trattati liberisti che governano la UE.
Con una sua sentenza, la massima corte tedesca ha messo sotto accusa la politica della BCE decisa da Mario Draghi, cioè l’acquisto illimitato – tramite soldi forniti alle banche, si ricordi – dei titoli del debito dei paesi più in crisi.
La BCE ha tre mesi di tempo per spiegare alla corte di Germania le ragioni di una sua scelta che i giudici considerano al di fuori dei limiti istituzionali della banca, accusandola di aver fatto una politica economica che non le compete.
Poi se la BCE non cambierà, la Banca Federale di Germania dovrà sottrarsi alle decisioni della Banca Europea, insomma non metterci più i soldi. Insomma una bomba ad orologeria ed un ricatto su tutto il sistema UE, che la stampa italiana sta stupidamente minimizzando come faceva col coronavirus.
Prima di affrontare le conseguenze economiche e sociali della sentenza, è importante coglierne la dimensione politica ed istituzionale. Nel 2012 il Parlamento italiano, centrodestra e centrosinistra uniti, con voto unanime in prima battuta – e, in seconda votazione, con il dissenso parziale, tardivo e sostanzialmente finto di Lega e Di Pietro – votò la modifica della Costituzione, accogliendo dentro di essa il vincolo europeo ed in particolare il Fiscal Compact, con il vincolo al pareggio di bilancio imposto nella riscrittura dell’articolo 81.
Insomma non solo l’Italia ha accolto nella propria Costituzione quei vincoli di austerità che contraddicono alla radice i principi sociali della sua prima parte, ma ha accettato la supremazia dei trattati europei sul proprio sistema democratico.
La Germania ha invece fatto l’esatto contrario. I vincoli europei sono stati accolti dal sistema tedesco solo e fino a che non ne contraddicano i principi. Così la Germania ha mantenuto e usato la propria sovranità costituzionale, l’Italia vi ha rinunciato.
Non solo la differente potenza economica dei suoi stati, ma le stesse regole ineguali hanno fatto della UE un sistema squilibrato, dove la Germania ha potuto conservare e accrescere le sue terapie intensive, mentre l’Italia le ha tagliate.
Sia chiaro non ha sbagliato la Germania, hanno sbagliato l’Italia e tutta la UE ad accettare un sistema di regole dove un solo parlamento nazionale resta sovrano, quello tedesco. Il padronato e i ricchi italiani hanno trovato perfetto per loro un sistema nel quale la posizione subalterna del paese favoriva la crescita dei profitti privati ai danni del lavoro e del sistema pubblico, ma ora con la crisi economica spaventosa in arrivo i nodi vengono al pettine.
Il capitalismo tedesco non può permettersi di aiutare davvero l’Italia, altrimenti i lavoratori di quel paese, i cui diritti sono stati comunque compressi, chiederebbero il conto. Ma come ci avete chiesto collaborazione e rinunce, ed ora date i soldi agli italiani?
È la domanda che un lavoratore olandese fa al primo ministro Rutte, fedele satellite della Germania. La borghesia tedesca non può fare il passo di una vera solidarietà europea, altrimenti vedrebbe messo in crisi il proprio potere nel proprio paese.
Le conseguenze economiche di questo stallo sono già evidenti. Non ci saranno mai i “coronabond” chiesti di Conte e la BCE dovrà lasciar salire lo spread dei titoli del debito pubblico italiano. La Germania ha detto basta alle chiacchiere: o l’Italia e gli altri paesi in difficoltà accettano l’austerità, o per loro non ci sarà niente. O il MES o nulla.
Si aprirà quindi nuova crisi “europeista” nel nostro paese, messo di fronte alla scelta tra l’obbedienza al vincolo europeo seguendo la via della Grecia, oppure la ricerca di altre vie.
Confindustria ha già scelto e ha chiesto di abolire i contratti nazionali, con il tacito consenso dei finti sovranisti di destra e del liberisti di tutti i partiti. Il bivio è reale: o si accetta un nuovo giro di vite del sistema ineguale, pagato integralmente dalle classi lavoratrici e popolari, oppure si mette in discussione quel sistema.
Bisogna ripristinare la sovranità dei principi costituzionali ed applicarla nelle scelte economiche e sociali, rompendo con il vincolo europeo. Come oggi fa la Germania ma per ragioni e scopi esattamente opposti a quelli dei conservatori e sovranisti tedeschi che comandano la UE.
Al diktat tedesco, austerità o rottura, bisogna per forza rispondere: meglio la rottura

martedì 5 maggio 2020

Regione Lombardia, commissariarla è il minimo

La Regione Lombardia – parliamo dell’amministrazione leghista, naturalmente – è il “buco nero” del mondo all’epoca del coronavirus.
Un misto incredibile di incapacità, servilismo verso Assolombarda (la Confindustria locale, che ha ora espresso anche il “leader nazionale degli imprenditori, il bocconiano Carlo Bonomi), volontà di contrastare a prescindere il governo centrale (già asservito di suo agli stessi padroni, ma con l’esigenza di star attento anche ad altri interessi territoriali), preservare il “modello di sanità privatizzata” nonostante lo spaventoso bilancio di morti, contagiati, ricoverati e confinati in quarantena obbligatoria.
A ieri sera si potevano infatti contare in questo territorio 78.105 contagi e 14.294 morti. Con una popolazione di circa 10 milioni, si tratta delle più alte percentuali registrate sull’intero pianeta. Solo i morti sono la metà di quelli registrati in tutta Italia.
Un risultato che consiglierebbe chiunque di farsi da parte, ma non i prodi leghisti incollati alle poltrone regionali. Una stupida “mozione di sfiducia” presentata contro l’assessore al welfare e alla sanità, il garrulo Giulio Gallera, è stata respinta ieri dal Consiglio, a larga maggioranza di destra: 49 voti contrari, 23 favorevoli e 2 astenuti.
Per far capire esattamente di che pasta è fatta l’”opposizione democratica” il rappresentante di +Europa (un nome, un programma…) si è astenuto, mentre la consigliera renziana non ha neppure partecipato. Ricordatevene, quando vi chiederanno come sempre il voto “per fermare la destra”…
Lo stesso Gallera, peraltro, da qualche giorno evita di farsi vedere in tv, il suo luogo preferito, da cui ha pontificato a lungo nei giorni in cui i suoi sfortunati amministrati morivano come mosche.
Deve essere l’effetto che innumerevoli inchieste giudiziarie aperte sia sulla gestione della case di riposo e la sua criminale “delibera dell’8 marzo” (quella che “chiedeva” alle Rsa di ospitare un po’ di malati conclamati di Covid-19), sia sulla riapertura dell’ospedale di Alzano Lombardo, in Val Seriana, dopo l’inchiesta de La7 che dimostra – carte alla mano – l’”ordine” arrivato dalla Regione di andare avanti come se il contagio non ci fosse.
E’ il caso di riportare l’intervista all’infermiera intervistata “sotto copertura” (perché tutto il personale dell’ospedale era stato minacciato di licenziamento fin dall’inizio del disastro).
Il 23 febbraio ero in servizio al pronto soccorso e lì abbiamo riscontrato il primo caso sospetto di Coronavirus di un paziente per il quale il nostro medico ha deciso di chiudere le attività del pronto soccorso avvisando la direzione medica e anche Areu (Azienda Regionale Emergenza Urgenza, ndr), comunque il 118 di Bergamo, che non avremmo ricevuto più pazienti.
Il nostro medico stesso ha avvisato pure i parenti e i pazienti in sala d’attesa che non erano entrati in pronto soccorso dicendo che il pronto soccorso non avrebbe proseguito le attività proprio perché c’era questo sospetto. E abbiamo proceduto alla sanificazione dei locali dove questo paziente era transitato.
Nello stesso tempo, però, abbiamo scoperto che nei reparti di chirurgia e di medicina c’erano già due pazienti positivi… Abbiamo proseguito il nostro turno fino alla sera e abbiamo fermato i nostri colleghi che avrebbero dovuto prendere servizio nel pomeriggio, sono stati bloccati gli ingressi in uscita e in entrata dell’ospedale e fermato tutto il personale degli altri reparti.
Domenica 23 febbraio in ospedale c’è una riunione: dopo la sanificazione bisogna organizzare un piano di difesa e isolamento dei malati, dei familiari e del personale sanitario; ma da Milano, dal Palazzo della Regione, arriva l’ordine: riaprite.
Su una chat interna il coordinatore infermieristico avvisa i suoi colleghi: ‘Pronto soccorso riaperto, si riprende la normale turnazione. Che nessuno diffonda alcun dato di pazienti, in nessun modo siete autorizzati a diffonderli, a nessuno e di chiunque. Chi non si attiene alle indicazioni se ne assumerà eventuali conseguenze”. Il licenziamento, appunto…
E infine, rispondendo alla domanda della giornalista (“I vostri dirigenti vietano al personale di parlare con la stampa, perchè lei è qui?”), risponde:
Perché la situazione è stata molto concitata e non si sono capite le decisioni che hanno preso. Secondo il mio parere noi quel giorno non avremmo dovuto tornare a casa, non avremmo dovuto tornare a casa noi, i parenti dei pazienti e nemmeno i pazienti.
Secondo le regole avrebbero dovuto tenere tutti lì in isolamento precauzionale fino al risultato se non altro di un tampone o degli esami che attestavano che non avessimo il Coronavirus perché poi credo che da lì si sia data una buona mano al diffondersi di questa epidemia.
Lunedì l’ospedale ha svolto la sua normale attività, comprese le sale operatorie e il personale che comunque era stato a contatto con pazienti dichiarati positivi. Abbiamo lavorato con medici che sapevano di essere positivi, loro dicono che hanno dovuto prendere servizio per ordini superiori, ma è un ordine sbagliato, va contro tutte le etiche professionali: non puoi venire a lavorare con 40 di febbre e il Coronavirus, devi stare a casa ed evitare che si ammalino altre persone.
Una delle scene più brutte che mi ricordo è quella di dover mettere i cadaveri ancora caldi nei sacchi della pastorino. C’è stato un giorno – il nostro massimo – in cui nella nostra camera mortuaria c’erano 28 cadaveri quando di solito più di 2 o 4 non ce ne sono”.
I dati Istat diffusi ieri hanno gelidemente confermato il racconto: nel mese di marzo 2020 è stato registrato in Italia il 49,4% di decessi in più rispetto al marzo 2019. Ma gli aumenti più agghiaccianti sono avvenuti quasi tutti in Lombardia: Bergamo (568%), Cremona (391%), Lodi (371%), Brescia (291%), Piacenza (264%), Parma (208%), Lecco (174%), Pavia (133%), Mantova (122%).
Comprensibile, dunque, che Gallera stia attualmente occupato a compulsare tutte le carte in attesa dell’inevitabile convocazione davanti ai magistrati. Omicidio ed epidemia colposi sono reati sempre gravi, ma con quasi 15.000 morti si va oltre ogni possibile scusante.
Di fronte a questa tetragono iattanza della junta leghista, insomma, la richiesta di commissariamento della Regione, avanzata già venti giorni fa da Potere al Popolo, sembra quasi il minimo. E’ un atto politico, una messa in stato d’accusa di una classe politico-amministrativa orrenda, ed anche di un Governo che – lo sappiamo bene – si guarderà dal procedere in questo senso; almeno fin quando non sarà la magistratura ad emanare provvedimenti giudiziari accompagnati da prove e testimonianze inoppugnabili.
Solo in quel caso, come sempre, ci potrebbe essere un travagliatissimo scioglimento dell’attuale consiglio regionale lombardo e la nomina di un “commissario” incaricato dell’ordinaria amministrazione per arrivare a nuove elezioni (come stava per altre ragioni avvenendo in Valle d’Aosta, per esempio, se non fosse nel frattempo sopraggiunta l’epidemia).
Una campagna politica, insomma, per “svegliare” un pezzo di popolo che fin qui si era affidato a chi indicava il nemico in un soggetto esterno (gli immigrati, i “clandestini”, “i meridionali”, e via depistando) e intanto serviva su un piatto d’argento la res publica a una banda di imprenditori senza scrupoli.
Stiamo parlando della più grande tragedia vissuta da questo Paese in tempi di pace. Eppure questa giunta di malmessi si comporta in un modo che può essere riassunto come nel video in fondo all’articolo.
Spazzarli via è un compito politico prioritario. Per tutelare finalmente sul serio la salute di 10 milioni di abitanti e cambiare l'”abito mentale” cucitole addosso nel corso degli ultimi 30 anni.
Il “come” è decisamente un problema secondario…