venerdì 28 aprile 2017

La squallida festività del centro commerciale

Aperto anche a Pasqua è la scritta che molti hanno potuto leggere all’ingresso di molti negozi in tutta Italia, e che vedranno sempre più spesso negli anni a venire. Ma i lavoratori dell’outlet di Serravalle Scrivia non erano d’accordo. Così due cortei hanno bloccato le entrate, per impedire l’accesso a imperterriti clienti decisi a trascorrere un giorno di festa, uno degli ultimi ancora liberi dallo sfruttamento, nel tempio del consumo. Ma a quanto pare ad alcuni irriducibili consumatori non sono bastati neanche i picchetti e gli insulti dei manifestanti per convincersi a desistere.
Molti lavoratori non hanno partecipato alla protesta, e perché costretti dai capi, e perché rassegnati a una vita sacrificata sull’altare del Dio Capitale. E la rassegnazione emerge dalle parole del sindaco del paese, che su di essa ha trovato motivo di lucro, economico ed elettorale: “Siamo in un’economia di mercato” dice “Io comunque non avrei potuto fare nessuna ordinanza per chiudere, anche perché siamo zona turistica”. Il centro commerciale porta soldi e turisti, e l’economia urbana non può che giovarne. “Siamo in un’economia di mercato”, è il capitalismo, bellezza!
L’Italia è l’unico Paese europeo che non prevede alcuna restrizioni di orari (e di aperture) per festivi e superfestivi. La novità è stata introdotta dal governo Monti che nel 2012 con il provvedimento Cresci Italia ha voluto liberalizzare del tutto gli orari degli esercizi pubblici.
L’Italia è l’unico Paese europeo che non prevede alcuna restrizioni di orari (e di aperture) per festivi e superfestivi. La novità è stata introdotta dal governo Monti che nel 2012 con il provvedimento Cresci Italia ha voluto liberalizzare del tutto gli orari degli esercizi pubblici.
Le liberalizzazioni degli orari hanno progressivamente ridotto il tempo libero (dove “libero” deve intendersi non soltanto come non occupato dal lavoro individuale ma nemmeno dal consumo). Prima si è cominciato ad aprire i supermercati saltuariamente di domenica, poi si è approdati all’apertura domenicale fissa, infine si è passati ad aperture eccezionali a Natale, a Pasqua, a Capodanno. Persino il 25 aprile, la Festa della Liberazione e il Primo Maggio, Festa dei Lavoratori, quasi con una triste e cinica ironia. Alcune grandi catene hanno addirittura pensato di introdurre l’apertura di ventiquattro ore, sull’esempio degli Stati Uniti, dove ormai è da tempo una prassi consolidata. L’Italia in questo campo, come direbbero i cantori del “progresso” neoliberale, non è “rimasta indietro”: siamo l’unico paese in Europa a non aver nessun tipo di restrizione sugli orari degli esercizi commerciali. E laddove esistono ancora lavoratori recalcitranti ci pensano i contratti flessibili e la minaccia dei licenziamenti “facili” a far loro cambiare idea.
Il valore di scambio colonizza tempi e spazi. Lavora di più, chi può lavorare, perché chi non lavora abbassi le pretese e non sia troppo “choosy”, come diceva un ex ministro in lacrime; e tutti quanti, poi, consumano. E perché questo avvenga nuovi spazi devono essere strappati alla vita comunitaria, a ciò che ne rimane, o alle rare nicchie di ambiente non ancora urbanizzato, per essere messi a profitto dalla produzione-consumo. Supermercati, grandi catene, negozi che contengono altri negozi al loro interno come scatole cinesi, vere e proprie città consumistiche, l’ultima frontiera della grande distribuzione.
L’outlet di Serravalle Scrivia è una delle tante cittadine commerciali – la più grande d’Europa – dove la gente può passeggiare, girando per i negozi attaccati l’uno all’altro, scorrendo di vetrina in vetrina, arrivando a mani vuote e andandosene, al calar del sole, carica di buste gonfie di merce acquistata in saldo. È l’esemplificazione perfetta di come il capitalismo abbia colonizzato tutti gli spazi e tutti i tempi di esistenza, e di conseguenza l’immaginario e le (in)coscienze. Probabilmente, molti di coloro che la domenica sono immersi nella gioia effimera della liturgia consumistica, il giorno dopo dovranno tornare a lavorare in un altro centro del consumo. Turni massacranti, contratti flessibili, con la minaccia del licenziamento o del mancato rinnovo, che il capitalismo postmoderno costringe ad accettare quasi con un senso di colpa, perché il lavoro è poco, e chi ce l’ha deve essere grato e non fare tante storie. Ma quando non si lavora non si riesce a fare nient’altro che far lavorare altri, i quali producono non per quello di cui la società umana abbisogna, ma perché altri possano consumare. E tutto si svolge in questa turnazione, dove il lavorare-per-il-consumo si alterna al consumo: il valore di scambio forgia per intero le nostre vite. Si arriva al paradosso che se anche esistessero turni e orari più umani, molti non saprebbero che farsene, se non trascorrere il tempo in qualche grande catena, in un fast-food o in un parco divertimenti, con tutta la famiglia al seguito. Perché la colonizzazione dei luoghi e dei tempi non è qualcosa di meramente negativo, che sottrae ai luoghi e ai tempi liberi, ma è la loro modulazione, definizione, la loro stessa creazione e ideazione.
Piazza di Catania: lo sport lo porta McDonald's
Piazza di Catania: lo sport lo porta McDonald’s
Un esempio illuminante è la mutazione della piazza – e l’Italia urbana, si può dire, si è fondata sulla piazza. Da centro e fulcro della vita pubblica cittadina sia religiosa (la chiesa) che laica (Il Comune, la Prefettura, ecc.) a non-luogo, simulacro di se stesso per attrarre turisti. La piazza, nella postmodernità, ha perduto la sua centralità come luogo della vita comunitaria e politica della popolazione urbana (anche perché praticamente non esiste più una vita comunitaria e politica). Le piazze d’Italia, nella loro magnificenza ereditata dal passato, sono state riadattate a luogo di semplice transito pedonale, “appoggio” per i locali, i bar e i ristoranti che vi si affacciano invadendola con i loro tavolini, cartoline turistiche, parcheggi (a pagamento) dove depositare l’auto per recarsi a lavorare o a consumare. Non più centri del pubblico, del collettivo e del politico, ma propaggini del mercato, del profitto e dell’individualistico.
Non bastano, quindi, le sacrosante rivendicazione lavorative, soltanto simulate dai sindacati e di cui oggi ci sarebbe bisogno urgente; per sfuggire alla morte civile e ripensare a un’autentica ribellione alla costellazione capitalistica odierna bisogna ridefinire gli spazi e i tempi, modellati dalle esigenze del profitto e del consumo, sulla base di istanze non consumistiche e non capitalistiche, di vita associata e di politica intesa nel suo più alto significato.

giovedì 27 aprile 2017

Macron e il sogno non nascosto di intervento armato contro la Siria

Ospite de L'Emisisone politique lo scorso 6 aprile, Emmanuel Macron si è dichiarato su France 2 a favore di "un intervento militare" in Siria, sotto gli auspici delle Nazioni Unite, dopo il presunto attacco chimico che ha colpito la piccola città di Khan Cheikhoun e ucciso 86 persone.
Il candidato alla presidenza ritiene che "l'intervento internazionale sotto l'egida delle Nazioni Unite" è essenziale se sarà confermata la responsabilità del governo siriano . "Se sono confermati questi fatti, è indispensabile agire con forza", ha detto il fondatore di En Marche!.
A venti giorni da quell'intervista, il ministreo degli Affari Esteri francese, Jean-Marc Ayrault, ha presentato un rapporto che indica che il processo di produzione di sarin, che è stato utilizzato nel presunto attacco, porterebbe la firma di Damasco.
"L'uso di sarin non è in dubbio. La responsabilità del regime siriano nemmeno considerando il processo di fabbricazione del sarin utilizzato nell'attacco ", ha detto Jean-Marc Ayrault, alla fine di un Consiglio di Difesa il 26 aprile. Il capo della diplomazia francese ha presentato un rapporto sui risultati delle analisi dei servizi segreti francesi circa il presunta attacco chimico contro la città di Khan Cheikhoun in Siria, che ha ucciso 87 persone il 4 aprile.
Secondo Jean-Marc Ayrault, la relazione basata sul campionamento e l'analisi effettuata dai servizi francesi, permette di stabilire "in maniera affidabile, che il processo di produzione del sarin raccolto è tipico del metodo sviluppato nei laboratori siriani. " Il ministro ha aggiunto: "Questo metodo porta la firma del regime ed è quello che ci permette di stabilire la responsabilità di questo attacco."
Il documento analizza ciò che è accaduto il 4 aprile da campioni prelevati in loco e esami biomedici delle vittime eseguite negli ospedali, riporta Le Monde . Una nota dell'intelligence suggerisce una somiglianza del prodotto utilizzato il 4 aprile con il contenuto di una granata chimica - che non è esplosa - trovata il 29 Aprile 2013, in un attacco contro Saraqeb intervenuto.
"Tutto porta ad accusare Damasco, assemblaggio, miscelazione, vettore" , ha detto un diplomatico francese.

mercoledì 26 aprile 2017

LE FIGARO: MACRON/LE PEN E IL CLAMOROSO RITORNO DELLA LOTTA DI CLASSE…

Credevamo che il concetto di lotta di classe fosse superato. Intellettuali di sinistra come Chantal Mouffe e Jean-Claude Michea, benché nutriti al pensiero marxista, recentemente hanno dichiarato che il concetto di lotta di classe doveva essere ripensato. E nessun candidato della sinistra, con l’eccezione di Nathalie Arthaud, ne ha parlato durante la campagna elettorale.
Tuttavia, le cose non stanno così. La lotta di classe riemerge politicamente nel secondo turno di ballottaggio che opporrà il liberale Emmanuel Macron alla sovranista Marine Le Pen.
L’elettorato di Macron raccoglie la Francia che sta andando bene, la Francia ottimista, la Francia che si guadagna la vita senza problemi, la Francia, che non ha bisogno di confini e di patria, quei vecchi miti del mondo antico: la Francia “aperta”, generosa perché ne ha i mezzi. La Francia di Marine Le Pen è la Francia che soffre, che ha paura. Si preoccupa del suo futuro, di arrivare alla fine del mese, soffre nel vedere i padroni che guadagnano tanti soldi e insorge contro l’incredibile arroganza della borghesia, che dà lezioni di umanesimo e progressismo dall’alto dei suoi 5000 euro al mese.
Le Pen in Francia probabilmente perderà contro il “fronte repubblicano” che si va organizzando contro di lei. Qualunque cosa si pensi del candidato del Fronte nazionale, c’è qui una forma di ingiustizia su cui interrogarsi: la Francia dei piani alti si prepara a confiscare alle classi popolari le elezioni presidenziali, un‘elezione che potenzialmente determina il loro destino.
Bastava vedere, la notte scorsa, la differenza tra gli attivisti di Macron – consulenti alla moda, studenti delle scuole di business, sicuri della loro superiorità di classe – e i sostenitori di Le Pen, gente semplice, timida, che non padroneggia i codici sociali e mediatici. Che contrasto, anche, tra l’atmosfera da discoteca nella sede di Macron e i balli improvvisati nella sede di Le Pen.
Dietro questa lotta di classe si nasconde uno scontro tra due visioni del mondo. La visione liberale e universalistica che non crede né nello Stato né nella nazione; e la visione oggi definita populista o sovranista, che vuole ritornare allo Stato, ai confini nazionali e al senso di comunità contro le devastazioni della globalizzazione. E‘ la grande battaglia che in definitiva non è mai cessata, dal 1789.

venerdì 21 aprile 2017

Titanic Italia

Dopo anni di retorica sulla necessità di difendere ed esportare, sino a riabilitare la guerra di aggressione, i diritti umani in tutto il mondo, finiamo con il dover constatare di esserne rimasti carenti. Non solo per la palese violazione dei diritti umani a causa della loro imposizione con la violenza della guerra, spesso condotta con i metodi terroristici dei bombardamenti sulla popolazione civile; non solo per le devastanti conseguenze delle guerre, che hanno favorito l’affermazione di forze che li violano in modo ancora più aperto, ma per aver trascurato l’esigenza prioritaria di farli rispettare al nostro interno.
A denunciarlo non è qualche incorreggibile disfattista comunista, ma la recentissima relazione della Commissione dei diritti umani dell’Onu emessa sull’Italia, a verifica del rispetto del “Patto dei diritti civili e politici” ratificato dal nostro paese. Non si tratta, purtroppo, di una pur grave trascuratezza, considerato che il rapporto è giunto con ben sei anni di ritardo a causa della reticenza del nostro Stato a consegnare all’organismo internazionale le informazioni indispensabile per redigerlo.
Negli “appena” 44 punti su cui si basa la denuncia della Commissione si spazia dalla carente libertà di stampa, messa ancora più a rischio dalla mancata depenalizzazione del reato di diffamazione e blasfemia, alla negazione del “libero e tempestivo accesso ai servizi di aborto legale sul territorio”, all’assenza di un reato di tortura, favorendo così le violenze delle forze dell’ordine. A questo proposito la Commissione denuncia “la prevalenza di impunità” per gli agenti "coinvolti in uso eccessivo della forza", anche per il rifiuto di introdurre identificativi sulle divise e “un codice di condotta specifico per i funzionari delle forze dell’ordine”.
La violazione di alcune delle più elementari libertà formali penalizzano proprio i soggetti più deboli e bisognosi, dalle discriminazioni delle persone LGBT, alle tragiche condizioni nelle carceri sovraffollate, sempre più riempite da poveri, soprattutto immigrati, cui è spesso negata la possibilità di guadagnarsi onestamente da vivere. Questi ultimi sono spesso i più colpiti dal mancato rispetto dei diritti umani, non solo per “la sovra rappresentazione degli stranieri in carcere”, ma per la “discriminazione degli stranieri nei procedimenti penali”, per la non persecuzione dell’incitamento all’odio e alle discriminazioni razziali, per le espulsioni collettive e i respingimenti privi di garanzie, persino per i minori non accompagnati, per gli abusi nei centri identificativi e le discriminazioni "in tutti i campi, compresa la sfera privata", per non parlare della segregazione e gli sgomberi forzati dei Rom (in particolare nella Roma governata dal M5S).
A ciò si aggiunge la denuncia da parte della Commissione dello “svolgimento di uno studio sulla discriminazione degli stranieri nei procedimenti penali” che, purtroppo, nel frattempo sta divenendo legge, ancora una volta con la forma antidemocratica del decreto legge su cui il governo imporrà nuovamente la fiducia. Si tratta del famigerato decreto Minniti-Orlando, anche se il nome di quest’ultimo è generalmente omesso, non solo perché il decreto proposto dal Ministro della giustizia è a forte rischio di incostituzionalità, ma perché si sta facendo del guardasigilli l’ennesima foglia di fico per coprire a sinistra il Pd, dopo l’ennesima fuoriuscita della “sinistra” interna.
La misura è stata duramente contestata dalle associazioni che si occupano di immigrazione, ma anche dall’Associazione nazionale magistrati e dal Consiglio superiore della magistratura che, in un parere inviato nei giorni scorsi al Guardasigilli, ha denunciato il rischio di una "diffusa compressione delle garanzie del richiedente". Tale arbitraria limitazione potrebbe aprire la strada a un possibile ricorso alla Corte costituzionale. Del resto persino due senatori del Pd hanno denunciato che il decreto Minniti-Orlando “configura per gli stranieri una giustizia minore e un ‘diritto diseguale’, se non una sorta di ‘diritto etnico’ connotati – spiegano – da significative deroghe alle garanzie processuali comuni”. Fortunatamente in Italia c’è una salda opposizione di massa a cinque stelle, subito pronta a incalzare il governo accusandolo di aver imposto delle norme che non risolveranno la questione dell’immigrazione, in quanto di difficile applicazione. Per tali campioni della democrazia il problema non è una legge per la quale è più tutelato chi subisce una contravvenzione, in quanto potrà ricorrere a tre gradi di giudizio, rispetto a chi è costretto ad abbandonare il proprio paese per non morire – sovente a causa delle guerre da noi portate avanti per il rispetto dei diritti umani – che avrà diritto a solo due gradi e non potrà nemmeno far valere direttamente le proprie ragioni in tribunale. Il problema per i pentastellati è piuttosto che tale legge non permetterà di sveltire le procedure di esame delle richieste di asilo, visto che i paesi di provenienza non accetteranno i rimpatri.
A ciò si aggiunge la criminalizzazione della stessa solidarietà nei confronti dei più deboli da parte di chi si sforza di sopperire alle lacune delle istituzioni. Così, ad esempio, le organizzazioni non governative, che si sforzano di mettere in salvo dai naufragi i disperati che cercano di attraversare il mediterraneo, sono posti sotto indagine con l’accusa di favorire l’immigrazione clandestina. Allo stesso modo i volontari che soccorrono coloro che sono costretti a bivaccare nei pressi di Ventimiglia, per la carenza di strutture di accoglienza, nella speranza i attraversare il confine, hanno cominciato a essere denunciati sulla base di una ordinanza del sindaco che vieta la distribuzione di alimenti. Anche in questo caso si distinguono i Cinque stelle con l’ordinanza della Raggi volta a criminalizzare i disperati costretti a cercare da vivere riciclando ciò che altri gettano nell’immondizia.
Tale accanimento verso i più poveri, coloro che sono costretti ad abbandonare tutto, ad affrontare viaggi pericolosissimi pur di poter trovare qualcuno che sfrutti la propria forza-lavoro, oltre a essere disumano, è, anche in ciò in linea con l’attuale modo di produzione, profondamente irrazionale. Si pensi, ad esempio, a come soltanto tali individui costretti a emigrare possano evitare il tracollo di paesi come l’Italia, in cui la guerra sociale ai subalterni e il pensiero unico ultra individualista hanno prodotto uno squilibrio sempre più insostenibile fra le persone ancora in grado di lavorare e chi non lo è più a causa dell’età.
Al contrario, la nostra società, improntata al dogma del profitto individuale, invece di favorire lo sfruttamento legalizzato della forza-lavoro immigrata, da cui prelevare i contribuiti pensionistici per gli autoctoni, mira ancora a ridurre il livello delle pensioni, destinate sempre più ad andare al di sotto del livello di sussistenza e ad aumentate l’età lavorativa, già fra le più alte, a discapito della sempre più esplosiva disoccupazione giovanile.
Tornando al decreto Orlando-Minniti, va ricordato che esso offre la possibilità ai Comuni di utilizzare i richiedenti asilo in lavori socialmente utili, senza compensi, favorendo ulteriormente la prassi del lavoro gratuito, sempre più cavallo di battaglia dell’ideologia dominante. Così, non solo nei grandi mezzi di comunicazione, ma persino sull’unico quotidiano “comunista”, si dà rilievo a tesi inquietanti come quella del sociologo De Masi, che ha trovato un’eccezionale soluzione al problema della disoccupazione, per altro strutturale nella società capitalista, nel lavoro gratuito. L’esimio professore, così, svela involontariamente la grande mistificazione dell’ideologia dominante, persino a “sinistra”, per cui il problema sarebbe la mancanza di lavoro e non piuttosto la difficoltà a trovare un livello di sfruttamento “dignitoso”, ovvero un salario in grado di garantire la riproduzione della forza-lavoro. Al contrario l’informazione mainstream e anche quella sedicente di sinistra ritiene molto significativa la proposta del sociologo di organizzare i disoccupati per convincerli a offrire lavoro gratuito agli imprenditori, quale arma di ricatto nei confronti degli occupati.
Ecco così che al solito, confondendo la radicalità con la radicalizzazione dell’esistente, si propone la distopia di portare alle estreme conseguenze il meccanismo di base del capitalismo, che crea un sempre crescente esercito di riserva per ricattare gli occupati, costringendoli a lavorare di più con uno stipendio ridotto all’osso. Se i disoccupati, infatti, non si limitassero a vendere la propria forza lavoro al di sotto del proprio valore, necessario alla propria stessa riproduzione, con orari di lavoro sempre più lunghi e ritmi più intensi, ma iniziasse a lavorare gratuitamente, non sarebbero più disoccupati. Elementare Watson!
Anzi, tale proposta realizzerebbe anche l’obiettivo del programma minimo dei marxisti, la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro, non con la demodè lotta di classe dal basso, ma con la sempre più mainstream guerra fra poveri. In effetti, a ulteriore dimostrazione di come il marxismo sia considerato un ferro vecchio, si sostiene che la classe rivoluzionaria sarebbe formata appunto dai disoccupati che, una volta organizzatisi al fine di lavorare gratuitamente, sfruttando – ça va sans dire – il potenziale rivoluzionario del web, costringerebbero quei terribili egoisti dei lavoratori salariati, che pretenderebbero di tenere per sé tutto il lavoro, a dividerlo.
In tale scenario mitologico scompare completamente la realtà, ovvero il predominio del modo di produzione capitalista, che, per arginare la sua crisi strutturale, adottando il modello toyotista porta lo stipendio al di sotto della soglia di sussistenza, costringendo così i lavoratori salariati a entrare in concorrenza fra loro per poter accedere a quelle ore di straordinario, sempre più sottopagate, senza le quali diviene impossibile arrivare alla fine del mese.
Come appare evidente, soltanto recuperando strumenti ideologici in grado di comprendere la realtà, demistificando il pensiero unico, i subalterni potranno porre fine alla lotta fratricida cui costantemente li spinge l’ideologia dominante. Solo riscoprendo il portato critico del socialismo scientifico potranno recuperare quella coscienza di classe indispensabile alla loro riorganizzazione, in funzione di un’alternativa realmente progressista di sistema.

giovedì 20 aprile 2017

La legittimità delle lotte sociali ai tempi di Minniti

L'indifferenza, la subalternità e la stupidità bonhoefferiana si nutrono, più che del clamore mediatico, del silenzio: quando lo si riscontra, assordante, in alcuni movimenti sociali troppo spesso improvvisati, nostalgici o forcaioli, privi di una solida base politico-morale, di obiettivi univoci - sganciati, in soldoni, dal mero tornaconto dei capi e capetti di turno -, si ripresenta prepotentemente la necessità di una cultura diffusa o, per dirla più prosaicamente, di un'unità di intenti.
Per costruirla, oltre che impegno, costanza e coraggio contro gli impedimenti e le difficoltà, servirebbe tornare al pensiero dei partigianied alle loro lotte di testimonianza e Resistenzache, attraverso la storia e i libri da riscoprire come grandi classici, giungono a noi sottoforma di guida da traslare nei nostri tempi, faro in grado di dissipare le nebbie storico-culturali e politiche coeve.
Tra essi, è quantomeno doveroso menzionare uno dei più grandi reporter del mondo, Ryszard Kapuscinski. La sua intuizione sul ruolo del silenzio nella storia è folgorante e sempre attualissima: “La gente che scrive libri di storia dedica troppa attenzione agli eventi cosiddetti significativi, studia troppo poco i periodi di silenzio. Difetta dell’infallibile intuizione di cui è provvista ogni madre che avverte un improvviso silenzio nella camera del bambino. Una madre sa che quel silenzio indica qualcosa di brutto, che nasconde sempre qualcosa e si precipita ad intervenire perché sente un pericolo nell’aria. Lo stesso vale per il silenzio nella storia e nella politica.
Il silenzio è un segnale di disgrazia, spesso di un crimine. È uno strumento politico esattamente come lo scatto di un’arma o il discorso fatto a un comizio. Tiranni e occupanti hanno bisogno del silenzio per nascondere il loro operato. […] Oggi si parla molto di lotta contro il rumore, mentre sarebbe più importante la lotta contro il silenzio. Scopo della lotta contro il rumore è la pace dei nervi, quello della lotta contro il silenzio la salvaguardia della vita umana. […]
Sarebbe interessante indagare fino a che punto i sistemi mondiali di informazione di massa lavorino al servizio dell’informazione e fino a che punto al servizio del silenzio e della quiete. È più quel che si dice o quel che si tace? Possiamo tranquillamente contare coloro che lavorano nel campo della comunicazione. E se provassimo a contare coloro che lavorano a mantenere il silenzio? Quale gruppo risulterebbe più numeroso?”. [1]
Nel ciclo di convegni dal titolo “Repressione e resistenze”, giunto nella giornata del 29 marzo alla sua tappa presso l'auditorium della biblioteca “Sebastiano Satta” di Nuoro, il silenzio diviene incipit e spunto di riflessione dal quale partire per poi sviluppare una riflessione di ampio respiro, un'analisi critica dei nostri tempi in previsione di quelli futuri: tutto ciò a partire dalla realtà carceraria del 41bis, ossia da un presente drammatico, un'attualità pressante che continua a bussare alle porte della nostra indifferenza, la quale tende semplicemente ad ignorarla o a liquidarla con argomentazioni giustizialiste.
Il monologo di Carlo Valle, evocativamente intitolato “La mia ora di libertà” è contemporaneamente claustrofobico nella sua drammaticità ed enfatizzato al massimo.
Con gli interventi della scrittrice e ideatrice del Centro di documentazione lotta rosso 17 Paola Staccioli e di Italo Di Sabato, responsabile nazionale di Osservatorio sulla Repressione, si giunge alla comprensione di una delle componenti non secondarie della repressione stessa: qualora la posta in gioco sia la credibilità istituzionale di qualcuno o qualcosa succede spesso, in contrapposizione al silenzio che cala strategicamente su alcuni aspetti di un fatto, di imbattersi in strategie studiate da esperti nella comunicazione che mirino alla riabilitazione del soggetto e al ripristino di una versione più conveniente, ovviamente a scapito della veridicità. Perciò, per destabilizzare l'avversario e porsi al centro dell'attenzione spacciandosi per disinteressati paladini di una causa - o populisti da strapazzo -, si fa ricorso alla provocazione pubblica mediante attacco frontale del nemico di turno, facendo sovente ricorso a rivelazioni fintamente sbalorditive, dal tono scandalistico, assemblate ad arte o mendaci, manipolate tanto da snaturarle, in modo tale da spostare l'attenzione sull'altro.
La realtà è, invece, sempre sfaccettata e complessa, piena di sfumature, così come la situazione politica odierna, sempre più liquida ma, per quanto riguarda il mondo della sinistra extraparlamentare, mai così determinata nel cercare di mettere a punto obiettivi comuni contro il domino imperialista basato sull'oppressione, lo stesso che si nutre di queste strategie di repressione, tanto bieche quanto striscianti, in grado di condizionare il nostro modo di pensare e agire anche grazie alla loro pervasività.
Infatti, quanti mass media si prestano, come sottolineato da Kapuscinski, al ruolo di megafono dei potenti di turno, di scribacchini dei loro comunicati ufficiali, abdicando ai loro compiti di analisi, inchiesta e comprensione della realtà?
Quest'ultima, soprattutto in condizioni economiche difficili, di profonda crisi sistemica, tende ad acuire il malcontento e ad inasprire i toni ed i metodi di lotta politica e sociale: in risposta ad esse, anziché affrontare in maniera sostanziale i problemi che affliggono la maggior parte della popolazione, si adotta una logica emergenziale che legittimi la repressione in tutte le sue forme. Le seppur legittime rivendicazioni sociali vengono così ridotte a meri problemi di ordine pubblico: i soggetti non coinvolti da queste ultime sono invece inconsapevoli vittime di una società che, anche attraverso un incontrollato quanto alienante progresso tecnologico privo di guide al suo utilizzo, appiattisce la curiosità e lo sviluppo delle naturali tendenze umane - su tutte, quella alla socializzazione - su una sola dimensione, quella dominante, ormai divenuta autoritaria.
Il coordinamento delle forze politiche intenzionate ad analizzare la situazione repressiva nazionale, europea ed, in particolare, gli abusi perpetrati dalle forze dell'ordine, trova la sua occasione di denuncia, il suo ruolo giuridico- legale attraverso l'Osservatorio sulla Repressione, nato ormai dieci anni fa.
Come sottolineato da Italo Di Sabato, responsabile nazionale di questo importantissimo progetto, l'obiettivo odierno, alla luce dell'inasprimento dei metodi repressivi messi in atto dallo Stato (basti consultare i dati diffusi dal Viminale in relazione alle lotte sociali quali quella NoTav, NoTrip, NoMuos, NoTap ed altre meno note all'opinione pubblica, sia a livello nazionale sia a livello europeo, che hanno determinato oltre 200.000 processi), punta alla separazione di due concetti, troppo spesso confusi tra loro: la legalità e la legittimità.
Come ribadito da Di Sabato, “le lotte sociali per il diritto alla casa, alla salute, all'istruzione, alla salubrità dell'ambiente, contro le violenze squadriste che fomentano disuguaglianze e discriminazioni, anche se considerate illegali dallo Stato in virtù di leggi troppo spesso inique, debbono essere considerate legittime e, dunque, necessitano della difesa di comitati, associazioni, collettivi e reti di solidarietà locali”.
Vengono menzionati i casi di repressione e resistenza nelle lotte di personaggi tra i quali Nicoletta Dosio e Davide Rosci, balzati, loro malgrado, all'onore delle cronache, così come quelli ai danni di numerosi antimilitaristi sardi [2].
Sia per Paola Staccioli che per Italo di Sabato, questi casi debbono costituire delle spinte verso una “resistenza oltre misura”, mutuando la definizione data dagli anarchici torinesi, affinché ogni realtà locale - tra le quali, come già sottolineato, quella antimilitarista sarda presente all'evento con numerosi sui giovani rappresentanti - lotti per le proprie rivendicazioni senza cadere nella trappola del legalitarismo che, nel migliore dei casi, ridurrebbe loro, per dirla come Étienne de La Boétie, al ruolo di servi volontari del potere, fautori del suo assistenzialismo, che si accontentano delle briciole cadute dal tavolo del padrone, le quali “nutrono una sterminata schiera di subalterni, avvelenando l'intero corpo sociale”.
Allo scopo di evitare questa deriva, si sottolinea il ruolo di una possibile contromisura, un'altra possibile “arma” politica in risposta al silenzio: la solidarietà.
Quest'ultima, infatti, può concedere spazi di agibilità politica a coloro i quali resistono alla repressione del dissenso o, come i migranti in cerca di rifugio, alle persecuzioni all'interno di una Europa che, mutuando le parole della Staccioli e di Di Sabato, “si presenta sempre più come una fortezza”. “Non capisco per quale ragione - continua Di Sabato - si sia verificata una letterale levata di scudi contro l'arresto del dissidente Nalvalny e la situazione politica russa e da che pulpito venga quest'indignazione dato che quasi nessuno si è scandalizzato poi tanto per gli arresti preventivi avvenuti a Roma durante la manifestazione di Eurostop, anzi, ancora una volta si è incensato l'operato del ministro dell'Interno Minniti”.
Bisognerebbe invece prestare particolare attenzione a tutte quelle situazioni che, tanto in Italia quanto negli altri Paesi europei ed extraeuropei, hanno di fatto comportato un soffocamento dei diritti costituzionali di espressione e manifestazione: “tra i provvedimenti da non prendere sottogamba”, sottolinea ancora Italo Di Sabato, si deve annoverare “il decreto Minniti”.
Questo finirà infatti per rappresentare un grimaldello in grado di scardinare il diritto di resistenza” perché, “soprattutto attraverso l'introduzione di figure denominate 'sindaci sceriffi', legittimati ad emettere Daspo anche solo per violazioni del decoro urbano come l'affissione non autorizzata di volantini, tende ad individuare classi pericolose, ovvero soggetti ai margini della società, altri classi di soggetti che lottano, ovvero potenziali pericoli pubblici da reprimere preventivamente, ottenendo così, in una logica di emergenza infinita, la decostituzionalizzazione del diritto penale del nemico di turno, dall'ultras violento al semplice e pacifico manifestante” e la realizzazione di quello che sempre Di Sabato definisce “lo Stato penale massimo”.
Lo stesso Stato che, soprattutto a partire dal G8 2001 di Genova, permette l'applicazione delle misure cautelari (tra le quali l'obbligo di firma e i fogli di via), un tempo pensate per essere alternative alla detenzione, come provvedimenti propedeutici alla carcerazione; misure adottate dalle Procure che, con pugno di ferro, perseguono reati previsti dal fascista codice Rocco ed applicano sempre più spesso il nebuloso capo d'imputazione di devastazione e saccheggio, arrivando a comminare pene severissime che si traducono in anni di reclusione.
Lo “Stato penale massimo” del quale parla Italo Di Sabato, si nutre di istituzioni sempre più sorde alle istanze della popolazione, di tecnocrati europei e di piccoli burocrati all'italiana i quali, col loro comportamento, spingono i soggetti culturalmente più fragili e influenzabili a cadere nella trappola del populismo di bassa lega che imperversa, con i suoi spicci modi da sciacallo, nei tempi di crisi. Ecco perché si dovrebbe prestare attenzione anche alla terminologia che si adopera quando si parla di argomenti scottanti come questi.
“L'utilizzo indiscriminato di termini come 'società civile' per legittimare le argomentazioni del demagogo di turno, la confusione terminologica fra la legalità e la legittimità e le facili generalizzazioni” tra le quali la diffusissima “attivista sociale, uguale terrorista” sarebbero le stesse che, sempre a detta di Di Sabato, “hanno originato slogan quali quello di Libera, il loro 'Siamo tutti sbirri': così facendo, anziché mettere seriamente in luce il terreno fertile per le mafie, ovvero il connubio tra certi strati produttivi, le istituzioni deviate, i traffici ed i profitti illeciti, si ripropone un'ulteriore quanto inutile militarizzazione del territorio portata avanti da forze dell'ordine ammantate da un alone di impunità. In questo modo, i casi Cucchi, Aldrovandi, Uva e gli altri potranno essere all'ordine del giorno perché, essendo tutti sbirri, vivremmo nella convinzione di avere a che fare con pubblici ufficiali che agiscono sempre correttamente, nel nostro nome, anche se palesemente collusi o, peggio, violenti”.
Secondo Italo Di Sabato, facendo ricorso a frasi virali come queste anziché rispondere alle provocazioni in maniera compiuta, “si delegittimano ulteriormente le lotte, riducendole a manifestazioni ad orologeria o ad una specie di scampagnata a base di fischetti e palloncini, svuotandole del loro significato e delle loro rivendicazioni”.
Le campagne dell'Osservatorio, esattamente come lo scopo dell'evento descritto, non intendono universalizzare una specifica forma di lotta (come rimarca Di Sabato “ciò che funziona per i NoTav in Val di Susa non può andar bene per tutte le altre”), bensì ha lo scopo di tornare nei territori, nei quartieri, “sporcandosi le mani, rompendo definitivamente con il riformismo politico che ha fallito in quanto impermeabile alle rivendicazioni sociali e con la legalità in senso stretto per tornare alla dignità della legittimità”.
Citando gli esempi pratici fatti da Italo Di Sabato, “aiutare un migrante clandestino o creare mercati popolari per fermare la speculazione dei prezzi sono atti illegali ma giusti”. Dunque, come ampiamente sottolineato, rivendicando la giustizia e la legittimità delle lotte, si rafforzano le resistenze e si costruiscono percorsi e processi socio-culturali che rompono le catene della repressione, troppo spesso invisibili e circondate da una spessa cortina di strumentale silenzio, con lo scopo di arrivare ovunque, dalle periferie degradate alle aule giudiziare che, sovente, vedono alla sbarra chi non intende arrendersi ma solidarizza, lotta e resiste.

mercoledì 19 aprile 2017

Anatocismo, quel vizietto delle banche così duro ad essere cancellato.

Anatocismo bancario applicato nonostante il divieto di legge. Questa l’ipotesi alla base del procedimento aperto dall’Antitrust nei confronti di tre banche. L’Autorità ha infatti avviato tre istruttorie per presunte pratiche commerciali scorrette nei confronti di Banca Nazionale del Lavoro S.p.A., Intesa Sanpaolo S.p.A. e UniCredit S.p.A. I procedimenti sono volti ad accertare se le tre banche abbiano violato il Codice del Consumo in relazione alla pratica dell’anatocismo bancario.
Spiega l’Antitrust in una nota: “Fino all’entrata in vigore dell’art. 17-bis del d.l. n. 18/2016, che ha ribadito il divieto di anatocismo salvo autorizzazione preventiva del cliente, tali banche avrebbero continuato ad applicare l’anatocismo bancario, nonostante l’espresso divieto contenuto nella legge di stabilità 2014. Dopo la riforma operata nel corso del 2016, i tre istituti bancari avrebbero adottato modalità aggressive per indurre i propri clienti consumatori a dare l’autorizzazione all’addebito”. Ieri i funzionari dell’Autorità hanno eseguito una serie di ispezioni nelle sedi di BNL, Intesa Sanpaolo e UniCredit, con l’ausilio del Nucleo speciale Antitrust della Guardia di Finanza.

martedì 18 aprile 2017

La spesa italiana per l’Istruzione incide sul PIL per il 4,1%. Il 4,9 % è la media in Europa.

La spesa pubblica in istruzione incide sul Pil per il 4,1% a livello nazionale, valore più basso di quello medio europeo (4,9%) tanto che l’Italia occupa il quartultimo posto. La spesa pubblica per consumi finali in istruzione ha invece una incidenza del 3,6%, raggiunge il 6,0% nel Mezzogiorno – dove è più numerosa la popolazione in età scolare – e scende al 2,9% nel Centro- Nord.
Prosegue il miglioramento del livello di istruzione degli adulti.
La quota di 25-64enni che hanno conseguito al massimo la licenza media è scesa dal 51,8% del 2004 al 40,3% del 2016 ma sfiora il 50% nel Mezzogiorno (48,6%).
L’Italia risulta quartultima nella graduatoria delle persone di 25-64 anni con livello di istruzione non elevato, con una incidenza quasi doppia rispetto all’Ue28 (rispettivamente 40,1% e 23,5%, dati 2015).


Nel 2016 la quota di giovani che abbandonano precocemente gli studi è scesa al 13,8% in Italia (16,1% tra gli uomini e 11,3% tra le donne), superando l’obiettivo nazionale del 16% fissato dalla Strategia Europa 2020.
L’Italia occupa il quartultimo posto nella graduatoria europea (14,7% contro una media Ue28 dell’11,0% nel 2015), solo Romania, Malta e Spagna registrano percentuali più elevate. 5 Sono oltre 2,2 milioni (24,3% della relativa popolazione) i giovani di 15-29 anni che nel 2016 non sono inseriti in un percorso scolastico e/o formativo e non sono impegnati in un’attività lavorativa, in leggero calo per il secondo anno consecutivo.
L’incidenza è più elevata tra le donne e nel Mezzogiorno. Nel confronto europeo l’Italia si attesta al primo posto, con la quota più elevata (dati 2015). Il 26,2% dei 30-34enni ha conseguito un titolo di studio universitario nel 2016, valore in linea con quanto stabilito dalla stessa Strategia europea come obiettivo per l’Italia, ma lontano dal 40% fissato per la media europea. In Europa il nostro Paese continua a ricoprire l’ultima posizione (25,3% contro 38,7% della media Ue28, dati 2015). L’apprendimento permanente durante l’arco della vita, fattore decisivo per l’integrazione nel mercato del lavoro, interessa nel 2016 l’8,3% degli italiani tra i 25 e i 64 anni, valore in aumento ma ancora sotto la media europea (10,7% nei dati 2015).

venerdì 14 aprile 2017

Fine crisi: mai. Ecco l’inchiesta Cestes-Usb su lavoro, impresa e salari in Italia e in Europa

All’orizzonte non si vedono vie d’uscita dalla crisi che ormai da lustri attanaglia l’Italia, inserita d’autorità dall’Unione Europea nella fascia PIGS (Portogallo, Italia, Grecia, Spagna), i paesi cioè costretti a politiche di austerità, di privatizzazioni e alla liquidazione delle parti migliori del sistema produttivo, con delocalizzazioni e cessioni alle multinazionali. Il futuro promette solo peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro, ulteriore frammentazione produttiva e sociale, indurimento dei rapporti di lavoro.
Partendo da questo scenario e continuando la ricerca sulla linea decisa da USB, il centro studi Cestes ha ultimato “La Grande Fabbrica. Dalla catena di montaggio alla catena del valore. Inchiesta su lavoro, impresa e salari in Italia e in Europa”, prima analisi scientifica sulla trasformazione del sistema produttivo italiano inserito nel contesto europeo, e sulle ricadute che essa produce sui lavoratori. L’inchiesta sarà presentata il 23 Aprile alle 10 al Centro Congressi Cavour di Roma, in Via Cavour 50.
Dopo anni di teorizzazioni sulla fine del lavoro, sulla scomparsa del lavoro manuale, degli operai e della fabbrica, questa inchiesta mostra come non solo l’Italia continui ad essere il secondo paese manifatturiero d’Europa, con un numero di addetti inferiore di poco alla Germania, ma come l’area del lavoro operaio si sia espanso nell’ambito dei servizi all’impresa.
In agricoltura, nella logistica, nella grande distribuzione organizzata, si assiste all’omogeneizzazione delle caratteristiche del lavoro, sempre più precarizzato e ricattato, fino a forme servili di stampo medievale. Alle figure operaie classiche se ne aggiungono così di nuove: gli immigrati nelle campagne e nelle cooperative che lavorano per le grandi imprese di circolazione delle merci, i giovani costretti al lavoro gratuito.
L’inchiesta dimostra che l’individuazione di una categoria operaia, contenuta nei documenti congressuali USB (Tivoli, 9-11 giugno), non era un esercizio campato in aria: i settori in maggiore crescita e sviluppo rimandano alla produzione manifatturiera, al commercio, alla logistica e al bracciantato in agricoltura, ai luoghi cioè dove si produce valore e si realizzano profitti.
Il Cestes fornisce gli strumenti utili a contrastare l’opera di frantumazione alla base dell’attuale debolezza dei lavoratori, riconnettendo tutti i soggetti al centro dei processi di produzione e di sfruttamento che contribuiscono alla valorizzazione del capitale.
Di seguito un breve sommario degli argomenti analizzati nell’inchiesta

I caratteri parassitari della borghesia italiana
La borghesia nazionale dopo la vendita delle grandi imprese e dopo aver usufruito delle privatizzazioni si dedica alla speculazione finanziaria lasciando l’apparato produttivo del paese in mano alle multinazionali. Si analizza anche il processo di internazionalizzazione e di concentrazione che riguarda le medie imprese italiane, le uniche che possono strategicamente tenere testa nella competizione globale.
L’analisi statistica
L’analisi scientifica è la condizione per effettuare le scelte sindacali; si può “registrare” la situazione della “frazione” della classe impiegata nella produzione per il mercato, soggetta alla frammentazione, alla precarizzazione, alla flessibilità etc., motivandola scientificamente. Abbiamo articolato l’inchiesta inserendo i dati in relazione a cinque punti di analisi divisi in due fattori, il Capitale e il Lavoro. Nel punto 6 invece evidenziamo i dati sulla conflittualità nel nostro paese.
PARTE 1. ANALISI CON RIFERIMENTO CENTRALE AL FATTORE PRODUTTIVO CAPITALE
1. Descrizione dei processi di delocalizzazione delle industrie italiane e della relazione tra queste e l’industria europea, qualità e quantità della produzione.
2. Analisi e dati sulla dimensione delle imprese ed sulle caratteristiche industriali e di servizi. La prevalenza delle piccole e medie imprese contrassegna il sistema industriale del paese e determina la condizione della classe lavoratrice.
3. tasso di produttività In relazione alla dimensione delle imprese e alle caratteristiche produttive che è anche il tasso di sfruttamento della Forza Lavoro (FL)
PARTE 2. ANALISI CON RIFERIMENTO CENTRALE AL FATTORE PRODUTTIVO LAVORO
1. Analisi del contesto occupazionale ovvero la condizione del lavoro: occupati, disoccupati, precariato, flessibilità, etc. (In preparazione un approfondimento giuridico sugli interventi legislativi).
2. La condizione della FL ovvero la condizione salariale e la condizione di competizione anche con gli immigrati. Si rileva anche la questione degli emigrati italiani, effetto ulteriore della condizione della FL anche in relazione al livello di scolarizzazione del lavoro intellettuale.
3. Rilevazione dei dati sul conflitto in Italia in diminuzione. La crescita delle ore di sciopero nel periodo del governo Berlusconi dimostrano l’importanza della soggettività.

giovedì 13 aprile 2017

A scuola di sfruttamento

Tra le tante nefandezze contenute nei decreti licenziati dal ministero dell’istruzione in questi giorni, c’è anche l’ingresso dello sfruttamento istituzionalizzato dei futuri neoassunti, anche se sarebbe più appropriato definirli “assumibili”. Si tratta del cosiddetto percorso FIT (Formazione iniziale e tirocinio).
Sparisce, infatti, l’anno di prova e viene sostituito da varie prove concorsuali e da un tirocinio formativo di durata triennale al termine del quale una commissione, guidata da un dirigente, dovrà decidere se i tirocinanti, che nell’ultimo anno del percorso hanno insegnato, sono idonei alla professione.
Si tratta di un modello che appare come un ibrido tra Jobs act e formazione lavoro. È previsto un contratto d’ingresso a stipendio da fame (probabilmente meno della metà di quello ordinario), con una serie di obblighi “formativi” di vario genere che andranno a ingrassare le università e nessuna garanzia di assunzione a fine tirocinio: saranno la commissione e il dirigente scolastico di turno a decidere l’assunzione e il futuro lavorativo dei futuri docenti.
Una delle questioni più gravi del percorso FIT è quella relativa alla non ripetibilità del terzo anno, ovvero l’anno decisivo, che, se non superato, escluderebbe definitivamente il tirocinante dalla professione docente.
Da queste poche note è possibile comprendere facilmente il grado di sfruttamento e di ricattabilità permanente al quale saranno esposti i nuovi tirocinanti della scuola.
Non c’è bisogno di fare un eccessivo sforzo di fantasia nemmeno per capire come questi nuovi dispositivi di reclutamento consentano un’adeguata forma di selezione dei futuri insegnanti, in base a precise considerazioni di politica della produttività e di adeguamento ai valori della Buona scuola.
In tre anni di percorso di tirocinio, comprendenti un intero anno di permanenza in cattedra, sarà certamente molto semplice individuare i docenti più “collaborativi” e sarà altrettanto facile scartare quelli eccessivamente “contrastivi” o sindacalizzati.
Nel mondo della scuola lo sfruttamento potrà dunque procedere a cascata: si selezioneranno docenti esecutori, produttivi e inclini al servilismo, che finiranno col formare studenti congeneri e che veicoleranno i “valori” educativi tanto cari all’ideologia della grande impresa.
Un modello selettivo di questo tipo avrà però una conseguenza ancora più rilevante, la rimozione per selezione di ogni possibile pensiero educativo divergente o, più semplicemente, non conforme ai valori e ai principi della scuola – azienda.
Le dittature hanno sempre costruito il loro consenso a partire dalla

martedì 11 aprile 2017

Il Governo mette mano al Def e alla manovra bis

I conti pubblici del Governo ricevono un primo lascia passare da Bruxelles. Ma il governo Gentiloni è ancora alla ricerca delle risorse. Si cercano le coperture e non è detto che i tempi della manovra correttiva vengano rispettati. In ballo ci sono scelte delicate e impopolari a partire dalle pensioni, visto che si parla già di possibile flop dell’Ape: mancano ancora tre decreti attuativi. In discussione anche il decreto con nuovi aiuti per gli enti locali. Intanto, continua ad aumentare il carico di tasse sulle spalle degli italiani. Secondo Unimpresa, il carico sulle spalle degli italiani, nonostante la propaganda di palazzo Chigi sarà di tre miliardi in più.
Il pacchetto su cui Gentiloni è in affanno, anche a causa delle divisioni interne alla magioranza e al Pd, riguarda il DEF, Documento di Economia e Finanza, la manovra bis, quella da 3,4 miliardi di euro che servirà a correggere i conti pubblici e il decreto enti locali. Domani sarà la volta del DEF che dovrà ricevere l’ok da parte del Consiglio dei ministri, tra l’altro in ritardo rispetto ai tempi istituzionali (il 10 aprile). Poi sarà la volta della manovra bis anche se non si esclude un allungamento dei tempi per permetterebbe al ministero delle Finanze e a Palazzo Chigi di discutere ancora sulle misure che potrebbero entrarvi. In merito proprio a tali misure, nei due giorni a Malta il ministro Pier Carlo Padoan ha ricevuto l’ok dell’Ue alla possibilità di estendere il meccanismo dello split payment, la misura anti evasione che regola il pagamento Iva da parte delle pubbliche amministrazioni. In ballo c’è anche il capitolo delle privatizzazioni. Padoan non ha smentito i rumor sulla cessione delle quote di alcune società pubbliche come Eni, Enel e Poste Italiane alla Cassa depositi e prestiti in modo tale che possano uscire dal bilancio statale.
I segnali che arrivano dall’economia reale non sono per niente incoraggianti. La scorsa settimana l’Istat ha certificato un calo delle vendite al dettaglio: decremento dello 0,3% in valore e dello 0,7% in volume. A pesare sono soprattutto le vendite di beni alimentari che segnano una diminuzione dell’1,1% in valore e del 2% in volume. Le vendite di beni non alimentari, invece, restano sostanzialmente stabili con un aumento dello 0,1% in valore e una variazione nulla in volume. Rispetto a febbraio 2016, le vendite al dettaglio diminuiscono dell’1,0% in valore e il 2,4% in volume. Per i prodotti alimentari si rileva una diminuzione dell’1,2% in valore e del 4,8% in volume. Le vendite di prodotti non alimentari sono in flessione dello 0,9% sia in valore sia in volume.
“Il dato di oggi ci riporta, purtroppo, alla dura realtà”, commenta l’Unione Nazionale Consumatori. L’associazione fa notare come il dato di gennaio, quando si era registrato rispetto a dicembre un rialzo in valore dell’1,4%, il più ampio da cinque anni, era solo un rimbalzo tecnico.
“In particolare, è allarmante l’ennesima riduzione delle vendite alimentari: il crollo annuo in volume del 4,8% significa che gli italiani non solo hanno ridotto gli sprechi, ma stanno letteralmente mangiando di meno”, aggiunge Massimiliano Dona, presidente UNC, “Non si salva nessuno: scendono le vendite di ipermercati, supermercati e persino discount, che finora erano gli unici ad aver retto e che ora, invece, registrano un calo dell’1,2 per cento”.
La riduzione delle vendite dei beni alimentari è “Un dato che, proprio per le sue caratteristiche, dovrebbe destare estrema preoccupazione: i consumi alimentari, infatti, sono gli ultimi ad essere intaccati in una situazione di crisi”, fa notare Federconsumatori, sottolineando che tale contrazione è segno che le famiglie stanno vivendo una situazione di estremo disagio, confermata anche dai gravi tagli avvenuti sulle spese per la salute, con vere e proprie rinunce alle cure.
Complice di questo andamento è anche la grave impennata dei prezzi registrata nell’ultimo mese, che ha fatto segnare al carrello della spesa una crescita del +2,3%.
“I prezzi crescono, mentre i redditi sono fermi e la disoccupazione continua ad attestarsi su livelli allarmanti. È evidente che, per porre un argine a questa situazione, il Governo deve intervenire urgentemente”, conclude l’associazione.
Infine, il dato sulle tasse, che nel triennio 2017-2019, a fronte di incrementi di imposta di 39 miliardi e riduzioni per 36 miliardi, riporta un saldo di 3 miliardi.
La spesa pubblica che crescera' di 24 miliardi di euro nel triennio 2017-2019. Le uscite dal bilancio pubblico aumenteranno rispettivamente di 5,4 miliardi, 10,8 miliardi e 8,2 miliardi. Sul fronte delle tasse, il calo di 6,5 miliardi previsto per quest'anno e' compensata da incrementi di 4,2 miliardi e 5,4 miliardi nel 2018 e nel 2019. Il Centro studi di Unimpresa, in vista dell'approvazione del Documento di economia e finanza oltre che della manovra correttiva sui conti pubblici, ha incrociato dati della Corte dei conti e del ministero dell'Economia, ed elaborato i numeri della legge di bilancio approvata a dicembre che stabilisce aumenti di entrata per 3,1 miliardi nel triennio 2017-2019.

lunedì 10 aprile 2017

Oggi lo schiavismo si chiama precarietà

A Milano sulla metro mi ferma un giovane, impiegato in un magazzino della logistica. Io sono tra i privilegiati, mi dice, certo non come i facchini che stanno giù al carico scarico merci, però anche in ufficio il clima è pesante. E mi racconta la storia dei punti della patente.
Il capo ufficio si rivolge alla giovane impiegata, naturalmente assunta con un contratto precario, e le chiede con la massima naturalezza: senti puoi darmi gli estremi della tua patente? Alle timide perplessità della ragazza il capo risponde tranquillamente che è per una infrazione in cui è incorso guidando l'auto aziendale. È arrivata una multa pesante che comporta danno alla patente. Visto che l'auto è aziendale, nulla di male a scaricare il taglio dei punti sulla patente dell'impiegata, anche se questa non è titolata ad usarla, è spirito di collaborazione... che fa curriculum per la conferma a lavoro.
La ragazza ha subito il ricatto? Ho chiesto alla fine, ma chi mi aveva raccontato l'episodio non è stato in grado di darmi una risposta, non conosceva la conclusione.
Può sembrare una piccola cosa dover cedere la propria patente al capo, di fronte alla quantità di vergognosi ricatti che subiscono i lavoratori e ancora di più le lavoratrici, a cui si può impunemente dire: o accetti o quella è la porta, dietro la quale c'è la fila di chi aspetta il tuo posto. Tuttavia sono le piccole sopraffazioni che a volte ci danno il segno e la portata di quelle più grandi, è la violenza della precarietà che colpisce i diritti e la stessa dignità delle sue vittime e assorbe il rapporto di lavoro in un ambiente di mafia.
Immaginiamo poi quando la precarietà dura all'infinito, quando con i trucchi permessi dalla stessa legge si è precari a tempo indeterminato, cioè ogni anno si deve subire l'esame di lavoro per continuare ad essere sfruttati e vessati. E non solo nel lavoro privato, ma anche in quello pubblico.
Pochi giorni fa la USB ha indetto lo sciopero dei precari pubblici e una manifestazione a Roma sotto il ministero, manifestazione ben riuscita nonostante gli ostacoli posti dalla polizia... Qui ho saputo da un lavoratore disperato che nella pubblica amministrazione ci sono persone precarie da più di venti anni, per una retribuzione mensile oggi giunta a ben 580 euro lordi. Il tribunale di Nola, in Campania, funziona grazie a questi precari più che ventennali che mandano avanti tutte le attività di cancelleria. Come posso guardare crescere i miei figli negandogli una marea di cose, e subire anche l'umiliazione per cui ogni anno devo avere la conferma del contratto, altrimenti sono a casa? Che vita è questa? Così quel lavoratore ha concluso il suo racconto mentre la rabbia tratteneva le lacrime.
Il governo ha appena suonato la fanfara per qualche decimale di disoccupazione in meno e Gentiloni ha esaltato le riforme del mercato del lavoro che avrebbero permesso questo clamoroso risultato. Per questo, dopo aver abolito i voucher per evitare il referendum, stanno pensando di sostituirli con il contratto a chiamata, quello per cui si deve essere sempre a disposizione gratuita dell'azienda, in attesa di essere convocati per poche e sottopagate ore di lavoro.
La precarietà del lavoro marcia a tappe forzate verso lo schiavismo e le leggi che da trent'anni l'hanno autorizzata, incentivata, diffusa, hanno la stessa portata sociale e morale di quelle che nell'800 disciplinavano l'Asiento. Il mercato degli schiavi organizzato e pubblico che nelle Americhe veniva considerato un passo avanti rispetto a quello clandestino. Non si dice forse da trenta anni che le leggi sulla precarietà servono a far emergere il lavoro nero? Questo del resto sostengono tutte le istituzioni della Unione Europea, per le quali la merce lavoro non deve essere sottoposta a vincoli e controlli che ne impediscano la libera concorrenza. Se c'è disoccupazione è perché il lavoro costa troppo, bisogna che la concorrenza tra le persone ne abbassi il prezzo fino a che le imprese non trovino conveniente assumere. È la filosofia liberista della riduzione del costo del lavoro che dagli anni 80 ha ispirato tutte le leggi e tutti gli interventi sul mercato del lavoro delle istituzione europee e dei governi italiani.
Negli anni 70 il contratto di assunzione era tempo indeterminato con l'articolo 18, salvo eccezioni che erano davvero tali. Il collocamento allora era pubblico e numerico, cioè le imprese dovevano assumere seguendo le liste pubbliche di chi cercava occupazione, non servivano curricula o partite di calcetto. E la pubblica amministrazione non era sottoposta ai vincoli massacranti del fiscal compact e ai conseguenti tagli al personale stabile, sostituito dall'appalto e dal lavoro precario.
Poi, nel nome del mercato, della modernità, dell'Europa, questo sistema semplice, giusto e anche efficiente è stato metodicamente smantellato da tutti i governi senza distinzioni, con la complicità di Cgil Cisl Uil. Ora il collocamento è un affare delle agenzie interinali, una volta vietate come caporalato, i rapporti di lavoro precari sono una quarantina e lo stesso contratto a tempo indeterminato è una finta, visto che grazie al Jobs Act i nuovi assunti possono essere licenziati in qualsiasi momento. E se un sindaco regolarizza i dipendenti del suo comune rischia di finire sotto processo. Ora si può essere assunti in Romania con paghe del posto e lavorare nel trentino eludendo i contratti, grazie alla Unione Europea e alle sentenze della sua Corte di Giustizia nel nome della libertà di mercato. E le leggi securitarie, anti migranti e anti poveri, come la Bossi Fini e il decreto Minniti, sono una tecnologica riedizione delle misure contro il vagabondaggio degli albori del capitalismo, che avevano la funzione di imporre il lavoro forzato e semi gratuito in fabbrica.
È dilagato il precariato, ma contrariamente alle giustificazioni ufficiali la disoccupazione è esplosa e il lavoro nero continua a espandersi. I devastatori del diritto però non hanno fallito, perché alla fine hanno realizzato esattamente ciò che volevano, riportare le lavoratrici e i lavoratori nella condizione di soggezione degli schiavi.
Il sistema di lavoro fondato sulla precarietà è prima di tutto una organizzazione violenta e criminale dello sfruttamento e della schiavizzazione delle persone. Non è più tempo di combatterlo solo nel nome delle convenienze economiche, ma in quello della libertà e dei diritti fondamentali della persona. E l'Unione Europea, i suoi governi e le loro regole di mercato vadano all'inferno.

venerdì 7 aprile 2017

Costo del lavoro: Italia maglia nera in Europa

Triste primato per l’Italia che risulta l’unico paese dell’Ue in cui cala il costo del lavoro. A renderlo noto i dati pubblicati da Eurostat sul costo dell’ora lavorata relativi al 2016 e che rendono noto come dinanzi ad una crescita nell’Eurolandia dell’1,4% annuo, in Italia si segnala un calo dello 0,8%, cosa che non si è registrata in nessun altro paese.
In linea generale il costo del lavoro nell’Ue varia dai 4,4 ai 42 euro in tutti gli stati membri nel 2016. Il valore più basso si registra in Bulgaria (4,4 euro) e Romania (5,5euro), fino ad arrivare a quello più alto per la Danimarca (42 euro) seguita a ruota da Belgio (39,2 euro), Svezia (38 euro), Lussemburgo (36,6 euro) e Francia (35,6 euro).
E l’Italia? Nel belpaese il costo del lavoro è leggermente inferiore al livello medio europeo, ossia a 27,8 euro contro i 29,8 dell’intera area monetaria. ll costo orario torna così – come indica l’Eurostat – ai livelli del 2012 quando era a 27,70 euro. Guardando ai singoli settori, in quello industriale l’Italia si assesta a 27,8, a 23,4 nelle costruzioni e a 26,9 nei servizi.
L’Italia inoltre è anche il paese con la componente non salariale del costo del lavoro più alto dopo la Francia e il Belgio (e la Svezia al di fuori dell’area euro).
Tra le grandi economie, solo il Regno Unito ha un costo del lavoro più basso rispetto al nostro, ossia a 26,7 euro. Il costo del lavoro che prende a riferimento l’Eurostat è costituito da salari e stipendi e costi non salariali quali i contributi sociali dei datori di lavoro. Guardando ai paesi con la crescita più lenta del costo del lavoro troviamo Malta (0,0%), Olanda (+0,1%) e Belgio (+0,2%) mentre quelli con l’aumento più rapido sono i paesi baltici, Lituania, Lettonia ed Estonia.

giovedì 6 aprile 2017

Riforma del catasto, ossia svalutazione secca del patrimonio immobiliare

Il programma dell’Unione Europea per l’Italia è semplice. Soprattutto non molto diverso da quello riservato alla Grecia. Impoverire seccamente la maggior parte della popolazione, deprezzare gli asset del paese (dalle imprese pubbliche da privatizzare fino alle proprietà delle famiglie), in modo da aprire autostrade preferenziali per un capitale multinazionale sempre più a corto di buone occasioni di profitto o, meglio ancora, di plusvalenza.
La chiave di volta per realizzare questo obiettivo davvero impopolare è la “riduzione del debito pubblico” in combinato disposto con l’obbligo di raggiungere il pareggio di bilancio (ormai inserito come articolo della Costituzione).
Ogni governo “europeista” si muove dentro queste forche caudine, vincolato alla ricerca delle risorse necessarie a ridurre il debito e dunque a non seguire alcuna strada che possa portare alla crescita economica (investimenti pubblici non solo infrastrutturali, nella storia delle economie mondiali).
L’obiettivo di trovare nuove risorse si scontra frontalmente con una tassazione già al imite – se non oltre – del blocco delle attività economiche capitalistiche. Tassazione diretta (sul reddito delle famiglie e delle imprese) e tassazione indiretta (Iva, accise su carburanti e altri generi, ecc) sono difficilmente aumentabili senza provocare scontri sociali difficili da gestire, costosi da affrontare, comunque politicamente destabilizzanti.
L’unica via – privatizzazioni a parte, anche queste oramai sull’orlo dell’esaurimento – è quella delle “riforme”, parola diventata ormai sinonimo di fregatura assicurata. E quanto più è tecnicamente complicata una “riforma”, tanto più diventa facile farla passare senza grossi scontri sociali, confidando sul fatto che gli effetti saranno percepiti a distanza di tempo; ossia quando l’attenzione generale sarà attratta da altri problemi.
Cosa sta preparando, ora, il governo Gentiloni, per reperire risorse aggiuntive? Tra le tante spunta oramai con decisione la “riforma del catasto”. Opera immensa, che sarebbe peraltro effettivamente necessaria per rimuovere alcune “felici” (per pochissimi) incongruenze tra valore catastale e calore di mercato. L’esempio classico sono vecchie case ristruttrate nei centri storici oppure i ruderi di campagna trasformati in megaville con piscina e maneggio, mantenendo la vecchia qualifica catastale di “rustico agricolo”. Con relativa tassazione ai minimi termini anche in caso che siano usate come seconda casa.
Naturalmente, tutto dipende dai criteri con cui affrontare il problema. L’ipotesi su cui Pier Carlo Padoan, ministro dell’economia, ha messo al lavoro una squadra di tecnici è quella classica, avanzata e poi ritirata da anni (per puro calcolo elettorale): passare dal calcolo basato sul numero dei vani a quello sui metri quadri e i valori di mercato. Non serve un esperto di proiezioni statistiche per capire che in questo passaggio si nasconde un innalzamento verticale dei valori catastali che andrà a colpire tutte le abitazioni (60 milioni), tranne pochi casi particolarissimi.
Il ministro Padoan, con notevole improntitudine, spiega che il “saldo finale” sarebbe praticamente uguale a quello attuale. Ma se fosse vero questa operazione sarebbe completamente inutile, anzi costosa (il passaggio richiede comunque personale adeguato per realizzarlo in tempi rapidi). Dunque è la solita menzogna di un governo-fotocopia, che mantiene l’essenza dello stile renziano sotto vesti meno sbrasone e insopportabili.
Sbaglierebbe chi pensa che questo aumento verticale della tassazione sulla casa sia un “problema dei ricchi”, perché i proprietari immobiliari in Italia sono 20 milioni (capifamiglia, si dice). Bisogna ricordare infatti che soltanto qui una classe politica ignobile e asservita ai palazzinari – vero perno della pseudo-borghesia nazionale – ha rinunciato all’edilizia popolare (al momento appena il 2% del totale, mentre in Germania e Francia sfiora il 40) costringendo soprattutto i lavoratori dipendenti ad indebitarsi per comprare l’abitazione in cui vivere, con mutui pluridecennali a tassi esorbitanti (in modo da beneficiare anche le banche, ci mancherebbe!).
Il risultato è che oltre il 70% delle famiglie vive in una casa di proprietà (spesso ipotecata, certo). Quindi la “riforma del catasto” è problema che riguarda la stragrande maggioranza della popolazione, non soltanto i ceti più abbienti (e numericamente sempre meno estesi).
E sarebbe sbagliato persino pensare che un’operazione del genere si limiterebbe a “spremere” un po’ di tasse in più, senza altre conseguenze. Già ora, infatti, le spese relative all’abitazione sono un lusso per un numero crescente di persone (per esempio: nella sola Firenze è stata di recente registrata un’evasione sulle spese condominiali pari al 28%), così come va crescendo la morosità sui mutui e quindi l'espropriazione dei titolari a favore delle banche.
Un’ulteriore, violenta, impennata della tassazione – il valore catastale dell’immobile pesa su Imu, Tasi e Isee – non potrebbe che stimolare una massiccia ondata di vendite sul mercato, magari solo per un banale calcolo economico (vendere per comprare una casa più piccola). E quindi un deprezzamento altrettanto violento del patrimonio immobiliare, già crollato di oltre il 20% rispetto all’inizio della crisi economica e finanziaria attuale. Le stime della Banca d’Italia in proposito sono chiarissime: il valore totale del patrimonio immobiliare in mano alle famiglie è passato dai 5.300 miliardi del 2011 agli attuali 4.300.
Uno scenario appetitoso per chi vuol far soldi facili…

mercoledì 5 aprile 2017

Disoccupazione e inflazione, un mix che potrebbe finire di stroncare le ultime velleità sulla cosiddetta ripresa

Nonostante il lieve rallentamento dell’inflazione che, secondo gli ultimi dati Istat, si attesta intorno a un +1,4%, i prezzi sono ancora troppo alti per le famiglie che affrontano costi pari a 414 euro all’anno – il carrello della spesa raggiunge il +2,3% – e la disoccupazione non accenna a diminuire.
Di fronte a questi numeri, Federconsumatori torna a bacchettare il Governo perché “un aumento dei prezzi senza un intervento delle istituzioni per favorire l’occupazione, sostenere la domanda interna e redistribuire i prezzi, non fa altro che peggiorare la situazione in cui versa la maggioranza dei cittadini italiani”. Per Federconsumatori e Adusbef il Governo deve intervenire con urgenza per allontanare lo spettro della stagnazione, per frenare la diminuzione della produzione industriale e favorire investimenti per creare nuovi posti di lavoro. Un ipotetico aumento dell’IVA è assolutamente da evitare perché avrebbe ricadute stimate in 843 euro in più all’anno di costi da sostenere per ogni famiglia.
Anche il Codacons si unisce alle critiche di Federconsumatori, affermando che quel + 1,4% di inflazione si traduce in una maggiore spesa per le famiglie stimata in 420 euro l’anno, dei quali ben 148 euro se ne vanno per prodotti di prima necessità come quelli alimentari. “Il vero problema, tuttavia, è che i prezzi non crescono perché sono aumentati i consumi delle famiglie, ma solo per gli strascichi dei rincari record di inizio anno, che hanno coinvolto sia il comparto ortofrutticolo che quello energetico – dichiara il Codacons– Una inflazione quindi ‘falsata’ e niente affatto sana, che non rispecchia l’andamento reale dell’economia italiana”.
Per quanto riguarda il lievissimo calo della disoccupazione, l’Unione nazionale consumatori parla di “dati certamente positivi, ma posti non stabili”, Secondo il presidente Massimiliano Dona, l’andamento non è indicativo di una permanente inversione di tendenza. Basti pensare al fatto che rispetto a gennaio calano dello 0,1% i lavoratori permanenti, -17 mila. Insomma, “i posti salgono, ma si tratta esclusivamente di lavoratori a termine, dato che anche gli indipendenti restano stabili”, evidenzia Dona, “Anche su base annua, a fronte di un boom dei lavoratori a termine, +7,7%, quelli permanenti crescono ancora dello zero virgola, +0,7%. È evidente che questi posti temporanei potranno diventare stabili solo a fronte di un aumento sostenuto della domanda“.
Per il Codacons, il confronto con il passato continua ad essere impietoso: “Numeri da “prefisso telefonico”, è la descrizione che l’associazione fa del calo della disoccupazione. In altre parole, c’è poco da stare tranquilli, “specie se si considera l’emorragia di occupati registrata in Italia negli ultimi 10 anni”. Il tasso di disoccupazione, evidenzia il Codacons, è passato infatti dal 6,1% del 2007 all’11,5% di febbraio 2017, con il numero di cittadini senza occupazione che è variato da 1.506.000 disoccupati del 2007 ai 2.984.000 di febbraio, ossia 1.478.000 disoccupati in più in 10 anni.
“Questi numeri dimostrano come negli ultimi dieci anni l’emergenza lavoro non sia stata affrontata nel modo corretto dai governi che si sono succeduti, e tutte le politiche per l’occupazione sono miseramente fallite, al punto che l’Italia registra livelli di disoccupazione tra i più alti d’Europa”.
Secondo Rosario Trefiletti ed Elio Lannutti, presidenti di Federconsumatori e Adusbef, “Sicuramente il tasso di disoccupazione si attesta su un livello ancora troppo elevato. È necessario e indispensabile cambiare passo, per segnare una vera svolta nel drammatico quadro occupazionale nel nostro Paese”. Non bisogna sottovalutare, spiegano le due associazioni, che la disoccupazione giovanile si attesta ancora su livelli elevatissimi al 35,2%. Al Sud addirittura, in alcune aree, supera la soglia allarmante del 60%.

martedì 4 aprile 2017

Mantenere la calma e farla crescere dentro. Con il respiro, e liberandoci dal tempo che corre

COME CONCILIARE LAVORO E TEMPO LIBERO -
Viva la calma. Viva il tempo lungo, nell’era della fretta perenne e autodistruttiva. Tempo lungo e respiro lungo: tutto ciò che porta alla calma, appunto, e quindi al godersi i piaceri della vita, a non sprecare il proprio tempo e la propria salute con stress inutili e controproducenti, a prendere le decisioni giuste nei tempi giusti.
COME RITROVARE LA CALMA -
Una maxi-ricerca americana, che ha coinvolto ben tre università (Stanford, San Francisco e Chicago), ci dice in modo chiaro e forte ciò che avremmo già dovuto capire e metabolizzare nei nostri stili di vita: la calma è un bene prezioso, da coltivare e da non sprecare. E per coltivarlo possono essere utili, secondo gli scienziati americani, anche le tecniche di rilassamento, il ritmo del respiro che regola molte funzioni superiori del cervello, in quella “centralina” di neuroni che ci induce alla calma riuscendo perfino a regolarla. Da qui, come scrivono i ricercatori americani sulla rivista Science, l’invito a utilizzare al meglio esercizi di meditazione (che comprendono anche il respiro lungo e profondo) e lo yoga. Ma da qui, aggiungo, anche la necessità di interrogarci su come uscire dalla trappola del tempo che ci insegue e ci schiavizza, dalle lancette che non riusciamo a bloccare neanche per un attimo (di calma, non apparente ma sostanziale e interiore). La necessità, per dirla in una parola, di de-programmarci.
COME VIVERE IN MANIERA TRANQUILLA -
Uscire dalla schiavitù delle lancette e tornare padroni del proprio tempo. Quel tempo che abbiamo sempre la sensazione di sprecare e di non sfruttare al meglio, al punto che siamo diventati schiavi delle lancette dell’orologio, di un’agenda continua di impegni, in qualche caso assolutamente superflui, dalla quale non riusciamo a uscire, come in un labirinto.
COME MANTENERE LA CALMA -
La nuova parola d’ordine è diventata “de-programmarsi”. Due saggi in America stanno facendo molto discutere su questo argomento, e meritano di essere approfonditi. Il primo, intitolato Overwhelmed (Schiacciati), è scritto da Brigid Schulte, una giornalista del Washington Post che racconta le sue fatiche per conciliare famiglia e lavoro. E poi punta il dito sugli errori che facciamo inseguiti dal tempo che incalza, lo sentiamo come un obbligo sociale, e non riusciamo più a trovare lo spazio necessario per lo svago, i pensieri in libertà, la leggerezza. Per noi stessi.
COME RIAPPROPRIARSI DEL PROPRIO TEMPO LIBERO -
Il secondo libro, invece, è del saggista Roman Krznaric: con il titolo How should we live? (Come dovremmo vivere?) ci consegna una serie di possibili soluzioni, molto semplici e pratiche, per riuscire a “de-programmare” la nostra vita. Per esempio, la riscoperta di alcuni gesti, come una passeggiata a piedi laddove siamo abituati a utilizzare sempre l’auto, un minimo di dieta digitale, la cura particolare di un pasto, la conversazione con i vicini di casa, i piccoli lavori domestici (come rimettere a posto una libreria). Infine, avverte Krznaric, guai a non coltivare passioni, interessi, curiosità: tutte preziose risorse contro la valanga del tempo che ci aggredisce.
PER APPROFONDIRE: L’importanza del silenzio, i rumori inutili rovinano l’udito e soprattutto la testa
COME NON FARSI SOPRAFFARE DAGLI IMPEGNI -
Sono trascorsi poco più di cent’anni da quando gli esseri umani hanno iniziato a regolare la loro vita sulla base delle lancette dell’orologio, era il 1° luglio del 1913 quando il primo segnale orario fu lanciato dalla Tour Eiffel. E dopo un secolo è venuto il momento di non essere più sopraffatti dall’orologio.

lunedì 3 aprile 2017

Via i voucher, ma solo per finta…

Eliminati i voucher, si allarga il lavoro a chiamata (job on call). Possiamo dire anche questa volta “fatta la legge, trovato l’inganno”. E’ una specialità non solo italiana, ma qui si raggiungono vertici di cinismo che altrove si sognano.
E’ noto che il governo Gentiloni ha cancellato i “buoni lavoro” introdotti da Renzi col Jobs Act. Sulla questione la Cgil aveva raccolto le firme per un referendum e pur di avitare un’altra sentenza popolare contro l’ultra-flessibilità del dlavoro, l’esecutivo-fotocopia-ma-tranquillizzante ha pensato bene di fare la solita manfrina: un decreto con più o meno le stesse regole, ma chiamate in un altro modo.
Lavoro a chiamata, dunque, con “la grande novità” che la base minima sarà una giornata di lavoro, anziché una sola ora. In più, i contributi previdenziali saranno quasi quelli normali, anziché infinitesimali come con i voucher.
I pensatori del ministero dello sfruttamento del lavoro stanno cogitando intensamente per partorire due normative leggermente diverse: una per le imprese medio-grandi, al di sopra dei 10 dipendenti, e una per le piccole, fino alle “imprese senza dipendenti” (artigiani, ecc).
Già qui emerge il trucco ignobile. Si era detto che bisognava trovare soluzioni per il “lavoro occasionale e stagionale”, quello che non consente di aprire posizioni contrattualizzate di lungo periodo. Insomma, quei “lavoretti” estivi o invernali che si fanno negli stabilimenti balneari, gli impianti sciistici, la raccolta agricola, badanti, colf, ecc. Se così fosse, però, si sarebbero definiti con cura i settori produttivi in cui il job on call era possibile, anziché le dimensioni aziendali. Non si capisce infatti di quali straordinarie esigenze sia investita una impresa medio-grande per essere costretta ad assumere una persona per una sola giornata di lavoro. Per certe situazioni una tantum, infatti, si ricorre normalmente agli straordinari. Evidente, insomma, che si sia voluta un’autostrada aperta per tutte quelle imprese che vogliono utlizzare la più flessibile delle forme contrattuali pur di non assumere stabilmente – nemmeno a tempo determinato! – uno o più dipendenti. E infatti il job on call è normalmente utilizzato anche da grandissime aziende, addirittura multinazionali, specie nella grande distribuzione (che, naturalmente, non soffre di alcuna stagionalità).
Le uniche limitazioni previste da questo nuovo job on call sono particolrmente indicative del tipo di comportamenti padronali che hanno inflazionato l’utilizzo dei vouvher: massimo 400 giornate lavorative per la stessa persona in tre anni e un solo dipendente alla volta per le imprese sotto i 10 dipendenti (che potranno utilizzare un apposito portale Inps per “semplificare” le procedure). E’ intuitivo infatti che se un’azienda ricorre sempre alle stesse persone nell’arco di più anni si stabilisce un rapporto di lavoro di fatto esclusivo e continuativo, che impedisce al lavoratore di prendere impegni similari con altre aziende (non può dare la “disponibilità” a più di un’azienda, per non doversi trovare a dire di no e quindi perdere il contatto o la cosiddetta “fiducia di Poletti”).
E’ altrettanto evidente che se un’impresa con pochi dipendenti ne usa molti contemporaneamente – come avvenuto con i voucher – sta semplicemente aggirando le normative sulle assunzioni. Paradossalmente ma non troppo, questa limitazione “indivuduale” ostacola quelle imprese che hanno effettivamente bisogno di lavoro “stagionale” (vedi l’elenco accennato sopra), perché in genere si tratta di attività che richiedono un congruo numero di dipendenti per un tempo breve (esempio classico: la raccolta della frutta).
L’altro indicatore certo del carattere truffaldino nel decreto in preparazione è la cancellazione dei limiti di età che erano previsti per i voucher (potevano essere usati solo per i minori di 25 anni e gli over 45). Il job on call sarà per tutti, limitless. Che non si dica mai che questo governo non aiuta le aziende fin nei dettagli corporali…
In Germania, 15 anni fa, ai tempi della Hartz IV, avevano fatto la stessa cosa, ma chiamandola mini job…