giovedì 28 novembre 2019

L’Italia è una “pacchia” per le multinazionali

Le filiali italiane delle grandi corporation del Web hanno versato al fisco italiano “solo” 64 milioni di euro nel 2018. Appena 5 in più rispetto ai 59 milioni versati nel 2017, e a seguito di accordi con le autorità fiscali italiane, hanno dovuto pagare sanzioni per un totale di 39 milioni (erano stati 73 mln nel 2017).
Lo rivela il rapporto dell’Area Studi Mediobanca sui giganti del Websoft (Software & Web companies). Occorre dire che il giro d’affari delle loro filiali in Italia  ha un peso assai relativo rispetto al totale mondiale del settore: nel 2018 il fatturato dei giganti del web in Italia ha superato i 2,4 miliardi, occupando però solo oltre 9.840 unità ossia lo 0,5% dei dipendenti a livello internazionale. Ma il 2018 è stato un anno molto “generoso” per le imposte delle multinazionali.
A livello mondiale, quasi la metà dell’utile ante imposte delle WebSoft viene tassato in Paesi a fiscalità agevolata, con un conseguente risparmio fiscale di oltre 49 miliardi nel periodo compreso tra il 2014 e il 2018.
Microsoft, Alphabet e Facebook hanno risparmiato rispettivamente 16,5, 11,6 e 6,3 miliardi di imposte nel periodo 2014-2018. La tassazione in paesi a fiscalità agevolata combinata alla riforma fiscale Usa, e ai crediti d’imposta sulle spese in ricerca, ha fatto sì che nel 2018 il tax rate effettivo delle multinazionali WebSoft risultasse pari al 14,1%, ben al di sotto di quello ufficiale del 22,5%.
In particolare, nel periodo 2014-2018 la tassazione in Paesi a fiscalità agevolata ha determinato per Apple un risparmio fiscale cumulato che sfiora i 25 miliardi.

mercoledì 27 novembre 2019

Sull’ex Ilva di Taranto si gioca una partita che riguarda tutti

ArcelorMittal vuole “cannibalizzare” l’ex Ilva e lasciare a noi solo le ossa? A Taranto si gioca una partita decisiva su lavoro, salute e sviluppo complessivo del paese.
Scrive la rivista Il Mulino che per rispondere alla crisi del settore siderurgico in Europa – dovuta ai dazi messi dagli Usa, alla penetrazione dei prodotti provenienti da Cina, Turchia, India etc. – il modo in cui i grandi gruppi industriali stanno provando a fronteggiarlo “passa principalmente attraverso una sempre più intensa centralizzazione dei capitali, perseguita con fusioni e acquisizioni. Operazioni che consentono alle imprese non solo di ampliare le rispettive quote di mercato, ma altresì di estendere il controllo sulla capacità produttiva (…) Potendo contare su un numero maggiore di unità, operanti in diversi contesti o su diversi segmenti di mercato, un’impresa ha più margini anche per affrontare le crisi. Può scegliere di valorizzare le attività più remunerative e fermare – a tempo determinato o definitivamente – quelle in perdita. È sulla base di questa premessa che va letta la vicenda Ilva”.
I proprietari di ArcelorMittal, secondo Il Mulino potrebbero aver deciso (il condizionale è d’obbligo perché siamo a conoscenza solo di quello che trapela nel dibattito pubblico) di limitare i flussi di cassa negativi liberandosi dell’ex Ilva. “Una scelta comprensibile sul piano finanziario, e nell’ottica di breve periodo che orienta un’impresa quotata, che oltretutto mette a rischio la sopravvivenza di quel ramo d’azienda, prospettando la dismissione di una quota di produzione di un certo peso, con possibili effetti benefici sugli equilibri fra domanda e offerta. Tuttavia questa opzione non è esente da rischi”.
Se dopo il recesso di Arcelor Mittal un altro soggetto acquisisse le attività siderurgiche dell’ex Ilva, e ristrutturasse lo stabilimento rimettendole sul mercato, la multinazionale avrebbe fatto rinascere un concorrente sul mercato italiano. Secondo Il Mulino “Mittal scommette sull’irrealizzabilità di questa ipotesi, e ha dalla sua diversi elementi: su tutti, le difficoltà finanziarie che attanagliano gli operatori e le ristrettezze del mercato. Queste, combinate allo sforzo necessario per rimettere in campo Ilva, restringono le probabilità che quell’operazione possa verificarsi. Ma non le annullano del tutto”.
In qualche modo l’indagine aperta dalla Procura di Milano (e ci sentiamo di condividere questa ipotesi,ndr) sottolinea proprio questa eventualità, cioè che ArcelorMittal abbia acquistato l’ex Ilva non per ristrutturarla ma per chiuderla e “cannibalizzare” le sue quote sul mercato italiano della siderurgia. Era già accaduto con l’Italsider di Bagnoli negli anni ’80 ma, allargando l’orizzonte, potremmo dire che la stessa cosa è accaduta nella chimica, la farmaceutica, la produzione di autobus etc. etc. Con un eufemismo doloroso la chiamano “deindustrializzazione”, noi preferiamo chiamarla desertificazione industriale di un paese.
Il giro d’affari mondiale della filiera dell’acciaio è di quasi 2.900 miliardi di dollari. La World Steel Association stima in 96 milioni il numero complessivo dei lavoratori occupati nell’industria siderurgica.
Anche se preoccupati da un potenziale rischio di sovrapproduzione, la Cina e i paesi emergenti come India e Turchia, continuano a veder crescere il loro peso nel settore siderurgico.
Secondo le stime della World Steel Association, a settembre del 2018 la produzione mondiale ha raggiunto il livello di 151,71 milioni di tonnellate di acciaio, rispetto ai 145,28 del 2017, in aumento del 4,4%. In altre parole, sono state prodotte 6,4 milioni di tonnellate di acciaio in più rispetto allo stesso mese del 2017.
In Europa la produzione di acciaio nel periodo giugno-settembre è scesa del 13,6% a 10,4 milioni di tonnellate rispetto alle 12,1 milioni del secondo trimestre. Anche le spedizioni nel terzo trimestre sono diminuite del 17,9% a 9,7 milioni di tonnellate mentre le vendite sono state pari a 8,8 miliardi di dollari -15,4% rispetto ai 10,4 miliardi del secondo trimestre 2019.

La siderurgia italiana fino ad oggi ha mantenuto un ruolo di primo piano nel contesto economico nazionale ed europeo, essendo la seconda potenza produttiva a livello europeo e la decima a livello mondiale.
Il 2017 era stato un anno positivo per l’industria siderurgica  italiana, grazie ad una produzione che ha superato i 24 milioni di tonnellate prodotte, un livello che non si vedeva dal 2013. Prodotti come laminazioni, trasformazioni e finiture e le fonderie italiane sono al primo posto a livello europeo, con un testa a testa con quelle tedesche. Nel comparto dei lunghi e dei prodotti di prima trasformazione (tubi saldati e senza saldature, filo trafilato e fucinati) l’Italia rimane uno dei leader europei.
La produzione di acciaio in Italia nel 2018
2010: 25,7 M.t. – 42 siti
2011: 28,7 M.t. – 42 siti
2012: 27,3 M.t. – 42 siti
2013: 24,1 M.t. – 41 siti
2014: 23,7 M.t. – 41 siti
2015: 22,0 M.t. – 41 siti
2016: 23,4 M.t. – 41 siti
2017: 24,1 M.t. – 39 siti
2018: 24,5 M.t. – 39 siti
(fonte: Federacciai, 2019)
In Italia viene prodotto il 14.6% della siderurgia dell’Unione Europea a 28. Il 25,3% viene prodotto in Germania, in Francia il 9,2%, in Spagna l’8,6%, in Polonia il 6,1%, in Belgio il 4,8. Nei restanti ventidue paesi europei viene prodotto il 31,4%.
Il fatturato totale in Italia della filiera siderurgica in senso stretto nel 2018 è stato di 62,403 miliardi di euro (erano 56,111 nel 2017, +11,2%).
ArcelorMittal Italia S.p.A. è dal novembre 2018 la filiale italiana della multinazionale franco-indiano- lussemburghese che si occupa prevalentemente della produzione e trasformazione dell’acciaio Il più importante stabilimento italiano è l’ex Ilva di Taranto che costituisce il maggior complesso industriale per la lavorazione dell’acciaio in Europa. Altri stabilimenti in ballo sono quelli di Genova, Novi Ligure, Racconigi e Marghera.
In questo scenario l’ArcelorMittal in  Italia ha visto la produzione a ottobre 2019 scendere a 4.5 milioni di tonnellate. Se hanno ragione i magistrati milanesi, il suo obiettivo è di operare affinchè diminuiscano ancora… fino a spegnersi. A quel punto la quota di mercato dei prodotti della ex Ilva sarebbe a disposizione di altri pescecani del settore, soprattutto se hanno a disposizione una filiera multinazionale su cui scaricare e abbattere i costi di produzione.
La chiusura dell’Ilva è stata invocata non solo dagli abitanti di Taranto avvelenati e uccisi da anni di inquinamento, ma anche da una parte dei lavoratori e dalla Usb.
Nel sondaggio condotto dall’Usb tra i lavoratori dell’Ilva di Taranto tra ottobre e novembre, per 1.223 operai (il 97,6% sulle 1.254 risposte ottenute), l’attuale ciclo produttivo integrale a carbone non è compatibile con il rispetto della salute umana e dell’ambiente

Già a luglio l’Usb aveva sostenuto coraggiosamente – e praticamente da sola – che “Taranto va liberata dai veleni mortiferi dell’acciaieria e va costruita un’alternativa occupazionale che garantisca salari, reddito, il diritto alla salute ed il rispetto dell’ambiente. Per questa ragione è necessario che il governo investa risorse ingenti in questo progetto. Senza un intervento pubblico non è sostenibile alcun progetto alternativo”.
Una tesi che ribadito anche lo scorso 4 novembre in sede di incontro con il ministro Patuanelli nel quale ha chiesto esplicitamente la pianificazione della chiusura dell’area a caldo ed un progetto straordinario di intervento pubblico delle bonifiche ambientali, per nuova occupazione, difesa del reddito e salvaguardia dei posti di lavoro. “Ora si tratta di riprendere Ilva in mano pubblica allo scopo di definire quel piano straordinario di chiusura delle fonti inquinanti,  difesa del reddito, bonifiche e riconversioni” sostiene l’Usb, “lo Stato, per responsabilità diretta dei governi, ci arriva nel modo peggiore. Il rischio serio è che, se di ricatto si tratta, questo possa trovare tanti solidi alleati, anche nel sindacato”.
Su questi temi e con questi obiettivi si discuterà a Taranto mercoledi sera nel convegno organizzato da Potere al Popolo, ci si confronterà in una assemblea operaia nazionale convocata dall’Usb per giovedi 28, si sciopererà e si manifesterà nella stessa città venerdi 29 novembre. E’ una sfida a tutto campo per lavoro, salute e ambiente, tre questioni su cui il mercato e la visione privatistica non sono e non saranno mai in grado di dare soluzioni che guardino al benessere sociale e collettivo.

lunedì 25 novembre 2019

Le elezioni in Gran Bretagna e la sfida del Labour

Il 12 dicembre si svolgeranno le elezioni in Gran Bretagna.
Da un lato, Boris Johnson sta giocando la campagna elettorale incentrandola sull’accordo che l’ex-primo ministro conservatore è stato in grado di raggiungere con i 27 dell’Unione Europea, prima dell’indizione delle snap elections il 29 ottobre; dall’altro, Jeremy Corbyn si è focalizzato su un vasto programma di riforme sociali avanzate, esposte organicamente nel Manifesto del Labour: “It’s Time for Real Change”, presentato giovedì di questa settimana alla Birmingham City University.
Come riporta The Guardian, Corbyn, durante la presentazione, l’avrebbe definito: “un manifesto pieno di politiche popolari che l’establishment politico ha bloccato per una generazione”. Un programma più radicale di quello presentato alle elezioni del 2017, volute da Cameron dopo il voto sulla Brexit ed in cui i tories persero la maggioranza, governando poi con Theresa May fino all’avvento di “BO JO” grazie ai voti degli “unionisti” nord-irlandesi.
Il Manifesto comprende un vasto programma di nazionalizzazioni: ferrovie, comparto energetico e delle comunicazioni, così come l’acqua e le poste, è centrato su un incremento della spesa pubblica in investimenti produttivi – per esempio con la creazione di una azienda farmaceutica statale e di un banca statale d’investimento – e soprattutto in welfare, dalla sanità all’istruzione (anche per gli adulti), e il ritorno all’università gratuita.
Articola il progetto di un transizione ecologica radicale – pagata attraverso un fondo ricavato dalla tassazione delle industrie inquinanti – per affrontare l’emergenza climatica, propone una riforma tributaria in senso progressista che colpisca l’élite economica autoctona o “straniera”, tra cui Amazon; parla di partecipazione dei lavoratori ai consigli d’amministrazione, di una radicale riduzione dell’orario a parità di salario, dell’introduzione di un salario minimo orario di 10 Sterline, di una parificazione effettiva tra le retribuzioni femminili e quelle maschili, della ripresa in carico da parte dello Stato della collettività con la creazione di 1000 nuovi Sure State centres, ecc.
L’accesso gratuito alla Rete Informatica, ovvero la “Free Broadband for all” – per esempio – verrebbe finanziata con le tasse alle multinazionali del settore tecnologico e con la parziale ri-nazionalizzazione della British Telecom…
Per dare un’idea di come il tema dell’incremento della spesa pubblica sia al centro della campagna – anche per gli stessi Conservatori – riportiamo i dati forniti dall’IFS (Institute for Fiscal Study), un organismo indipendente che ha valutato in 55 miliardi di Sterline, cioè 64 miliardi di Euro, le spese d’investimento previste dal partito Laburista, contro i 20 miliardi dei Tories, che puntano la propria narrazione riguardo ai temi sociali solo sulla riduzione delle tasse per i salari più bassi e la promessa di costruire un milione di case nei prossimi cinque anni. Mentre il Labour parla nel Manifesto di edificare 150.000 alloggi sociali l’anno, a basso costo ma “ad alta qualità di risparmio energetico”.
Un aumento significativo, considerato che l’anno scorso ne sono state costruite solo 6.287, come riporta The Morning Star.
Sia in casa laburista che, paradossalmente, in quella conservatrice, sono le politiche di “austerità” ad essere sconfessate. Una netta inversione di tendenza rispetto all’egemonia neo-liberale che, con Margaret Thatcher prima e Tony Blair poi, si era radicata nel quadro complessivo della rappresentanza politica britannica. Segno anche di quanto forte sia ormai il malessere sociale per le condizioni di vita e salariali.
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Sempre nella settimana appena trascorsa, il primo dibattito televisivo svoltosi martedì sera tra i due leader ha “riproposto” questo tipo di schema, con una particolare rilevanza data da Corbyn alla difesa e potenziamento della NHS, il sistema sanitario nazionale pubblico, oggetto di grandi tagli da parte di Conservatori e che fa molta gola soprattutto ai grandi gruppi della white economy statunitense.
Quello della sanità pubblica è uno dei punti dirimenti dei laburisti, che accusano i tories di volere svendere questo gioiello britannico al settore privato nord-americano, all’interno della possibile stipula di un accordo di libero scambio successivo alla Brexit.
Secondo le stime sono “vacanti” 100.000 posti nella sanità pubblica e mancano 43.000 infermieri, come riporta The Morning Star.
Un articolo del 20 novembre di Jim Stone, dell’Indipendent,  dal significativo titolo “NHS overtakes Brexit as voters’ top priority for election, poll finds”, viene citato un sondaggio effettuato tra il 15 e il 18 novembre, in cui proprio il sistema sanitario nazionale britannico risulta in cima alle preoccupazioni dell’elettorato con un buon 60%; una percentuale superiore del 6% rispetto allo stesso sondaggio condotto tra l’8 e 11 d’ottobre.
Non è un caso che in una rilevazione di YouGov tra gli “indecisi” rispetto all’opzione di voto, effettuata dopo la tribuna elettorale televisiva, ha dato un notevole vantaggio a Corbyn rispetto a Johnson: 59 contro 41 per cento.
Mentre il leader del “Brexit Party” Nigel Farage, vero vincitore delle elezioni europee della scorsa estate – come caldeggiato da Trump – ha scelto di non presentare dei propri candidati nelle circoscrizioni papabili per i conservatori, di fatto andando a contendere solo i seggi laburisti in un sistema uninominale secco come quello britannico, i LiberalDemocratici hanno deciso di giocare la partita come i più accesi promotori di un secondo referendum sulla Brexit, e di collocarsi quindi come capofila dei remainers, cui si allineano su questo tema lo Scottish National Party ed i Verdi britannici, che rischiano di fare da “utili idioti” per Johnson; mentre il Partito Comunista Britannico sostiene calorosamente la politica del Labour.
L’equazione più difficile per Jeremy Corbyn è proprio quella sulla Brexit, visto che la propria base elettorale ha votato massicciamente per il leave nel giugno del 2016, andando contro l’indicazione di voto del partito – Corbyn è un euroscettico di lungo corso, che a malincuore si è espresso per il remain – e i membri dell’organizzazione, divisi su questa opzione, con una strana accoppiata tra i remainers laburisti (che mettono insieme la “destra” del partito, cioè il ceto politico residuale del “New Labour” di Tony Blair, e “l’ultra-sinistra” che supporta il Labour anche in questa difficile campagna elettorale).
Recentemente da parte del Partito Laburista, sia in Scozia – dove i remain aveva ottenuto il 62% dei voti – che in Galles, è stata ribadita la libertà di fare campagna contro la Brexit in un eventuale secondo referendum …
Richard Leonard, leader dei laburisti scozzesi, terzo partito dietro SNP e i Tories, ha giustamente dichiarato: “con un governo laburista radicale pensiamo che le ragioni in favore dell’indipendenza saranno erose e verranno eclissate”, riferendosi alla questione di un nuovo referendum per l’indipendenza della Scozia, uno dei temi caldi agitato dal SNP in questa campagna elettorale.
La quadratura del cerchio tra i differenti punti di vista sulla Brexit e le differenti compagini locali è stata probabilmente trovata  concentrandosi su un vasto programma di riforme sociali, il cui l’architetto è un altro storico outsider della sinistra laburista, come Jeremy Corbyn: il “Cancelliere ombra” originario di Liverpool, John McDonnel.
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Sulla politica estera, il programma e le reiterate prese di posizione di Corbyn – oggetto di una oscena campagna della lobby sionista – parlano chiaro. E questa settimana il leader laburista ha ribadito tra l’altro che le colonie israeliane – riconosciute da Trump, dopo Gerusalemme capitale dello Stato Ebraico – sono una “violazione flagrante” della legge internazionale.
Da sottolineare come il Labour, in caso di vittoria elettorale, metterà fine al commercio di armi in direzione dell’Arabia Saudita per la guerra in Yemen (la Gran Bretagna è uno dei maggiori fornitori), così come verso Israele.
Per ciò che concerne la Palestina si tratta di un successo delle numerose campagne della sezione locale del BDS, che trovano concretizzazione nelle risoluzioni a riguardo degli ultimi due Congressi, quest’anno come l’anno precedente; anche se l’impostazione sulla questione continua ad avere dei limiti, costituisce comunque una delle più avanzate posizioni della sinistra radicale che abbia un’espressione parlamentare sul Continente.
È da ricordare che Corbyn, fedele alle sue posizioni di difesa della “rivoluzione bolivariana”, da vecchio internazionalista qual è ha preso posizione contro il Colpo di Stato in Bolivia…
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La campagna elettorale si sta giocando inoltre sull’asimmetria tra l’appeal esercitato dal Labour sulle giovani generazioni – cui ha dedicato una parte importante del proprio Manifesto – e quella “non esercitata” dai Conservatori.
Come ha detto il 20 novembre Tariq Ali, in una intervista su The Jacobin  a cura di Suzi Weissman:
“Il Labour ora ha una ben organizzato, e ben addestrato team di volontari per la campagna elettorale – per la maggior parte giovani – che stanno aggredendo i seggi marginali. Al contrario, i tories, la cui età media degli aderenti è ora oltre i sessanta, non hanno praticamente alcun giovane tra le loro fila e devo affittare un’azienda per la loro campagna. Hanno privatizzato le elezioni.”
Oltre che sui seggi marginali, vinti per una manciata di voti le scorse elezioni e ora al centro della campagna a tappeto della macchina elettorale laburista, supportata da “Momentum”, una grossa partita viene giocata sulla registrazione al voto degli aventi diritto; attività su cui il Labour ha investito molto, promuovendo una campagna coronata dal successo.
Lo scorso venerdì si sono registrate nel giorno scelto per questa campagna più di 300.000 persone, tra cui 200.000 cittadini sotto i 35 anni. Un trend che i laburisti sperano di conservare fino all’ultimo giorno valido, il 26 novembre, per ricreare quel “youthquake” – cioè quel terremoto giovanile che ha segnato le votazioni del 2017 – e far andare a iscriversi quella persona su sei che, secondo le stime, manca ancora all’appello.
Un video di Owen Jones – “You have the power to change it all, but you have to vote” – divenuto virale, mostra le ragioni per andare a votare: dallo strapotere dei proprietari di case nei confronti degli inquilini al collasso del sistema sanitario, dalla situazione dei pensionati all’emergenza climatica… “Perché se no la vostra voce sarà silenziata, mentre è necessario che sia ascoltata più alta che mai.”
Non sappiamo quale sarà l’esito che uscirà dalle urne. Da un po’ di tempo a questa parte sappiamo che gli strumenti di previsione elettorali classici, come i sondaggi, possono trasformarsi in “bussole impazzite”. Quel che è certo è che ci troviamo di fronte ad una campagna dai toni inediti, con Johnson che – alla sua prima uscita – ha paragonato Corbyn a Stalin; o la stampa reazionaria britannica che ha parlato, dopo la presentazione del Manifesto, di “agenda marxista nascosta”…
Non sappiamo se le “campane a morte” per il neo-liberalismo suoneranno per prime nella “Perfida Albione”, con la vittoria dei laburisti, né se questi, in caso di successo elettorale, manterranno in tutto o in parte l’agenda politica che hanno fin qui costruito.
Da un articolo del quotidiano comunista britannico, che abbiamo più volte citato, scritto da Amy Addison-Dunne, rubiamo la valutazione del Manifesto:
“In questo manifesto c’è qualcosa per tutti. Il Labour vuole democratizzare, ricostruire e rivoluzionare la nostra società. (…) Non sorprende che i miliardari si stiano spaventando.”

venerdì 22 novembre 2019

Dove va il Movimento 5 Stelle?

Il Movimento 5 Stelle sarà presente con una propria lista alle prossime elezioni regionali che si terranno in Calabria e in Emilia Romagna. Questo il dato emerso ieri sera dopo che poco più di 19 mila (contro 8 mila) tra i 125 mila aventi diritto al voto sulla piattaforma Rousseau, hanno espresso la preferenza per il No, preferenza che nella formulazione del quesito – poco lontana da quelli “creativi” visti in occasioni ben più dirimenti, come la riforma costituzionale o la privatizzazione dell’acqua – significava la volontà di partecipare alla campagna elettorale.
Il risultato, si affrettano ad affermare molti quotidiani di oggi, va in direzione opposta alle indicazioni avanzate alla vigilia del voto dal “capo politico” Luigi Di Maio, di fatto esprimendo un’incrinatura evidente nelle relazioni tra la dirigenza del Movimento e la parte di elettorato che ancora rimane fedele all’opzione pentastellata.
Di certo, il dato politico messo in mostra dagli organi di informazione “interessati” alle quotazioni della borsa elettorale è talmente evidente che neanche i diretti interessati possono negarlo. I “non controllo più i miei” o i “è vero, siamo in difficoltà” pronunciati da Di Maio, a cui aggiungere i mal di pancia delle basi regionali/ provinciali ecc.,  sono qui a dimostrarlo.
Ma ciò su cui qui vorremmo soffermarci brevemente sono le ragioni profonde che hanno portato il M5S a questa situazione. Se, di nuovo, il dato è che la formazione che poco più di 20 mesi fa ha ottenuto la maggioranza relativa alle camere, a poche settimane dalle elezioni, non sa se presentare una propria lista in una delle regioni strategiche per la guida del paese, perché non saprebbe come affrontare un’altra batosta come quella rimediata alla tornata umbra, la questione centrale e meno dibattuta altrove è il perché di questo “sconvolgimento”.
Il motivo, paradossalmente, risiede nella stessa logica, non nuova, che da una parte ha portato il Movimento ai risultati del marzo 2018, e dall’altra al declino odierno: l’illusione che la dimensione, dell’onestà sia da sola in grado di offrire un’alternativa credibile al “cattivo” mondo odierno.
Sia ben chiaro, l’illusione non è nel valore dell’onestà in sé, quanto piuttosto nell’ipotesi secondo cui se tutti fossero onesti, il mondo (questo mondo, e in particolare questo paese) funzionerebbe bene. Illusione, appunto perché non riscontrabile nella realtà. che diventa addirittura becera repressione quando le si sovrappone la “logica manettara” del rispetto della legge a prescindere dalla sua “ragionevolezza”  – come nei sorrisi compiaciuti del ministro Bonafede all’atterraggio di Battisti dal Brasile o nei Decreti Sicurezza che portano il nome di Salvini –, senza porsi la domanda per chi e per quale scopo quella legge è stata pensata.
 A ben vedere, l’illusione dell’applicazione amministrativa onesta del già legittimato non è altro che il riflesso dell’ideologia (falsa coscienza per definizione), del “né destra né sinistra” con cui il Movimento ha scalato le vette del consenso; ideologia che peraltro è tutta interna (compatibile) alla narrazione della fine della storia e delle alternative (“Tina”, there is no alternative) con cui abbiamo a che fare da almeno un trentennio a questa parte.
Questo giochino ha funzionato benissimo finché si è trattato di coagulare un sentimento diffuso e reale, quanto legittimo, di rifiuto generale di un arco politico di bassissima lega, incapace e disinteressato a cogliere i bisogni che sopraggiungevano dalla popolazione.
Ma quando si passa dal ruolo destruens a quello costruens, ossia dall’attacco puro a tutto spiano contro le proposte degli avversari alla necessità di prendere decisioni programmatiche, e fare i conti con la materia disponibile a sostenere quelle decisioni, per le sorti economico-politico-sociali di un paese, allora la musica cambia.
Qui, senza un orizzonte di riferimento, un programma più o meno definito, o meglio ancora un’idea chiara e concreta (non illusoria dunque) del mondo che si vuole costruire, si perde la bussola e si finisce col governare con tutto e l’apparente contrario di tutto in poco tempo. Come è successo al Movimento, con il passaggio dal governo giallo-verde a quello giallo-blu (o giallorosa). Se poi il pilastro dell’offerta politica era sempre stata la promessa di non scendere a patti “con nessuno”, allora lo sconvolgimento, come scritto in precedenza, è la sola conseguenza razionale possibile.
La perdita della bussola ora si è trasferita anche all’elettorato, a cui, di fronte alle continue giravolte dei propri rappresentanti, comincia a girare la testa e fa sempre più fatica a riconoscere “i suoi”, fino a sconfessare – e torniamo così alla cronaca di oggi – l’indicazione di voto fornita dal “capo politico” sulla votazione online. Cosa mai accaduta fino a ora.
A dispetto di quanto ci vogliono far credere, la guida di un paese, a maggior ragione in un contesto di grande incertezza internazionale e con prospettive tutt’altro che rosee, non è mai una questione di “applicazione tecnica” del già esistente, ma è sempre inserito in una visione generale che guida, di volta in volta, le scelte particolari.
Tutt’al più, la tecnicizzazione degli organi decisionali politici è uno strumento funzionale di una di queste visioni; ma i 5 Stelle hanno creduto di poter fare di questo strumento la visione generale su cui basare la propria stabilità elettorale.
Evidentemente, così non può essere, e il Movimento – e con esso tutte quelle persone che avevano in buona fede creduto a questa proposta di cambiamento – è costretto a pagarne il prezzo. Che, se alla vigilia dell’elezione del futuro governatore di una delle regioni più ricche del paese mette in dubbio la tua presenza, comincia a essere molto salato.

giovedì 21 novembre 2019

I finti tonti sul “fondo salva stati”

A quanto pare, anche la miserevole “classe politica” e l’ancor più miseranda “informazione” mainstream si sono accorte che esiste una trattativa tra i paesi dell’Eurozona per la riforma del Mes, il Meccanismo europeo di stabilità, altrimenti noto come “fondo salva stati”.
Nel nostro piccolo ce ne siamo occupati più volte, spesso costretti ad attingere alla stampa internazionale, visto il silenzio pudico di quella nostrana, capace di parlarne soltanto a favore senza spiegarne il contenuto.
Ora Salvini l’ha “scoperto” a fini scopertamente elettorali, parlando di “fondo ammazza stati”, e chiedendone conto a Conte e al governo attuale. D Maio prova a non farsi spiazzare e chiede un vertice di maggioranza sul tema, ricordandosi soltanto ora della “centralità del Parlamento” in queste materie. Il Pd tace, come sempre quando c’è in ballo la subordinazione all’Unione Europea.
La domanda è semplice: il governo (nelle persone del presidente del Consiglio e del ministro dell’economia) ha accettato o no un “accordo” con gli altri paesi europei, che ora bisognerebbe “chiudere” nella forma definitiva?
La risposta, sotto i mille distinguo formali, è “sì”, ma senza firmare nulla.
Come si usa nelle discussioni inter-statuali sulla riforma di un trattato, prima si raggiunge un accordo di massima tra tutti i paesi (è prevista l’unanimità), poi si articola dettagliatamente – grazie al lavoro degli sherpa tecnici – e infine si sottopone alla firma definitiva dei governi.
I quali dovrebbero presentare e spiegare quel trattato, ognuno al proprio Parlamento, per ricevere l’autorizzazione alla firma. Sappiamo benissimo che quasi mai è andata così, in Italia. Il trattato di Maastricht, il più importante perché avviva la strutturazione istituzionale attuale della UE, fu firmato da Giulio Andreotti a Camere sciolte. Praticamente senza mandato (anche se c’era stata una ricca discussione parlamentare da cui erano emersi qualche dissenso – a sinistra (Napolitano, nel Pci, era addirittura contrario al varo dell’Euro) – e parecchie perplessità.
La seconda domanda, decisiva per stabilire chi sono i “traditori della patria” che hanno dato l’ok a proseguire nella riforma del Mes, è: quando è stato pronunciato quel “sì” provvisorio?
Anche qui la risposta è chiara: il 21 giugno scorso, nel corso della riunione dell’Eurogruppo (che riunisce i ministri dell’economia, pur non essendo previsto da nessun trattato europeo).
E qui le cazzate di Salvini e Di Maio escono allo scoperto. Il 21 giugno entrambi erano vicepremier nello stesso governo, e nessuno dotato di senno può credere che Giuseppe Conte e Giovanni Tria, allora “ostaggi tecnici” delle due forze della maggioranza, possano non aver informato i due capi assoluti di quanto stava maturando a Bruxelles.
Rimane in piedi dunque giusto l’ipotesi che entrambi, piuttosto deboli sul piano economico, possano non aver capito di cosa si stava parlando. Ma entrambi disponevano di un folto gruppo di viceministri e sottosegretari “tecnici”, posti a guardia dei due “senza tessera”, in grado di farglielo capire nei dettagli: Bagnai, Borghi, Castelli, Garavaglia, Bitonci, Villarosa, ecc.
L’ipotesi più probabile, insomma, è che l’avessero saputo e capito benissimo, fin dai mesi (2018) in cui c’era da “convincere” la Commissione ad accettare una manovra 2019 contenente due misure “atipiche” rispetto ai parametri di Bruxelles (quota 100 e reddito di cittadinanza). Secondo la normale logica della trattativa, l’ok europeo alla manovra è arrivato in cambio di un “sì” di massima rispetto alla riforma del Mes e qualche altro dettaglio.
Un quadro “blindato”, per il futuro, tanto da far decidere a Salvini di darsela a gambe in pieno agosto.
Di cosa tratta il “nuovo Mes”?
In effetti, come avevamo capito da soli, diventa un fondo “ammazza paesi deboli”. Sono stati costretti ad ammetterlo europeisti di chiara fama come Giampaolo Galli, e persino il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco (la riforma del Mes potrebbe implicare “grossi rischi” in particolare “una spirale perversa di aspettative di default che potrebbe essere una auto-realizzante”).
In pratica vengono cambiati la governance del Mes (dalla mediazione intergovernativa ad un organismo “tecnico” che procede all’applicazione delle regole in automatico) e i parametri da rispettare per accedere agli aiuti.
Secondo l’allegato III della bozza la “linea di credito precauzionale e condizionata” per il Paese in difficoltà è disponibile solo se tutte le seguenti caratteristiche sono rispettate:
– deficit non superiore al 3% sul Pil,
– un budget strutturale in linea con il benchmark,
– rapporto debito Pil sotto il il 60% “o una riduzione nel differenziale a tale soglia nella misura di un ventesimo all’anno nella media dei due anni precedenti”.
Inoltre è richiesta “l’assenza di gravi vulnerabilità del settore finanziario che mettano a rischio la stabilità finanziaria del membro Mes”.
L’intento dichiarato è in teoria quello di “garantire” ogni paese dell’eurozona da possibili attacchi speculativi, fornendo un “prestatore di ultima istanza” (privo però della possibilità di intervenire “illimitatamente”, essendo dotato di soli 2.600 miliardi). Ma le condizioni imposte, e prima elencate, fanno sì che proprio i paesi che potrebbe finire (o sono già finiti) nella morsa della speculazione dei “mercati” sarebbero impossibilitati ad accedere agli aiuti (pur contribuendo alla formazione del fondo comune).

Insomma: se si chiede “aiuto” al Mes senza avere quei parametri (e non ce li ha praticamente nessuno, salvo la Germania e qualche altro paese del Grande Nord), il rifiuto diventa automatico ed espone ancor più quel paese agli attacchi speculativi.
A meno che non accetti di sottostare a un supervisione della Commissione tale per cui la scrittura della “legge di stabilità” – la principale legge dello Stato, che decide annualmente come reperire le risorse e come utilizzarle – viene completamente delegata a Bruxelles (oggi viene “concertata” passo dopo passo, da aprile fino al 31 dicembre).
Abbiamo dunque un doppio danno, da questa “riforma” del Mes: a) maggiore e non minore esposizione ai rischi di mercato, b) totale perdita dei residui di “sovranità” sulle proprie risorse (visto che con la legge di stabilità di decide la composizione della spesa pubblica e la politica fiscale).
Con il contorno non secondario di una crisi indotta anche per il “nostro” sistema bancario. Che infatti reagisce come prevedibile. Proprio stamattina il presidente dell’Abi (l’associazione delle banche italiane), ha avvertito con la massima chiarezza: «Noi siamo liberi di comprare titoli sovrani, non abbiamo un vincolo di portafoglio e in questa fase abbiamo circa 400 miliardi di debito pubblico italiano (nei bilanci delle banche, ndr). Il problema è che cosa fa la Repubblica italiana per tutelare il debito pubblico. Non si tratta di debito delle banche, e se le condizioni relative al debito pubblico alterano o per maggiori assorbimenti o per elementi che favoriscono sinistri è chiaro che le banche sottoscriveranno meno debito pubblico, non li compreremo più». Lo spread salirebbe immediatamente in cielo, per la felicità della grande finanza multinazionale…

Parlare di “governo nazionale”, a quel punto, sarebbe un puro eufemismo…

Come vedete, la miseria della “classe politica” è tale che invece di preoccuparsi del collasso progressivo del paese, accentuato dalla governance europea, ci regala il penoso spettacolo di chi prova a cavalcare anche quel collasso a fini personali o di consorteria.
E poi vengono anche a chiedere “vota per me”…

martedì 19 novembre 2019

Dopo Gerusalemme, Trump regala a Israele anche i Territori Occupati

Un altro seme per la guerra generale in Medio Oriente, e quindi nel mondo intero, vista l’importanza strategica dell’area per la presenza dei due terzi delle risorse petrolifere accertate.
Gli Stati Uniti dichiarano di non considerare più illegali gli insediamenti israeliani nei Territori palestinesi occupati.
Lo ha annunciato il segretario di Stato americano Mike Pompeo, ripudiando così il Memorandum Hansell del 1978, con il quale Washington giudicava l’occupazione dei Territori “incompatibile con il diritto internazionale“.
Come si capisce senza fatica, se gli insediamenti vengono considerati “legittimi” (“legali” sarebbe eccessivo, visto che ogni presidente Usa si fa la legge che gli pare) non esiste più un territorio su cui i palestinesi – in un lontanissimo futuro, quasi utopico – potrebbero costruire il proprio Stato. Come del resto previsto degli accordi internazionali sempre disattesi da Israele (motivo per cui è stata condannata innumerevoli volte dall’Onu, con apposite deliberazioni).
Definire “gli insediamenti civili incompatibili con il diritto internazionale non ha favorito la causa della pace”, ha spiegato Pompeo. “La dura verità è che non vi sarà mai una soluzione legale del conflitto e le argomentazioni su chi ha ragione e chi ha torto dal punto di vista delle leggi internazionali non porteranno mai la pace”, ha rimarcato il capo della diplomazia Usa, sostenendo che la legalità degli insediamenti deve essere decisa dai tribunali israeliani.
Come dire: non esiste nessuna legalità internazionale che abbia competenza su quello Stato, perché decide per conto proprio cos’è giusto e legale. Secondo il proprio esclusivo interesse.
Sarà curioso vedere se gli Usa riconosceranno altre decisioni simili, “autodeterminate”, di altri Stati, magari in aperto contrasto con la volontà statunitense. Sappiamo già la risposta, ovviamente…
L’annuncio di Pompeo rovescia quando deciso dalla risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu del 2016, che definì una “flagrante violazione” delle leggi internazionali le colonie israeliane nella West Bank. Contemporaneamente ripudia la quarta Convenzione di Ginevra, che sancì l’illegalità del trasferimento di popolazione da parte di una potenza occupante.
In più, rovescia un parere del tutto opposto degli stessi Stati Uniti, espresso nel 1978.
In pratica, non esiste più una legalità internazionale che valga anche per Israele. Uno Stato fuorilegge con l’autorizzazione dell’Imperatore del mondo… Un po’ come la “patente da corsaro” rilasciata dal Regno d’Inghilterra al tempo delle guerre coloniali, dopo la scoperta del Nuovo Mondo.
L’ipocrisia sanguinaria degli Usa emerge anche da una successiva dichiarazione di Pompeo (casualmente, ex capo della Cia) che ha voluto precisare che la mossa “non è volta ad incoraggiare nuovi insediamenti”.
Naturalmente è completamente falso. Questo è un via libera a Netanyahu – sconfitto alle recenti elezioni, sotto inchiesta per corruzione, ma tuttora “reggente temporaneo” del governo di Tel Aviv – per occupare ciò che resta della Cisgiordania.
E subito dopo è infatti arrivata la gongolante nota dell’assassino: la dichiarazione di Washington “riflette una verità storica”, cioè che “il popolo ebraico non è colonialista straniero in Giudea e Samaria (Cisgiordania, ndr)”. Duemila anni di Storia e la presenza di un popolo (quello palestinese) fatti sparire con una menzogna basata unicamente sulla forza militare.
Ovvia ma disperata la risposta dell’Autorità Nazionale palestinese, per bocca del segretario generale dell’Olp, Saeb Erekat: “La comunità internazionale deve prendere tutte le misure necessarie per rispondere a fare da deterrente a questo comportamento irresponsabile degli Usa che rappresenta una minaccia alla sicurezza globale e alla pace”. 
Altrettanto disperata la dichiarazione del portavoce del presidente palestinese Abu Mazen, Nabil Abu Rudeina. “L’amministrazione Usa non è qualificata o autorizzata a cancellare le risoluzioni di legittimità internazionale e non ha il diritto di dare alcuna legittimità all’insediamento israeliano. Gli Usa non hanno più alcun ruolo nel processo di pace”. E infatti quella è una dichiarazione di guerra, appena mascherata.

L’infame decisione Usa spiazza tra l’altro anche l’Unione Europea, che affida all’uscente “Lady Pesc” (Alto rappresentante per gli Esteri), Federica Mogherini, la conferma che la posizione di Bruxelles “sulla politica di insediamento israeliana nel territorio palestinese occupato è chiara e rimane invariata: tutte le attività di insediamento sono illegali ai sensi del diritto internazionale ed erodono la fattibilità della soluzione a due Stati e le prospettive di una pace duratura, come ribadito dalle Nazioni Unite Risoluzione del Consiglio di sicurezza 2334″. 
Una posizione che a questo punto dovrebbe in teoria rendere più difficile la “copertura” diplomatica dell’atteggiamento stragista di Israele nei confronti del Palestinesi, specie di fronte ai nuovi “insediamenti illegali” che si produrranno nei Territori Occupati…
Ma le vie dell’ipocrisia sono infinite. Troveranno il modo di “compensare” le dichiarazioni di principio indigeste con una notevole “comprensione” dei fatti sul piano militare…
Di certo, comunque, c’è solo che l’esplosione generale del Medio Oriente ha fatto ora un piccolo ma deciso passo avanti.

lunedì 18 novembre 2019

L’Autunno Caldo francese verso lo sciopero generale

Se dovessimo mutuare una espressione tal volta abusata per ciò che sta avvenendo nell’Esagono, dovremmo parlare di “Autunno Caldo” francese.
Ad un anno esatto dall’irrompere sulla scena politica della marea gialla il 17 novembre scorso, che si è ripresa prepotentemente strade e piazze in questo week end anche senza l’effetto impattante dello scorso anno, per il 53esimo sabato di mobilitazione, la Francia si avvia verso una data che sarà probabilmente uno nuovo spartiacque della storia politica: il 5 dicembre.

La “marea gialla”, un anno dopo

Ad un anno esatto dalle mobilitazioni dei gilets jaunes un sondaggio di Odoxa-Dentsu Consulting ha rivelato che il 69% degli intervistati giudica il movimento “giustificato”, e solo un esiguo 13% la pensa all’opposto.
Il 58% delle persone sostiene – sempre secondo il sondaggio – che la mobilitazione è stata una cosa positiva per la gente; un dato che, se scorporato per fasce di reddito, sale quando scende la condizione economica.
Allo stesso tempo il 65% pensa che Macron e l’Esecutivo non hanno fatto abbastanza, tenendo conto di ciò che ha espresso il movimento.
In buona sostanza, nonostante il costante terrorismo mediatico e le varie operazioni tese a ricostruire una narrazione positiva attorno al “Presidente dei Ricchi” e del suo governo, la maggior parte dei francesi è favorevole alle “giacche gialle” e ritiene insufficiente l’azione intrapresa dalla coalizione governativa, proprio alla vigilia dello scoglio della riforma pensionistica.
La marea gialla, oltre ad avere cambiato in profondità la società francese, è stata l’unico movimento – dai tempi delle mobilitazioni contro il CPE di metà Anni Duemila – che ha ottenuto dei risultati tangibili.
In due riprese la popolazione – quindi non solo i diretti partecipanti – ha beneficiato delle lotte dei GJ: in questo senso sono le giacche gialle sono state le vere rappresentanti della volontà generale.
Pressato dalla marea gialla l’Esecutivo ha dovuto “sborsare” qualcosa come 17 miliardi di euro. Prima in dicembre, con una serie di disposizioni comunque parziali, di cui hanno beneficiato le fasce meno abbienti: pieno di produzione di fine anno facoltativo, defiscalizzato così come gli straordinari; aumento dello SMIC (il salario minimo inter-categoriale comunque previsto) e soppressione della tassazione – la CSG – per le fasce più basse delle pensioni.
A fine aprile poi, dopo la celebrazione comunque abbastanza infruttuosa del Gran Débat (almeno per ciò che concerne la ricomposizione della frattura tra Macron ed il Paese), sono state abbassate le imposte sui redditi (5 miliardi di euro in totale), avendo come target specifico le classi medie, e sono state re-indicizzate parzialmente le pensioni.
Secondo quanto riferisce l’OFCE, il potere d’acquisto – anche per questo – dovrebbe aumentare di 800 euro. Qualcosa di mai visto dal 2007, un incremento dovuto “per metà” ai risultati ottenuti dal movimento.
Certamente alcune richieste specifiche di natura sociale sono state ampiamente disattese – per non parlare di quelle più politiche – come per esempio il ripristino della patrimoniale, la ISF, abolita da Macron nel mentre si apprestava a far pagare una “tassa ecologica” innalzando le accise su carburanti, poi eliminate, motivo scatenante dell’inizio delle mobilitazioni.
La marea gialla ha comunque dato luogo ad un consolidamento organizzativo, tendenzialmente attraverso due esperienze come “l’assemblea delle assemblee” – giunta al suo quarto appuntamento, con delegati da tutto l’Esagono e che ha recentemente dato indicazione di partecipare alle mobilitazioni per lo sciopero generale – e la “linea gialla” di uno dei portavoce più autorevoli dei GJ, l’avvocato F. Boulo.
Altre figure uscite dall’anonimato politico sociale si sono affermate come elementi di spicco del movimento, come Priscilla Ludosky, Eric Drouet, “Fly Rider” e Jerôme Rodriguez.
I GJ sono stati una scuola di educazione politica di massa su un ampio spettro di temi, ed hanno permesso l’intersezione con una serie di lotte come quella ecologista, sintetizzata dallo slogan che ha precocemente caratterizzato la convergenza dei vari settori mobilitati con le parole d’ordine: “fine del mese, fine del mondo: stessa lotta”.
Ha dato impulso, con la sua insistenza sul tema referendario, alla mobilitazione per l’organizzazione del referendum contro la privatizzazione di alcuni importanti scali aeroportuali, approvata dall’attuale esecutivo.
Lo stile “gilets jaunes” ha influenzato l’azione dei lavoratori in quanto tali e dato vita ad importanti convergenze in numerose città (Marsiglia, Boredaux, Tolosa), ed anche a forme di lotta di fatto ispirate allo spirito di “azione diretta” dei GJ. Dai blocchi della logistica, come a Rungis – uno dei maggiori hub logistici francesi – alle recenti fermate nel settore ferroviario per la sicurezza, così come per gli insegnanti con le “stylos rouges”.
Ma gli esempi potrebbero moltiplicarsi, perché i singoli settori entrati in lotta hanno indirettamente beneficiato di un mutata sensibilità sociale e del dissipamento del consenso rispetto all’operato di Macron, sia che fossero pompieri od insegnanti, studenti o assistenti-materne.
Per usare le parole del politologo J. Sainte-Marie – autore di Bloc contre bloc, la dynamique du macronisme – “il conflitto dei ‘gilets jaunes’ ha risvegliato nell’opinione pubblica una immaginario della lotta di classe”, affermando la contrapposizione tra un “blocco elitario” ed un “blocco popolare”, che ha di fatto sostituito e superato la vecchia clivage tra destra e sinistra.
Il movimento ha mostrato a tutti la simbiosi tra politiche di austerity e torsione autoritaria, in un crescendo repressivo che ha implementato il suo ingombrante bagaglio repressivo con la loi “anti-casseur” del 10 aprile; e fatto uso di tutto l’arsenale a disposizione delle forze dell’ordine (dalle pallottole di gomma alle granate dis-accerchianti esplosive) ed ha soprattutto perpetuato nei fatti lo “Stato d’Emergenza”, senza che dovesse essere formalmente proclamato. Spesso proibendo le manifestazioni nei centri cittadini, cercando di impedire gli stessi concentramenti dei manifestanti sul nascere, facendo un numero spropositato di feriti e “mutilando” le persone ed, ora, caratterizzandosi per una maggiore propensione ad ingaggiare lo scontro fisico.
Le violenze poliziesche, pervicacemente negate dall’establishment politico governativo, sono state puntualmente denunciate, anche grazie all’encomiabile lavoro d’inchiesta del giornalista indipendente David Dufresne. A metà maggio erano poco meno di 800 le segnalazioni, tra cui 1 morto, 286 feriti alla testa, 24 mutilati e 5 mani “saltate in aria”. Un vero e proprio bollettino di guerra.
La filosofia del “mantenimento dell’ordine alla francese” è ormai mutata dal contenimento alla vera e propria “force de frappe”.
In sintesi, Macron durante questo anno ha dato una spinta decisiva alla “militarizzazione” del conflitto sociale ed il bilancio è un inedito nella storia francese. Diamo alcune cifre basandosi sulle verifiche fatte dall’équipe di Check-news di Libèration.
Da novembre a fine giugno, un migliaio di persone sono state condannate al carcere, erano 762 in aprile, con pene che variano da qualche mese a tre anni – 400 con l’incarcerazione immediata e 600 con possibilità di “concordare” la pena.
1.230 altri GJ sono stati condannati a delle pene detentive “avec surcis” e più di 900 ad altre pene, come a dei lavori di interesse generale o dei “jours-amendes”.
Su queste più di 3.000 condanne, circa 2/3 sono state pronunciate nel quadro di processi “per direttissima”. Naturalmente sono numeri “approssimativi”, che devono tenere conto dello svolgimento dei futuri processi.
10.852 GJ sono stati posti in stato di fermo (“garde à vue”), e 2.200 procedimenti si sono conclusi in un nulla di fatto senza procedimenti giudiziari.
Da una inchiesta di fine settembre del giornale indipendente on-line “Bastamag”, che ha analizzato 700 condanne alla detenzione carceraria, si evince che “le violenze contro le forze dell’ordine” sono state il reato più contestato, tra le quali il “lancio di proiettili” è di gran lunga in testa. In pratica si è trattato dell’unica possibilità di contenere la violenza della polizia nel contesto di piazza, più che altro una forma di auto-difesa dei manifestanti.
Bisogna ricordare che molti GJ sono stati condannati dopo l’11 aprile per il reato di “travisamento”, che può essere comminato per il possesso di un qualsiasi indumento protettivo, come gli occhiali, e numerosi sono coloro che hanno perso la vista in seguito al lancio delle LBD…
A fronte di questo – anche per i meccanismi “più lenti” con cui funziona la giustizia per le forze dell’ordine – solo 10 funzionari a questo stadio sono stati rinviati a giudizio a Parigi…

Per venire all’oggi…

Le mobilitazioni di sabato, alcune delle quali sono continuate la domenica, hanno dato luogo alla solita guerra di cifre tra il ministero dell’Interno, che stima a 28.000 il totale dei partecipanti – di cui 4.700 a Parigi – mentre il movimento parla di poco meno di 40 mila persone (39.530), secondo il conto de la Nombre jaune, pagina che ha regolarmente incominciato a rendicontare i partecipanti viste le cifre ridicole fornite ufficialmente e riprese pedissequamente dall’informazione mainstream.
Il bilancio repressivo è stato di 254 persone “interrogate” – di cui 173 a Parigi – e 155 “garde à vue” nella capitale, con 639 controlli preventivi; una pratica altamente “dissuasiva” che ha preceduto costantemente le mobilitazioni.
Non solo a Parigi, ma in tutta la Francia le “giacche gialle” sono tornate a farsi vedere, e domenica a mattina a Pont-de-Beauvoisin hanno reso omaggio a Chantal Mazet, deceduta un anno fa il primo giorno dei blocchi, investita da una macchina in una rotatoria.
Sono stati undici le persone che hanno perso la vita durante le mobilitazioni in incidenti in prossimità delle barriere o delle rotatorie che nessuno tra i GJ si è scordato.

La marea bianca

Questa settimana l’attenzione anche dei media mainstream d’oltralpe si è concentrata sulle mobilitazioni di giovedì 14 novembre di tutto il personale ospedaliero, che ha mostrato il profondo malessere che attraversa tutto il comparto, pur nella pluralità delle figure che lo compongono.
Le politiche made in UE hanno portato una “eccellenza francese” come la sanità pubblica a diventare un sistema prossimo al collasso, dove i tempi d’attesa si allungano, i posti per la degenza diminuiscono, il personale sotto-organico è costretto a turni massacranti e non vede riconosciute le proprie responsabilità; oltre alla creazione di una “frattura generazionale” tra chi ha conosciuto i fasti e l’orgoglio di un lavoro nella sanità pubblica – in particolare nei prestigiosi ospedali universitari – e l’inferno delle attuali condizioni di lavoro per i più giovani, non più disposti ai sacrifici imposti dai continui tagli di budget.
Una mobilitazione assolutamente inedita, quella del personale sanitario per ampiezza ed estensione, che ha posto con forza la necessità della “spesa pubblica” per un ganglio vitale della vita sociale.
L’unico beneficiario della situazione della sanità pubblica è manco a dirlo la sanità privata, o il privato “convenzionato”, che ha attirato sempre più personale di tutti i profili – sostanzialmente, ma non esclusivamente – per le retribuzioni che offre, mentre le condizioni di lavoro nel pubblico sono caratterizzate da una cronica mancanza d’organico, da interi reparti che rischiano o che effettivamente sono costretti a chiudere, dove la situazione dei “pronto soccorsi” e delle “maternità” è la più complicata specie fuori dalle grandi agglomerati urbani della Francia peri-urbana e rurale.
Era stato proprio il personale del pronto soccorso il primo a muoversi, ingaggiando una lotta che dura da circa otto mesi, che ha poi “contaminato” tutto il settore fino ai direttori sanitari e che ha dato vita ad una forma di coordinamento tra le differenti realtà ospedaliere, di fatto il cuore organizzativo delle mobilitazioni di questo giovedì.
In un appello che vede come primi firmatari 70 direttori medico-sanitari universitari, pubblicato il 13 novembre sulla “Tribune” di Le Monde, la diagnosi è impietosa.
Due dati colpiscono. Il primo è che circa metà del personale della sanità pubblica è sottoposto a burn-out e l’altro è legato alle retribuzioni, che da tempo non sono ri-valorizzate e che ormai, per il personale paramedico, sono nel pubblico un terzo di quello che garantisce il privato.
L’appello “L’ospedale pubblico affonda e noi non siamo più in grado di assicurare le nostre missioni” auspica una netta inversione di tendenza nel finanziamento della sanità pubblica, un netto miglioramento delle retribuzioni, un riconoscimento delle responsabilità dei quadri. Macron ha dovuto promettere una forte intervento nel settore, ma è chiaro che i margini di manovra sono assai ridotti a causa della scura dell’Unione…

La marea rossa

Come avevamo mostrato in un precedente contributo, il processo organizzativo attorno alla preparazione dello sciopero generale contro la riforma pensionistica del 5 dicembre – che per alcune categorie e in alcune regioni sarà a partire dal 5 dicembre, senza data di scadenza –  sarà una data di cesura storica e molto probabilmente la più incisiva mobilitazione contro le politiche macroniane; “rischia” di fermare il Paese non solo in occasione di quella giornata.
Questo avverrà probabilmente nel comparto dei trasporti – in particolare la metro parigina (RAPT) e le ferrovie, ma non solo – ed intere zone economiche strategiche come la regione marsigliese, più precisamente il dipartimento delle Bocche del Rodano, dove la sezione locale della CGT (l’UD 13) insieme ad altri ha chiamato lo sciopero generale ad oltranza fino al ritiro della riforma e sta organizzando assemblee generali unitarie, di cui la prima è stata il 12 novembre oltre a incontri pubblici.
Bisogna ricordare che la prima categoria della CGT che aveva sposato questa linea d’azione è stata la Federazione dei Chimici – storico settore combattivo della Confederazione, spostato “a sinistra” ed aderente alle FSM – un settore strategico per l’economia d’oltralpe, che insieme ai ferrovieri della CGT (maggioritari nella categoria) sarà la spina dorsale dello sciopero “ad oltranza”, che nella SNCF è stato promosso inizialmente da UNSA-Ferroviarie (secondo sindacato) e SUD-Rail (terzo sindacato) e FO-Cheminots (quinto sindacato).
La Federazione di FO dei trasporti e della logistica – terzo sindacato nella categoria dei conducenti – così come FO-Air France (primo sindacato tra il personale di terra della compagnia francese), sono entrate nella partita, ed anche SE-UNSA ha chiamato allo sciopero tra gli insegnanti.
Di fatto all’appello del fronte sindacale manca solo la centrale diretta da Laurent Berger, la CFDT, l’organizzazione che ha maggiormente dato il fianco a Macron da un anno a questa parte.
Una situazione che ha delle somiglianze con le mobilitazioni di metà degli Anni Novanta, quelle che respinsero la riforma pensionistica di Alain Juppé, ma che oggi è ben più ampia ed in cui è assai diffusa la coscienza della necessità di portare la lotte fino in fondo, vista l’indifferenza di Macron e delle oligarchie che rappresenta.
Persino un vecchio arnese della politica come l’ex presidente F. Hollande ha espresso la propria viva preoccupazione per il clima nel Paese, di fatto allineandosi alle sempre maggiori preoccupazioni dell’establishment per il montare del conflitto sociale.
Sarà un autunno caldo in Francia. E tutto ciò che abbiamo visto e vissuto era solo un preludio ad una lotta di lunga durata.

mercoledì 13 novembre 2019

Redistribuire: i soldi ci sono, basta andare a prenderli

In una delle scene cult di Pulp Fiction, la nota coppia di gangster si ritrova davanti ad un increscioso problema: sui sedili posteriori della loro auto un ragazzo ha appena ricevuto un colpo di pistola alla testa, c’è sangue dappertutto e la macchina è zeppa di brandelli di materia grigia. I due malviventi devono assolutamente ripulire l’auto e liberarsi quanto prima di ciò che resta di quel corpo. Presi dal panico, si rivolgono ad un famigerato problem solveril signor Wolf, che si presenta sul luogo del misfatto e aiuta i due criminali ad uscire da quella situazione complicata.

L’esplosione delle disuguaglianze che si sta verificando nei principali paesi avanzati ricorda molto questa scena di Tarantino. Ma la sempre maggiore concentrazione della ricchezza in poche mani rappresenta un increscioso problema solo per lavoratori e disoccupati, perché non siamo tutti sulla stessa barca e, quando le disuguaglianze si allargano, i lavoratori perdono reddito in favore di profitti e rendite. Solo una parte della società, dunque, avrebbe davvero bisogno dell’intervento di un Mr. Wolf.

In Italia i lavoratori riescono ad appropriarsi oggi del 65% del prodotto sociale, mentre negli anni Settanta i salari si aggiudicavano circa il 75% della torta. Abbiamo così assistito ad una redistribuzione del reddito dai salari ai profitti di 10 punti percentuali che si spiega solo in base ad un progressivo spostamento dei rapporti di forza in favore del capitale: indebolimento del sindacato, costante riduzione dello stato sociale, flessibilizzazione del mercato del lavoro con annessa proliferazione dei contratti precari e dei part-time involontari e, non ultimo, disoccupazione di massa hanno messo in ginocchio i lavoratori, consentendo al capitale di riprendersi quelle quote di reddito che una lunga e durissima stagione di lotte aveva assicurato ai salari.

Un ulteriore sguardo ai dati ci dà la misura della drammaticità del problema. Per il 2018 l’ISTAT ha stimato 1,8 milioni di famiglie in povertà assoluta, per un totale di 5 milioni di individui: ciò significa che quasi una persona su dieci, in Italia, vive in condizioni di povertà assoluta, fino ad arrivare ad una su cinque se si confina l’analisi al sud. Guardando alla ricchezza posseduta, attualmente il cosiddetto top 10% (ossia il dieci percento più ricco) della popolazione italiana possiede oltre sette volte la ricchezza posseduta dalla metà più povera della popolazione. La disuguaglianza risulta ancora più elevata se si fa riferimento al 5% più ricco degli italiani, che detiene quasi la metà della ricchezza nazionale, o addirittura osservando che l’1% più ricco detiene un quarto della ricchezza nazionale. Analizzando, infine, il trend degli ultimi 20 anni, si nota che la quota di ricchezza detenuta dal top 10% è passata dal 50% del 2000 all’attuale 56%, mentre quella della metà più povera degli italiani è lentamente e costantemente scesa, passando dal 13,1% di inizio millennio ad appena il 7,85% nel 2018. Insomma, la situazione non solo è grave, ma pare essere in costante peggioramento.
Davanti a questa macelleria sociale, un tarantiniano signor Wolf potrebbe essere rappresentato dallo Stato, che storicamente ha contribuito a determinare le fondamentali tendenze redistributive operando sulla leva fiscale e sull’intervento pubblico nell’economia. La politica economica godrebbe in teoria di tutti gli strumenti necessari a combattere la disuguaglianza e favorire l’equità sociale redistribuendo redditi e ricchezza.

La prima arma in mano allo Stato è, vista l’elevatissima correlazione tra disoccupazione e povertà, il perseguimento di una piena e buona occupazione. L’obiettivo del pieno impiego resta il principale canale di riduzione delle disuguaglianze. Uno Stato capace di assicurare un’occupazione a tutti, e di assicurarla a condizioni retributive e lavorative dignitose, favorirebbe da un lato l’accesso al reddito da parte di coloro che un lavoro non ce l’hanno, e dall’altro ripristinerebbe un certo equilibrio nei rapporti di forza tra lavoro e capitale, con conseguente inasprimento del conflitto distributivo e della ripresa di quella dinamica salariale ferma al palo da decenni. Infatti, con più occupazione viene spuntata l’arma principale usata dai capitalisti per disciplinare i lavoratori, il ricatto della disoccupazione. La paura di perdere il posto e, con quello, il reddito, costringe oggi milioni di lavoratori a chinare il capo davanti alla prepotenza del profitto, che impone le peggiori condizioni di lavoro senza incontrare opposizioni politiche o sociali di massa, come invece accadeva negli anni Settanta. La piena occupazione, dunque, non deve essere vista come un orizzonte politico e sociale in sé, ma come un presupposto per una nuova offensiva dei lavoratori, finalmente liberi di rialzare la testa e guidare una nuova e vigorosa ripresa della lotta di classe.

Tuttavia, far sì che tutti siano occupati, ed occupati dignitosamente, potrebbe non essere sufficiente a garantire un adeguato livello di uguaglianza, in virtù dell’enorme concentrazione della ricchezza a cui siamo arrivati. Ecco allora che lo Stato potrebbe utilizzare un altro espediente per redistribuire la ricchezza, andando a toccare il sistema della fiscalità. Fatta salva l’opportunità teorica di finanziare in deficit i programmi di spesa sociale, lo Stato potrebbe comunque fare politiche redistributive garantendo welfare e servizi alle fasce meno abbienti della popolazione attraverso il prelievo di risorse nei confronti dei soggetti più facoltosi. Negli ultimi trent’anni, tuttavia, abbiamo assistito al processo contrario, ossia ad un marcato spostamento del carico fiscale dai più ricchi ai più poveri. A questa tendenza, inoltre, si è associata una sempre più sofisticata capacità di evasione ed elusione fiscale da parte dei redditi da capitale, e in particolare dei grandi capitali, che possono “fuggire” all’estero con estrema facilità nel quadro europeo di piena libertà di movimento del denaro.

Alcune evidenze confermano queste tesi. Il numero di scaglioni, che contribuisce a determinare il grado di progressività delle imposte dirette, è passato dalle 32 aliquote del 1974 alle 5 attuali (e c’è pure chi sogna l’aliquota unica, la flat tax): è chiaro che un numero maggiore di aliquote consente di graduare meglio il carico fiscale sulla base del reddito, mentre un numero inferiore di scaglioni mette sullo stesso piano redditi molto diversi tra loro. Così, ieri era prevista un’aliquota del 72% per i redditi che superavano i 500 milioni di lire, mentre oggi chi supera i 75.000 euro paga un’aliquota del 43%, senza alcuna differenza tra redditi alti e altissimi. Il risultato è che oggi due terzi del gettito IRPEF provengono da contribuenti che guadagnano fino a 55.000 euro l’anno: sono i lavoratori che compongono la classe media, in buona sostanza, a garantire la parte più consistente delle entrate IRPEF dello Stato. E mentre il lavoro sostiene in pieno le spese dello Stato, i profitti pagano un’imposta sostitutiva (IRES) pari al 24% degli utili dichiarati, a prescindere dal livello degli utili, dunque fuori da qualsiasi progressività. È così che nel 2018 lo Stato ha incassato dall’IRES meno di 36 miliardi di euro, mentre i lavoratori dipendenti pubblici e privati, insieme, pagavano circa 154 miliardi di euro di IRPEF. La leva fiscale, quindi, è stata usata negli anni più recenti per contribuire attivamente a determinare quella violenta redistribuzione del reddito dai salari ai profitti: lavoratori e famiglie meno abbienti pagano sempre più imposte, mentre i capitali e i soggetti più ricchi ne pagano sempre meno.
Invertire questa tendenza sarebbe, in linea teorica, ben possibile. Per quanto riguarda la tassazione sui redditi, occorrerebbe informare a criteri di progressività il sistema tributario e riportare sotto il cappello di tale progressività tutti i redditi, principalmente quelli da capitale, che ad oggi ne restano esclusi. Si tratta, in sostanza, di far pagare a coloro i quali percepiscono un reddito più elevato delle imposte via via maggiori, applicando un sistema di aliquote più che proporzionale rispetto al reddito – l’esatto contrario di quanto fatto negli ultimi anni e di quanto proposto dai sostenitori della flat tax. In maniera analoga, parte delle risorse destinate a finanziare la spesa sociale – e quindi a ridurre indirettamente la disuguaglianza – potrebbe derivare da una tassazione sui grandi patrimoni, proprio alla luce di quell’1% più ricco degli italiani che detiene il 25% della ricchezza nazionale. Esistono poi altre forme di redistribuzione attuabili mettendo mano al vigente sistema di funzionamento del fisco: basti pensare ad una eventuale revisione delle aliquote IVA (ad esempio, all’abolizione di tale imposta sui beni di prima necessità, di cui si compongono in misura relativamente maggiore i consumi dei meno facoltosi), nonché alla possibilità di decontribuzioni ed agevolazioni fiscali per coloro che non superano determinate fasce di reddito.
Insomma, il nostro Mr. Wolf potrebbe agevolmente incidere sulla redistribuzione del reddito e della ricchezza e risolvere questa situazione complicata per disoccupati e lavoratori: nel pieno rispetto del dettato costituzionale (si veda l’Art. 53), sarebbe infatti possibile rimodulare il sistema tributario e renderlo maggiormente incline alle esigenze degli strati più disagiati della popolazione, contribuendo in questa maniera alla realizzazione di una distribuzione più equa.
È probabile, però, che l’ingresso sulla scena di uno Stato che risolve i problemi dei lavoratori a colpi di fisco e piena occupazione sia destinato a rimanere un pio desiderio per la classe dei lavoratori. Politiche di piena e buona occupazione sono quelle che più spaventano i capitalisti, ed è per questo che la classe dirigente italiana, dopo aver subito un arretramento con la stagione di lotte degli anni Settanta, ha costretto il Paese sui binari dell’integrazione europea. L’Italia è ora inserita in un contesto istituzionale che vieta per legge le politiche fiscali di spesa necessarie a promuovere la piena occupazione: nei vincoli europei – da Maastricht al Fiscal Compact – non vi è alcuno spazio per perseguire una crescita economica caratterizzata da migliori condizioni di lavoro. Il sistema europeo è fondato sul ricatto della disoccupazione di massa, usata come arma per imporre una crescente polarizzazione della ricchezza.
Inoltre, un sistema fiscale progressivo ed una tassazione più severa sui redditi da capitale non risultano certamente compatibili con i princìpi di libera circolazione delle merci e dei capitali su cui sono incardinati i trattati dell’Unione Europea. Se pure riuscissimo a mettere mano al sistema fiscale, infatti, i capitali sarebbero liberi di spostarsi in altri Paesi europei per fuggire alla tassazione, e la libertà di movimento delle merci gli consentirebbe di venire a vendere in Italia i beni che sarebbero prodotti altrove. Solo un pieno ritorno al controllo dei flussi di merci e capitali può permettere di ridiscutere radicalmente il sistema tributario nella direzione di una maggiore equità e progressività.
Regole e Trattati europei si palesano ancora una volta come delle catene appositamente concepite per tenere a bada le rivendicazioni degli ultimi, contribuendo in questo modo a generare quella disuguaglianza che rende i lavoratori più facilmente ricattabili e favorendo lo sfruttamento. Lo si capisce bene se si ammette che persino le opzioni riformiste, come quella di un nuovo sistema fiscale ispirato a principi di progressività, appaiono totalmente incompatibili con la gabbia dell’Unione Europea. In teoria, lo Stato ha tutto il potere di incidere sulla distribuzione del reddito e della ricchezza, influenzando così i rapporti di forza tra le classi sociali. In pratica, tale potere è esso stesso terreno di lotta, un ambito dello scontro sociale che, con il procedere dell’integrazione europea, diventa sempre più difficile contendere per i lavoratori.