Cadono le foglie di fico e si vede tutto. C’è proprio poco, diciamolo subito!
Sotto
le giaculatorie sulla “libertà di stampa”, in un Paese in cui ben pochi
giornali – in genere molto minori – sono in mano a “editori puri”
(imprenditori che fanno dell’editoria il proprio business principale, in
termini di fatturato e ricavi), si cela una realtà servile piuttosto
squallida.
La situazione è peggiorata – anche se non sembrava possibile – con il doppio salto mortale della proprietà di Repubblica-L’Espresso e La Stampa.
Con Debenedetti – da una vita proprietario del giornale fondato da
Eugenio Scalfari – che prima compra il quotidiano torinese da sempre
proprietà della famiglia Agnelli, poi (sotto la pressione dei figli)
rivende tutto… agli Agnelli.
I quali, con la classe che li contraddistingue da sempre, cambiano il direttore di Repubblica, Carlo Verdelli, proprio nel giorno della mobilitazione nazionale in suo favore, minacciato più volte da fascisti rimasti
fin qui sconosciuti (bisogna ammettere che la vista della polizia
italiana è su questo fronte particolarmente deficitaria…).
Se
uno fosse un po’ dietrologo potrebbe sospettare che la sostituzione sia
arrivata a coronamento di un’operazione piuttosto spericolata.
Ma lasciamo perdere le malignità, anche se fondate su “coincidenze oggettive”…
John
Elkann, principale erede dell’impero dell’Avvocato, mette al suo posto
Maurizio Molinari, che fino a quel giorno aveva diretto il quotidiano
torinese. Mentre a La Stampa approda Massimo Giannini, onnipresente prezzemolino televisivo del neoliberismo redazionale, cresciuto e allevato proprio a Repubblica. Deve essere una garanzia di fedeltà, crediamo…
Personaggio
parecchio controverso anche Molinari, con una vita trascorsa a fare
l’inviato in Israele e negli Stati Uniti, senza che nessuno abbia mai
potuto registrare un qualche timido accenno di critica verso le
politiche di quei due Paesi. E dire che non sarebbero mai mancati
fondati motivi…
Anche
qui le voci di redazione, da una vita, lo avvicinano ripetutamente al
Mossad o alla Cia, con più insistenza sulla prima “ditta”. Ma sono
certamente malignità, sapete come sono fatti i giornalisti…
Comunque sia, in un solo mese Molinari ha ridisegnato Repubblica
– un giornale di destra liberista, iper-establishment fighettoso, per
motivi incomprensibili catalogato tra la “stampa di sinistra” (forse in
omaggio a quando L’Espresso bastonava il potere democrisiano, invece di fargli da palo come negli ultimi 40 anni…) – in un fogliaccio para-trumpiano,
anti-cinese e anti-russo (lo era anche prima, ma con toni un po’ meno
da Pentagono…) e naturalmente confindustriale in stile Assolombarda.
Il tutto in nome della “difesa della democrazia” e della “libertà di stampa”.
Poi
accade che ci sia quella scabrosa notizia della Fiat-Fca che, non
riuscendo a convincere Banca Intesa – sua storica fiancheggiatrice
torinese – a prestarle 6,3 miliardi di euro, si fa venire la brilante
idea di chiedere allo Stato italiano di farle da “garante”.
Non
serve essere degli economisti sofisticati per capire che significa. Se
la Fiat-Fca non dovesse essere in grado di restituire quei soldi a Banca
Intesa – cosa quasi certa, visto il precipizio in cui è sprofondato il
mercato automobilistico con la pandemia – a Banca Intesa glieli daremo
noi. I contribuenti che pagano le tasse (Fiat non lo fa più, ha messo la
sede fiscale in Olanda…).
Una sfrontatezza un po’ eccessiva anche per i navigati giornalisti di Repubblica,
che si riuniscono in assemblea e approvano un comunicato critico su
come il loro giornale sta affrontando il tema (un classico caso di
“conflitto di interessi” giornalistico, tra verità e business
padronale).
Il
Comitato di Redazione (la struttura sindacale) ne chiede la
pubblicazione, come previsto dal contratto di lavoro (quello dei
giornalisti è un po’ più garantista di quello metalmeccanico o dei
braccianti…).
E Molinari mostra la vera faccia della “democrazia” in Uso a Tel Aviv o Washington. E si rifiuta di pubblicarlo.
Punto.
Non si critica il padrone, ma dove vi credete di essere…
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