martedì 31 maggio 2016

Il fantasma di Chernobyl

A fine Aprile del 1986 scattarono gli allarmi di sicurezza in vari paesi europei a causa dei livelli crescenti di radioattività rilevata nei territori. Qualche giorno prima, il 26 aprile, nell’allora Unione Sovietica, si era verificato un disastro nucleare nella centrale di Cernobyl. La gravità del fatto aprì nuovamente il dibattito sull’energia nucleare nel mondo intero, affrontando le posizioni dei governi così come le posizioni contrastanti all’interno della comunità scientifica internazionale riguardo il futuro dell’energia nucleare.
Purtroppo, il caso Cernobyl non è l’unico precedente di questo tipo che mette in pericolo il futuro dell’umanità Gli incidenti avvenuti negli impianti nucleari di Tres Millas negli Stati Uniti e a Fukushima, Giappone ci ricordano che la cosiddetta “Tecnologia di Punta”, per quanto riguarda la progettazione, istallazione, funzionamento e mantenimento delle centrali nucleari, e poi anche lo smaltimento dei rifiuti nucleari, è molto lontana dal garantire la sicurezza per l’uomo e l’ambiente.
Ciò che più preoccupa è l'impotenza umana nel controllare definitivamente il fantasma della radiazione nucleare. A 30 anni dalla catastrofe di Cernobyl, e a solo 5 dalla tragedia di Fukushima, entrambi classificati con un livello di allerta 7 (il punto più alto della Scala Internazionale di Incidenti Nucleari), siamo ben lontani dal poter dire che il pericolo in queste centrali è finito. I reattori di Cernobyl e di Fukushima sono ancora instabili. Primo perché, sotto il sarcofago di contenimento, la radiazione continua ancora oggi a causa della reazione nucleare ancora in atto. Secondo per la fragilità della sua struttura e l'attività sismica piuttosto rilevante in quelle latitudini. A questo si aggiunge il colossale inquinamento rilevato nel mare che lo circonda e che compromette la sicurezza stessa della popolazione che abita sulle coste e grava ulteriormente sul già elevato costo ambientale che nessuna economia è in grado di saldare.
Come viene generata l’energia nucleare?
L’energia nucleare si ottiene, a partire da due procedimenti opposti: La fissione nucleare, che avviene quando il nucleo di un atomo si divide per reazione al bombardamento di neutroni, sprigionando una grande quantità di energia; la fusione nucleare invece è il processo per cui due nuclei atomici piccoli si uniscono per formare un atomo più grande. Nella fissione i reattori nucleari generano energia bombardando con neutroni l’atomo di Uranio 235, provocando una reazione a catena. Quando un neutrone di energia cinetica termica, impatta su un nucleo di Uranio 235, si forma l’Uranio 236, che è un altro isotopo dell’elemento Uranio. Il nucleo di Uranio 236 originato da questo meccanismo è molto instabile e quindi si divide quasi istantaneamente in due frammenti di massa approssimativamente uguale alla metà di quella originale, liberando a sua volta da uno a tre neutroni con energie cinetiche, vicine ai 2 Mega e V (1 Mega e V equivale ad un milione di eV), che emette principalmente radiazione alfa (nuclei di Helio-4), radiazione beta (elettroni e postroni) e radiazione gamma (radiazione elettromagnetica di origine nucleare), avente diverse energie cinetiche, cosi come neutrini, liberando in media un’energia vicina ai 200 Mega eV per ogni nucleo fissionato o diviso. Il processo avviene per una reazione a catena, poiché i neutroni liberati in questo modo producono, a loro volta, altre reazioni di fissione nucleare con la conseguente emissione di più neutroni, e così successivamente (1).
2Esistono diversi elementi atomici i cui nuclei possono essere utilizzati nei processi di fissione nucleare: Uranio 235, Uranio 236, Uranio 238, Plutonio 239, Plutonio 241 e Torio 232. Per avere un’idea approssimativa della capacità energetica che viene liberata dal processo di fissione nucleare, possiamo comparare l’energia che libera approssimativamente 1cm³ di combustibile nucleare, equivalente all’energia ottenuta da 480 m³ di gas naturale o 565 litri di petrolio, oppure 810 kg. di carbone.
La fusione nucleare è, in principio, il processo inverso della fissione nucleare, in quest’ultimo due nuclei atomici piccoli si fondono in uno più pesante, liberando anche in questo caso un’enorme quantità di energia. Nell’universo ci sono molti esempi di reazione di fusione nucleare. Il più noto a noi è la reazione termonucleare che si produce nel sole, dove due nuclei atomici di idrogeno si fondono per produrre elio, liberando un’enorme quantità di energia e permettendogli di rimanere accesso per molte migliaia di milioni di anni. Tuttavia, la temperatura interna del sole è superiore a 11 milioni di gradi centigradi e la pressione al suo interno è enorme, dovuto alla propria naturale gravità. È chiaro che non possono essere riprodotte sulla Terra quelle condizioni solari di temperatura e pressione e, quindi, le sfide dello sviluppo tecnologico per lo sfruttamento dell’energia mediante processi di fusione nucleare non sono ancora conclusi. Sono state portate avanti comunque delle proposte scientifiche e tecnologiche come il Tokamak, per raggiungere le condizioni di temperatura e pressione necessarie per ottenere un bilancio positivo di energia a partire della fusione di isotopi dell’idrogeno, noto come confinamento magnetico, poiché la pressione necessaria si ottiene mediante intensi campi magnetici. Ci sono altre nuove proposte sperimentali come il progetto ITER, attualmente in costruzione a Cadarache-Francia, e che entrerà in funzione nel 2018 (2).
Come funziona un reattore nucleoelettrico?
Dagli inizi del secondo decennio di questo secolo, l’energia elettrica prodotta dai reattori nucleari equivale approssimativamente ad un 16% di tutta l’elettricità prodotto a livello mondiale. La Francia è il paese che produce la maggior percentuale del proprio fabbisogno di energia elettrica, a partire dall’energia nucleare e Cina è il paese con il maggior numero di reattori nucleari in fase di costruzione.
Il principio di funzionamento dei reattori nucleari operativi si basa sulla fissione nucleare controllata: un neutrone colpisce un atomo pesante e lo scinde in due nuovi atomi liberando energia; circa 200 Mega eV per ogni fissione oltre alla liberazione di 2 - 3 neutroni che, a loro volta, generano una reazione a catena.
La maggior parte dei reattori nucleari oggi in funzione è classificata come reattori termici; questo perché l’energia dei neutroni che danno origine alla fissione è un’energia bassa che conosciamo come termica. I neutroni hanno in origine un’elevata energia, per cui è necessario usare un materiale detto moderatore capace di rallentarla. I neutroni sono privi di carica elettrica, quindi i principali reattori nucleari usano l’acqua a questo proposito; acqua leggera o naturale, come ad esempio i reattori di acqua in ebollizione BWR (dall’inglese Boiling Water Reactor) e i reattori di acqua pressurizzata PWR (dall’inglese Pressurized Water Reactor). Esiste anche un altro tipo di reattore che usa acqua pesante, in questo troviamo il deuterio invece dell’idrogeno nella molecola dell’acqua. Un reattore nucleare produce e controlla il rilascio di energia dalla fissione di atomi pesanti; gli elementi utilizzati nei reattori nucleari sono l’uranio ed il plutonio. Ogni atomo è formato, in modo naturale, da diversi isotopi e, nel caso dell’uranio, l’isotopo 235 rappresenta soltanto lo 0,711 % dell’atomo naturale. Per questo motivo il combustibile nucleare è costituito da pastiglie di ossido di uranio arricchito, un materiale dove la proporzione dell’isotopo 235 di uranio (U235) può raggiungere fino il 5 per cento (3).
In un reattore nucleare si produce energia elettrica allo stesso modo che in un impianto termoelettrico; la differenza è la fonte di calore. L’energia rilasciata dalla fissione continua degli atomi di combustibile, sottoforma di calore, è impiegata per produrre vapore. Nel caso di un reattore BWR, l’acqua circola lungo gli assemblaggi combustibili accumulando calore e le condizioni della pressione fa si che arrivi a ebollizione, generando vapore, il quale muove una turbina che produce elettricità.
Nel caso di un reattore PWR, il liquido che è in contatto con il combustibile nucleare non bolle, perché il calore sviluppato dalla reazione di fissione all'interno del reattore viene trasferito tramite un fluido refrigerante a un flusso di acqua che genera vapore. Il vapore alimenta una turbina che tramite un generatore produce la corrente che alimenterà la rete elettrica.
I componenti tipici comuni alla maggior parte dei reattori sono:
a) Elementi combustibili: Normalmente costituiti da pastiglie di diossido di uranio (UO2), disposte in appositi tubi metallici che costituiscono le barre di combustibile del reattore nucleare, i quali si presentano a sezione quadrata o esagonale.
b) Moderatore: Serve a rallentare l’energia cinetica dei neutroni rilasciati dalla fissione in modo che essi possano continuare la reazione a catena. É normalmente acqua ordinaria o leggera (in questo caso esso funziona anche da refrigerante), ma può essere anche acqua pesante (ricca in deuterio) o grafite;
c) Barre di controllo: Materiale che assorbe neutroni che hanno la capacità di controllare la velocità delle reazioni di fissione. Normalmente si utilizzano composti di cadmio, afnio o boro. In aggiunta esiste un sistema secondario che in caso necessario si inietta nel sistema di raffreddamento del reattore per arrestare la reazione a catena
d) Refrigerante: Liquido o gas che circola nel nocciolo del reattore per raffreddarlo dal calore creato dalla fissione. Nei reattori di acqua leggera il refrigerante agisce anche come moderatore.
e) Recipiente in pressione o tubi in pressione: Nei reattori di acqua leggera è un recipiente in acciaio che contiene il nucleo del reattore ed il moderatore. Nei reattori di acqua pesante è costituito da una serie di tubi di acciaio, che contengono i combustibili e dove circola il refrigerante.
f) Generatore a vapore: Parte del sistema di raffreddamento, ove il calore dal reattore viene utilizzato per produrre vapore per le turbine.
g) Contenitore esterno: Struttura che contiene all’interno il nocciolo del reattore, progettato per proteggerlo da qualsiasi incidente, e allo stesso tempo proteggere la popolazione dalla radiazione generata nel reattore. Consiste in una struttura di cemento armato e acciaio, generalmente, di 1 metro di spessore.
Il combustibile nucleare, come il suo nome indica, si consuma, e quindi, periodicamente, viene rimpiazzata una percentuale delle barre contenute nel reattore, generando così i rifiuti nucleari. Questi rifiuti contengono materiali radioattivi derivanti dal processo di fissione, e possono essere classificati in tre gruppi principali:
1) Combustibile originale non esausto: contiene praticamente l’intera quantità di U-238 (94 percento della massa iniziale del combustibile), e la frazione di U-235 non consumata (circa 0.8 percento).
2) Transuranici: principalmente plutonio ed actinidi minori come neptunio, americio e curio, che rappresentano approssimativamente l’1% dei rifiuti.
3) Prodotti propri della fissione: che rappresentano approssimativamente il 3% dei rifiuti.
Alcuni di questi materiali rimangono radioattivi per brevi periodi (qualche secondo), mentre altri hanno una vita medio lunga (diversi milioni di anni). Inizialmente, la maggiore quantità di radiazione è emessa dai prodotti di fissione di vita mezzo breve, come lo iodio (I-131), cerio, (Ce-141), e rutenio (Ru-106), con hanno una vita media da 1 a 15 anni. Nei successivi 200 anni la maggior parte della radiazione proviene dai prodotti di fissione di vita media tra 30 e 100 anni, come ad esempio lo stronzio (Sr-90), e il cesio (Cs-137). Oltrepassata la barriera dei 200 anni, la più alta radio tossicità dei rifiuti proviene dagli elementi transuranici (plutonio, netunio, americio e curio), che decadono prima dei 200 mila anni. Trascorso questo tempo i residui restanti hanno una scarsa attività radioattiva poiché la loro vita media è eccessivamente lunga, come è il caso degli isotopi radioattivi naturali.
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La gestione finale delle scorie radioattive può seguire due strategie generali: Disfarsi dell’intera barra così com’è, oppure riprocessarla. La prima strategia consiste in collocare le barre in contenitori sigillati con vetro ed incapsulati in barili di metallo e, finalmente, custoditi in installazioni speciali sotto terra dove non c’è il rischio che possano essere riportati all’esterno in centinaia di migliaia di anni. La seconda strategia ha come oggettivo recuperare gli actinidi, avvalendosi di metodi di estrazione liquido-liquido. Un'altra strategia adoperata è la riduzione della produzione di residui altamente radioattivi di medio termine, modificando la composizione delle barre di combustibile, ad esempio introducendo torio. Questo fa sì che il residuo sia meno radioattivo [4].
Esistono tecnologie per un'alternativa energetica?
La continua crescita e sviluppo delle società richiede una maggiore domanda di energia che ci spinge a cercare nuove fonti rinnovabili, basate su una tecnologia pulita che garantisce il rispetto per l’ambiente. Esistono fonti che possono essere generate in modo naturale, a differenza delle fonti non rinnovabili, che si trovano in modo limitato nel pianeta, come il carbone, petrolio, gas naturale (combustibili fossili), che contaminano il nostro pianeta, in particolare l’energia nucleare. Gli eventi catastrofici provocati dall’uso di questa energia hanno messo a nudo l’insicurezza tecnologica sul suo utilizzo, e hanno rilasciato alti livelli di radioattività nell’ambiente.
Ecco alcuni esempi di energie alternative:
I) Energia Solare: Questa è, probabilmente, la fonte energetica rinnovabile che più abbonda nel nostro pianeta. La tecnologia utilizzata, ad esempio nell’Impianto di Gemasolar, che si trova a Las Fuentes de Andalucía, Spagna, consiste in una torre centrale, ricoperta da appositi pannelli ricettori contenenti sali fusi, che si riscaldano fino alla temperatura di 500 gradi Celsius. È il primo impianto del genere ad aver applicato con grande successo questa tecnologia. Gemasolar è in grado di generare 19,9 Megawatt di elettricità, distribuita in un campo solare di 185 ettari e contenenti 2650 eliostati. Il maggior vantaggio di questo sistema e che l’immagazzinamento del calore permette un’autonomia fino a 15 ore, per produrre energia anche di notte. Un risparmio di 30.000 tonnellate l’anno di emissioni di anidride carbonica. Una produzione di energia elettrica assicurata durante 6.500 ore l’anno, tre volte in più di altre energie rinnovabili.
(II) Un altro esempio di impianto solare lo troviamo a Erlasse, Germania, con una capacità di produzione di 12 MW. Esistono tuttavia molti paesi in Africa, America, Asia e Oceania con un’elevata esposizione solare, e migliori condizioni di radiazione solare dei paesi dell’Europa, come attestano una buona parte di accademici, ricercatori e specialisti in fonti rinnovabili: una grande opportunità di sfruttamento dell’energia solare.
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III) Energia Idraulica: La centrale idraulica di Itaipú, sul fiume Paranà, sorge tra il Brasile e Paraguay. È stata inaugurata nel 1982, è la più grande per generazione di energia al mondo. Molti altri paesi del nostro pianeta presentano anche eccellenti condizioni idrologiche per sfruttare questa forma di produzione rinnovabile di energia.
IV) Energia Eolica: Nel 2009 la Cina duplicò la sua capacità di produzione di energia rinnovabile sfruttando l’energia eolica, raggiungendo i 25.1 GW, superando la Spagna, 19.5 GW ed è dietro solo agli Stati Uniti, con 35.16 GW e alla Germania, con 25.78 GW.
V) Energia Mareomotrice: La Rance River è stata la prima centrale mareomotrice del mondo. Fu costruita dal 1960 al 1967. In questa regione del nord della Francia si coniugano elementi unici che rendono possibili lo sfruttamento della forza dell’acqua per la produzione di energia elettrica.
VI) Energia da Biomassa: La centrale elettrica di biomassa più grande al mondo è diventata operativa nell’estremo est della Germania, sul confine tedesco polacco, nella località di Penkun. È costituita di giganteschi digestori, impianti di cemento armato con una capacità di 2500 m3, all’interno dei quali fermentano residui agricoli di ogni tipo (6).
VII) Energia da Idrogeno: L’idrogeno viene applicato nell’industria spaziale. L’idrogeno liquido in reazione con l’ossigeno è utilizzato per la propulsione dei razzi. La stessa tecnica può essere utilizzata per la propulsione di automobili, per gli impianti industriali, sostituendo le fonti di energia tradizionali come batterie o motori dei veicoli.
VIII) Energia Geotermica: In Italia, Nuova Zelanda e Canada l’energia geotermica è molto utilizzata. In Giappone, il sistema geotermico ha una capacità di potenza di 1000 MW e nelle Filippine, di 2.000 MW. In Messico, l’energia geotermica rappresenta approssimativamente il 4 % della produzione totale di energia elettrica, risultando il quarto produttore mondiale di elettricità per quanto riguarda fonti geotermiche, dietro gli Stati Uniti, Filippine e Indonesia.
Atomi per la pace?
L’uso dell’energia nucleare non si limita alla produzione di energia elettrica, per mezzo dei reattori delle centrali nucleari. Questa forma di energia è utilizzata anche per progettare e costruire sofisticate armi nucleari.
La Seconda Guerra Mondiale vide un impiego senza precedenti non solo di soldati e armamenti, ma anche della scienza. I scienziati lasciarono il loro lavoro nelle università per occuparsi di sfide e iniziative militari. Ogni risorsa fu convogliata alla creazione di grandi laboratori specializzati nella ricerca e lo sviluppo di tecnologie. Il progetto Manhattan ad esempio unì migliaia di scienziati sotto una logistica militare per disegnare e costruire la prima bomba atomica. La costruzione della bomba atomica rappresenta l’icona dell’uso bellico della scienza. In soli sei anni, teorie e conoscenza sul nucleo dell’atomo, si trasformarono in un’orribile realtà che mise fine alla Seconda Guerra Mondiale. Il principio scientifico delle bombe atomiche del progetto Manhattan, Little Boy (Bambino Piccolo) e Fat Man (Uomo grosso) fu la fissione nucleare (7).
La storia ci dimostra, purtroppo, episodi vergognosi associati anche al fantasma dell’uso dell’energia nucleare che minaccia l’ esistenza come razza umana: l’uso della scienza senza coscienza frutto della prepotenza di uomini di potere e dei loro governi. Durante la Seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti fecero esplodere due bombe atomiche sulle popolazioni di Hiroshima e Nagasaki, in Giappone, nel 1945, con le sue orribili conseguenze. A partire da allora, l’energia nucleare diventò sinonimo di morte e distruzione. Da quel momento, la fiducia posta sull’uso dell’energia nucleare, sulla sicurezza, sviluppo e progresso tecnologico dei nuovi reattori nucleari. Consci della possibilità di utilizzo sia ai fini pacifici che bellici, è nostro dovere interrogarci sull’uso di questa forma di energia, da un punto di vista etico, spinti da un naturale desiderio di sopravvivenza della nostra specie e quindi, dell’evoluzione della nostra coscienza.
Prima e dopo l’incidente nucleare di Chernobyl molti paesi hanno effettuato, e continuano a farlo, esplosione di potenti bombe atomiche in aria, mare e terra, per sperimentarne l’efficacia e dare un segnale di monito ad altre potenze sul proprio possesso di armi di distruzione di massa. Tali esplosioni provocano un gravissimo inquinamento nell’ambiente a causa dell’energia rilasciata che altera l’equilibrio dei processi naturali.
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Le nazioni che hanno detto sì alle armi nucleari e che hanno aderito al Club Atomico, oltre alla Russia e gli Stati Uniti, sono: Inghilterra, Cina, Francia, India, Pakistan e Corea del Nord, e Israele, anche se non lo afferma ma nemmeno lo nega, quando viene interrogato al riguardo. In questo stesso 2016, l’Arabia Saudita ha rilasciato una breve dichiarazione ufficiale sul possesso della bomba atomica, che avrebbe acquistato dal Pakistan senza il consenso dei paesi alleati. D’accordo al The Bulletin of the Atomic Scientist, un’organizzazione fondata da diversi scienziati del progetto Manhattan nel 1945, nel 2012 esistevano circa 23 mila armi nucleari dispiegate in 11 istallazioni situate in 14 paesi. La maggior parte apparteniene alla Russia e agli Stati Uniti, che insieme possiedono il 96% dell’inventario globale.
Un fantasma si aggira in Europa (e nel mondo)
Dopo l’inaugurazione in questo mese di maggio del 2016 dell’installazione terrestre del sistema missilistico “Aegis Ashore” degli Stati Uniti nella base aerea di Deveselu, Romania, da parte del segretario generale dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico Nord (Nato), Stoltenberg, possiamo affermare che un nuovo fantasma si aggira in Europa, il fantasma del confronto nucleare. La NATO ha anche annunciato durante questo evento l’inizio dei lavori per realizzare in Polonia un altro impianto “Aegis Ashore”, che sarà pronta ed operativa alla fine del 2018, analoga alla centrale già in funzione in Romania, dotate di missili intercettori SM-3 e di lancio verticale MK 41 della Lockheed Martin.
La Russia considera il sistema antimissili che gli Stati Uniti ha installato vicino alla Russia per proteggere i paesi membri della NATO una minaccia alla propria sicurezza e avverte che viola il trattato sull’equilibrio delle forze nucleari. La polemica istallazione e attivazione dello scudo antimissili, che in realtà è uno scudo offensivo, costituisce un fattore che accresce la tensione tra la Russia e Occidente.
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Nell’incontro con i governanti di Svezia, Danimarca, Finlandia, Islanda e Norvegia, il 13 maggio a Washington, Obama ha denunciato «la crescente presenza e postura militare aggressiva della Russia nella regione baltico/nordica». riaffermando l'impegno degli Stati Uniti per "la difesa collettiva dell'Europa", evidenziando in quell'incontro il consenso europeo a mantenere le sanzioni contro la Russia. L'Europa ritorna, così, ad un clima di guerra fredda, tutto a vantaggio degli Stati Uniti che possono, in questo modo, accrescere la propria influenza sugli alleati europei [8].
Oggi, 30 anni dopo la catastrofe di Chernobyl, commemoriamo un'esperienza i cui effetti e conseguenze, sfortunatamente, potremo trovarci a soffrire, data l'allarmante tensione di un nuovo confronto nucleare a livello mondiale. Dobbiamo quindi allontanare il fantasma che costituisce la minaccia dell'uso dell'energia nucleare in qualsiasi delle sue forme. NO ALL'USO DELL'ENERGIA NUCLEARE, NO ALLA GUERRA.

lunedì 30 maggio 2016

Uragano Madia sui bilanci comunali

Con i nuovi decreti, i Comuni sono braccati e costretti a privatizzare, dovendo giustificare perché non affidano al privato i servizi essenziali.
renzi madiaTra le ultime settimane del 2015 e le prime del 2016 gli enti locali sono stati investiti dal combinato di nuove norme, derivanti dai decreti attuativi Madia e dalle nuove leggi sul bilancio comunale, che sono destinate ad incidere sulla vita economica dei territori. Dunque, di riflesso, sulla vita sociale. Si tratta quindi di entrare nella logica di questo combinato di norme. Spesso infatti si insiste molto, quando si parla di questi temi, sulla citazione della lettera della legge in sé, invece che sulla logica che la muove. Oppure si prende per buono il marketing delle leggi - che le vuole innovative, eque e socialmente progressiste - o, per analizzarle, si importa acriticamente il linguaggio del mondo delle professioni. Come se un linguaggio tecnico fosse, di per sé, non solo neutro ma anche infallibile. Allo stesso tempo si fa spesso l’errore di pensare una legge come qualcosa in grado di incidere in modo coerente sul piano sul quale legifera, di plasmarlo secondo la propria volontà. Non è così, basta ricordarselo per capire dove portano davvero certe leggi. Analizziamo quindi sinteticamente cosa accade, con il testo unico Madia e le nuove leggi sul bilancio comunale, alle partecipate e alle amministrazioni locali.
Panorama
Con gli anni ’90 e l’inizio degli anni 2000, molte essenziali funzioni pubbliche di servizio e di assistenza sono passate dallo stato centrale agli enti locali regionali e territoriali. Lo sviluppo di un sistema di tassazione locale, nello stesso periodo, è stato funzionale proprio a questo passaggio. Come è naturale in questi casi attorno alla crescita, mai organica o coerente, di queste funzioni, si è sviluppata un’economia (di servizi, di fornitori, di consulenze, di vere e proprie esternalizzazioni, di offerta di prodotti finanziari). Funzionalità e disfunzionalità di questi processi erano regolate da una precisa dinamica: quella di una economia locale governata da fondi pubblici e da quelli privati che gli ruotavano attorno. Servizi comunali, rete di istituzioni locali, aziende partecipate, rappresentavano la struttura politico-amministrativa di questo genere di economia. Il modello è entrato in crisi per due fattori: il primo, all’inizio strisciante poi dirompente, è quello della finanziarizzazione dell’economia. Per cui la guida dell’economia, deve passare dalla finanza pubblica a quella privata. Finanza che si crea un ruolo proprio nel declino degli interventi pubblici. Per cui gli enti locali diventano sempre più un’opportunità di privatizzazione e sempre meno questione di servizi da erogare. Il secondo è dovuto alla crisi del 2008 che impone ancora oggi, a livello continentale, di usare i fondi pubblici per stabilizzare le banche togliendo risorse alle istituzioni. E, nel 2011, direttamente nella lettera dei banchieri centrali al governo italiano, sono proprio gli enti locali ad essere indicati come i soggetti da privatizzare. Non è un caso che esca, in quel periodo, il patto di stabilità come definito dalla legge 118/2011, quello che blocca investimenti e spese dei Comuni. Lo scorso anno il sindaco (Pd) di Lido di Camaiore, dalle colonne del Tirreno indicava il corpo di leggi e norme del patto di stabilità come un qualcosa che impediva la funzione fondamentale assegnata ai Comuni dalla Costituzione: indirizzare lo sviluppo dell’economia locale. Senza risorse, in effetti, impossibile dargli torto.
L’economia di gruppo del pubblico e del privato: la logica delle trasformazioni
I decreti Madia, che riguardano la riforma dell’amministrazione nel suo complesso, e le nuove disposizioni sul bilancio (la legge 125 del 2015 ma anche le disposizioni contenute nella legge di stabilità e nel milleproroghe) non sono materia che va intesa come pura misura contabile. Ma come misure che intervengono su una logica che si è consolidata negli anni: espellere l’intervento pubblico nell’economia locale, anche attraverso l’economia generata dall’erogazione dei servizi, quindi contrarre i bilanci. Generando quello che lo stesso Fmi chiamerebbe moltiplicatore fiscale negativo: ovvero una diminuzione del Pil locale maggiore delle risorse economiche “liberate” dai tagli. Ma a quale tipo di economia guardano i decreti Madia e e le nuove norme sul bilancio? All’economia di gruppo del pubblico e del privato. Per l’economia di gruppo, già guardando allo storico testo Economia dei gruppi e bilancio consolidato (Marchi-Zavani, Giappichelli, 1998) si capisce la logica che si vuol favorire: l’implementazione del bilancio consolidato, già sperimentale negli anni scorsi, di una amministrazione comunale come gruppo (Comune più partecipate, per capirsi). In modo da tagliare risorse, personale, investimenti nella sinergia delle componenti di tale gruppo. E più si taglia (innumerevoli sono le storie di tagli negli accorpamenti da economia di gruppo), più si deprime l’economia locale. Favorendo però un altro tipo di economia di gruppo: quella privata. Il testo unico Madia sui servizi pubblici, approvato il 26 febbraio, è infatti meno “privatizzante” della bozza entrata nel Consiglio dei Ministri il 20 gennaio ma introduce un principio molto importante. Quello che vuole che il Comune che intenda affidare servizi in house o ad azienda speciale, debba giustificare il mancato ricorso al privato. In poche parole siamo al rovesciamento, e al peggioramento della già privatizzante logica della sussidiarietà: là dove si voleva che il privato intervenisse dove il pubblico non disponeva di risorse, oggi il pubblico deve dimostrare di fare il privato meglio del privato. Altrimenti il servizio deve essere affidato al privato. E il privato in grado di fornire servizi a prezzi concorrenziali è quello pienamente inserito nell’economia dei gruppi: si pensi alle multiutility. Si capisce quindi cosa avviene promuovendo un’economia dei gruppi sui territori: si deprime doppiamente l’economia territoriale, con il pubblico che fa gruppo per risparmiare, con il privato che entra nell’economia delle partecipate con la logica, tipica dell’economia dei gruppi privati, dell’economia di scala che può permettersi il massimo ribasso.
Nuove leggi sul bilancio nella vita dei Comuni e testo unico Madia
A questo punto diventa comprensibile la logica economica delle nuove regole per il bilancio delle amministrazioni comunali, quello definito dall’ultima legge di stabilità. Non a caso il bilancio 2016-2018 è un bilancio consolidato di gruppo e non della semplice amministrazione comunale. In alcuni Comuni, tra cui Livorno, lo era già, in termini sperimentali, da qualche anno. Ma oggi, a differenza del passato, il bilancio di gruppo non è una fotografia di quello che accade ma un documento che vincola l’intero gruppo al pareggio di bilancio complessivo entro il 2018. Le partecipate quindi devono contribuire all’obiettivo di pareggio di bilancio entro quel periodo. A quel punto possono entare in gioco le leggi Madia: un Comune “inefficiente”, non in grado di fare meglio del privato dovrà alienare alcuni servizi. E così il cerchio si chiude: le nuove leggi di bilancio forzano, quanto possibile, il pareggio di gruppo, il testo unico favorisce le alienazioni dei servizi “inefficienti”. Per i Comuni gli anni difficili saranno dal 2017 in poi visto che, per quest’anno, è previsto l’allentamento del patto di stabilità. Ma già da quest’anno ci sono difficoltà: ci sono già nel 2016 restrizioni alla spesa corrente (stima Legautonomie Toscana), c’è il minor trasferimento di risorse dello Stato centrale, e il limite del 25 per cento alla reintegrazione degli organici pone difficoltà serie di funzionamento agli uffici in servizi sempre più complessi. Senza contare che l’autonomia impositiva dei Comuni viene azzerata. Per cui diviene impossibile prelevare ai più ricchi per redistribuire con una politica di tassazione locale. In questo modo il bilancio di gruppo dei Comuni deve essere per forza restrittivo, come accade nei magazzini dei bus quando l’economia di “gruppo” significa prendere pezzi da un autobus, cannibalizzarlo e fare funzionare i rimanenti. Mentre il privato che ha l’economia di scala a proprio favore, grazie alla finanziarizzazione dell’economia stessa, può intercettare tutti i servizi che ritiene profittevoli. Mentre il Pil locale si deprime. Visto che la contrazione del pubblico sgonfia l’economia locale, mentre il privato che arriva nutre l’economia privata di scala, non quella territoriale. Madia e bilancio sono quindi strumenti tecnici di queste dinamiche. Il resto è per i retori dell’efficienza, della legalità e della “lotta agli sprechi”. Quella che non ammetterà mai la verità: lo spreco, in queste leggi, siamo noi e i servizi ai quali abbiamo diritto.

venerdì 27 maggio 2016

Non chiamatela democrazia

La parola democrazia è usata e abusata nella pubblicistica politica come anche negli studi accademici. Con essa si è soliti riferirsi al sistema politico-istituzionale occidentale, cioè in particolare quello dell’Europa e del Nord America. Si tende a considerare un dato di fatto indiscutibile che nei paesi di quest’area esistano governi che mutano negli anni ma che permanga una democraticità di fondo delle istituzioni.
L’uso del lessico politico è spesso irriflessivo, non è mai sottoposto a una seria critica storica e filosofica e viene accettato per lo più in modo quasi del tutto inconsapevole. Basterebbe anche un’analisi appena più profonda dell’ordinario per scoprire come la parola “democrazia” sia usata del tutto a sproposito.
Dovrebbe risultare piuttosto evidente che il “potere del popolo” non esiste nell’attuale sistema politico occidentale. L’esistenza del suffragio universale, vero feticcio della politica occidentale, di per sé non garantisce il potere del popolo. Garantisce soltanto la rappresentanza, che è una forma di legittimazione del governo in carica, una delle tante possibili. Questa rappresentanza attraverso l’elezione non coincide col potere del popolo e nemmeno con una sua qualsivoglia influenza decisionale. Di democratico non c’è nulla, nemmeno sul piano formale. Sarebbe più corretto definire invece questo sistema un’oligarchia rappresentativa, dove oligarchia sta a indicare il potere dei pochi sui molti e rappresentativa sta per legittimazione dei pochi per mezzo dei molti attraverso un’elezione.
Un carattere originale delle pseudo-democrazie odierne è la separazione tra gruppo sociale dominante e governo politico. Il gruppo dominante può non esercitare direttamente il governo, ma ciò non toglie nulla al suo dominio sociale che ne può persino venire rafforzato. Il governo politico è esercitato da una classe nazionale di burocrati e politici di professione distinta (ma non per questo in contrasto) rispetto alla classe oligarchica internazionale. Proprio questa separazione permette di perpetrare la finzione del potere del popolo che elegge di volta in volta certi membri di questa classe invece che altri, credendo così di esercitare la sua sovranità, mentre l’élite dominante, che è economica e non politica, resta immutata e non scalfita dal rito delle elezioni.
La ragione di questa illusione e del successo della maschera democratica dell’oligarchia (un’oligarchia anche più potente di quelle del passato) sta nel retaggio liberale che non persegue il controllo politico della società, ma al contrario, lo scioglimento o l’indebolimento di questo controllo politico. Il fondamento del governo, secondo tale concezione, si esprime in procedure di tipo politico-istituzionale “chiuse”, che cioè delimitano una sfera di intervento del governo la quale resta pressoché immutata. La concezione liberale considera infatti che necessitino di disciplina soltanto i mezzi politico-normativi, ma non quelli materiali ed economici. È questo, tra l’altro, il motivo per cui le teorie politiche nelle pseudo-democrazie sono spesso normativistiche. Si crea così una sfasatura tra l’“ufficialità” della prassi istituzionale e la realtà dei conflitti sociali e materiali.
C’è da dire che questo orientamento è stato mitigato dal socialismo, che ha costretto in alcuni casi i governi a estendere in parte la zona di intervento. Resta però il fatto che i gruppi sociali dominanti dispongono di mezzi infinitamente superiori (che sono andati crescendo negli anni) rispetto a quelli dei governi “democratici” limitati per natura. La potenza di questi mezzi finisce inevitabilmente per influire anche sulle procedure normative (influenza che i teorici normativisti fingono di non vedere). Bisogna considerare infatti la reale procedura di deliberazione politica dei parlamenti e dei governi “democratici”. Riassumendo, si può dire quanto segue:
- Le classi dominanti costituiscono e finanziano gruppi di pressione e “think tank” che elaborano e giustificano linee programmatiche nell’interesse di dette classi.
- Le classi dominanti sovvenzionano anche i principali partiti politici (tutti autodefiniti “democratici”).
- I gruppi di influenza non si estendono solo alla politica, ma anche all’editoria, ai media, alle università, che spiegheranno al pubblico la necessità di adottare quelle linee programmatiche
- I gruppi di influenza espongono ai capi-partito le linee programmatiche che hanno elaborato e la necessità di adottarle.
- I gruppi di influenza, sulla base di quelle linee programmatiche, redigono dei documenti politici che invieranno ai tecnici del governo.
- I tecnici, sulla base di questi documenti, redigono proposte di legge.
- Le proposte di legge arrivano sul tavolo dei parlamentari che dovranno presentarle in parlamento.
- Gli altri parlamentari ricevono dai loro partiti l’ordine di votare a favore di quelle proposte (che molto spesso essi non hanno neanche letto).
- La proposta viene votata e diventa legge. I rappresentanti eletti dal popolo hanno votato una legge contro il popolo.
Quanto descritto riguarda una comune procedura reale deliberativa. Ne esistono tuttavia anche di interdittive, quali: mancanza di finanziamenti per candidati che non rispettano le linee programmatiche, campagna mediatica sfavorevole o oscuramento, ricatto finanziario contro i governi che non si attengono alle linee (fuga di capitali, crollo del valore dei titoli di stato, ecc.).
È difficile vedere in tutto ciò anche un solo barlume di democraticità. Il popolo che avrebbe il potere quale potere ha? Quello di eleggere dei rappresentanti, che però sono già stati preselezionati dalle dinamiche suddette. Anzi, proprio il meccanismo dell’elezione a suffragio universale inibisce qualsiasi effettiva universalità; gli eleggibili devono ottenere consenso e per farlo devono passare attraverso le procedure di cui si è detto (reperimento di fondi, campagne mediatiche, ecc.). Certo, non è impossibile che nel processo deliberativo entrino istanze autenticamente “popolari”, ma molto difficile. La pseudo-democrazia scoraggia questa eventualità. Se si guarda la breve descrizione dei meccanismi deliberativi e interdittivi si nota facilmente che non sono di tipo normativo, o lo sono soltanto in una seconda fase, ma soprattutto economico. È la pervasività economica e non il controllo politico, alla base della pseudo-democrazia e ciò rende inutili tutti i dibattiti normativistici che trascurano questo fatto, ragionando per categorie astratte che basano i procedimenti decisionali su una supposta indifferenza di tutti i soggetti.
Bisogna però sgombrare il campo da qualsiasi ipotesi “cospirazionista”. Quanto descritto appartiene alla quotidianità e alla normalità delle procedure. Non si tratta di una “eccezionalità”, di un “tradimento” della “democrazia” ma è inscritto nel suo stesso modo di funzionamento. Un sistema politico che limita la sfera di intervento del governo ma non quella dei gruppi sociali dominanti porta inevitabilmente a un governo subalterno rispetto ai gruppi medesimi e quindi non potrà mai essere democratico.
Tutto ciò è piuttosto risaputo nelle conferenze organizzate dai gruppi di influenza e ai “rappresentanti del popolo” che vi partecipano. Secondo quanto riportato dal giornalista Paolo Barnard nel 2012 l’allora Ministro Elsa Fornero, al World Pension Summit ebbe a dichiarare: “I cambiamenti portati dalla riforma delle pensioni del governo Monti erano necessari per compiacere i mercati finanziari, altrimenti i mercati avrebbero devastato l’Italia”. Pare difficile pensare che un governo del genere possa essere definito democratico. L’ex Presidente della Commissione Europea Manuel Barroso disse, in un’intervista al Telegraph, che “La ragione per cui abbiamo bisogno dell’Unione Europea è proprio che essa non è democratica”. Considerando che circa l’80% delle leggi italiane sono applicazioni di direttive europee, questa affermazione è abbastanza rivelatrice del nostro sistema politico.
Si deve tuttavia ammettere che nei decenni passati gruppi sociali non dominanti hanno potuto esercitare una certa influenza nel processo decisionale. Non si trattava, nemmeno allora, di una democrazia, ma le particolari condizioni storiche e socio-economiche e certi apparati politici hanno permesso a interessi e volontà non oligarchiche di affermarsi. In Italia il contesto socio-economico per quarantacinque anni fu quello emerso dalla Resistenza. In questo sistema un capitale nazionale doveva giungere a un compromesso con una classe lavoratrice e questo compromesso poté essere garantito da una ceto di dirigenti politici. Attualmente, invece, il capitale si è internazionalizzato, i lavoratori indeboliti e disgregati, il ceto politico post-bellico esaurito e azzerato. Le basi quindi del compromesso sono venute meno. I gruppi sociali dominanti internazionali non hanno interesse a un nuovo compromesso e lavorano per restringere ulteriormente la sfera di intervento di governi. Ecco perché l’attuale fase storica appare ad alcuni come “involuzione democratica”, sebbene non si tratti di una degenerazione di un meccanismo intrinsecamente “sano”, ma di un adattamento politico a mutate condizioni storiche.
Le premesse per una reale democrazia, dunque, si creeranno solo quando cadrà definitivamente la maschera della pseudo-democrazia e vi sarà una presa di coscienza collettiva riguardo al carattere oligarchico del sistema di governo vigente, quando maturerà una capacità politica di contrasto di questa oligarchia e quando si capirà che il controllo politico per essere realmente democratico e popolare deve estendersi alla sfera economica e non ritirarsi da essa.

giovedì 26 maggio 2016

"Solo la crisi ci può salvare" dal delirio consumistico

Fanno oggettivamente sbellicare dalle risate questi sedicenti economisti che si ostinano a ricercare le soluzioni alla crisi all’interno degli stessi perimetri concettuali che l’hanno generata, primo fra tutti la crescita del Pil. Le scorie mentali e i retaggi illuministici in cui l’Occidente è ancora invischiato impediscono purtroppo a molti di noi di immaginare ed esplorare soluzioni alternative e realmente risolutive, sia in chiave personale che sistemica. Ed è esattamente per questa ragione che l’unico fenomeno ancora in grado di arginare il fondamentalismo neoliberista, aprendo gli occhi a questi templari della crescita ad ogni costo, è paradossalmente un inasprimento della crisi stessa. Il primo passo da fare è quello di sbarazzarsi della favoletta – rigorosamente destinata al solo pubblico adulto – della crescita infinita in un mondo dalle risorse finite, che alle orecchie di un qualsiasi organismo pensante dovrebbe suonare credibile più o meno come l’esistenza di Babbo Natale.
In questa ottica, la crisi rappresenta una vera e propria benedizione per contrastare il delirio consumistico di esseri umani sempre più nevrotici e disorientati, che rischiano di smarrire definitivamente ogni possibile riferimento per ritrovare se stessi, sia in rapporto ai propri simili che soprattutto all’ambiente. La crisi è il limitatore di velocità della follia espansionistica umana, l’ultimo argine che – fortunatamente endemico ai postulati stessi del capitalismo – può ancora propiziarne l’implosione, prima che i suoi effetti collaterali sulla biosfera diventino irreversibili. La crisi, infatti, concentrando la ricchezza in mani sempre meno numerose e sempre più avide, inibisce strutturalmente l’accesso al mercato alla quota di popolazione maggioritaria: l’unica che potrebbe tenerlo in vita. La crisi diventa quindi l’agente lievitante della nuova società vernacolare, finalmente fondata sulla riscoperta della relazione, della reciprocità, dell’emancipazione monetaria. La crisi è il sorprendente propulsore di uno straordinario patto sociale tra il settore agricolo, la società civile, l’imprenditorialità locale e la finanza etica.
crisi
Solo la Crisi ci può salvare è il mio nuovo libro-manifesto che, scritto insieme a Paolo Ermani e, distribuito in tutta Italia per Edizioni Il Punto d’Incontro, sussurra alla nostra coscienza le troppe verità che in troppi, da troppo tempo, tentano di nasconderci. E in più, cosa assai rara di questi tempi, suggerisce anche le contromisure da adottare.
Qui di seguito trovate dei brevi estratti.
Le pressioni e gli effetti dissocianti che il mercato del lavoro imprime alla società stanno rapidamente avviandosi al loro stadio più critico: soprattutto nel settore industriale e in quello dei servizi, il generalizzato disorientamento indotto dalla Grande Recessione e la conseguente incapacità di una reazione adeguata stanno generando nei piani alti della governance d’impresa una sempre più convulsa schizofrenia gestionale, inevitabilmente destinata a degenerare nel definitivo scollamento tra le ansie reddituali dei (pochi) governanti e quelle prestazionali dei (tantissimi) governati.
Le profonde trasformazioni che questa Crisi sta procurando alle nostre abitudini rappresentano un fattore di speranza per un futuro più autentico e naturale. Le frenetiche e paranoiche accelerazioni a cui ci ha costretto un progresso tecnologico privo di scrupoli, gli alienanti stili di vita che costringono sempre più persone al ricorso alla farmacologia chimica, il culto del denaro e del successo a ogni costo, le nefaste violenze procurate al territorio con l’unico scopo di assoggettare l’habitat all’impeto espansionistico umano, sono le principali tendenze e gli effetti collaterali di questo perverso modello di sviluppo, che la Crisi può contribuire a inibire.
La reazione corretta è infatti quella che stanno cominciando a praticare migliaia di cittadini ingegnosi e operosi che – fregandosene dalla politica di Palazzo e lontano dai riflettori – si attrezzano per far fronte ai profondi mutamenti degli stili di vita a cui il nuovo corso necessariamente ci abituerà. Gli esempi sono fortunatamente tantissimi e vanno dall’autosufficienza energetica alla partecipazione ad orti comunitari, dal rifiuto delle mode e delle seduzioni del consumismo al ripudio consapevole di una mentalità del lavoro neoschiavistica, da numerosi esempi di soluzioni abitative comunitarie ad alcune testimonianze di imprenditoria virtuosa e realmente orientata al benessere.
Il Cambiamento sta già avvenendo, ma non rientra nelle coordinate conosciute, non rientra nei palinsesti e non viene inquadrato dalle telecamere, non è a capo di niente, non si erge al di sopra di nulla, non comanda e non calpesta. Non ce lo annunceranno a reti unificate, non ci saranno fanfare e squilli di tromba. Il Cambiamento verrà costruito da tutti e ognuno apporterà il suo indispensabile contributo. Insieme si cambierà ogni cosa, come una foresta in silenzio riprende il possesso di ciò che le è stato sottratto. Il Cambiamento è nelle mani di ciascuno di noi, di ogni singola persona consapevole di essere decisiva e fondamentale. Aspettatevi tutto da voi stessi, ma niente da chi vi vuole condurre: solo così salverete voi, i vostri simili e quella meravigliosa casa dove abitate e che si chiama Terra.

mercoledì 25 maggio 2016

The Intercept pubblica nuove e-mail della Clinton. Il piano per "fare della Polonia un laboratorio dello shale gas Usa"

Lo scorso aprile, appena prima delle primarie a New York, la campagna di Hillary Clinton ha mandato in onda uno spot che lodava il suo lavoro come segretario di stato nell'aver costretto "la Cina, l'India, alcuni dei peggiori inquinatori del mondo" a operare "un vero cambiamento". La Clinton ha promesso di "rimanere al finaco dei newyorkesi nell'opporsi al fracking, dando alla comunità il diritto di dire no'".
Lo spot televisivo, che non è stato annunciato e non appare sul canale ufficiale YouTube della campagna con la maggior parte degli altri annunci della Clinton, implicava una storia di opposizione al fracking, qui e all'estero. Ma messaggi di posta elettronica ottenuti da The Intercept dal Dipartimento di Stato rivelano nuovi dettagli degli sforzi dietro le quinte della Clinton e dei suoi stretti collaboratori per esportare la fratturazione idraulica in stile americano - la tecnica di perforazione orizzontale meglio conosciuta come fracking - a paesi in tutto il mondo.
Lungi dallo sfidare le aziende di combustibili fossili, i messaggi di posta elettronica ottenuti da The Intercept rivelano che funzionari del Dipartimento di Stato hanno lavorato a stretto contatto con le compagnie petrolifere del settore del gas , fatto pressione su altre agenzie all'interno dell'amministrazione Obama per impegnare le risorse del governo federale per l'individuazione di riserve di scisto, e stretto accordi con nazioni partner impegnandosi a contribuire a garantire gli investimenti per nuovi progetti di fracking.

I documenti rivelano anche il ruolo del Dipartimento nel portare dignitari stranieri a un sito di fracking in Pennsylvania, e i piani per fare della Polonia un "laboratorio per testare se il successo degli Stati Uniti nello sviluppo dello shale gas può essere ripetuto in un paese diverso", in particolare in Europa, dove i governi locali hanno espresso opposizione e, in alcuni casi, addirittura vietato il fracking .
Le mail rivelano piani per diffondere la tecnica di perforazione in Cina, Sudafrica, Romania, Marocco, Bulgaria, Cile, India, Pakistan, Argentina, Indonesia e Ucraina.
Nel 2014, la giornalista di Mother Jones, Mariah Blake, ha utilizzato dispacci diplomatici rivelati da Wikileaks e altri documenti per rendere noto come la Clinton "avesse venduto il fracking al mondo". I messaggi di posta elettronica ottenuti da The Intercept attraverso il Freedom Information Act forniscono maggiori dettagli.
The Global Shale Gas Initiative, il programma della Clinton per la promozione del fracking, è stato annunciato il 7 aprile 2010 da David Goldwyn, inviato speciale del Dipartimento di Stato per gli affari energetici, alla United States Energy Association (USEA), i cui membri includono Chevron, ExxonMobil, ConocoPhillips e Shell.
Le e-mail mostrano uno sforzo aggressivo per coinvolgere aziende energetiche private a utilizzare la Polonia come parte di una più ampia campagna per vendere il fracking in tutta la regione.

martedì 24 maggio 2016

Ttip, quattro motivi per dire no all’accordo

«L’esperienza degli ultimi decenni dimostra che quando la scambio avviene tra contraenti diversi per peso contrattuale come le multinazionali e i lavoratori, solo uno dei due contraenti ci guadagna, mentre l’altro ci perde».
Il Ttip (Transatlantic Trade and Investment Partnership) è il più grande accordo di libero scambio della storia, che riguarda quasi un miliardo di persone e metà del Prodotto interno lordo mondiale. Le trattative sono andate avanti per tre anni (dal 2013) e tredici round tra esperti del Ministero del Commercio estero degli Usa ed esperti della Commissione europea, senza che se ne sapesse niente di preciso, a parte la promessa che l’accordo avrebbe creato più ricchezza, più reddito, più consumi e più posti di lavoro – la stessa promessa di tutti gli accordi di globalizzazione degli ultimi trent’anni, puntualmente smentita dai fatti.
Uno squarcio di luce si è aperto agli inizi di questo mese di maggio, quando Greenpeace ha reso nota una parte consistente dei testi negoziali trafugati (248 pagine, due terzi circa), confermando le peggiori previsioni della società civile europea.
Le ragioni del No sono molte: primo, la segretezza orwelliana con cui l’accordo è stato concepito come se i diretti interessati non avessero il diritto di dire la loro prima della sua stesura definitiva. E questo è tanto più grave perché – come risulta dalle carte rese note da Greenpeace – all’industria invece questo diritto è stato ampiamente riconosciuto.
Secondo, l’azzeramento e/o l’ammorbidimento degli standard sanitari e ambientali europei, più elevati di quegli esistenti negli Usa, che su questo terreno sono meno esigenti dei paesi europei.
Terzo, la violazione del principio di precauzione riconosciuto dall’Unione europea, sostituito dalla richiesta statunitense di un approccio “basato sui rischi”, per gestire le sostanze pericolose piuttosto che di eliminarle.
Quarto, l’istituzione di comitati arbitrali per la soluzione delle controversie, che sono tribunali privati, privi di qualsiasi legittimità democratica. Quinto, le pesanti ricadute che tutto questo avrebbe sui diritti dei lavoratori. “Avevamo ragione noi e la società civile – dice Greenpeace – a essere preoccupati: con questi negoziati segreti rischiamo di perdere i progressi acquisiti con grandi sacrifici nella tutela ambientale e nella salute pubblica”.
E’ forse maturo il tempo per chiedersi se è ancora vero che la “legge” della specializzazione produttiva di un paese – sottostante la logica del commercio internazionale – accresce la produttività di quel paese, o se provoca invece la devastazione di intere aree e la miseria delle popolazioni che le abitano. E se è ancora vero che lo sviluppo del commercio estero è un fattore di crescita per tutti i partner dello scambio: l’esperienza degli ultimi decenni dimostra invece che quando la scambio avviene tra contraenti diversi per peso contrattuale come le multinazionali e i lavoratori, solo uno dei due contraenti ci guadagna, mentre l’altro ci perde.
Le trattative sull’accordo sono ancora aperte ma in uno stadio avanzato, ed è dunque urgente mobilitarsi per bloccarne la conclusione, o introdurvi modifiche sostanziali come chiede la società civile in tutti i paesi europei.

lunedì 23 maggio 2016

Catastrofe Jobs Act: senza incentivi crolla l’occupazione. E nel 2016 più voucher per tutti

Inps. I dati sul fallimento della riforma del lavoro: tagliati gli sgravi alle imprese i contratti a tempo indeterminato crollano del 33%, il saldo è a meno 77%. Il record dei voucher: +45% nel 2016. L’occupazione è inferiore al peggiore anno della crisi: il 2014. I 14 miliardi di incentivi pubblici alle imprese: un trasferimento di ricchezza al capitale. Le perdite sono di tutti, i guadagni sono di pochi.
L’unico successo che il governo Renzi ha raggiunto con il Jobs Act è la legalizzazione del caporalato postmoderno: il voucher, il lavoro-spazzatura che si compra con lo scontrino in tabaccheria. Lo confermano i dati dell’osservatorio sul precariato dell’Inps: tagliati del 40% gli sgravi contributivi alle imprese, il saldo è crollato del 77% rispetto al 2015 ed è più basso del 2014. Nel primo trimestre del 2016 i contratti a tempo indeterminato sono crollati del 33 per cento: 51mila unità, contro i 225mila di un anno fa. Dunque 162 mila in meno, proprio nell’anno dei contributi più alti.
Nei primi tre mesi del 2016 le trasformazioni dei contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato sono crollati del 31%: meno 53.339 contratti. Nel 2014, quando lo stato italiano non aveva ancora iniziato a regalare al capitale privato tra i 14 e i 22 miliardi di euro, era di -42.527. La droga monetaria non è servita nemmeno a creare più occupazione rispetto all’anno peggiore della crisi: il 2014: allora il 36,2% dei contratti era a tempo indeterminato, oggi solo il 33,2% dei nuovi contratti è a tempo indeterminato.
inps resa conti
Gli incentivi non sono serviti a nulla: nel 2016 i nuovi rapporti di lavoro sono inferiori al 2014
Il contribuente paga doppio
A rafforzare la tendenza reale, già nota e raccontata tempestivamente su Il manifesto, arrivano i dati sui rapporti precari che invece sono aumentati del 22%, mentre i voucher raggiungono un nuovo record: +45% (+31.5 milioni, una crescita del 75,4% rispetto al 2014). Mese dopo mese, si delinea anche l’esito finale della “riforma” del lavoro renziana: quando, infatti, gli incentivi saranno finiti nel 2018, i pochi assunti con il Jobs Act potrebbero tornare ad essere disoccupati. E il governo, con ogni probabilità, sarà costretto a istituire ammortizzatori sociali eccezionali – sul modello della cig straordinaria del 2007 – per rimediare al flop colossale.
Il contribuente pagherà doppio: prima i fondi ai privati, poi i soldi per rimediare al loro opportunismo e alla strategia programmatica del governo: drogare le statistiche per ottenere dalla Commissione Europea e dalle istituzioni dell’austerità (dalla Bce all’Fmi) il plauso per avere risollevato apparentemente il mercato del lavoro con una delle riforme da loro auspicate. La recente lettera inviata al ministro dell’Economia Padoan dai commissari Dombrovskis e Moscovici elogia la riforma del lavoro italiana. Per icommisssari èla prova della buona volontà dei nostri governanti che procedono nella giusta direzione. Considerati i dati, e la realtà a cui rimandano, è necessario interrogarsi se la strada non porti in un burrone.
Oltre alla concessione limitata della “flessibilità” di bilancio pari a 14 miliardi di euro per il solo 2016, la lettera rivela finalità ultima delle speculazioni italiane sul lavoro: nascondere i dati reali di una crescita senza occupazione e assicurare una delle leggi della diseguaglianza: le perdite sono di tutti, i guadagni sono di pochi. Quella di Renzi non è insipienza, incapacità o canaglia: è una deliberata convinzione populista di truccare i numeri sull’occupazione, e il loro significato, per ottenere guadagni politici e accreditamento personale. Suo complice è la governance europea che cerca di blandire con diplomazia. Quello che è certo è che gli effetti di questa politica sono solo all’inizio e non mancheranno rovesci drammatici.
La bolla si sgonfia
«Avevamo previsto – afferma il segretario confederale della Cgil Serena Sorrentino – che l’occupazione sarebbe cresciuta di circa la metà rispetto a quanto annunciato dal Governo. Avere ragione non è una soddisfazione perché parliamo di circa 15 miliardi di risorse pubbliche investite male e di tante speranze deluse per milioni di giovani italiani». «Il Governo, come diciamo da mesi, può correggere gli errori e cambiare sia il meccanismo della decontribuzione che le norme del Jobs act».
La crescita abnorme dei voucher, divenuti la frontiera della precarietà e, in alcune circostanze, lo strumento per coprire il lavoro nero non sarà arrestato dalla tracciabilità annunciata più volte dal governo: «Occorrerà limitarne in modo significativo l’ambito di utilizzo – sostiene il leader Uil, Carmelo Barbagallo – è stato il taglio degli investimenti, conseguente al fiscal compact a far crollare la nostra economia. Non c’è altra strada: servono investimenti pubblici e privati e restituire potere d’acquisto».
Di «FlopsAct», «truffa Jobs Act», «doping» erano infarcite le dichiarazioni delle opposizioni, a partire dai Cinque Stelle. Al netto di qualche surreale dichiarazione della corte renziana, ieri il presidente del Consiglio ha taciuto, riservandosi probabilmente una risposta nell’esibizione settimanale ‪#‎matteorisponde‬ sui social convocata in serata. Per ore, ieri è rimbalzato un suo tweet del 29 aprile scorso che oggi può essere consegnato all’archeologia del renzismo rampante: «I dati del lavoro? Dimostrano che ‪#‎jobsact‬ funziona: ‪#‎italiariparte‬ grazie alle riforme e all’energia di lavoratori e imprenditori ‪#‎segnopiù‬».
Renzi: sui numeri del Jobs Act si dicono balle
La reazione è sempre la stessa. Sui numeri del Jobs Act “sono state scritte clamorose balle” ha detto in diretta facebook e twitter. E poi un’affermazione da brivido: gli incentivi hanno “funzionato”. “È il loro compito – detto Renzi -. Hanno funzionato nel 2015. Nel giro di due anni abbiamo recuperato 400mila posti di lavoro. Abbiamo interrotto la caduta. Nel dare i dati trimestrali dell’Inps si è visto che il saldo positivo è più piccolo dello scorso anno. Non è che ci sono meno posti di lavoro, prosegue ma siccome gli incentivi sono ridotti è cresciuta meno l’occupazione, va meno veloce ma continua a crescere”.
La verità è opposta a quanto detto da Renzi. Il dato che dimostra che gli incentivi non funzionano è quello sull’anno, non sul trimestre dove (ancora) crescono. La tendenza mostra che l’occupazione diminuisce con il diminuire degli sgravi. Nel 2018 si arriverà al punto zero: niente sgravi, niente occupazione. E’ l’effetto tossico creato dai fondi a pioggia. Una droga che non smette di creare allucinazioni a palazzo Chigi.

venerdì 20 maggio 2016

La stagione dei referendum sociali

In due anni di governo Renzi, abbiamo visto applicare nei fatti la nota lettera del luglio 2011 alla BCE, ispirata da una ferrea logica neoliberista. Su questa base, si è attaccato il ruolo della scuola pubblica, privatizzati i beni comuni e i servizi pubblici, aggredito l’ambiente, a partire dalle trivellazioni e dal moltiplicarsi degli inceneritori, abbattuti i diritti del lavoro. Con la controriforma costituzionale, poi, si progetta di rendere permanente quest’impostazione, passando attraverso la riduzione degli spazi di democrazia e il primato del potere esecutivo e dell’”uomo solo al comando”.
Queste scelte sono passate anche perché si è fatto pesare il ricatto della crisi; e tutto ciò in un quadro di debolezza della politica e di frammentazione, anche volutamente costruita, delle mobilitazione e dei soggetti che hanno provato a contrastarle.
Attraverso la campagna sui referendum sociali vogliamo provare ad invertire questa tendenza, in primo luogo rilanciando il conflitto e la mobilitazione diffusa contro quelle scelte. Soprattutto iniziando a dare gambe ad un processo di connessione e costruzione di legami tra i soggetti che hanno animato l’opposizione a quelle politiche. Da qui, pur con la consapevolezza della nostra parzialità, nasce la nostra idea di fondo di lanciare un’alleanza sociale dei movimenti per la scuola pubblica, di quello per l’acqua, della campagna contro la devastazione ambientale che si oppone alle trivellazioni e dal movimento che si batte contro il piano nazionale inceneritori.
9-2-28
In questo quadro, collochiamo anche l’opzione di ricorrere allo strumento referendario per abrogare e contrastare la legge 107 sulla scuola, la legislazione che consente le trivellazioni in mare e in terraferma, quanto prevede lo Sblocca Italia rispetto a un piano strategico per nuovi inceneritori e una grande raccolta di firme per una petizione popolare che vuole contrastare la ripresa dei processi di privatizzazione dell’acqua e dei beni comuni promossa attraverso il decreto sui servizi pubblici locali attuativo della legge Madia e lo stravolgimento della legge d’iniziativa popolare per la ripubblicizzazione dell’acqua compiuta alla Camera il 20 aprile scorso con l’approvazione di un testo completamente diverso dall’originale (leggi Le mani sull’acqua di Marco Bersani).
È questa un’iniziativa e un percorso che muove dall’autonomia dei movimenti e dei soggetti sociali e, dunque, prevede che si costituiscano comitati promotori referendari composti da movimenti e soggetti sociali e comitati di sostegno in cui trovano posto anche i soggetti politici che concordano con tale iniziativa.
Con la nostra iniziativa, incrociamo anche il tema della democrazia e della sua espansione, che altro non è se non il rovescio della medaglia dell’affermazione dei diritti fondamentali. La nostra stagione dei referendum (e della raccolta firme) sociali, pur nella sua dimensione autonoma, vuole contribuire anche alla campagna per il NO alla controriforma istituzionale nel referendum confermativo che si dovrebbe tenere in autunno, con la convinzione che parlare di democrazia non significa ragionare puramente di architettura istituzionale ma del potere che hanno le persone di decidere sulle scelte di fondo che riguardano gli assetti della società.
Si apre una stagione di grande impegno, che necessita della mobilitazione e dell’intelligenza diffusa di tante persone nei territori volta a riprendere un rapporto largo con tante persone e soggetti interessati ad uscire dalla crisi affermando un’altra idea di modello sociale e di democrazia

giovedì 19 maggio 2016

Guai agli inglesi: col Brexit, finiranno tra i nemici degli Usa

Guai se gli inglesi voteranno il Brexit: devono restare al guinzaglio dell’Ue, cioè di Washington. Guinzaglio corto, rappresaglie contro chi “sgarra” e rotta di collisione contro le potenze mondiali che aspirano a una piena autonomia: «La mia previsione è che la Russia e la Cina saranno presto di fronte a una decisione sgradita: accettare l’egemonia americana o andare in guerra», afferma Paul Craig Roberts, già viceministro di Reagan nonché editore associato del “Wall Street Journal”. Impossibile non citare il britannico Ambrose Evans-Pritchard, che sul “Telegraph” ricorda come la Cia, negli anni ‘50 e ‘60, abbia direttamente finanziato gli attori che avrebbero creato l’Unione Europea. Motivo: è più facile controllare un solo governo, quello di Bruxelles, piuttosto che molti Stati separati. Washington ha fatto «un investimento a lungo termine nell’orchestrare l’Unione Europea», ed è per questo che Obama è appena andato a Londra «per raccontare al sua cagnolino, il primo ministro britannico, che non ci potrebbe essere alcuna uscita britannica dall’Ue».
Come altre nazioni europee, scrive Craig Roberts su “Information Clearing House”, i britannici non sono mai stati autorizzati a votare per scegliere di essere pienamente sovrani o sottoposti all’Unione Europea. «La natura oppressiva di leggi comunitarie Paul Craig Robertsirresponsabili e l’esigenza dell’Ue di accettare un massiccio numero di immigrati del terzo mondo hanno creato una grande richiesta per un voto britannico per decidere se rimanere un paese sovrano o di sciogliere il vincolo e rispedire a Bruxelles e le sue disposizioni dittatoriali». In vista del fatidico 23 giugno, la posizione degli Usa è che «al popolo britannico non deve essere consentito di decidere contro l’Ue, in quanto una tale decisione non è nell’interesse di Washington». Il lavoro di Cameron, dunque, è quello di «spaventare gli inglesi con presunte gravi conseguenze dell’“andare da soli”». Lo slogan: la “piccola Inghilterra” non può stare in piedi da sola. Al popolo britannico viene detto che l’isolamento segnerà la sua fine, e il paese diventerà uno stagno archiviato dal progresso. Tutto accadrà altrove, loro saranno lasciati fuori. Ma attenzione: «Se la campagna di paura non riesce e il voto britannico sarà per uscire dalla Ue – dice Craig Roberts – la questione aperta è se Washington permetterà al governo britannico di accettare l’esito democratico». In alternativa, il governo inglese potrebbe truccare le carte, raccontando di aver negoziato concessioni straordinarie.
Una cosa è certa: Washington non permetterà agli inglesi di decidere liberamente: «Non devono essere autorizzati a prendere decisioni che non rispettano l’interesse di Washington». E’ lo stesso schema “egocentrico” grazie al quale gli Usa stanno trasformando in “minaccia” la Russia di Putin: flotte da guerra nel Baltico e nel Mar Nero, nonché basi missilistiche in Polonia vicino ai confini russi, con la volontà di incorporare Georgia e Ucraina in patti di difesa anti-russi. «Quando Washington, i suoi generali e i vassalli europei dichiarano che la Russia è una minaccia, significa che la Russia ha una politica estera indipendente e agisce nel suo proprio interesse, piuttosto che in quello di Washington». La Russia diventa una “minaccia”, perché ha dimostrato la capacità di bloccare l’invasione filo-americana della Siria e il bombardamento dell’Iran. Nel mirino di Washington anche piccoli paesi come Iraq, Libia e Yemen. Motivo: «Avevano politica estera ed economica indipendenti, non avendo accettato l’egemonia statunitense». Persino il Venezuela, per Obama, è diventato «una minaccia inusuale e Obama e Cameronstraordinaria alla sicurezza nazionale e la politica estera degli Stati Uniti», quando il governo di Caracas «ha messo gli interessi del popolo venezuelano davanti a quelli delle società americane».
Analogamente, la Russia è diventata “una minaccia” quando Mosca ha neutralizzato le aggressioni di Washingon ai danni di Teheran e Damasco, e quando ha impedito agli Usa di appropriarsi della base navale della Crimea dopo il golpe neonazista in Ucraina promosso dalla Cia. «E’ assolutamente certo che la Russia non ha formulato minacce di alcun tipo contro i paesi baltici, la Polonia, la Romania, l’Europa o gli Stati Uniti», scrive Craig Roberts. Così come è certo che la Russia «non ha invaso l’Ucraina». Se l’avessero fatto, oggi «l’Ucraina non sarebbe più lì: sarebbe tornata una provincia russa». E in effetti, anche se i media occidentali si guardano bene dall’ammetterlo, «l’Ucraina appartiene alla Russia più di quanto le Hawaii appartengano agli Stati Uniti». Quanto alla Siria, quel paese «esiste ancora», solo «perché è sotto la protezione russa». Se davvero Cina e Russia Putin con Xi-Jinpingfossero “una minaccia”, di certo non permetterebbero la proprietà straniera («cioè riconducibile alla Cia») di molti dei loro media: è americana la proprietà del 20% dei media russi, mentre in Cina operano 7.000 Ong finanziate direttamente dagli Usa.
«Solo il mese scorso il governo cinese si è finalmente mosso, seppure molto tardivamente, per introdurre alcune restrizioni su questi agenti stranieri che stanno lavorando per destabilizzare il paese», scrive Roberts. «Ma i membri di queste organizzazioni “a tradimento” non sono stati arrestati, sono stati semplicemente messi sotto sorveglianza della polizia. Una restrizione quasi inutile, dato che Washington può fornire montagne di denaro con cui corrompere la polizia cinese: Russia e Cina pensano forse che i loro poliziotti siano meno sensibili alle tangenti rispetto alla polizia americana e del Messico». Parla da sola la sconfitta storica della guerra ai narcos: la “guerra alla droga” è una miniera d’oro per gli agenti messicani e statunitensi, «sotto forma di mazzette». Altro che libertà: «Negli Stati Uniti, gli osservatori di verità sono perseguitati e imprigionati, o vengono liquidati come “teorici della cospirazione”, “anti-semiti” o “estremisti domestici”. Una distopia peggiore di quella descritta da Orwell. Per paura dei media occidentali, Mosca e Pechino «permettono a Washington di operare nei loro media, nelle loro università, nei loro sistemi finanziari, mentre i “buoni” delle Ong si infiltrano in ogni aspetto della loro società». Secondo Craig Roberts, russi e cinesi sono davanti a un bivio terribile: piegarsi allo Zio Sam o prepararsi alla Terza Guerra Mondiale.

mercoledì 18 maggio 2016

Reddito di cittadinanza: la Finlandia ci prova

Forse è giunto il momento: il reddito di cittadinanza potrebbe presto essere introdotto in un Paese europeo. In Finlandia ha preso avvio da pochi mesi un percorso di studio che porterà alla sperimentazione di una misura -ancora da definire nei dettagli- di questo tipo. Si tratta di una somma di denaro che viene erogata a tutti i cittadini, a prescindere dal reddito e senza che debbano essere soddisfatte specifiche condizioni di altra natura (per questa ragione viene anche chiamato reddito incondizionato, garantito o di base).
Un reddito che rinsalda il senso di appartenenza a un Paese; un reddito che rafforza la società, creando coesione sociale; un reddito che facilita la riduzione di una disuguaglianza sempre più inaccettabile.
Per ora non esiste al mondo un vero e proprio reddito di cittadinanza. In Alaska vige un sistema di redistribuzione del reddito derivante dalla gestione pubblica dell’estrazione del petrolio (oil dividend), ma si tratta di una somma variabile in funzione del rendimento di azioni societarie che non ha mai superato i 2mila dollari all’anno. Il progetto finlandese è di gran lunga più ambizioso. Se l’esperimento (2017-2018) dovesse essere valutato positivamente, il programma potrebbe essere esteso a tutta la popolazione finlandese a partire dal 2019.
Olli Kangas, sociologo, direttore scientifico di KELA -l’istituto che sta coordinando i lavori-, prefigura quattro possibili sviluppi. Primo scenario: un vero e proprio reddito di circa 800 euro al mese con pressoché totale cancellazione dei programmi sociali in essere. Secondo scenario: un reddito incondizionato ma limitato, cioè di importo ridotto a circa 550 euro al mese, e che conviverebbe con la gran parte delle politiche sociali in vigore. Terzo scenario: reddito sotto forma di “imposta negativa” che verrebbe meno per redditi familiari superiori ai 20mila euro all’anno; in questa ipotesi, resterebbero in vigore tutte le politiche sociali attuali. Quarto scenario: un reddito condizionato o “partecipativo”, che prevede l’accorpamento delle esistenti misure di sostegno al reddito al fine di avere un “reddito” unico erogato in cambio di prestazioni individuali, come ad esempio attività di volontariato o di servizi alla persona. I primi due scenari definiscono esempi di reddito di cittadinanza in senso stretto, seppur variabili per entità dell’importo erogato; il terzo un reddito minimo erogato solo a chi si trova in una situazione di deprivazione relativa; il quarto una rivisitazione dei “lavori socialmente utili”, a cui anche l’Italia ha fatto ricorso in passato.
Si tratta di una sperimentazione da osservare con estremo interesse per tre ragioni: 1) presenta scenari chiari e utilizza metodi innovativi per la valutazione della soluzione più adatta; 2) rende concreta e reale la prospettiva del reddito di cittadinanza in Europa come strumento per il contenimento della disuguaglianza; 3) collega la valutazione del reddito di cittadinanza a una sorta di valutazione d’impatto sociale sulla comunità di riferimento, conferendo una dimensione non solo individuale bensì comunitaria allo strumento. Si potrebbe facilmente pensare che si tratta di una decisione “estremista” e “spendacciona” di uno dei soliti governi scandinavi di stampo socialdemocratico.

martedì 17 maggio 2016

Le sanguisughe della ricchezza

Nel corso del Novecento gran parte dell’attenzione degli studiosi era rivolta alla tendenziale distruzione delle economie precapitaliste, incorporandole nelle relazioni capitaliste della produzione. Il periodo post-1980 rende visibile un’altra variante di questa appropriazione attraverso l’incorporazione. È la distruzione non delle modalità pre-capitaliste, bensì di varie strutture capitaliste keynesiane con lo scopo di favorire l’affermarmazione di una nuova specie di capitalismo avanzato, che possiamo definire «estrattivo».
La crescente importanza dell’estrazione nel XXI secolo ha sostituito il consumo di massa come logica dominante di gran parte del XX secolo. Il consumo di massa mantiene la sua importanza, ma non è più un fenomeno capace di creare nuovi ordini sistemici, come è successo in gran parte del XX secolo, come testimonia la costruzione di vasti insediamenti residenziali suburbani, dove ogni famiglia acquistava di tutto e di più anche se, ad esempio, si poteva tosare l’erba solo una volta alla settimana.
Solo oggi, all’inizio del XXI secolo, questa logica organizzativa post-keynesiana affermatasi negli anni 1980 ha reso perfettamente leggibile la sua forma. In un mio volume precedente, The Global City (Le città globali, Utet) avevo documentato il fatto che stesse emergendo una nuova dinamica capitalista; e che una delle sue caratteristiche fosse l’indebolimento di quelle che all’epoca erano classi medie ancora prospere e in crescita. Sostenevo, cioè, che nelle grandi città (globali) stesse emergendo un nuovo ordine nella stratificazione sociale caratterizzato dalla crescita di classi medie ben pagate e, all’altro estremo, di una classe media impoverita.
Rispetto a quel periodo, il nuovo sistema economico ha favorito una forte polarizzazione alle estremità dello spettro sociale e un conseguente riduzione del «centro», elemento questo che ridotto enormemente la mobilità delle classi lavoratrici verso l’alto. All’epoca le mie conclusioni sono state respinte da molti studiosi: molti di coloro che analizzavano il capitalismo preferivano concentrarsi su una dimensione nazionale, mentre io vedevo nelle «città globali» come l’avanguardia di una nuova logica sistemica.
La stagione del debito
Questa emergente logica sistemica comporta, in termini drammatici, l’espulsione delle persone dai luoghi dove sono nati e la distruzione del capitalismo tradizionale allo scopo di soddisfare i bisogni, anche qui sistemici, dell’alta finanza e l’accesso delle imprese alle risorse naturali. Da sottolineare il fatto che le logiche tradizionali o familiari nell’estrazione di risorse per soddisfare i bisogni nazionali potrebbero comunque preparare il terreno per l’intensificazione sistemica del capitalismo «estrattivo».
Una possibile interpretazione del passaggio dal modello keynesiano a quello attuale è dunque concepirlo come il passaggio dal consumo di massa all’estrazione. Per gran parte degli anni Ottanta e Novanta i paesi poveri indebitati sono stati chiamati a versare una quota degli utili derivanti dalle esportazioni per risanare il debito contratto con organismi sovranazionali (il Fondo monetario internazionale) o imprese finanziarie. Questa quota era intorno al 20%: una percentuale molto più alta di quella richiesta in altri casi. Ad esempio, nel 1953 gli Alleati cancellarono l’80% dei debiti di guerra della Germania e pretesero solo il versamento del 3-5% degli utili derivanti dalle esportazioni per risanare il debito. E negli anni 1990, dopo la caduta dei loro regimi comunisti, chiesero solo l’8% ai paesi dell’Europa Centrale.
Esodi planetari
In contrasto con il progetto di sviluppo economico nell’Europa uscita dalla Seconda Guerra Mondiale, dagli anni 1980 l’obiettivo per quanto riguarda i paesi del Sud Globale era invece simile a un regime disciplinare volto all’estrazione delle ricchezza e delle risorse naturali anziché allo sviluppo. La dinamica riguardante il Sud globale aveva un primo momento, dove i paesi coinvolti erano costretti ad accettare i programmi di ristrutturazione e dei finanziamenti provenienti dal sistema internazionale, nonché, forse l’aspetto più importante, l’apertura delle loro economie alle imprese straniere per quanto riguarda le risorse naturali e la produzione di merci destinate al consumo locale. Una apertura che ha favorito lo sgretolamento dei settori nazionali del consumo in America Latina, Africa sub-sahariana e alcune parti dell’Asia.
Trascorsi 20 anni, è apparso chiaro come questo regime non abbia rispettato le componenti fondamentali necessarie per un sano sviluppo economico. Il risanamento del debito era infatti una priorità rispetto lo sviluppo di infrastrutture, sistema sanitario, formazione, tutti elementi necessari per il benessere della popolazione. Il predominio di questa logica «estrattiva» ha consolidato un un meccanismo teso a una trasformazione sistemica di quei paesi che andava ben oltre il pagamento del debito, dato che è stato un fattore chiave nella devastazione di vasti settori delle economie tradizionali, come la produzione su piccola scala, della distruzione di buona parte della borghesia nazionale e della piccola borghesia, del grave impoverimento della popolazione e, in molti casi, della diffusione della corruzione nell’amministrazione statale.
Accanto a ciò abbiamo assistito al fatto che i paesi dell’Opec (cioè i paesi produttori ed esportatori di petrolio) hanno deciso sin dagli anni Settanta di trasferire l’improvvisa ricchezza accumulata alle grandi banche occidentali: un fattore che ha costituito la condizione per promuovere i finanziamenti ai paesi del Sud Globale.
Le élites predatrici
Tra pagamento degli interessi e aggiustamenti strutturali questi paesi hanno ripagato più volte il loro debito, senza mai riuscire veramente a rimborsarlo, provocando il collasso di governi usciti dalle lotte per la liberazione nazionale degli anni Sessanta e Settanta. Il risanamento del debito è divenuto infatti uno degli strumenti chiave per spingere molti di questi governi verso un approccio neoliberale: diventare importatori e consumatori, anziché produttori. Nell’insieme, la massiccia espansione del settore minerario e di altri settori estrattivi e, in particolare, l’espropriazione dei terreni per l’agricoltura e, più recentemente, l’espropriazione delle acque per aziende come Nestlé e Coca Cola hanno prodotto «zone speciali» per l’estrazione e governi dominati da élite predatrici.
I piani di austerità attuati in gran parte del Nord Globale sono una sorta di equivalente sistemico di ciò che è accaduto al Sud. Alcuni esempi sono i tagli dei servizi pubblici, delle pensioni per i lavoratori, del sostegno ai poveri e i tagli, o l’aumento, dei prezzi in una serie di altri servizi pubblici. Assistiamo inoltre a innovazioni che mirano a estrarre tutto quanto possibile dal settore pubblico e dalle famiglie, comprese quelle povere. Un caso è la crisi dei mutui sub-prime iniziata nei primi anni 2000 ed esplosa nel 2007. Secondo la Federal Reserve statunitense, alla fine del 2014 avevano perso la casa oltre 14 milioni di famiglie, pari ad almeno 30 milioni di individui.
Possiamo quindi individuare una relazione tra capitalismo avanzato e tradizionale caratterizzata da dinamiche predatorie anziché da evoluzione, sviluppo o progresso. I modelli attuali qui brevemente descritti possono comportare l’impoverimento e l’espulsione di un numero sempre più alto di persone che cessano di costituire un «valore» come lavoratori e consumatori. Ma significa anche che le piccole borghesie tradizionali e le borghesie nazionali tradizionali cessano di avere un «valore».
Trafficanti di organi
I processi di trasformazione che rafforzano la base dell’attuale capitalismo avanzato sono quindi concentrati su «logiche estrattive» anziché sul consumo di massa. Il consumo di massa è ovviamente ancora importante, ma non è più la logica dominante, il che contribuisce anche a spiegare l’impoverimento delle classi medie e lavoratrici: il loro consumo conta molto meno per i settori dominanti di oggi. Di particolare importanza sono inoltre gli insiemi di particolari processi, istituzioni e logiche che vengono mobilitati in questa trasformazione/espansione/consolidamento sistemico.
Un modo per interpretare questi cambiamenti è vederli come l’espansione di una sorta di spazio operativo per il capitalismo avanzato che espelle le persone sia nel Sud che nel Nord globale incorporando territori per attività minerarie, l’espropriazione dei terreni e delle acque, la costruzione di nuove città.
Le economie devastate del Sud globale, vittime di un decennio di risanamento del debito, vengono ora incorporate nei circuiti del capitalismo avanzato attraverso l’acquisizione accelerata di milioni di ettari di terreno da parte d’investitori esteri per coltivare cibo ed estrarre acqua e minerali per i paesi che investono. Poco viene fatto per sviluppare le infrastrutture utili alla sopravvivenza delle popolazioni povere e a basso reddito. È un po’ come volere solo il corno del rinoceronte e gettare via il resto dell’animale, svalutarlo, indipendentemente dai vari utilizzi possibili. Oppure usare il corpo umano per coltivare determinati organi e non riconoscere alcun valore agli altri organi, per non parlare dell’intero essere umano, che può essere interamente eliminato.
Questo cambiamento sistemico segnala che il marcato aumento delle persone emarginate, povere, uccise da malattie curabili fa parte di questa nuova fase. Le caratteristiche fondamentali dell’accumulo primitivo ci sono, ma per vederle è essenziale andare oltre le logiche dell’estrazione e riconoscere la trasformazione sistemica come un fatto, con procedure e progetti in grado di cambiare il sistema – l’espulsione delle persone che ritrasforma lo spazio in territorio, con le sue varie potenzialità.
Si è aperto il cinque maggio il BergamoFestival «Fare la pace», che aveva come tema portante «Muri che si alzano, confini che si dissolvono». Pensata come un insieme nomade di incontri, l’iniziativa è scandita da discussioni sullo stato del mondo, ma anche di come i muri alzati possano coinvolgere non solo le frontiere nazionali, ma anche la realtà sociale. Il sei maggio la filosofa ungherese Agnes Heller ha parlato del «paradosso dello Stato-nazione europeo e dello straniero». Il 10, invece il padre gesuita francese Gaël Giraud è intervenuto su «La grande scommessa- Dare regole alla finanza per salvare il mondo». Oggi sarà la volta di Saskia Sassen, della quale pubblichiamo brani della sua relazione» che parlerà di «La solitudine dei numeri primi. La vita sulla terra ai tempi della globalizzazione». Colin Crouch interverrà invece su «Chi governa il mondo. La democrazia dopo la democrazia

lunedì 16 maggio 2016

I robot e il futuro della globalizzazione

Una nuova ondata di innovazioni nel settore della robotica e dell’intelligenza artificiale. Con quali conseguenze sull’occupazione?
Nell’ultimo periodo si va assistendo nel mondo ad una nuova ondata di innovazioni nel settore della robotica e dell’intelligenza artificiale. Tale processo deve essere inserito poi in un più vasto e più generale fenomeno in atto, quello di un forte sviluppo delle tecnologie digitali, sviluppo che prende ogni giorno nuove forme e tende a diventare sempre più pervasivo.
Il processo di crescita della robotica era stato in qualche modo rallentato in passato dalla scarsa elasticità degli apparati, nonché dal loro costo rilevante. Ma ora si affaccia sul mercato una nuova generazione di macchine, molto più flessibili di prima, di più ridotte dimensioni, imbottite di programmi di intelligenza artificiale, meno costose (Cosnard, 2015; Tett, 2015) e così, da qualche tempo, i tassi di crescita del settore si vanno facendo molto più sostenuti.
Secondo un’analisi del Boston Consulting Group, il prezzo medio dei robot, dopo la riduzione degli ultimi anni, tenderà a diminuire ancora grosso modo del 20% nei prossimi dieci, mentre le loro prestazioni potranno crescere del 5% all’anno ancora per molto tempo (Bland, 2016).
Così, ora si prevede che il settore aumenterà il suo fatturato nel 2016 e negli anni successivi del 17% all’anno, per raggiungere in valore i 135 miliardi di dollari nel 2019 (Waters, Bradshaw, 2016).
Sino a non molti anni fa i due principali produttori degli apparati erano il Giappone e la Germania, con altri paesi europei che avevano anch’essi molto da dire (Svezia, Italia, tra gli altri); ma ora avanzano altri protagonisti. Così la Cina tende a diventare l’attore più importante per quanto riguarda sia il mercato che la produzione del settore (attualmente il valore delle due variabili supera di poco nel paese il 25% del totale mondiale, con tendenza però ad una forte crescita), seguito a una certa distanza dal Giappone, con gli Stati Uniti che mantengono invece la leadership nel campo del software e con l’Europa, a parte la Germania, che fa fatica a tener dietro, pur non mancando di un certo livello di know-how e di esperienze produttive.
Nel 2015 la Cina ha poi depositato la richiesta di circa 33.000 brevetti nel comparto, il 35% del totale a livello mondiale, il Giappone circa 14.000, gli Stati Uniti 12.000, la Corea del Sud 7.000, l’Europa meno di 5.000 (Waters, Bradshaw, 2016).
Con tale nuova crescita delle attività, è ripreso con forza il dibattito relativo alle conseguenze del suo sviluppo sull’occupazione; la letteratura in proposito è abbondante. Si fronteggiano due scuole principali, la prima che sostiene che l’avvento delle macchine porterà, se non si interviene adeguatamente, ad una sua rilevante caduta (vedi in proposito, ad esempio, l’ormai classico testo di Frey, Osborne, 2013), la seconda, più ottimistica, che pensa che, mentre si ridimensionano i vecchi tipi di lavoro, se ne creano parallelamente di nuovi, che riescono a riempire i vuoti.
La prima scuola sembra comunque quella che riesce a raccogliere i maggiori consensi.
Automazione e localizzazione delle fabbriche
Ma in questo scritto vorremmo concentrare l’attenzione su di un altro tema, più trascurato sino ad oggi nelle analisi, quello relativo alle conseguenze della nuova ondata di automazione sui processi di globalizzazione e sulla divisione internazionale del lavoro.
Si può partire dalla considerazione che la nuova generazione di robot è in grado di tagliare ormai i costi di produzione di un’impresa non solo in presenza di salari al livello statunitense o tedesco, ma anche di quelli cinesi e persino di quelli indiani, vietnamiti e di altri paesi con retribuzioni molto basse (Tett, 2015).
A questo punto si potrebbe verificare una forte spinta a una localizzazione in occidente della maggior parte dei nuovi insediamenti produttivi delle imprese e ad una rilocalizzazione sempre in tale area di produzioni già a suo tempo trasferite nel Sud del mondo. Questo, almeno nel caso in cui la motivazione principale della delocalizzazione sia o sia stata una questione di costi di produzione (Tett, 2015).
Tale processo risponderebbe in qualche modo anche alla richiesta di una parte almeno dell’opinione pubblica dei paesi ricchi a frenare i processi di delocalizzazione, come appare evidente, ad esempio, dall’andamento della campagna elettorale presidenziale statunitense.
Ricordiamo come, d’altra parte, spesso, oltre al problema dei costi di produzione, siano presenti anche altre motivazioni per gli insediamenti produttivi esteri, in particolare la volontà di stare in un certo paese o in una certa regione per motivi di mercato, per la presenza in loco di materie prime, l’esistenza di barriere all’entrata, o quella di esistenza nel paese di particolari competenze e conoscenze, di adeguate infrastrutture, ecc..
Così, nonostante il forte aumento in atto da molti anni ormai della dinamica salariale cinese, gli investimenti esteri vi tendono ancora a crescere, in relazione, tra l’altro, alla sempre più pressante necessità di essere presenti in un mercato che appare ormai il più importante del mondo, o al massimo il secondo, per moltissimi prodotti e servizi. Va, comunque, ricordato che si verifica contemporaneamente da qualche tempo una deriva di investimenti da tale paese verso aree a minore costo del lavoro per le attività a basso valore aggiunto.
Naturalmente tale tendenza allo spiazzamento del lavoro umano da parte dei robot potrebbe giocare a favore delle imprese dei paesi ricchi, ma non certo di quella dei lavoratori degli stessi.
I differenti destini di Cina ed India
Si può aggiungere anche che, sul piano dell’occupazione, il numero delle persone minacciate di essere eliminate dai processi produttivi dalla nuova ondata di automazione appare maggiore nei paesi emergenti che non in quelli sviluppati, non solo perché a questo punto i primi non presenterebbero alcun vantaggio ulteriore in termini di costi di produzione, ma anche per il fatto che in essi il livello medio delle qualificazioni è più basso e quindi più soggetto ad essere toccato da queste tendenze.
Tali sviluppi non sembrano spaventare molto i cinesi, che vedono la loro forza lavoro diminuire di anno in anno a causa delle ben note tendenze demografiche locali: la popolazione attiva del paese dovrebbe passare dal miliardo di unità del 2015 ai 960 milioni del 2030 agli 800 del 2050 (Bland, 2016) e quindi i processi di automazione potrebbero contribuire in misura notevole a supplire alla mancanza di personale.
Il problema si presenta in modo diverso e molto più drammatico per molti altri paesi emergenti a partire dall’India, nei quali la dinamica demografica è molto più sostenuta e che contavano, per larga parte, sui processi di industrializzazione per progredire e fornire un’occupazione ai loro cittadini. Oggi in effetti i robot distruggono lavori che in Cina hanno portato a suo tempo molte decine, se non centinaia di milioni di persone, fuori dalla povertà; ma un paese come l’India, che sta cercando soltanto ora a industrializzare il paese, si trova in sostanza in una trappola dalla quale appare difficile uscire.
L’India, il Vietnam, la Cambogia e molti altri paesi, quindi, che speravano di seguire l’esempio della Cina e prima ancora di Giappone o Corea del Sud, spostando milioni di persone dall’agricoltura alle fabbriche low-cost che dovevano produrre per l’esportazione, si trovano oggi così di fronte alla minaccia di una “deindustrializzazione prematura” (Dani Rodrik) e comunque, come ha scritto qualcun altro, devono affrontare una corsa contro il tempo nel cercare di industrializzarsi prima che l’invasione dei robot renda il tutto impossibile.
Impresa che sembra peraltro, ormai, molto difficile da perseguire

venerdì 13 maggio 2016

La Neolingua di Renzi

Ma qualcuno di quelli che sostengono Renzi, o anche di quelli che se lo terranno perché tanto sono tutti uguali, lo hai mai sentito parlare? Non solo dice cazzate (nel senso tecnico dato alla parola dal filosofo Harry Frankfurt, a definire affermazioni vuote, irresponsabili): per di più le dice male.
Ecco un esempio, mica tratto da una sua casuale chiacchierata con gli amici al Bar Sport ma dalla conferenza stampa insieme a Angela Merkel dopo il vertice a Palazzo Chigi del 5 maggio:
“Angela [a far capire che lui i potenti li chiama per nome] è una grande tifosa del Bayern Monaco [falso, vedi sotto] e il prossim’anno il Bayern Monaco avrà un allenatore italiano che si chiama Carlo Ancelotti [i giornali non parlavano d’altro da giorni: a chi stava dando la notizia?]. Bene, non c’è dimostrazione [dimostrazione??? ma lo sa cosa significa “dimostrare”] migliore del fatto che i destini italiani e tedeschi[tanti destini] stanno insieme [in che senso dei destini possono “stare insieme”?] e devono provare a vincere insieme [mai sentito di destini che provino a vincere, insieme o da soli] al di là di falsi stereotipi e di luoghi comuni che troppo spesso vengono utilizzati”.
Una sciatteria imbarazzante, e non solo a livello stilistico; e dire che neanche stava cercando di parlare in inglese. In sostanza, siccome a Merkel piace il Bayern e siccome dall’anno prossimo ad allenarlo ci andrà un italiano (che peraltro dal 2009 ha preferito starsene in Inghilterra, Francia, Spagna), allora è dimostrato che Italia e Germania possono vincere insieme. Se ne deduce che in questo momento, con Guardiola ancora a Monaco, siano Spagna e Germania a vincere insieme (in realtà mica tanto, calcisticamente parlando, visto che l’Atletico ha eliminato proprio il Bayern); e che fra due o tre anni, quando Ancelotti se ne andrà da qualche altra parte, non lo potranno fare più. Per non dire del fatto che a Merkel, nata ad Amburgo e cresciuta a Berlino, non piace solo il Bayern: le piace per esempio anche il Borussia Dortmund, come spiegò tre anni fa Der Spiegel suggerendo che a livello calcistico la cancelliera si confermava “un campione mondiale di indecisione”, il cui modo di fare politica era volto solo a “evitare i contrasti, abbracciare chiunque e rinunciare alle decisioni importanti”. Che è probabilmente il motivo per cui piace tanto a Renzi.
Notate infine quei destini al plurale, sia per l’Italia che per la Germania: avere un destino capisco, ma tanti destini che destino è? Temo, il destino di avere accettato che a capo del nostro governo ci sia un personaggio così mediocre: ma arrogante al punto da rottamare, insieme alla Costituzione e allo stato sociale, anche la lingua italiana.
Ma a che scopo?, era la domanda che mi ponevo. La spiegazione mi è parsa evidente quando ho letto dell’attacco di Renzi e Anna Maria Boschi contro chiunque osi opporsi allo smantellamento della Costituzione: chi si proponga di votare no nel referendum è un fascista. Perché? Perché siccome Casa Pound è contro, allora chiunque sia contro è come Casa Pound. ANPI inclusa. Un tempo, quando ancora la retorica la si studiava (appunto per smascherarne gli abusi), si sarebbe discusso se il falso sillogismo proposto dai vertici piddini fosse un paralogismo o un sofisma, ossia se la capziosità dell’argomentazione fosse dovuta a errore inconsapevole o intenzionale. Oggi la gente si beve quotidianamente paralogismi e sofismi ma non ha idea di cosa siano. Nella fattispecie credo che nel sillogismo in questione l’errore sia inconsapevole e che proprio questo sia lo scopo della banalizzazione del linguaggio e dello svuotamento della logica promossi dal liberismo e dai suoi media: abbassare talmente le capacità di pensiero razionale della gente da renderla facilmente preda delle emozioni a telecomando spacciate dalla tv e delle sciocchezze propinate dalla più squallida classe dirigente della storia.
(*) Francesco Erspamer così si presenta:<

giovedì 12 maggio 2016

La ricetta dell’Italia per la Siria, sanzioni e fornitura di armamenti ai ribelli?

Il Vescovo di Aleppo nell’incontro a Milano, descrive gli effetti dell’embargo (delle sanzioni ce ne siamo occupati nell’articolo ‘Le sanzioni ed il finto problema dei profughi’) e racconta del rinvigorimento dei combattimenti che sono coincisi con le rinnovate forniture di armi ai ribelli. E’ chiaro che la guerra di Siria è una guerra che per gli attori esterni ‘non va come deve andare’, perciò è una partita senza fine
, piena di colpi bassi e proibiti.Dalla testimonianza del Vicario Apostolico di Aleppo mons. George Abou Khazen, è emersa chiara l’urgenza di porre fine alle sanzioni contro la Siria che colpiscono soprattutto la società civile: la sospensione delle sanzioni sarebbe un provvedimento attuabile da subito (indipendentemente dal disaccordo tra le parti che impedisce la conclusione positiva dei negoziati).
Mons. George Abou Khazen non ha voluto dare accenti politici alla sua esposizione, ma inevitabilemnte ha descritto ‘l’altra guerra nascosta’, quella contro la popolazione civile indifesa: gli effetti del conflitto sono infatti acuiti dalla svalutazione della moneta nazionale, dalla carenza di beni di prima necessità, dalla disoccupazione. Sono gli effetti di una guerra evitabile e di sanzioni, anch’esse evitabili. Ma tant’è: da cinque anni, i leader delle maggiori potenze mondiali riaffermano la propria vicinanza al popolo siriano e manifestano il desiderio di volere donare ai siriani un governo più democratico. Però, le decisioni intraprese nelle ‘riunioni al vertice’ non nascono da una preoccupazione buona ma da un atteggiamento sempre di più di parte.L’afflusso di armi donate in maniera sempre più massiccia all’opposizione armata (composte in gran parte da milizie che auspicano uno stato settario religioso) viene motivato dagli USA e dalla UE con la giustificazione di ‘riequilibrare’ i due fronti opposti. Questa motivazione è veramente offensiva per la ragione: una simile condotta pone il campo di battaglia in una ‘stasi’ diabolica, un lento logoramento degli antagonisti che passando per un inevitabile imbarbarimento del conflitto: va avanti fino alla definitiva distruzione sia dello stato che della società civile.
In definitiva, la comunità internazionale sta facendo affidamento solo sulle proprie risorse finanziarie e militari ed è solo interessata ad acquisire un certo controllo sulla Siria. L’embargo ad oltranza, che uccide tutti, finnchè non si giunga alla capitolazione senza condizioni, è sempre più simile all’assedio delle fortezze in epoca antica. Naturalmente, le sanzioni non dicono di avere motivazioni strategiche di questo tipo (vietate peraltro dalla Convenzione di Ginevra) ma dicono di essere messe in atto ‘per far cessare le angherie del regime sulla popolazione civile e così proteggerla’. Ci accorgiamo però quanto questa sia un’affermazione falsa e continuamente contraddetta dalla realtà; per esempio, la contraddice la notizia dei 500 villaggi siriani in cui la popolazione ha chiesto ai ribelli di uscire dai centri abitati e di smettere di combattere e per ultima, la notizia della gente che rimprovera l’esercito siriano perchè non interviene contro i ribelli (riportata da Zenit ieri ‘finita la tregua ricomincia la strage‘).
Ma veramente c’è qualcuno ancora che crede che noi siamo ‘i buoni’? Beh, alla luce di quanto detto, il popolo siriano ha tutte le ragioni per sentire questa guerra, come una guerra beffarda dell’occidente contro di sè.