venerdì 30 marzo 2018

Un ex-agente della CIA descrive la politica di Trump

Robert David Steele, ex-ufficiale delle operazioni clandestine della CIA, dice “John Bolton, a parte essere uno stupido corrotto in mano ai sionisti è, secondo Larry Flynt, un traditore, stupratore e pedofilo“. Steele, raccomandato nel 2017 per il Nobel per la pace, aggiunge che i sionisti controllano la politica della sicurezza nazionale degli Stati Uniti ricorrendo a ricatti e tangenti (ad esempio Jeffery Epstein e i video ricattatori per pedofilia combinati con la corruzione dei membri del Congresso. Di seguito è riportato il testo completo dell’intervista a Robert Steele.
D: Donald Trump ha recentemente apportato modifiche al gabinetto e ha cambiato il suo team di sicurezza e politica estera. Mike Pompeo sostituisce Rex Tillerson e Gina Haspel diventa capo della CIA e John Bolton sostituisce McMaster. Qual è stata la ragione di ali cambiamenti?
A: Ci sono due storie diverse che circolano sul motivo per cui Rex Tillerson è stato licenziato in un modo così strano, un’uscita molto affrettata. Uno è che era troppo vicino allo Stato Profondo (fu fortemente raccomandato da Bob Gates e Condi Rice, entrambi agenti dello Stato Profondo) e non era al passo col presidente Trump in Corea (Trump ha fatto l’accordo, le Corea saranno unite, denuclearizzate e demilitarizzate) e la Siria (Trump uscirà dalla Siria una volta che lo SIIL sarà definitivamente sconfitto e non manterrà basi a lungo termine). La seconda storia viene dalle nostre truppe in Afghanistan e dice che Tillerson ha fatto il bambino durante la visita in Afghanistan, e questo ha scioccato il presidente ordinandone l’immediato licenziamento. Mike Pompeo, il primo della classe a West Point, sarà tanto lontano dalle discussioni di Trump con Xi e Putin come lo era Tillerson. Trump ha un’intesa con Xi e Putin che i suoi funzionari di Gabinetto semplicemente non sanno. Vedasi il mio ultimo articolo, Robert Steele, “Xi, Putin e Trump a vita. Alcuni pensieri, e se potessimo seppellire lo Stato profondo e creare pace e prosperità per tutti?” American Herald Tribune, 22 marzo 2018. Gina Haspel è una persona straordinaria che merita di essere presa in considerazione, ma sarà un fallimento, un segnaposto, a meno che non accetta i cinque suggerimenti specifici fatti con la mia approvazione della sua nomina. I lettori possono vedere queste cinque raccomandazioni in Robert Steele, “La sfida della conferma di Gina Haspel“, Phi Beta Iota blog di pubblica intelligence, 14 marzo 2018. Non c’è nulla di centrale o efficace nella CIA nella configurazione attuale. È semplicemente una piattaforma per fare danni fuori mentre il 90% dei dipendenti, brave persone intrappolate in un cattivo sistema, fa ciò che può. La CIA fornisce il 4% “al meglio” di ciò che agli USA serve d’intelligence (supporto decisionale) e non ci sono prospettive di migliorarlo nel breve termine. John Bolton è un sospetto scambista, stupratore e pedofilo, secondo Larry Flynt, che pubblicò un comunicato stampa in questo senso, il divorzio di John Bolton – accuse di sesso di gruppo, il 13 maggio 2005. Questa informazione fu una sorpresa. Ho sempre saputo che Bolton era corrotto e stupido, in mano ai sionisti, ma non prevedevo affermazioni così gravi che, per inciso, suggeriscono che Trump l’ha nominato d’impulso, senza consultare l’FBI, o se si è consultato l’FBI, non hanno dato queste informazioni da Trump per punirlo per aver licenziato il loro vicedirettore (che non doveva essere licenziato, ma incriminato). Voglio notare che alla luce di ciò che mi è stato detto dalla principessa Kaoru Nakamaru, presidente dell’Istituto per gli affari internazionali per la pace mondiale e tramite della famiglia reale con la leadership nordcoreana, rispetto a Trump che ha già fatto l’accordo con la Corea, con possibile premio Nobel per la pace per lui e Xi e i leader di Corea democratica e del Sud, la nomina di Bolton potrebbe essere considerata molto intelligente. un mezzo per distrarre e mettere da parte sionisti e neoconservatori mantenendo il loro portavoce “sotto controllo” alla Casa Bianca.
D: Quali saranno questi cambiamenti che influenzeranno la politica estera del governo Trump? Quali ambiti della politica estera degli Stati Uniti saranno più influenzati da tali cambiamenti?
A: Ci sono due risposte a questa domanda. La prima, i cambiamenti al di sotto della presidenza non avranno alcun impatto sulla politica estera di Donald Trump, ha una sua politica estera mentre consulta direttamente Xi e Putin, e nessuno dei suoi funzionari di Gabinetto sembra al corrente di queste conversazioni o dove vada Trump. In secondo luogo, in modo più sottile, continueranno ad esserci almeno sette politiche estere perseguite da diversi elementi del governo USA, c’è sempre la politica estera dello Stato profondo o di Wall Street, la politica estera sionista (vicina ma distinta dallo Stato profondo), la politica estera del sistema militare-industriale, la politica estera del complesso agricolo e, naturalmente, la politica estera dell’intelligence che include il contrabbando di oro, armi, droga, denaro e bambini dalle 1000 basi militari statunitensi attorno nel mondo, il cui scopo principale non è la difesa nazionale, ma piuttosto l’attuazione di tale traffico. Il 26 marzo è l’inizio di una nuova era economica, l’era economica post-occidentale probabilmente dominata da Cina e Russia ma con la possibilità di un ruolo degli Stati Uniti se Trump nazionalizza la riserva federale ed emette dollaro-oro accompagnando lo yuan-oro. Continuo a credere che Donald Trump capisca che l’Iran non è il nostro nemico, che il sionismo è il nemico, ma deve affrontare molto attentamente i rapporti col nemico sionista, non per gli elettori, ci sono solo nove milioni di elettori ebrei negli Stati Uniti ma a causa della corruzione sionista, del ricatto, del terrorismo e dell’assassinio, tutti dovrebbero ricordare che i sionisti erano pienamente coinvolti nell’assassinio di John F. Kennedy, e che cercarono di uccidere tutti i nostri marinai dell’USS Liberty, e furono gli architetti dell’11 settembre. Se hanno bombe nucleari piazzate in importanti città occidentali è un mistero, se è così, una delle priorità di Trump dev’essere neutralizzare tale minaccia, magari con un piano da mano morta deliberato per spazzare via Tel Aviv dalla faccia della Terra se dovesse verificarsi una grave catastrofe a Washington DC.
D: Con l’approccio di Pompeo e John Bolton, come valuta il futuro di questo accordo?
A: I leader iraniani trarrebbero beneficio dalla lettura dei miei due articoli, “Il sionismo in America, Steven Strikes & Counting… ” Veterans Today, 14 dicembre 2017, e “Il sionismo é finito? Dalla Corea alla Siria fino all’ultima purga da Gestapo di Google, il divorzio dal sionismo del presidente Donald Trump appare sempre più probabile” American Herald Tribune, 4 marzo 2018. Il centro di gravità della sconfitta del sionismo e la stabilità del Medio Oriente è a mio avviso il pubblico statunitense, non il suo governo. Il pubblico statunitense è acutamente consapevole dei concetti Stato profondo, False Flag, Fake News e differenza tra sionismo, gruppo sovversivo che dovrebbe essere bandito da tutti i Paesi, e giudaismo, una religione che merita tolleranza quando è non gestita dai sionisti. Devo osservare che né Russia TodayPress TV sono operazioni mondiali. Mentre gli USA stabiliscono uno scadente standard per integrità, i Crap News Network, New York Crimes e Washingon Compost, come noi patrioti li chiamano, raggiungono centinaia di milioni di persone. C’è bisogno di un “canale della verità” che possa offrire ad ogni statunitense la verità, non la propaganda (una parte della propaganda iraniana è stata tanto stupida quanto quella ideata dalla CIA). Né Pompeo né Bolton hanno combinato qualcosa di significativo. Donald Trump, e il pubblico statunitense, sono i “decisori”, se l’Iran è scaltro. Raccomando che chi in Iran desidera comprenderlo, legga il mio articolo su “Xi, Putin e Trump per la Vita”, Trump è sotto costante attacco dalle forze sovversive negli Stati Uniti, guidate dai sionisti per conto dello Stato profondo, e l’Iran non fa nulla di utile per aiutare Trump ad onorare il suo istinto, farci uscire dal Medio Oriente.
D: John Bolton ha recentemente annunciato che l’accordo nucleare iraniano non è riformabile e non sarà riformato coi colloqui USA-Europa. Alcuni credono che la scelta di Bolton sia per decidere sull’accordo nucleare. Qual è la sua valutazione?
A: John Bolton, oltre ad essere un corrotto molto stupido in mano ai sionisti, è ora, secondo Larry Flynt, un traditore, stupratore e pedofilo. Non sprecherei tempo a pensare a John Bolton. Si pensi invece al paradigma economico post-occidentale che inizia domani, e all’emergente Internet post-Google che sarà basato sulla tecnologia blockchain e non può essere censurata o manipolata dai sionisti; il mio articolo “Come lo Stato profondo controlla i social media e assassina digitalmente i critici: #GoogleGestapo, censura e aggressione di gruppo facilitati“, American Herald Tribune , 7 novembre 2017, rimane un’importante definizione di tutto ciò che è sbagliato su Internet occidentale. Sarei interessato a vedere Iran, Cina e Russia discutere, come Putin ha chiesto, di Internet post-occidentale. Gli Stati Uniti non hanno avuto un serio consigliere per la sicurezza nazionale dal Tenente-Generale Dr. Brent Scowcroft, USAF. John Bolton è un pasticcione falso e pomposo. Ignoratelo. Concentratevi su Donald Trump e il popolo statunitense e sulla creazione di un canale della verità che armi il popolo statunitensi con fatti che l’aiuti scacciare il sionismo dagli USA.

giovedì 29 marzo 2018

Pensioni e maternità, la finanza già ricatta il futuro governo

Inutile girarci troppo attorno: l’ombra di un governo italiano euroscettico e favorevole all’intervento pubblico in economia sta agitando i sonni dei potentati liberisti. Non è dato sapere se questa inquietudine sia ben riposta da parte dei diretti interessati, ma, nel dubbio, l’attacco è stato preparato fin nei minimi dettagli e, secondo qualche esperto, è già partito. Il diavolo si nasconde nei dettagli, di solito. In questa occasione, però, pare tutto fin troppo chiaro e non è nemmeno un caso che il fondo del miliardario Ray Dalio, il più grande hedge fund al mondo, dallo scorso ottobre abbia triplicato le sue posizioni al ribasso sulle società italiane. E non c’è solo la speculazione sulle azioni che se ne sta in agguato. A questo giro di giostra partecipano anche BlackRock e il Fondo Monetario Internazionale guidato da Christine Lagarde. L’Fmi ha pubblicato uno studio che pone l’accento sulla necessità, per lo Stato italiano, di rivedere completamente il proprio welfare state, attraverso tagli agli assegni di maternità e alle pensioni di reversibilità. La nota prende in esame però anche il sistema retributivo, che andrebbe penalizzato a livello contrattuale a causa di tredicesime e quattordicesime troppo costose per il sistema. Il fondo BlackRock ha rilanciato questo tema, dando l’allarme ai Btp italiani, una mossa che sembra anticipare un downgrade da parte delle agenzie di rating.
Solo un cretino può permettersi di non capire il messaggio che viene dai potentati: «No ad un governo euroscettico! No a battere i pugni sul tavolo europeo!». L’attacco alla tutela della maternità – almeno quello! – dovrebbe sollevare lo sdegno dei cattolici italiani, ma è più facile che scompaia la pedofilia nella Chiesa che il kompagno che sbaglia, al secolo Jorge Bergoglio, si ponga in modo fermo e deciso contro la globalizzazione. I cattolici che siedono ai vertici, si sa, vanno pazzi per il Medioevo, e non si faranno scrupolo alcuno a farlo tornare. Dunque, si illude fortemente chi pensa che il cattolicesimo possa offrire una sponda ai naufraghi della globalizzazione, anche se parliamo di milioni di europei. Ci sono infatti miliardi di asiatici e di africani da illudere, là fuori. Tornando all’attacco di BlackRock (capitanato dal Fmi), è superfluo aggiungere che sono tattiche già viste in Russia negli anni Novanta, in Grecia nel 2011 e nel 2015, oppure in Italia, fin dai tempi di Mario Monti. La differenza, non di poco conto, è però che questa volta sappiamo come attaccano. Sappiamo tutti dove vogliono andare a parare, e lo diciamo ancora chiaramente qui, finchè non entra anche nelle zucche più vuote.
L’Europa vuole smantellare il welfare state di stampo keynesiano e garantito dalla Costituzione italiana perchè mira a competere con i paesi del terzo mondo in una gara alla produttività completamente priva di senso nel mondo dell’intelligenza artificiale. Si punta ad indebolire ulteriormente i deboli, per renderli ancora più addomesticabili e ricattabili, e sostituibili con altra gleba. L’Europa della Lagarde ricorda la Francia ai tempi di Napoleone, o ancor prima, di Luigi XIV, che si era fissata di incamerare grano da polenta e accumulare oro, mentre nel resto del pianeta i mercanti olandesi e inglesi facevano il bello ed il cattivo tempo con il commercio marittimo. La verità è che l’Europa è vecchia dentro. Malata dei suoi dogmi liberisti – dogmi che persino gli americani stanno rivedendo con sospetto. Nel Vecchio Continente si sta molto meglio che nel resto del mondo solo ed esclusivamente perché ha saputo mettere in piedi un sistema di welfare state. Senza di quello, vivere a Parigi o nel buco del culo di qualche quartiere malfamato di Città del Messico sarà la stessa identica cosa. Ed è a quello a cui puntano, shortando Italia.

mercoledì 28 marzo 2018

PROCESSI INUTILI IN ITALIA

Un tempo dicevamo che in Italia rischi di andare in galera se rubi un’arancia. Adesso dobbiamo aggiornare il catalogo dei mostruosi sprechi della nostra giustizia, con una storia che sembra inverosimile per la sua assurdità, ma purtroppo è verissima. Nove anni di processi per il furto di una melanzana.
Siamo nel Sud, a Carmiano, in provincia di Lecce, e un uomo di 49 anni, nel lontano 2009, viene colto in flagrante mentre prova a prendere una melenzana da un orto. Apriti cielo. Viene prima denunciato a piede libero, e poi finisce sotto processo.
Non si tratta di un giovane monello, ma di un povero disgraziato, che non ha un euro e viene difeso da un avvocato d’ufficio. Ma la macchina della (non) giustizia, quando parte, in Italia non si ferma più. Arriva così il processo di primo grado: condannato. Poi l’appello: altra condanna. E soltanto in Cassazione l’uomo viene riconosciuto non colpevole, e i giudici sottolineano nella sentenza l’assoluta tenuità del reato che avrebbe dovuto sconsigliare questo iter così lungo.

PROCESSI PENALI INUTILI

Ora provate a mettervi nei panni di un qualsiasi cittadino. E fatevi qualche domanda. La prima: quanti soldi ha sprecato lo Stato per tenere sotto processo, e poi assolvere solo in Cassazione, un uomo accusato del furto di una melanzana in un orto? Seconda domanda: e quanto lavoro è stato sottratto, da parte di inquirenti, giudici e corti varie, a procedimenti ben più significativi che di solito marciscono nel pantano della giustizia civile e penale? Infine: uno Stato che per nove anni ti tiene sotto processo per una melanzana, non è uno Stato che perseguita?
In un Paese normale, una cosa del genere porterebbe a qualche provvedimento. E qualcuno pagherebbe il conto di tanta leggerezza e di tanto spreco. Ma in Italia, quando si tratta di errori giudiziari, funziona in un altro modo. La storia c’è, i fatti sono evidenti, ma chi ha sbagliato è impunito per prassi. E anche questa è (non) giustizia.

martedì 27 marzo 2018

Rischio aumento IVA, stangata da 317 euro a famiglia

Il primo vero grande scoglio che dovrà affrontare il nuovo governo è quello di evitare il tanto temuto aumento IVA. Il pericolo dei rincari è il primo vero nodo fiscale della nuova legislatura.
L’ultima manovra ha previsto infatti, in caso di innesco delle clausole di salvaguardia, un aumento delle aliquote del 10 e del 22 per cento che a conti fatti, come ha reso noto un’elaborazione del Sole 24 Ore dell’edizione di lunedì 26 marzo, significherebbe un aumento di 317 euro a famiglia. Dal 10% l’aliquota intermedia passerebbe all’11,5% e quella ordinaria del 22 al 24,2%.
La simulazione elaborata dal quotidiano di Confindustria parte dalle rilevazioni dell’Istat sulla spesa delle famiglie e considera l’impatto del doppio aumento Iva previsto per il prossimo primo gennaio dell’anno prossimo: così si andrebbe dal 10 all’11,5% per l’aliquota intermedia e dal 22 al 24,2% per quella ordinaria. In concreto a essere risparmiate sarebbero esclusivamente le aliquote più basse, quella al 5% e quella al 4%, che si applicano per lo più su alimentari di prima necessità come pane, pasta, latticini, frutta e verdura fresca.
Secondo la simulazione del Sole 24 Ore i rincari medi mensili potrebbero toccare quota 26,43 euro al mese e l’importo più alto in valore assoluto lo pagherebbero le coppie con due figli (439 euro), anche se quelle con tre o più bambini riuscirebbero a sfruttare un minimo di economie di scala.
Sullo stop all’aumento dell’Iva è intervenuto qualche giorno fa anche il presidente di Confcommercio Carlo Sangalli secondo cui le emergenze da affrontare per il prossimo governo sono proprio la prossima stangata fiscale sull’Iva e il problema delle imprese affinché possano riportare le perdite.

lunedì 26 marzo 2018

Olimpiadi2026 a Torino? Come si sta muovendo la nuova «grosse koalition» del massacro sociale

«Ci sono momenti in cui è necessario gettare il cuore oltre l’ostacolo. Come diceva XYZ, e pensando anche quelle parole lontane, ma oggi così vicine, noi diciamo sì. Lo facciamo non a cuor leggero, consapevoli degli errori che sono stati commessi nel passato. Ma è proprio per dimostrare che si può fare bene ciò che è stato fatto male in passato che noi diciamo sì. Perché vogliamo dimostrare che la sostenibilità ambientale ed economica è qualcosa che si può fare. A coloro che dicono “no”, legittimamente, noi rispondiamo: stiamo lavorando anche per voi, per far ritornare la fiducia anche in coloro che l’avevano persa. Daremo tutta la nostra passione e il nostro coraggio per costruire insieme un evento bello, forte, sostenibile, ecologico. Noi trasformeremo gli errori del passato in lavoro, crescita, sviluppo. Quindi Torino [ma forse ci sarà anche Milano, N.d.R.] dice “Sì” alla candidatura per le Olimpiadi di Torino 2026.»
Probabile la deriva «noi ci mettiamo la faccia». Applausi, pagine sul giornale di famiglia, il «coraggio del pragmatismo», «il senso di responsabilità e la visione di futuro», oppure «Torino rilancia la sfida», «ripartenza». Campagna mediatica già ampiamente in corso.
Con ogni probabilità tutto questo, tra pochi giorni, verrà pronunciato dal centro del cratere olimpico di Torino. Città che elegge ogni cinque anni un commissario fallimentare, figura indispensabile per ripianare il maxidebito lasciato dalle Olimpiadi, quelle del 2006.
Dall’uno vale uno, all’uno vale l’altro.
La Stampa di lunedì 30 ottobre 2017, a proposito della difficile situazione finanziaria del Gruppo Trasporti Torinesi e di conseguenza del Comune di Torino:
«…È Stefano Lo Russo, oggi capogruppo del PD in Consiglio comunale, ma fino alla precedente legislatura uomo chiave della squadra di Fassino intercettato il 4 novembre del 2016 mentre era al telefono con un giornalista. In realtà l’intercettazione è stata effettuata per un’altra inchiesta ma finisce nel faldone GTT perché le dichiarazioni dell’ex assessore sono da considerare eloquenti. Gli inquirenti, che stanno lavorando sul disallineamento dei conti del Comune e sulle Partecipate, vengono colpiti dalla fermezza con cui Lo Russo spiega che i problemi dei conti di Torino sono nati con le Olimpiadi e che poi hanno cercato di nascondere le cose.»
È veramente un peccato dover associare la parole del filosofo tedesco a queste cosine ridicole della storia, e chi volesse avere un quadro completo della tragedia, stadio originario della farsa prossima, può leggere qui.
Le cose, contano solo le cose
Il costo preventivo delle Olimpiadi invernali di Torino 2006, non «low cost», fu pari a 550 milioni di euro.
Il preventivo, informale, delle Olimpiadi invernali di Torino 2026, «low cost», è pari a 975 milioni di euro.
Potremmo fermarci qui, stappare un bottiglia di vino forte affinché, come cantava il poeta, «ci sia allegria anche in agonia.» Ma dato che la vicenda deborda nel grottesco vale la pena di spenderci qualche parola.

Curiosa locuzione, «low cost»: ben conosciuta in Valsusa, perché la Torino – Lione, non è più Tav, ma Tav «Low cost»: ribatezzata così da Graziano Delrio, costa appena 4.7 miliardi di euro. I sostenitori del Tav come quelli delle Olimpiadi hanno in comune la voluta distorsione della realtà economica, nonché un uso spregiudicato, e vagamente ridicolo, delle locuzioni. Ma perché sono poi «low cost»?
Il Cio chiede con nuove norme di rendere sostenibili i giochi e dà vaghe indicazioni in merito. Quindi, par di capire, è necessario svenare le casse pubbliche dello Stato per riutilizzare, per altri quindici giorni, impianti abbandonati al termine dei precedenti Giochi del 2006. I proponenti, con ampio uso retorico, sostengono che verranno riutilizzati gli impianti abbandonati: questo processo viene definito, niente meno, «il sogno». Intendono quindi rimettere in sesto:
  • la pista di bob di Cesana Torinese;
  • il trampolino di Pragelato;
  • e probabilmente il Villaggio Olimpico di Torino.
I primi due marciscono da circa dieci anni, il terzo è diventato l’alloggio di circa 1400 migranti in cerca di un tetto.
«Il sogno» – ricicliamo – non tiene conto di cosa fare di questi impianti dopo le Olimpiadi: lo schema sarebbe ovviamente quello del 2006, ancor più sicuro perché questa volta non ci sarebbero – se veramente si vogliono tagliare i costi – fondi necessari per il riutilizzo successivo. Certo, giureranno che dopo la cerimonia di chiusura sarà un florilegio di attività, di cittadelle dello sport, di «Coverciano della neve»: l’hanno già fatto i predecessori nel 2006, dilapidando miliardi, mentre si chiudono gli ospedali. Quanto costerebbe quindi la ristrutturazione pro tempore? Nessuno al momento può dirlo, nemmeno coloro che sostengono il principio del «riciclo».
Per quanto riguarda il Villaggio Olimpico, la situazione è ancora più pericolosa e ridicola. In esso vivono circa 1400 migranti, fantasmi della città che hanno trovato in questi palazzi un luogo dove ripararsi. Si dovrebbe quindi buttarli fuori e sparpagliarli per la città, dato che il processo di «sgombero dolce» organizzato da Comune, fondazioni bancarie e curia, è ormai fallito. Le casette inoltre, costate oltre 140 milioni di euro, risultano devastate, non dalla presenza dei migranti, bensì dalla loro debolezza infrastrutturale. Si dovrebbero rifare da cima a fondo, quindi. Un vecchio adagio torinese dice così «a volte costa più la corda del sacco»: ma ovviamente si punta ai soldi per la corda con i grandi eventi. Se gli atleti verranno ospitati a Torino, è molto probabile un nuovo villaggio olimpico.
Anche perché ci sono appetiti da soddisfare, la corrente cementizia della città già scalpita, e non si accontenteranno di ridare il bianco a qualche muro. Sono in molti ad avere «sogni» e «vision» a Torino, in questi giorni.
In generale, inoltre, tutti gli impianti olimpici che potrebbero essere utilizzati, oggi sono «gestiti» da privati. il Parco Olimpico era interamente di proprietà della Fondazione XX marzo 2006. Nel 2009 il 70% delle azioni è stato affidato ai privati. La gara è stata vinta dalla società americana Live Nation, in collaborazione con la società torinese Set Up.
Vi è inoltre un costo non comprimibile della spesa, e non ammortizzabile, in geometrica espansione dato il contesto storico: quello afferente alla sicurezza. Organizzare le Olimpiadi è come organizzare una guerra: e il Cio, su questo punto, non vuole sentir parlare di risparmi o «low cost». Torino, dopo il disastro di Piazza san Carlo, dovrebbe aver imparato la lezione.
Il riciclo degli impianti, quindi, inciderà minimamente sul piano della spesa finale, è solo fumo gettato negli occhi. In realtà, come sempre accade, nessuno in questo momento può neanche immaginare quanto si spenderà. Nel 2012 il Guardian fece un’analisi di questo fenomeno mettendo sotto la lente le Olimpiadi di Londra. Le sfortunate Olimpiadi parigine del 2024, anch’esse ribattezzate «low cost», si stanno rivelando – come tutte quelle del passato – una voragine senza fine.
Innsbruck – che ha gli impianti a disposizione, e in funzione, su un territorio molto meno vasto – si è ritirata dopo un referendum, e nemmeno Stoccolma ha superato la fase iniziale. L’idea di organizzare giochi olimpici invernali sembra non piacere neanche agli svizzeri. In base a un sondaggio realizzato a quattro mesi dal cruciale voto sul progetto di candidatura di Sion 2026, i pareri contrari raggiungono il 59% degli interpellati, mentre i favorevoli solo il 36%. Decideranno a giugno.
Il direttore del Cio, relativamente ai dubbi svizzeri sulla cosiddetta «garanzia limitata del deficit» ha precisato che a rispondere di un eventuale disavanzo saranno gli organizzatori: «A fare stato sono le firme sul contratto con l’ente ospitante». Ma quali sono i conti degli svizzeri per le loro Olimpiadi del 2026? Come riporta Ticinoonline:
«Gli organizzatori hanno messo in preventivo spese complessive per 1,98 miliardi di franchi ed entrate per 1,15 miliardi. Da più parti è tuttavia stato osservato che si tratta di previsioni troppo ottimistiche e che la sicurezza potrebbe fare lievitare i costi. L’ultima parola sulla candidatura olimpica spetta comunque ai cittadini vallesani.»
Gli svizzeri hanno già detto che da loro ci sarà un buco minimo di 850 milioni di euro. In Svizzera. Noi qui, a trombe politiche unificate, suoniamo la grancassa del «low cost». E siamo tutti entusiasti.
Entusiasta il Partito Democratico, coerentemente con la sua storia.
Entusiaste le banche, entusiasti i costruttori, entusiasta – suppongo– la criminalità organizzata che ancora sta digerendo con fatica l’abbuffata pantagruelica dell’altra volta.
Entusiasti Lega, Forza Italia, destra, tutti. È la Grande Colazione che si avvicina, a Torino e in Italia.
Entusiasti quelli di adesso, i pentastellari torinesi. Ondivaghi, hanno aperto la valvola della protesta anti sistema per poi trasformarla, nell’attimo della vertigine del non-potere che hanno, nel più compiaciuto conservatorismo. Bigotti del bilancio e dell’austerità, ma pronti a cercare la salvezza laddove vi è la rovina della città. I dissidenti della maggioranza pentastellare in Comune sono quattro e mezzo, gli altri sono impiegati della politica che un tempo sbraitavano contro le grandi opere/eventi, e oggi sbraitano di «sogni» e «vision».
Entusiasta «Beppe», che telefona in diretta durante un’assemblea come nelle migliori tradizioni del cabaret: e Beppe dice a «Chiara» che le Olimpiadi sono «un’occasione», così Chiara si sente forte, e la dissidenza interna viene tacitata per qualche ora.
Costoro affrontano allegramente la candidatura olimpica senza tener conto che il sistema bancario in essere, l’assenza di una banca pubblica – per cortesia nessuno tiri in ballo la Cdp – le regole di bilancio nazionali e sovra nazionali, nonché la dimensione del debito pubblico, la svalutazione del lavoro con il dilagare di impieghi non retribuiti spacciati per volontariato, tutto questo rende impossibile l’organizzazione di una Olimpiade che non sia un massacro sociale.
Ostacoli strutturali, incontrovertibili, a cui i proponenti rispondono con la retorica del lowcost/sogno/vision/facciamo a modo nostro. Il vecchio arnese della fuffa gettata negli occhi, affinché la pietrosa materia risulti invisibile. Vivono, i proponenti, nella allucinata ed egoriferita convinzione che il loro magico tocco possa trasformare in oro il marciume: la sindrome di Re Mida.
Contrario brutalmente – perché consapevole di tutto quanto sopra elencato – il Movimento No Tav, che in un durissimo comunicato stampa contesta la narrazione tossica relativa al principio «low cost” nonché l’intera impalcatura ideologica legata ai grandi eventi. Anche perché, se il Tav non sarà fermato – da chi? Dai pentastellari di governo? – negli anni antecedenti alla cerimonia di apertura i cantieri olimpici si sommeranno al maxicantiere del tunnel di base a Chiomonte e al maxi cantiere di Salbertrand, ove verrà stoccato lo smarino. La Valsusa, ancora una volta, utilizzata da tutti come un territorio da saccheggiare.
Ma perché rifare le Olimpiadi? Le vere ragioni
Premessa: in linea teorica esiste un articolo della Carta Olimpica, Cap. 5 art. 37 comma 7, che così recita:
«L’elezione riguardante la designazione della Città Ospitante si svolge in un Paese che non presenti nessun candidato all’organizzazione dei Giochi Olimpici in questione, dopo attento esame del rapporto stilato dalla Commissione di valutazione delle città candidate.»
Ovvio conflitto di interessi. Il presidente del Coni Giovanni Malagò, il sindaco di Milano Giuseppe Sala e il Governatore della Lombardia Roberto Maroni hanno sottoscritto tale impegno, anche se poi hanno dichiarato di «non volersi precludere nulla». Anche perché, e questo è lo scenario più probabile, Torino, o Torino-Milano, potrebbe rimanere l’unica città candidata in Europa nel caso in cui Sion si ritirasse.
Alla dolce tentazione leopardiana del prevaler del riso fuori posto o del pianto consolatorio, è bene contrapporre la massima spinoziana «Non piangere, non ridere, comprendere»: le Olimpiadi si vogliono rifare a Torino per le stesse ragioni dell’altra volta.
La Città sta andando verso la fase finale della deindustrializzazione, il cratere sta per eruttare nuovamente conflitto. Soprattutto quelle periferie che brulicano di malessere. Serve un grande evento – non ci sono differenze tra grandi opere e grandi eventi – che distragga, che porti via l’attenzione. Niente più panem, solo circenses: poi tanto da queste parti – mai dimenticare la teoria dei vasi comunicanti quando si parla di debito pubblico e grandi opere – per recuperare denaro chiudiamo due ospedali: Molinette e Sant’Anna. Al loro posto un ospedale più piccolo, la Città della Salute.
«Il privato – si può leggere sul quotidiano di Confindustria – sosterrà il 70% della spesa di realizzazione degli edifici, 306 milioni di euro, e sarà remunerato grazie al canone ottenuto dai risparmi sui costi della gestione corrente.»
È il famoso Project Financing, il meccanismo estrattivo principe – utilizzato sempre più per grandi eventi e grandi opere – per la creazione del debito pubblico e la privatizzazione dei servizi. Ovviamente nella nuova struttura sanitaria privata affittata al pubblico i posti letto saranno tagliati, i pentastellari regionali sostengono addirittura della metà: da 2000 a 1000. Progetto della giunta regionale Chiamparino, fatto proprio dai Cinque Stelle di Torino dopo un repentino cambio di opinione.
Ma torniamo alla deindustrializzazione. Il «Polo del lusso» di Torino, quello che doveva arrivare dopo il referendum di Mirafiori del 2011, si sta rivelando non solo insufficiente, ma inadeguato. La famiglia è sempre più lontana da Torino, volutamente. La Fiat si prepara a lunghe sospensioni produttive a Mirafiori e a Grugliasco. L’ombra dell’Imbraco si allunga sugli ultimi rimasugli, ma ancora sostanziosi, della Fiat a Torino. In questo contesto economico sociale regressivo, l’unica legge che vale è quella dell’antropologo David Graeber:
«più i processi di redistribuzione della ricchezza dal basso verso l’alto sono iniqui, più necessitano di eventi spettacolari e autocelebrativi.»
Nella speranza che queste parole possano fermare la stoltezza di un tempo buio e spensierato, sipario.

venerdì 23 marzo 2018

C’est la vie, caro Sarkozy!

Siamo fatti così, Sarko-no, Sarkozy!». Recita tali parole una canzone demenziale di Simone Cristicchi, apparsa al Festival di Sanremo di nonna Pina (Antonella Clerici) nel 2010. Non trasmette sommariamente una beata ceppa, eppure ci fotografa nettamente la vicenda che nelle ultime ore squassa la Francia: l’ex presidente della Repubblica Libertè, Égalitè et Fraternitè, Nicolas Sarkozy, è in stato di fermo nell’intestino della caserma della Polizia Giudiziaria di Nanterre, mite sobborgo di Parigi. La notizia fa eiaculare i cronisti francesi di «Le Monde», che erano un po’ annoiati negli ultimi tempi a causa della tregua dell’Isis sul territorio bleu. Che cosa vuoi che ne sappiano di scandali politici i cugini francesi? L’Italia rimane il Paese dominante in questo settore, “Mani pulite”, “Cosa Nostra”, e tutte le inchieste con suffisso “opoli”, ci fanno sempre battere il cuore.
Attenzione, Sarkozy è sottoposto alla vivisezione legale di un interrogatorio, non è condannato. Però è già solo: basta un nulla per essere macchiati di inchiostro talmente tetro da non andare più via. Jean-Paul Sartre asserisce che, «se sei triste quando sei da solo, probabilmente sei in cattiva compagnia». I sentimenti non mentono mai: chissà come di sente il repubblicano Nicolas in questi minuti magmatici. Egli è stato convocato nelle scorse ore per fare lumi sull’inchiesta che ha evidenziato possibili finanziamenti da parte della Libia alla campagna elettorale presidenziale che nel 2007 lo portò a pavoneggiare dentro i marmi dell’Eliseo. L’inchiesta parigina, partita nel 2013, vede solo ora il presidente emerito appropinquarsi a una confessione confessabile. Lo stato di fermo può avere durata di quarantotto ore, prima del rischio dell’incriminazione. Fosse vivo l’imperante Napoleone Bonaparte, in merito alla vicenda si esprimerebbe così: «Bisogna sempre lasciar trascorrere la notte sulle ingiurie del giorno innanzi». Mica male.
Un uomo fedelissimo di Sarkozy, Brice Hortefeux, già ministro del suo discutibilissimo governo, è stato interrogato celermente: egli è già libero, ma ha lasciato trapelare possibili debolezze nel castello difensivo dell’accusato. Ma non tergiversiamo, entriamo nello specifico: nel 2012 il sito Mediapart aveva pubblicato una serie documenti segreti che evidenziavano finanziamenti cospicui del leader libico Muammar Gheddafi per la corsa al trono di Sarkozy. Le bustarelle, o meglio tangenti, termine per noi italiani molto affettuoso, ammonterebbero a cinque milioni di euro, distribuiti in denaro contante. L’ex capo dello Stato transalpino – ritiratosi saggiamente dalla vita politica dopo la sconfitta alle primarie repubblicane del novembre 2016 – era stato già rinviato a giudizio per non aver rispettato le regole dei finanziamenti di un’altra sua campagna elettorale, quella del 2012, nella quale aveva speso venti milioni di euro in più rispetto al tetto massimo di ventidue milioni e mezzo consentiti dalla legge francese. Perseverare è davvero diabolico.
A gennaio il maremoto è avanzato su Sarkozy: viene arrestato all’aeroporto londinese di Heathrow, il 58enne uomo d’affari francese Alexandre Djouhri, con un grasso mandato di cattura internazionale. Sarebbe lui il volano, il tramite integerrimo del denaro versato da Gheddafi nella vincente campagna elettorale del 2007. L’udienza per l’estradizione in Francia di Djouhri si avrà il 17 aprile. Si preannunciano scenari tempestosi. Sarkozy sarebbe accusato di soffrire anche del complesso di Caino, visto che nel 2011 fu proprio il suo governo a spingere perentoriamente verso l’attacco della Libia, che avrebbe poi accelerato il rovesciamento del regime di Gheddafi.
Intanto l’agnello roboante è accusato, ma rimane in silenzio. Ci si aspetta una decisa risposta, da chi ha ricoperto la carica di ventitreesimo presidente della Repubblica francese, servendo già la sua nazione – e i suoi probi ideali di destra – con una carica di ministro delle finanze prima e di doppio ministro dell’interno dopo, dentro i fasti marcianti del governo Jacques Chirac.
Sarkozy è anche uno dei due co-principi di Andorra, oltre ad essere stato insignito dei titoli di gran maestro della Legion d’onore e protocanonico d’onore della Basilica di San Giovanni in Laterano. Quelle bordate di luce che fanno effetto, per intenderci, come l’aver sposato Carla Bruni, una donna “donata da Silvio Berlusconi”. Ma intanto regna affusolato il silenzio: «Non c’è uno, ma più tipi di silenzio, ed essi fanno parte integrante delle strategie che sottendono ed attraversano i discorsi». Lo sosteneva Michel Foucault, un intellettuale vero, mica un portatore di platinate medaglie.

giovedì 22 marzo 2018

Libia, sette anni di sventura Nato

Sette anni fa, il 19 marzo 2011, iniziava la guerra contro la Libia, diretta dagli Stati uniti prima tramite il Comando Africa, quindi tramite la Nato sotto comando Usa. In sette mesi, venivano effettuate circa 10.000 missioni di attacco aereo con decine di migliaia di bombe e missili.
A questa guerra partecipava l’Italia con cacciabombardieri e basi aeree, stracciando il Trattato di amicizia e cooperazione tra i due paesi.
Già prima dell’attacco aeronavale, erano stati finanziati e armati in Libia settori tribali e gruppi islamici ostili al governo, e infiltrate forze speciali, in particolare qatariane.
Veniva così demolito quello Stato che, sulla sponda sud del Mediterraneo, registrava «alti livelli di crescita economica e alti indicatori di sviluppo umano» (come documentava nel 2010 la stessa Banca Mondiale). Vi trovavano lavoro circa due milioni di immigrati, per lo più africani.
Allo stesso tempo la Libia rendeva possibile con i suoi fondi sovrani la nascita di organismi economici indipendenti dell’Unione africana: il Fondo monetario africano, la Banca centrale africana, la Banca africana di investimento.
Usa e Francia – provano le mail della segretaria di stato Hillary Clinton – si accordarono per bloccare anzitutto il piano di Gheddafi di creare una moneta africana, in alternativa al dollaro e al franco Cfa imposto dalla Francia a 14 ex colonie africane.
Demolito lo Stato e assassinato Gheddafi, il bottino da spartire in Libia è enorme: le riserve petrolifere, le maggiori dell’Africa, e di gas naturale; l’immensa falda nubiana di acqua fossile, l’oro bianco in prospettiva più prezioso dell’oro nero; lo stesso territorio libico di primaria importanza geostrategica; i fondi sovrani, circa 150 miliardi di dollari investiti all’estero dallo Stato libico, «congelati» nel 2011 su mandato del Consiglio di sicurezza dell’Onu.
Dei 16 miliardi di euro di fondi libici, bloccati nella Euroclear Bank in Belgio, ne sono già spariti 10 senza alcuna autorizzazione di prelievo. La stessa grande rapina avviene nelle altre banche europee e statunitensi.
In Libia gli introiti dell’export energetico, scesi da 47 miliardi di dollari nel 2010 a 14 nel 2017, vengono oggi spartiti tra gruppi di potere e multinazionali; il dinaro, che prima valeva 3 dollari, viene oggi scambiato a un tasso di 9 dinari per dollaro, mentre i beni di consumo devono essere importati pagandoli in dollari, con una conseguente inflazione annua del 30%.
Il livello di vita della maggioranza della popolazione è crollato, per mancanza di denaro e servizi essenziali. Non esiste più sicurezza né un reale sistema giudiziario.
La condizione peggiore è quella degli immigrati africani: con la falsa accusa (alimentata dai media occidentali) di essere «mercenari di Gheddafi», sono stati imprigionati dalle milizie islamiche perfino in gabbie di zoo, torturati e assassinati.
La Libia è divenuta la principale via di transito, in mano a trafficanti di esseri umani, di un caotico flusso migratorio verso l’Europa che, nella traversata del Mediterraneo, provoca ogni anno più vittime dei bombardamenti Nato del 2011.
Perseguitati sono anche i libici accusati di aver sostenuto Gheddafi. Nella città di Tawergha le milizie islamiche di Misurata sostenute dalla Nato (quelle che hanno assassinato Gheddafi) hanno compiuto una vera e propria pulizia etnica, sterminando, torturando e violentando. I superstiti, terrorizzati, hanno dovuto abbandonare la città. Oggi circa 40.000 vivono in condizioni disumane non potendo ritornare a Tawergha.
Perché tacciono quegli esponenti della sinistra che sette anni fa chiedevano a gran voce l’intervento italiano in Libia in nome dei diritti umani violati?

mercoledì 21 marzo 2018

Mare ceduto ai francesi: bufala o verità? Facciamo chiarezza

Tale accordo, mai ratificato dal parlamento italiano e quindi mai entrato in vigore, è stato fortemente tenuto in considerazione dalla controparte francese che dal gennaio 2016 lo ha reso operativo, sequestrando nelle zone marittime contese due pescherecci italiani: il “Mina” in Liguria e il “Cecilia” in Sardegna (i cui proprietari hanno dovuto pagare anche un cospicuo riscatto).
Le proteste dei pescatori e l’interesse di alcuni bravi politici come l’ex deputato Mauro Pili, del partito sardo UNIDOS, hanno impedito la ratifica dell’Italia, oltre a far tornare i francesi sui propri passi e a lasciare che i pescherecci italiani potessero lavorare come sempre, fino a quel momento, avevano fatto.
Noi de l’Opinione Pubblica siamo stati una delle poche testate giornalistiche che ha trattato ampiamente questa vicenda, scoprendo a poco a poco di cosa si trattasse. Vi invitiamo quindi a rivedere tutti i nostri articoli sul tema, perché in queste righe non entreremo molto nel dettaglio.

L’Accordo di Caen e il “Ministero del Mare” del presidente francese Macron

Dopo due anni da quei fatti, come abbiamo detto, la questione del mare torna in auge perché il governo a guida Macron ha creato il “Ministero del Mare” e ha avviato una procedura richiesta dai trattati europei per il governo delle politiche della pesca e delle zone economiche speciali.
Ovviamente questo piano di sfruttamento marittimo attuato dalla Francia prevede che i confini marittimi interessati siano quelli dell’Accordo di Caen, discusso fin dal 2006 e firmato dagli allora Ministri degli Esteri Gentiloni e Fabius. Ancora una volta, un’azione del tutto unilaterale della Francia, fortemente interessata a far valere i propri diritti di sfruttamento sulla ZEE, la zona economica esclusiva.
Già da questi fatti si può capire che la storia dell’Accordo di Caen è vera e che tale accordo ha prodotto poi i sequestri dei pescherecci liguri e sardi e il divieto ai pescatori italiani di entrare nelle acque da sempre utilizzate per la pesca di pesce pregiato e ora oggetto di contesa tra Francia e Italia: il peschereccio ligure “Mina”, ad esempio, fu fermato nelle acque della cosiddetta “fossa del cimitero”, così chiamata perché una volta si identificava allineando la prua della barca alle croci del camposanto di Ospedaletti, e dove i liguri da sempre vanno a pescare i famosi gamberoni rossi di Sanremo.

Cosa c’è che non va nella denuncia popolare di questa vicenda?

Probabilmente, forse per la poca chiarezza iniziale della vicenda, è passato il messaggio che il mare italiano fosse stato “svenduto” dall’Italia alla Francia.
In realtà, come ha sempre spiegato il Governo, tramite Gentiloni e i sottosegretari nelle interrogazioni parlamentari, e la stessa Farnesina, l’Accordo di Caen si era reso necessario per  “per stabilire dei confini certi alla crescente proiezione di entrambi i Paesi sulle porzioni di mare ad essi prospicienti e alla luce della sopravvenute norme della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS, 1982)”.
La risposta della Farnesina
Infatti non è mai esistito un Trattato, riconosciuto da ambo le parti, che definisse in maniera precisa le linee di demarcazione del territorio marittimo tra Italia e Francia. Da questo punto di vista l’Accordo di Caen andrebbe soltanto a coprire un vuoto normativo.
Un trattato datato 18 giugno 1892 (la “Convenzione tra Italia e Francia per la delimitazione delle zone di pesca nella baia di Mentone”) era  stato discusso ma anche quello non fu mai ratificato e la ripartizione territoriale in esso stipulata fu più che altro utilizzata convenzionalmente. Di fatto, le acque di confine tra Italia e Francia sono state sempre definite come “acque internazionali” e quindi libere e non appartenenti a nessuno Stato.
Nel 1994 l’Italia accolse l’UNCLOS, un Trattato internazionale del 1982 che andò a sostituire il concetto di “libertà dei mari” (secondo cui i diritti nazionali sul mare di estendevano per tre miglia nautiche) e introdusse il concetto di sfruttamento esclusivo di ogni Stato delle risorse naturali e sull’ambiente marittimo.
L’Accordo di Caen, quindi, non serve soltanto a stabilire linee di confine certe tra Italia e Francia ma stabilisce anche i diritti di sfruttamento delle risorse naturali sulla Zona Economica Esclusiva (ZEE) che si estende per 200 miglia dalla linea di base. Di qui l’ipotesi del deputato Pili che dietro l’Accordo potesse celarsi un interesse per i giacimenti di petrolio e gas, interesse che era prevalso su quello dei pescatori sardi e liguri.

Per quali motivi l’Accordo di Caen è legittimamente criticabile?

Tralasciando la questione dei giacimenti di gas e petrolio, la quale non sarà sicuramente secondaria ma della quale non abbiamo al momento certezza, l’Accordo di Caen è criticabile proprio perché una definizione certa dei confini marittimi potrebbe portare problemi all’attività ittica dei pescatori italiani, come ne ha già portati due anni fa.
C’è anche da dire che le zone pescose del nord Sardegna sono sempre state battute quasi esclusivamente dai pescherecci italiani e il mare interessato fu sempre considerato italiano. La Farnesina e il Governo si sono sempre difesi asserendo che l’Accordo di Caen manteneva immutate le zone di pesca congiunta prevista dalla Convenzione italo-francese del 1986 relativa alla delimitazione delle frontiere marittime nell’area delle Bocche di Bonifaciouno dei pochi trattati in vigore stipulati dalle due controparti.
I pescatori sardi tuttavia rispondono che queste aree di pesca congiunte, che loro chiamano “pollai”, non sono sufficienti a tenere in vita la loro attività perché troppo piccole e troppo poco ricche di pesce. Il pesce più redditizio è presente proprio nelle zone marittime che a causa dell’Accordo di Caen passerebbero alla Francia.
Un altro punto criticabile è senz’altro quello della segretezza. Le trattative che hanno portato alla firma di Caen si sono svolte tutte in piena segretezza. L’opinione pubblica ne è venuta a conoscenza solo nel 2016, quando sono stati fermati e sequestrati i pescherecci di cui abbiamo parlato. Gli stessi pescatori e tutte le categorie protettive non sono state chiamate in causa durante la fase di trattativa e il Governo italiano si è basato soltanto sulle zone di pesca congiunta individuate nelle Convenzioni precedenti, ma che come abbiamo visto sono poco redditizie per l’attività ittica. Proprio la segretezza ha fatto sì che i toni della protesta fossero così accesi.
Proprio per questi motivi l’Accordo di Caen non è un accordo favorevole per l’Italia e non andrebbe ratificato.

Cosa fare quindi?

Qualche irredentista potrebbe dire che la soluzione più semplice sarebbe annettere la Corsica all’Italia; si eviterebbero così tutti i problemi. Più realisticamente, innanzitutto vanno scongiurati i tentativi francesi di rendere effettivo l’Accordo di Caen, cosa che sarà nelle facoltà del prossimo esecutivo italiano.
A questo proposito, la Farnesina, per bocca del ministro plenipotenziario e direttore generale per l’Unione europea Giuseppe Maria Buccino Grimaldi, ha voluto rassicurare:
“I confini marittimi tra Italia e Francia sono immutati. L’ambasciata di Francia a Roma ha riconosciuto che nel corso di una consultazione pubblica sono circolate per errore delle cartine sbagliate. Il trattato di Caen non è stato ratificato dall’Italia.
La Francia ha riconosciuto l’errore e sta rimediando, non c’è nulla di cui preoccuparsi. I contatti tra le parti erano in corso da tempo perché eravamo consapevoli del problema”.

martedì 20 marzo 2018

Colloquio telefonico Salvini-Di Maio per “far partire il Parlamento

“Come vi avevo anticipato ieri, scrive Di Maio, nella giornata di oggi ho sentito telefonicamente i principali esponenti di tutti i futuri gruppi parlamentari per un confronto utile all’individuazione dei Presidenti delle Camere che dovranno essere votati a partire da venerdì prossimo. È il primo passo necessario per far partire questa legislatura e voglio che tutto avvenga nella massima trasparenza soprattutto nei confronti dei cittadini che attendono un Parlamento capace di dare risposte ai problemi reali del Paese”.
Il giovane politico di Pomigliano d’Arco elenca dettagliatamente le telefonate: “Ho sentito prima Maurizio Martina, Renato Brunetta, Giorgia Meloni, Pietro Grasso e ho riscontrato una disponibilità a proseguire il confronto, attraverso i capigruppo del Movimento 5 Stelle Giulia Grillo e Danilo Toninelli, utile ad individuare profili all’altezza del ruolo non solo per le Presidenze di Camera e Senato, ma anche per le altre figure che andranno a comporre gli Uffici di Presidenza”.
Infine il passaggio più atteso: “Ho sentito successivamente anche Matteo Salvini. Con lui, pur non affrontando la questione nomi e ruoli, abbiamo convenuto sulla necessità di far partire il Parlamento quanto prima. Questi confronti avvengono nel solo ed esclusivo interesse degli italiani, perché servono a individuare le personalità che possano ricoprire al meglio un ruolo fondamentale per il funzionamento di un Parlamento che sia al servizio dei cittadini. Continuerò ad aggiornarvi costantemente. Buona domenica!”.
Un colloquio telefonico di cui ha parlato anche Matteo Salvini a Domenica Live.
“Ho parlato oggi pomeriggio, per pochi minuti, con Luigi di Maio. Con lui ci siamo confrontati sulla questione delle presidenze delle Camere in vista del voto di venerdì prossimo. Non abbiamo parlato di nomi né di ruoli. Per quanto mi riguarda sarò contento, come centrodestra, di sentire lui e gli altri esponenti politici nei prossimi giorni con l’unico obiettivo di giungere quanto prima a rendere operativo il Parlamento con la designazione delle rispettive presidenze”, ha spiegato il segretario della Lega.
“Governo con i M5s? Voglio vedere cosa vogliono fare. Mio dovere è andare a sentire tutti. Non c’è niente di impossibile e irrealizzabile”, ha detto il leader della Lega Matteo Salvini nel salotto televisivo di Barbara D’Urso.
“Mi sembra strano che vada al governo chi è stato sonoramente bocciato dagli italiani. Se vado all’opposizione perché si inventano altri giochini, ne risponderanno agli italiani. Non si può andare al voto subito. La gente a un certo punto ti dice basta”, ha aggiunto Salvini.
Non è mancato un accenno all’agenda politica che vorrebbe proporre agli interlocutori: “Andrò in Parlamento dicendo: vogliamo cancellare la Fornero, ridurre le tasse, chi ci sta? Su questi punti, chi ci sta, chi ci segue? Se c’è qualcuno dice sì, si parte da questo programma e questa squadra, si parte dal centrodestra che ha vinto, ci metto la faccia”.
Infine un avvertimento chiaro: “Non potrei mai allearmi con qualcuno che mi dice ‘la legge Fornero non si tocca’ perché è la prima legge che voglio cancellare. M5s sulla carta è d’accordo, è d’accordo stando alle parole, ma delle parole mi fido poco e voglio vedere lo scritto. Non sono disponibile al governo di larghe intese, tutti insieme al governo per un anno… No”.

lunedì 19 marzo 2018

Chi sono i papà che il 19 marzo non fanno nessuna festa

Lunedì 19 marzo 4 milioni di padri separati trascorreranno un’altra festa del papà, in cui non ci sarà spazio per cioccolatini e bigliettini: per loro - ma solo per chi riuscirà a ottenerlo - il regalo più grande sarà quello di trascorrere la giornata insieme al proprio figlio. Sono i papà che ogni giorno, per anni, lottano in Aula e fuori dai tribunali contro le ex mogli e compagne - ma anche contro un sistema burocratico lento e contorto - per non essere tagliati fuori dalla vita dei propri figli.

In strada a Taranto “nel nome dei figli” e dei papà

Ed è per loro, ma non solo, che lunedì l’associazione “Nel nome dei figli” scenderà per la prima volta in strada a Taranto per un sit-in davanti al Tribunale civile. “Vogliamo far capire a chi siede ai piani più alti che attualmente la legge non è uguale per tutti e che in queste battaglie le prime vittime sono i bambini che non hanno voce. Eppure se ci mettessimo dalla loro parte sarebbe tutto più facile”, spiega all’Agi Andrea Balsamo, uno degli organizzatori dell’evento insieme a Vito Ditaranto, entrambi presidenti dell’associazione. “Bisognerebbe riformare il diritto di famiglia, creare un tribunale specifico il cui scopo sarebbe quello di conciliare per il bene dei bambini. O semplicemente far rispettare le leggi”, continua Balsamo che denuncia una generale discriminazione in tribunale nei confronti dei papà.
“La figura genitoriale del padre vale il 20% contro l’80% di quella della madre”. Tuttavia, “la nostra associazione vuole dare voce non solo ai 4 milioni di papà, ma anche ai 4 milioni di mamme e ai 32 milioni di persone tra genitori, nonni, zii, fratelli, che ruotano intorno a queste situazioni complesse e che soffrono. Un messaggio che a giudicare dal numero di donne che hanno aderito alla manifestazione di lunedì è stato ben recepito”. Le lotte tra poveri - aggiunge Balsamo - non mi sono piaciute. Ogni padre (o madre) farebbe qualsiasi cosa pur di trascorrere del tempo con i propri figli. E pagherebbe qualsiasi prezzo. Questo è un dei motivi per cui le battaglie durano anni, avanzano a colpi di denunce e di sgarri, perdendo di vista l’obiettivo principale: il bene del bambino”. Intorno alle cause per l’affido, spiega l’organizzatore, “c’è un giro di affari che vale 5 miliardi, tra legali, periti, marche da bollo e tutto il resto. Gli stessi avvocati - non tutti, ovviamente, ma una buona parte - si mostrano del tutto interessati a fomentare il disaccordo tra i due genitori”. Cosa dovrebbe cambiare?

“Le leggi esistono, che vengano rispettate”

L’ultima riforma del diritto di famiglia risale agli anni ’80. Quanto alla “Legge 54 sull'affidamento condiviso” del 2006 “avrebbe potuto risolvere il problema, ma così non è stato”.  Di fatto “il bambino continua a vivere con la mamma e il papà a vederlo solo poche ore. Questo non vuol dire ‘affido condiviso’. È vero che la legge obbliga entrambi i genitori a trovare un accordo sulle decisioni che riguardano il piccolo, ma per il resto tutto funziona come prima. Nella maggior parte dei casi, il bimbo vive con la mamma che risulta essere quasi sempre il ‘genitore collocatario’”. Nel resto dell’Europa - continua Balsamo - il bambino vive metà del tempo con uno e metà con l’altro (per chi lo desidera, ovviamente). “L’Italia continua a rappresentare un’eccezione e a pagare una multa di  decine di milioni di euro ogni anno comminata dalla Corte di Giustizia europea per il mancato rispetto della legge 54”. Il problema, precisa poi l’organizzatore, “non è la mancanza di legge: ce ne sono anche troppe, il problema è che non vengono fatte rispettare”.

Storia di Marco e Davide

Tra i ‘papà guerrieri’ c’è anche Marco (nome di fantasia, come gli altri della vicenda). Per lui l’incubo inizia nel 2010, pochi mesi dopo la nascita di suo figlio Davide. Marco è nato e vive al Nord, nel 2001 sul posto di lavoro conosce Valeria, una collega separata e con una bambina; i due si innamorano e lui, per il bene di quella famiglia che vuole costruire, convince la compagna a trasferirsi al Sud dove vive il papà della piccola. Valeria e sua figlia fanno le valigie e iniziano una nuova vita, Marco le raggiunge nei fine settimana appena può. Nel 2009 nasce Davide, il figlio della coppia. L’anno successivo Marco riesce a ottenere il trasferimento, ma dopo pochi mesi l’idillio svanisce. La convivenza dura pochissimo e nel giro di qualche settimana Marco si ritrova fuori casa. Peggio: nei primi sei mesi di vita del bambino riesce a vedere suo figlio solo per due ore a settimana.
Così l’uomo decide di rivolgersi a un avvocato che proverà più volte a raggiungere un accordo con Valeria senza passare per i tribunali. “Si trattava di accordarci sui giorni in cui potevo vedere mio figlio e sulla somma del mantenimento. Ma lei non ha voluto saperne. Aveva già deciso di dichiararmi guerra”, racconta all’Agi Marco, che vuole restare anonimo. Nei successivi tre anni Valeria cambierà 15 avvocati e arriverà ad accusare Marco di essere un alcolista. “Per fortuna sono un donatore di sangue e questo mi ha aiutato a smantellare velocemente l’accusa”. Storie come queste “sono all’ordine del giorno”, commenta l’uomo.
Nel 2011 arriva l’ordinanza che riconosce a Marco il diritto di vedere suo figlio tre volte a settima pur non potendo ancora dormire con lui. “A quel punto Valeria inizia a terrorizzare il bambino innescando la classica “sindrome da alienazione genitoriale” che si manifesta con i tentativi da parte di uno dei due genitori di allontanare l’altro attraverso frasi tipiche rivolte al minore come “papa è cattivo”, “mi ha fatto male”, “se vai con papà io piango”. La mia non è un’interpretazione: lo hanno stabilito i giudici che hanno disposto una Ctu da cui Valeria è uscita devastata. Ed era evidente anche osservando il bambino che era restio quando andavo a prenderlo a casa loro, mentre all’asilo mi correva incontro”. Poco dopo la situazione degenera. Nell’estate del 2012 Marco passa a prendere suo figlio per una vacanza a due, Valeria si innervosisce, tra i due scoppia una discussione e lei inizia a picchiarlo. “Mi hanno dato 22 giorni di prognosi. Ma la cosa che più mi dispiace è che è successo davanti al bambino”.
A quel punto Marco denuncia l’ex compagna. Il tribunale sospende la podestà genitoriale della donna per 4 mesi, e da allora Marco vede Davide con regolarità. “Questo dimostra che se la giustizia interviene nel modo giusto, le cose cambiano”, commenta l’uomo.“A breve sono in attesa di giudizio per l’aggressione, ma parto dal presupposto che lei verrà assolta. L’avessi fatto io sarei stato in carcere da allora”. Per combattere la battaglia più importante della sua vita, Marco ha speso finora 50mila euro. “Non ne faccio una questione di soldi, ma non è normale, indica che qualcosa non va in questo sistema. Senza contare che non tutti possono permetterselo”.

venerdì 16 marzo 2018

Bolletta a 28 giorni, Agcom chiede rimborso su canone aprile

Continua la telenovela che vede coinvolti i principali operatori telefonici sulla questione della bolletta emessa a 28 giorni, anziché a fine mese. Con una  mossa che arriva un po’ come sorpresa, ieri l’Agcom ha inviato quattro diffide quasi in fotocopia, chiedendo a Tim, Vodafone, Fastweb e Wind Tre di posticipare l’emissione della prossima fattura del telefono fisso di un numero di giorni pari a quelli “erosi”, con l’emissione delle bollette a 28 giorni.
In pratica, nella bolletta di aprile, gli utenti riceveranno ‘giorni gratis’ a rimborso dei giorni pagati in più. Lo ‘sconto’ si calcola a partire dal 27 giugno 2017, quando l’Agcom dichiarò l’obbligatorietà della bolletta mensile, e sarà diverso per ogni cliente. Dunque, spiega la diffida,
“nel caso di una fattura emessa ad aprile con decorrenza dal primo al 30 aprile e in presenza di una erosione pari a 15 giorni, la decorrenza della fattura dovrà essere posticipata al 16 aprile e conseguentemente il periodo fatturato dovrà risultare quello intercorrente dal 16 aprile al 15 maggio”.
L’Autorità ha deciso così di andare avanti con i rimborsi nonostante la decisione con cui il Tar del Lazio (a febbraio) li aveva sospesi fino all’udienza di merito (fissata il 31 ottobre 2018″).
Si otterrebbe così, si legge:
“l’effetto paradossale di costringere gli utenti a subire anche l’aumento dei canoni mensili che l’operatore ha già preannunciato in coincidenza col ritorno al ciclo di fatturazione mensile”.
Per questo motivo, l’Agcom ha adottato questa:
“diffida che, nel rispetto e in esecuzione dell’ordinanza del Tar, garantisca un immediato effetto ripristinatorio a beneficio degli utenti, assicurando, al contempo, una soluzione ai rilievi formulati dal giudice amministrativo con riguardo agli equilibri finanziario-contabili dell’azienda”.

giovedì 15 marzo 2018

Italia: un narco-Stato-mafia?

Alcuni giorni fa la Presidente della Commissione parlamentare antimafia Rosy Bindi ha duramente criticato la totale assenza della lotta alla mafia nella campagna elettorale: “Si vuole il consenso vero del Paese o in qualche modo si è anche disposti, magari solo con il silenzio senza scendere a patti, a prendere anche i voti delle mafie?” si è chiesta la Bindi. Effettivamente nessun movimento politico ha il coraggio di parlare di mafia, da sempre garante di voti che di volta in volta sposta sul suo “cavallo vincente”. Una preoccupazione alla quale ha fatto eco anche il pm Nino Di Matteo che, nell'intervista di El Paìs, ha sottolineato come la lotta alla criminalità organizzata stia passando sotto il più completo silenzio.
La questione, però, non è il parlare di mafia in sé e per sé, oggi relegata alle ultime righe dei programmi di governo o a qualche battuta qua e là in questo o in quel comizio. Ciò che è veramente grave è che nessun leader politico racconterà la verità al popolo, né ora, né una volta al governo. Lo si deduce dal fatto che la “grande Europa” dal 2014 inserisce nel Pil, secondo la direttiva prevista dal sistema di contabilità “Sec 2010”, i proventi del mercato illecito di stupefacenti, che gli ultimi dati ancora in fase di elaborazione attestano in perenne crescita. Un trend dedotto dal record dei sequestri di droga pari a 100 tonnellate nel 2017, il valore più alto negli ultimi dieci anni dopo quello del 2014 (154 tonnellate). Si tratta del Pill: il Prodotto interno lordo lercio, ingrassato dai 200 miliardi di euro – stimati per difetto – che ogni anno le mafie lucrano sul sangue e la pelle della gente con il traffico di droga, il riciclaggio di denaro e la corruzione.
D'altronde la più potente organizzazione di narcos al mondo è tutta made in Italy, la testa del serpente in Calabria. La 'Ndrangheta, con un “fatturato” di 100 miliardi annui (sui 150 totali del narcotraffico) detiene il monopolio degli stupefacenti nel mondo occidentale, come è stato ormai ampiamente documentato da un eccellente lavoro giudiziario, in particolare svolto dai magistrati Gratteri, Lombardo e dai colleghi delle Dda calabresi. Un potere, quello delle cosche - unito al forte condizionamento esercitato nelle sfere dell'alta finanza - particolarmente presente nell'economia nostrana, che ancora resta tra quelle delle sette nazioni più ricche al mondo. Ma anche tristemente famose per il Pill.
Può, dunque, un paese come questo, essere diventato un narco-Stato? Perché i politici non denunciano pubblicamente il fatto che il problema economico numero uno in Italia sono le mafie e i loro soldi? Nessun partito ne ha mai parlato, perché al di là dei voti necessari di cui avranno bisogno per arrivare al governo, il “vincitore” dovrà scendere a patti con questi magnati dell'economia annidati nella grande finanza.
Ovviamente l’appello è destinato a tutti i grandi partiti in corsa alle elezioni che non si chiamano “Forza Italia”. Giacché cosa si può dire a un partito fondato da un condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, il cui capo è indagato (insieme a Dell'Utri) nell'inchiesta sui mandanti delle stragi del ‘93?
Non possiamo, però, non rivolgere queste domande anche al presidente Mattarella, che, oltre ad essere Capo dello Stato, ha perso il fratello Piersanti in un agguato mafioso. Come dobbiamo considerare una nazione che basa il proprio Prodotto interno lordo anche sul fatturato delle organizzazioni criminali? I nostri onorevoli candidati vogliono davvero liberare il Paese da questo cancro e fare luce sui mandanti esterni alle stragi, che certamente hanno a che fare anche con il Pil lercio?
Chi, tra i candidati in corsa alle elezioni, intende sciogliere il patto che da centocinquant'anni lega Stato e mafia a doppio filo? E, una volta per tutte, dare giustizia ai parenti delle vittime di mafia?
Quotate in borsa, le organizzazioni criminali raggiungono 1680 miliardi di euro, mentre tutte le società valgono insieme 558 miliardi. Ciò vuol dire che se la mafia le acquistasse tutte, le avanzerebbero ancora 1092 miliardi da investire. Potrebbe comprarsi tutta la Borsa di Milano, con un avanzo di 500 miliardi di euro. Se si allarga il raggio d’azione, poi, lo scenario globale non è molto diverso, se pensiamo che il valore nazionale dei derivati sui mercati mondiali a metà 2016 era – secondo la Banca dei Regolamenti internazionali – pari a 637 trilioni di dollari. Un valore che è 10 volte il Pil dell’intero pianeta.
In questo ultimo giorno di campagna elettorale, gli aspiranti presidenti del consiglio – in particolare dei grandi partiti, da Renzi, a Grasso, a Di Maio – sono consapevoli di come il nostro Paese sia messo in ginocchio dai numeri del narco-Stato-mafia?

mercoledì 14 marzo 2018

Allarme pensioni: giovani d’oggi a rischio povertà entro il 2050

I giovani di oggi sono i futuri pensionati a rischio povertà entro il 2050. L’allarme lo lancia uno studio del Censis-Confcooperative dal titolo “Millennials, lavoro povero e pensioni: quale futuro?”.
5,7 milioni di persone oggi rischiano di alimentare le fila dei poveri in Italia entro il 2050. Chi fa parte di questa platea con un destino quasi segnato? Si tratta di oltre 3 milioni di Neet, i giovani tra i 18 e i 35 anni che non studiano né lavorano, residenti per lo più nelle sei regioni del Sud specie Sicilia (317mila) e Campania (361mila).
A questi si aggiungono 2,7 milioni di lavoratori, tra working poor e occupati impegnati in “lavori gabbia”, ossia attività non qualificate dalle quali trovano difficoltà ad uscire. Sono, infatti, 171.000 i giovani sottoccupati, 656.000 quelli con contratto part-time involontario e 415.000 impegnati in attività non qualificate. Soggetti che vivono così una situazione di inadeguatezza del lavoro svolto come fonte di reddito e per questo il loro futuro previdenziale non è certo roseo. Da qui l’allarme della Confocooperative.
“Queste condizioni hanno attivato una bomba sociale che va disinnescata. Lavoro e povertà – dice Maurizio Gardini, presidente di Confcooperative – sono due emergenze sulle quali chiediamo al futuro governo di impegnarsi con determinazione per un patto intergenerazionale che garantisca ai figli le stesse opportunità dei padri. Non sono temi di questa o di quella parte politica, ma riguardano il bene comune del Paese. Sul fronte della povertà il Rei con un primo stanziamento di 2,1 miliardi che arriverà a 2,7 miliardi nel 2020 fornirà delle prime risposte, ma dobbiamo recuperare 3 milioni di Neet e offrire condizioni di lavoro dignitoso ai 2,7 milioni di lavoratori poveri. Rischiamo di perdere un’intera generazione”.

martedì 13 marzo 2018

Quando le fake news sono di sinistra

Sono passati pochi giorni dalle elezioni politiche del 4 marzo e già se ne sono viste di tutti i colori: la politica italiana è governata dal caos, complice una legge elettorale che offre esclusivamente la garanzia dell’inciucio. Inversioni di marcia da parte di noti editorialisti; lettere aperte a giornali di chiaro orientamento politico opposto; vari annunci di apertura o di chiusura: una baraonda di voci che si possono sintetizzare nel segnale: “attenzione, trattative in corso”. D’altronde, sono gli stessi giornali a spifferare notizie circa spassionati corteggiamenti impliciti tra forze politiche vittoriose e residui di partiti un po’ più sfigatelli. Una certezza però l’abbiamo: Matteo Renzi è l’unico, vero e meritevole perdente di queste Politiche. L’orgoglioso rottamatore piddino – rottamato a sua volta dai cittadini – avrebbe voluto dettare la sua ultima linea politica al proprio partito: nessuna alleanza col Movimento 5 Stelle. Ahimè, le sue obbligate dimissioni dalla segreteria non gli consentiranno d’imporre alcun veto.
Ma è proprio da questo punto che si evincono i preamboli dell’ennesima notizia a carattere scandalistico; frutto di una certa propaganda politica. C’è infatti una parte della sinistra, quella renziana, che vuole impedire a tutti i costi un dialogo tra Movimento 5 Stelle e Partito Democratico; una posizione che fa comodo anche al centrodestra. E in questi giorni di confusione mediatica, evidentemente non è bastata l’apparizione di grafici che testimoniano come l’elettorato pentastellato sia esponenzialmente maggiore nelle regioni più povere dell’Italia meridionale. Mancava un tassello per completare l’equazione; mancava un dato per screditare una buona fetta di elettorato. L’8 marzo spunta una notizia nel Corriere del Mezzogiorno: file immense di cittadini pugliesi stanno richiedendo i moduli per ottenere il reddito di cittadinanza. Si parla di “assedio”; di Caf “presi d’assalto”. La notizia viene rimbalzata freneticamente dai principali quotidiani nazionali, La Repubblica e Il Giornale in primis. Ora sì: l’equazione è completa! I meridionali, notoriamente dei nullafacenti, hanno votato il Movimento 5 Stelle perché vogliono fare la bella vita senza lavorare.
Finalmente si può dare il mangime ai polli d’allevamento: una pioggia di condivisioni e di facili ironie investe i social network. Presi da una foga spietata, questi ingenui divulgatori di propaganda politica mirano a sminuire la vittoria del Movimento 5 Stelle. Si tratta della stessa tipologia d’individuo che considera il proprio voto più importante rispetto a quello di diverse categorie di cittadini; gli stessi che, quando hanno visto i grotteschi risultati dei loro partiti, hanno minacciato di espatriare: chapeau! Per una volta partoriscono un’idea condivisibile. Trasformati in traghettatori di propaganda dal modello renziano, hanno delegittimato il voto dei meridionali con disprezzo, senza prendere minimamente in considerazione la condizione del Sud. Hanno sminuito il loro voto, la loro disoccupazione e la loro fame con scandalosa leggerezza; li hanno insultati usando le stesse argomentazioni di una classe politica che attribuiva ai giovani d’oggi la caratteristica di essere dei fannulloni. Ma ciò che inorridisce di più è che tutta l’ironia è stata prodotta da un’effettiva ignoranza sia sul tema del lavoro e sulle trasformazioni in atto che lo riguardano; sia sul concetto di “reddito di cittadinanza” e sulla reale proposta del Movimento 5 Stelle, che ha più le sembianze di un reddito minimo garantito, diffuso in tutta Europa.

lunedì 12 marzo 2018

Minacciosa Europa

Come in un copione già scritto, non sono passate che poche ore dall’esito elettorale ed ecco l’Unione Europea, e per lei la Commissione Europea, prendere carta e penna ed entrare immediatamente nelle nostre questioni interne. Non usa certo toni diretti, né potrebbe farlo, ma come sempre quando c’è da riportare ordine, usa quel tono sibillino e sornione con cui le cose si dicono ma è come se si trattasse di amichevoli e disinteressati consigli.
Non è infatti sfuggito a Moscovici né a Dombrovskis che dalle urne siano uscite come forze preponderanti destinate a governare l’Italia due compagini che dell’euroscetticismo hanno fatto, in campagna elettorale, uno dei cavalli di battaglia, forse quello politicamente più rilevante. E allora ecco i rimbrotti sull’accelerazione del costo del lavoro (sic!), sulle poche privatizzazioni, sul mancato alleggerimento della tassazione per i “fattori produttivi” (leggi sistema delle imprese), sulle “barriere significative” ad ostacolare gli affari, sul livello del debito ma soprattutto la messa in guardia dall’eventuale marcia indietro sulla riforma previdenziale che potrebbe peggiorare la sostenibilità del sistema paese.
In poche parole un vero e proprio monito preventivo al governo che verrà perché lasci perdere le boiate pre-elettorali, buone per prendere voti ma non per governare un paese, e si dedichi con professionalità e accondiscendenza a proseguire nel solco tracciato dai precedenti governi, quello cioè di seguire con attenzione e disponibilità le indicazioni, o meglio i diktat, dell’Unione Europea e della Banca Centrale Europea. Il pilota automatico è sempre pronto, sembrano dire nemmeno troppo velatamente da Francoforte, e il suo utilizzo dipenderà da che tipo di governo gli italiani saranno capaci di inventarsi nelle pieghe del risultato elettorale. Se sarà compatibile o meno con i progetti europei o, come roboantemente affermato sia da Salvini che da Di Maio si discosterà significativamente da questi.
A prescindere se ci sarà o meno, nel breve termine, un governo del Paese, quel che per noi conta è che non ci si può distrare un attimo. Il grande regista del nostro futuro sembra tutt’altro che intenzionato a mollare la presa e sul rispetto del fiscal compact, il mantenimento del pareggio di bilancio in costituzione, l’aumento dell’IVA a compensazione non c’è da attendersi sconti o soluzioni estranee al solco tracciato. Toccherà ancora ai lavoratori riprendere in mano la bandiera della lotta vera all’Unione Europea. Le illusioni, anche questa volta, sono destinate a durare poco.

venerdì 9 marzo 2018

Elezioni e mercati: nessun crollo

Come nel Paese delle Meraviglie il Cappellaio Matto festeggiava il suo non-compleanno, a Piazza Affari si festeggia il non-crollo dei mercati. Dopo il trionfo delle forze populiste alle elezioni di domenica 4 marzo, lunedì il Ftse Mib ha toccato in giornata una perdita massima del 2%, ma poi ha chiuso con un ben più modesto -0,4%. E martedì è addirittura salito dell’1,75%, maglia rosa fra i listini europei. Intanto, lo spread Btp-Bund viaggia placido in zona 130 punti base, lontanissimo dai livelli di guardia.

Dalle urne è emerso un risultato che in teoria non dovrebbe piacere agli operatori della finanza, se non altro perché consegna il nostro Paese a un periodo di prolungata instabilità. Eppure - come già era avvenuto dopo il voto su Brexit, dopo il referendum costituzionale italiano e dopo l’elezione di Donald Trump - gli investitori smentiscono i profeti di sventura e ostentano indifferenza. Per diverse ragioni.

Innanzitutto, l’instabilità non porterà di sicuro benefici, ma nemmeno sciagure. Al momento non c’è alcun governo di cui avere paura e nessuno è in grado di prevedere se e quando ci sarà. Le ipotesi meno inverosimili sono quelle di un accordo Lega-M5S o Pd-M5S, ma Salvini e Renzi si sono detti contrari a queste prospettive. Se un compromesso arriverà, insomma, richiederà molto tempo. Altrimenti si passerà per un governo di scopo e si tornerà alle urne.

In secondo luogo, è ancora da dimostrare che i mercati siano spaventati dall’idea di un governo italiano a guida leghista o grillina. Tra gli investitori prevale la convinzione (fondata) che le forze antisistema tendano a normalizzarsi quando arrivano al governo. E in effetti, con l’avanzare delle rispettive ambizioni elettorali, Lega e Movimento 5 Stelle hanno ridotto progressivamente la violenza del loro antieuropeismo.

Questo significa che, comunque andrà a finire, la permanenza dell’Italia nell’Eurozona non sarà mai messa in discussione. Salvini ha detto di recente che “il sistema della moneta unica è destinato a finire”, ma poi ha chiarito che “averla o non averla è una decisione che un governo non può prendere da solo”, perché “vanno cambiati i trattati”. A inizio gennaio Di Maio era stato ancora più esplicito, affermando di non credere più che l’Italia debba uscire dall’euro, “perché l’asse franco-tedesco non è più così forte”. Musica per le orecchie della finanza.

C’è poi un altro aspetto da considerare, quello relativo alle politiche dell’Ue. Gli investitori non temono il futuro governo italiano perché sanno che in nessun caso sarà in grado di ostacolare o di condizionare le riforme dell’Unione in cantiere; progetti che Emmanuel Macron e Angel Merkel hanno in serbo da mesi e che saranno scongelati subito dopo la nascita del nuovo esecutivo tedesco, ormai imminente.

Al contrario, il prevedibile allentamento dei rapporti fra Roma e Bruxelles finirà perfino con il rafforzare la diarchia della Francia e della Germania sull’Europa. Non che l’Italia abbia mai avuto chissà quale ruolo decisivo, ma finora Berlino e Parigi hanno dovuto perlomeno fingere di ascoltare le richieste e le lamentele del nostro Paese. Da qui in avanti, probabilmente, non avranno più nemmeno questa preoccupazione.