venerdì 31 agosto 2018

Le vite volate via dall’Italia avvelenata

In Italia abbiamo bisogno di un governo che combatta corruzione e ignoranza. Siamo d’accordo o no su questo? Senza questa lotta restiamo in un tunnel dal quale non vediamo alcun paesaggio, non riconosciamo i fatti e attorno a noi faccendieri e malavitosi travestiti continuano a fare il loro comodo che non è il bene del Paese.
E tutti noi, se silenti, finiamo non solo per accettare, ma anche per acconsentire. Il caso dello stadio della Roma e delle sue presunte corruzioni sono l’ennesimo simbolo di un Paese che non riesce a immaginare una rigenerazione al di fuori del “cerchio magico” cemento-grandi opere-corruzione.
Il caso vergognoso della nave Aquarius è il simbolo di una Italia che sragiona e che preferisce alimentare la paura razzista e ignorante piuttosto che darsi un grande progetto culturale di lavoro, accoglienza e integrazione. Da un Paese così non c’è da stupirsi se i giovani se ne vanno. Già perché mentre noi respingiamo (e ammazziamo) gente nel Mediterraneo, altre vite volano via da questo Paese dopo essersi messe in tasca una laurea. Ma di questo non diciamo nulla. Nel solo 2016, 25.000 laureati hanno lasciato il Paese anche loro respinti, ma dal puzzo di marcio (+9% rispetto al 2015, dati Istat). E a questi vanno aggiunti 56.000 diplomati. E quando se ne va un laureato, permettetemi un pizzico di cinismo, non perdiamo solo speranza, ma anche investimenti. 

Il costo pubblico per formare un laureato è di 30.000 euro l’anno (CNVSU) più 6.000 euro l’anno spesi mediamente da ogni famiglia per mantenere lo studente. Per 6 anni di studi (ma sono di più, purtroppo), significa 216.000 euro a laureato. Perderne 25.000 all’anno, significa perdere 5,4 miliardi di euro. Ma c’è di peggio. Una ricerca Ocse ci dice che per 1 euro investito per formare un laureato, l’Italia ne riceverebbe 5 in termini di benefici pubblici. Quindi i 5,4 miliardi persi valgono in realtà 27 miliardi di mancati benefici generabili da quei laureati. Di tutto ciò non si dice nulla, mentre siamo pieni di urlatori indignati perché l’Italia spende tra i 3,5 e i 4,5 miliardi l’anno per il soccorso e l’accoglienza dei migranti (in parte sono risorse dell’Ue). Quegli urlatori incolpano falsamente i migranti della mancanza di lavoro per gli italiani, perché questo è un modo ignorante per raccogliere voti ignoranti. A nessuno di quei 25.000 laureati un solo migrante ha preso il posto di lavoro.
 Sono tutte preoccupazioni montate per creare scompiglio e nascondere la nostra incapacità a progettare lavoro estirpando il cancro della corruzione e della mancanza di idee diverse dalle solite. La verità è che siamo vittime di noi stessi e di un terrorismo politico che affonda le sue urla nell’ignoranza ed è incapace di progettare il cambiamento perché, probabilmente, il cambiamento non lo vuole proprio. Alla fine si continua a fare il “nero”, a non fare lo scontrino, a preferire farsi pagare vacanze o cene in cambio di una buona parola per uno stadio, una strada o una lottizzazione. Meglio togliersi da torno i laureati perché pensano troppo. Si preferisce tacere su corruzione e atteggiamenti corruttivi e considerare ancora normale, e perfino giusto, presentare un nipote o un genero a un potente. Un paese che rimane così e respinge da Sud i migranti e spinge fuori da Nord i laureati, pensa davvero di andare lontano? Bisogna trovare il coraggio di stare per davvero dalla parte della soluzione e non del problema. Ognuno per quello che può, deve.

giovedì 30 agosto 2018

Caporalato al Sud, false cooperative al Nord: l’Italia del pomodoro divisa in due

In estate ci sono i pomodori. E nel resto dell’anno, asparagi, carciofi, finocchi e grappoli d’uva. Ma non c’è un sistema pubblico – di infrastrutture e servizi – capace di far arrivare alle 6 del mattino, su un campo distante chilometri da un centro abitato, 50 o 80 lavoratori per quei 20 o 40 giorni necessari alle esigenze di raccolta. I “centri per l’impiego” e i bus navetta si chiamano, così, caporalato al Sud e “false cooperative” al Nord e sono i due volti di un fenomeno sempre più in crescita quanto più l’Italia rinuncia a fare incontrare, legalmente in agricoltura, domanda e offerta.

Ieri, a Foggia, dopo il grave incidente in cui lunedì hanno perso la vita 12 braccianti, il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha ricordato che «vanno rafforzati i controlli e la prevenzione contro il caporalato». Mentre il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, ha affermato che «la legge sul caporalato va aggiornata». Ma il problema è strutturale.
La fotografia del Sud
Meno meccanizzazione e più disponibilità di manodopera a basso costo. Il fenomeno dei braccianti immigrati irregolari assume al Sud forme più evidenti. Il 60% dei lavoratori a nero in agricoltura è utilizzato da aziende agricole del Sud. Il 20% in Puglia, la regione più vocata alla coltivazione del pomodoro, soprattutto a quello destinato all’industria della trasformazione. Sono circa 400mila gli immigrati sottopagati e impegnati in questi giorni nelle campagne italiane: dati che i sindacati Cgil, Cisl e Uil hanno presentato ieri in conferenza stampa a Foggia per annunciare la grande manifestazioni di oggi contro il caporalato e i voucher in agricoltura.
Uno studio della Fai Cisl Puglia sugli elenchi di iscrizione dei lavoratori (Inps) ha evidenziato poi che il 40% degli iscritti nelle liste regionali (ufficialmente) non supera i 51 giorni di lavoro annui. In altre parole non raggiunge il tetto minimo per ricevere contributi e welfare. Paolo Frascella, segretario della Fai Cisl Puglia precisa: «All’area del lavoro totalmente irregolare si aggiunge quella del lavoro dichiarato ma solo in piccola parte».
I luoghi di incontro sono noti, lì i braccianti aspettano all’alba, passa il “caporale” e li carica. Agli immigrati si uniscono anche gli italiani che in molti casi ritornano a offrirsi per il lavoro in campagna a qualsiasi prezzo. Più o meno 20 euro per almeno undici ore di lavoro al giorno. «C’è chi – dice Raffaele Tancredi della Fai Cisl Campania – vicino alla pensione accetta di lavorare gratis al solo scopo di ricevere i contributi che gli mancano».
Fenomeno crescente al Nord
Al Nord le cooperative che svolgono in outsourcing servizi per il comparto agro-alimentare sono una realtà in crescita. «L’azienda agricola che ha maggiore bisogno di manodopera e per pochi giorni – spiega Maurizio Gardini, presidente di Confcooperative e di Conserve Italia – si affida a queste cooperative per averla in poco tempo. A differenza dal caporalato diffuso al Sud, questi soggetti hanno una parvenza di azienda. Ma, in molti casi, sono strumenti giuridici che vivono meno di un anno, applicano contratti di lavoro firmati da sigle sindacali minori e spesso non versano nè tasse nè contributi previdenziali ai lavoratori. Con stipendi più bassi e zero versamenti, un lavoratore può costare meno della metà di un’assunzione regolare». Con queste “false” cooperative – che tradiscono, nel nome, il senso della loro identità – si pagano meno tasse e si possono smontare i contratti nazionali di lavoro.
I produttori
«La raccolta meccanica del pomodoro – fa presente il presidente di Anicav (l’associazione dei produttori di conserve alimentari) Luigi Ferraioli – ha raggiunto il 100% al nord e il 90% nel bacino del centro-sud, il quale ha però una superficie coltivata molto estesa e quindi quel 10% di attività manuale attira molte migliaia di lavoratori».
«L’utilizzo di manodopera irregolare in agricoltura – aggiunge il direttore generale di Anicav, Giovanni De Angelis – rappresenta un danno anche per l’industria di trasformazione che vede continuamente messi sotto accusa i propri prodotti». Dopo gli incidenti mortali dei giorni scorsi, la grande distribuzione estera si è precipitata a chiedere chiarimenti ad Anicav. «È utile ricordare – conclude De Angelis – che il prezzo che le aziende italiane di trasformazione, in particolare al Centro Sud, pagano agli agricoltori per il pomodoro è il più alto al mondo, naturalmente anche per il più elevato livello qualitativo».
Mutti opera prevalentemente nel Nord Italia (a Parma) ma ha anche uno stabilimento a Salerno. «Al Nord la raccolta meccanica del pomodoro è partita a fine anni ’80. La nostra scelta – spiega l’amministratore delegato dell’omonima azienda, Francesco Mutti – è stata di richiedere dai fornitori, sia al nord che al sud, il 100% di raccolta meccanica, proprio per uscire dalla problematica del caporalato e dello sfruttamento». Però non basta. «Abbiamo dei nostri agronomi – spiega Mutti – che svolgono controlli di qualità. Ma è lo Stato che deve attuare controlli rigorosi e continui, 300 giorni l’anno e deve farlo alle 5 di mattina sulle strade che portano ai campi, perchè poi verificare la regolarità delle assunzioni sui terreni è difficile. E poi vanno offerti servizi a questi lavoratori. In Gran Bretagna – conclude Mutti – gli immigrati reclutati dai caporali nei campi di fragole sono stati riuniti in vere cooperative, gestite dai lavoratori. Questa può essere una strada».

mercoledì 29 agosto 2018

Ocse: "L'Italia rallenta

L'Italia è l'unico Paese del G7 che nel secondo trimestre dell'anno ha registrato un rallentamento della crescita. E' quanto scrive l'Ocse in un comunicato, rendendo note le ultime rilevazioni sull'andamento del pil. Nel secondo trimestre dell'anno - riferisce l'organizzazione internazionale con sede a Parigi - il pil nell'area dell'Ocse è cresciuto dello 0,6%, in lieve miglioramento rispetto al +0,5% registrato nel trimestre precedente, mentre rispetto al secondo trimestre del 2017 ha rallentato a +2,5% (contro +2,6% nel trimestre precedente).
In particolare, nei paesi del G7 la crescita del pil ha fortemente accelerato negli Usa a +1% (contro +0,5% nel primo trimestre) e in Giappone +0,5% dopo -0,2% nei primi tre mesi del 2018. In Germania il pil ha registrato una crescita dello 0,5% (+0,4% nel primo trimestre), nel Regno Unito dello 0,4% (+0,2% nel primo). In Francia la crescita è rimasta stabile allo 0,2% mentre in Italia ha rallentato a +0,2% contro +0,3% nei primi tre mesi dell'anno.

martedì 28 agosto 2018

Oltre 1,5 milioni di lavoratori in nero, sottratti allo stato 20 miliardi di euro

I lavoratori irregolari in Italia sul totale delle aziende attive “nel 2017 sono un milione 538 mila“, anche se in calo – si spiega – “negli ultimi due anni (2016 e 2015), di circa 200.000 unità”.
Lo scorso anno “sono state 160.347″ le aziende verificate dall’Ispettorato, e quelle che presentavano forme di irregolarità riguardanti almeno un occupato “sono state 103.498″, ossia “il 64,54%” del totale di quelle controllate.
Le irregolarità, ricordano i consulenti nel dossier, possono riguardare “forme di elusione previdenziale, assicurativa e fiscale (come il mancato assoggettamento a Inps, Inail e Irpef di parte della retribuzione corrisposta), il lavoro parzialmente ‘sommerso’ (ad esempio, il rapporti in part-time che, invece, risultano a tempo pieno)” ed il lavoro completamente in ‘nero’.
Secondo i consulenti del lavoro il dato è tendenzialmente in riduzione di circa 200.000 unità grazie anche agli interventi mirati della vigilanza dell’Ispettorato, che ha potuto applicare il nuovo regime sanzionatorio sul caporalato. Il fenomeno, tuttavia, rimane ancora rilevante poiché ogni tre aziende ispezionate si riscontra un lavoratore ‘in nero’ (il tasso è 2,9).
I consulenti quindi stimano una retribuzione annua corrisposta ai lavoratori sommersi e non assoggetta a oneri pari a 31,8 miliardi di euro. E con questi un mancato gettito previdenziale di 11,1 miliardi di euro, un mancato gettito fiscale (Irpef + add. Reg. e com.) pari a 8,1 miliardi e un mancato gettito Inail di 0,86 miliardi, arrivando appunto a circa 20 miliardi ‘evasi’.

lunedì 27 agosto 2018

1,5 mln di lavoratori in nero in Italia

Rielaborando i precedenti dati ispettivi forniti dall’Ispettorato Nazionale, nel 2017 il numero di aziende con qualche forma di irregolarità, spiegano i consulenti, dovrebbe attestarsi attorno a circa 3,7 milioni. Circoscrivendo l’analisi al lavoro sommerso, le ispezioni svolte hanno fatto emergere nel 2017 48.073 lavoratori in nero a fronte di 160.347 aziende ispezionate, ossia un lavoratore in nero per ogni tre aziende ispezionate.
A questo dato è stato applicato, spiegano i professionisti, un correttivo prudenziale riferito ad uno stock di aziende nelle quali per le loro caratteristiche e settore di appartenenza è ridotto (se non addirittura eliminato) il rischio di utilizzo del lavoro sommerso. Sulla base di queste informazioni, è possibile presuntivamente stimare che i lavoratori 'in nero' in Italia sul totale delle aziende attive, nel 2017 è di 1 milione e 538 mila unità.
Secondo i consulenti del lavoro il dato è tendenzialmente in riduzione di circa 200.000 unità grazie anche agli interventi mirati della vigilanza dell’Ispettorato, che ha potuto applicare il nuovo regime sanzionatorio sul caporalato. Il fenomeno, tuttavia, rimane ancora rilevante poiché ogni tre aziende ispezionate si riscontra un lavoratore 'in nero' (il tasso è 2,9). L’evasione fiscale e previdenziale per il lavoro sommerso, stima la Fondazione Studi, è ancora consistente e si attesta ogni anno, infatti, attorno a 20 miliardi di euro.
I consulenti del lavoro spiegano, infatti, che "in media, ogni anno un dipendente lavora mediamente per 245 giornate di lavoro retribuite (fonte: Inps banche dati statistiche, www.inps.it anno 2016 dato più recente) e la retribuzione media giornaliera stimata è pari a 84,53 euro al netto di trattamenti retributivi variabili (fonte: Fondazione Studi Consulenti del Lavoro su dati Inps 2016)".
I consulenti quindi stimano una retribuzione annua corrisposta ai lavoratori sommersi e non assoggetta a oneri pari a 31,8 miliardi di euro. E con questi un mancato gettito previdenziale di 11,1 miliardi di euro, un mancato gettito fiscale (Irpef + add. Reg. e com.) pari a 8,1 miliardi e un mancato gettito Inail di 0,86 miliardi, arrivando appunto a circa 20 miliardi 'evasi'.
I consulenti del lavoro ricordano che "nel corso 2017 delle 160.347 aziende ispezionate dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro, quelle risultate con qualche forma di irregolarità per almeno un rapporto di lavoro sono state 103.498, vale a dire il 64,54% delle aziende ispezionate. Il dato è in aumento di 1,53 punti percentuali rispetto all’anno 2016. Dunque, nel 2017 aumenta il rapporto delle aziende irregolari rispetto a quelle ispezionate. L’aumento della probabilità di individuazione di almeno un rapporto di lavoro irregolare è dovuta al miglioramento delle tecniche ispettive e della conoscenza del territorio da parte dei servizi ispettivi, anche supportati da una programmazione oculata delle mappe di rischio adottate dalla Vigilanza".
"Le irregolarità -ricordano i consulenti del lavoro- possono riguardare sostanzialmente 3 fattori: forme di elusione previdenziale, assicurativa e fiscale (esempio, mancato assoggettamento a Inps, Inail e Irpef di parte della retribuzione corrisposta); lavoro parzialmente sommerso (rapporti avvianti in part-time che invece risultano a tempo pieno); lavoro completamente sommerso (lavoro nero)".
Secondo i professionisti "molto interessanti risultano i risultati ottenuti dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro applicando l’appesantito quadro sanzionatorio penale in materia di caporalato. Nello specifico, nel 2017 si registrano il deferimento di n. 94 persone all’Autorità Giudiziaria, delle quali n. 31 in stato di arresto, e l’individuazione di n. 387 lavoratori vittime di sfruttamento. E il 2018 -aggiungono i consulenti del lavoro- si presenta con dati relativi ancor più incoraggianti. Per quanto riguarda infatti il primo semestre dell’anno in corso , si registrano il deferimento di n. 60 persone all’Autorità Giudiziaria, delle quali n. 1 in stato di arresto e 47 in stato di libertà, e l’individuazione di n. 396 lavoratori coinvolti. Sono, inoltre, stati adottati n. 9 provvedimenti di sequestro".
Insomma, aggiungono i consulenti del lavoro, "una serie di interventi realmente pesanti e deterrenti, che indicano la corretta via da seguire per combattere tutte la fattispecie di sfruttamento del lavoro".
Per i consulenti del lavoro "le cifre stimate dalla Fondazione Studi riportano l’attenzione sull’importanza strategica di un’incisiva azione di contrasto al lavoro nero che, non di rado, sfocia in fenomeni di caporalato diffuso – non solo in agricoltura - di cui i recenti fatti di Foggia sono solo quelli più eclatanti. E il prossimo incontro interministeriale, fissato dal Ministro Di Maio per lunedì 3 settembre proprio nel capoluogo foggiano, è un forte segnale di attenzione"

venerdì 24 agosto 2018

Grecia: l’austerità non è finita

Dopo circa 8 anni, la Troika lascia ufficialmente la Grecia con un ultimo accordo: le scadenze su 96 miliardi di euro di prestiti (che ammontano al 40% del totale) vengono estesi di 10 anni, fino al 2032.
Non si tratta della fine dell’austerità per il popolo greco. Come si legge sul Financial Times, in cambio Atene dovrà perseguire una media di avanzi primari di bilancio del 2,2% del Pil fino al 2060 (e 3,5% fino al 2022).
Il Fondo Monetario Internazionale è scettico sui nuovi target di bilancio e chiede ai governi dell’eurozona di ridurli all’1,5% del Pil (…)

giovedì 23 agosto 2018

Spiagge: 19 milioni di metri quadrati nelle grinfie dei privati

In Italia nonostante gli ottomila chilometri di costa tra la Penisola, le due isole maggiori e le oltre 800 isole minori, ogni estate trovare una spiaggia libera è davvero un’impresa. E le poche che ci sono, sono ubicate in porzioni di costa di "Serie B”, vicino alle foci di fiumi, fossi o fognature e quindi dove la balneazione è vietata. Non che ci volesse chissà cosa a dimostrarlo, visto che ciascuno di noi se ne rende perfettamente conto cercando di raggiungere il mare, ma ora c'è qualche dato ulteriore a dimostrazione di questa situazione.
Legambiente ha pubblicato il dossier "Le spiagge sono di tutti!” (un auspicio ovviamente, non certo la realtà di oggi) per denunciare il fenomeno della privatizzazione delle coste italiane, delle concessioni senza controlli e dei canoni bassissimi a fronte di guadagni enormi per gli stabilimenti e di un misero introito per lo Stato (nel 2016 ha incassato poco più di 103 milioni di euro).
Nella Penisola sono ben 52.619 le concessioni demaniali marittime, di cui 27.335, sono per uso "turistico ricreativo” e le altre distribuite su vari utilizzi, da pesca e acquacoltura a diporto, produttivo (dati del MIT). Si tratta di 19,2 milioni di metri quadri di spiagge sottratti alla libera fruizione. Se si considera un dato medio (sottostimato) di 100 metri lineari per ognuna delle 27mila concessioni esistenti, si può stimare che oltre il 60% delle coste sabbiose in Italia è occupato da stabilimenti balneari. In alcuni Comuni si arriva al 90% di spiagge occupate da concessioni balneari. Ad esempio in Emilia-Romagna solo il 23% della costa presenta spiagge libere, ed in Liguria il 14%, ma i dati sono molto differenti tra le Regioni e nessun Ministero si occupa di monitorare quanto sta avvenendo.
Tra i casi più incredibili quello di Mondello, poco più di un chilometro e mezzo di sabbia finissima al 90% in concessione, e pochissimi lidi che consentono il passaggio alla battigia. A Santa Margherita Ligure gli spazi liberi sono solo l’11% del totale. E poi in Romagna, a Rimini, dove non si raggiunge nemmeno il 10% di spiagge libere. A Forte dei Marmi sono 100 gli stabilimenti su circa 5 km di costa. A Bacoli, in Campania, il Comune ha previsto che il 20% della costa debba essere adibito a spiaggia pubblica, ma ad oggi, non siamo nemmeno al 2%!
E poi c’è il problema dei controlli sulle spiagge date in concessione, dove spesso si impedisce alle persone di accedere al mare, con veri e propri muri lunghi chilometri, come sul litorale di Ostia, a Roma. Per questo Legambiente chiede una legge quadro nazionale per tutelare gli arenili italiani e i diritti di tutti i cittadini ad avere lidi liberi, gratuiti e accessibili. Per l’associazione ambientalista tale provvedimento dovrebbe prevedere quattro punti chiave: almeno il 60% delle spiagge deve essere lasciato alla libera fruizione; occorre premiare la qualità nelle assegnazioni in concessione; definire canoni adeguati e risorse da utilizzare per la riqualificazione ambientale; garantire controlli e legalità lungo la costa.
"Ormai è sotto gli occhi di tutti – spiega Edoardo Zanchini, Vicepresidente nazionale di Legambiente – la distesa interminabile di stabilimenti balneari che, dal Tirreno all’Adriatico passando per lo Jonio, costellano le coste della nostra Penisola. In modo progressivo cabine e strutture, ristoranti, centri benessere e discoteche stanno occupando larghe fette della battigia. Inoltre il numero delle concessioni cresce, i canoni che si pagano sono molto bassi, e nessuno controlla come questo processo sta andando avanti. Il rischio è che si continui in una corsa a occupare ogni metro delle spiagge italiane con stabilimenti che, in assenza di controlli come avvenuto fino ad oggi, di fatto rendono le coste italiane delle coste privatizzate quando invece le spiagge sono di tutti. Per questo chiediamo l’istituzione di una legge nazionale che preveda, tra i vari punti, che almeno il 60% delle spiagge venga lasciato alla libera fruizione e che vengano definiti canoni adeguati e risorse da utilizzare per la riqualificazione ambientale”.
Ad oggi, ricorda l’associazione ambientalista, manca un provvedimento ad hoc che fissi quale quota di spiaggia debba essere mantenuta libera per l'accesso di tutti e proprio questa "assenza normativa” ha portato alcune Regioni, in alcuni casi, ad intervenire con risultati a volte buoni a volte insufficienti. Tra i casi virtuosi, la Puglia, la Sardegna e il Lazio.
In Puglia con la Legge regionale 17/2006 ha fissato una percentuale di spiagge libere maggiore (60%) rispetto a quelle da poter dare in concessione (40%). La Sardegna ha approvato delle "Linee guida per la predisposizione del Piano di utilizzo dei litorali” che definisce criteri in relazione alla natura e alla morfologia della spiaggia e stabiliscono un minimo del 60% di spiaggia libera, che nei litorali integri deve raggiungere l’80%. Il Lazio ha fissato al 50% la percentuale di costa da lasciare libera ed i Comuni non in regola non potranno più rilasciare nuove concessioni.
Tra le situazioni negative, indicate nel dossier, c’è l’Emilia-Romagna che con la Legge Regionale n. 9/2002 ha imposto un limite minimo (ed irrisorio) del 20% della linea di costa dedicato a spiagge libere, ma solo nei pochi tratti dominati dune e zone umide viene rispettata la Legge. Le percentuali rimangono comunque molto basse anche in Molise (dove la Legge Regionale del 2006 prevede il 30% di spiagge libere ma non è applicata dai PSC dei 4 Comuni costieri), in Calabria (la quota è del 30%), nelle Marche del 25%, mentre in Campania ed Abruzzo solo del 20%. In 5 Regioni (Toscana, Basilicata, Sicilia, Friuli Venezia Giulia e Veneto) non esiste invece nessuna norma che specifichi una percentuale minima di costa destinata alle spiagge libere o libere attrezzate.
Canoni e concessioni
L’alternativa alla spiaggia libera è quella in concessione. Per i lidi sottratti alla libera fruizione si pagano però canoni demaniali bassissimi, a fronte di guadagni enormi. Nel 2016 lo Stato ha incassato poco più di 103 milioni di euro dalle concessioni a fronte di un giro di affari stimato da Nomisma di 15 miliardi di euro annui. Si tratta di 6.106 euro a chilometro quadrato contro una media di entrate per le casse pubbliche di circa 4 mila euro all’anno a stabilimento. Nel dettaglio i dati sulle entrate derivate dai canoni, presentati dal Governo nel 2016, sono ancor più clamorosi se analizzati per Regione. Ai primi due posti ci sono Toscana e Liguria con poco più di 11 milioni l’anno. Poi vengono Lazio (10,4 milioni), Veneto (9,527 milioni), Emilia-Romagna (8,9 milioni), Sardegna, Puglia e Campania (tutte sopra i 7 milioni) e Calabria con poco più di 5 milioni. E poi ancora in Basilicata 452mila euro ed in Sicilia dove gli incassi sono appena 81.491 euro.
Nel report Legambiente ricorda che nel 2009 l’UE ha avviato una procedura di infrazione nei confronti dell’Italia, chiedendo la messa a gara delle concessioni visto che la Direttiva Bolkestein del 2006 prevede la possibilità, anche per operatori di altri Paesi dell’Ue, di partecipare ai bandi pubblici per l’assegnazione. L’Italia, ignorando i moniti UE, ha disposto la proroga automatica delle concessioni fino al 31 dicembre 2020. Ma la Corte di Giustizia UE l’ha bocciata con una sentenza del luglio del 2016.
Negli altri Paesi cosa succede? 
Negli altri Paesi europei i principali temi - spiagge da garantire alla libera fruizione, canoni di concessione e criteri di assegnazione, controlli - sono affrontati in modo coerente e su obiettivi trasparenti di tutela delle aree costiere, di garanzia di una libera fruizione, di regole trasparenti per le assegnazioni in concessione. Ad esempio in Francia la durata delle concessioni per le spiagge non supera i 12 anni e soprattutto l'80% della lunghezza e l'80% della superficie dei lidi devono essere liberi da costruzioni per sei mesi l'anno: gli stabilimenti vanno quindi rigorosamente montati e poi smontati. La Croazia, tra i vari interventi che ha messo in atto, ha previsto anche il divieto di costruire qualsiasi opera (dai chioschi ai ristoranti) per una distanza minima di 1 km stabilendo una continua ed unica "Area protetta costiera” di alto valore naturale, culturale e storico. Tra i principi espressi dalla normativa croata si sottolinea l’importanza della libera accessibilità alla costa e della conservazione delle isole disabitate senza possibilità di costruire. Le costruzioni esistenti che si trovano nella fascia a 100 metri dalla costa non possono in nessun modo essere ampliate, mentre per le nuove costruzioni vige il divieto di realizzarne entro una zona distante 1.000 metri dalla costa.

mercoledì 22 agosto 2018

Il lato oscuro di Autostrade per l’Italia

Ogni volta il solito copione: mancano i soldi, rimpallo di colpe, competenze amministrative poco chiare, ci pensa la Regione o il Comune? È pertinenza della provincia, ma no. Le province non esistono più. Ed ecco che la colpa non è mai di nessuno e dopo un po’ di clamore la storia finisce nel dimenticatoio. Semplificare non è giusto, ma è comunque necessario far luce sui meccanismi di un sistema, quello delle autostrade italiane, totalmente sui generis nel panorama mondiale.

Le autostrade italiane sono gestite per la maggior parte da società concessionarie. Dal 1º ottobre 2012 l’ente concedente è il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e non più ANAS e sono in maggioranza (5773,4 km al 2009) soggette al pagamento di pedaggio. Le autostrade sono gestite o dall’ANAS o da società firmatarie di convenzioni con l’ANAS stesso. L’ANAS inoltre fino a settembre 2012, controllava l’operato delle società concessionarie attraverso l’IVCA (‘Ispettorato di Vigilanza sulle concessioni autostradali) dotato di una struttura organizzativa autonoma, da lì in poi le funzioni di controllo sono state poi trasferite al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. Nel 1982 viene costituito il Gruppo Autostrade, e nel 1987 Autostrade Concessioni e Costruzioni S.p.A. viene quotata in Borsa Italiana, nel listino Mib30. Nel 1990 Autostrade introduce il Telepass, il primo sistema al mondo su larga scala per il pagamento dinamico del pedaggio. Questo sistema a pagamento verrà poi replicato prima in Regno Unito e poi negli Stati Uniti in tratte specifiche. Nel 2002, dopo la privatizzazione avvenuta nel 1999, in seguito ad un nuovo assetto organizzativo, le attività di concessione autostradale vengono conferite ad Autostrade per l’Italia, controllata al 100% da Autostrade S.p.A. (oggi Atlantia S.p.A.). La scadenza di questa concessione è fissata al 31 Dicembre 2038. La società che gestisce più km di autostrade è Autostrade per l’Italia. Fa parte del gruppo Atlantia S.p.A., che ne possiede il 100% del capitale sociale e che fa riferimento, come principale azionista, alla famiglia Benetton.

Il tema della concessione della gestione di autostrade è uno dei più scottanti: Autostrade per l’Italia ha firmato nel 2007 la nuova convenzione, entrata in vigore nel 2008 e valida fino al 2038. Il costo del canone di concessione che le aziende devono pagare – al Ministero per il 58 per cento e all’ANAS per il 42 – è fissato al 2,4 per cento dei pedaggi al netto dell’IVA. Uno scandalo. Secondo uno studio nel quinquennio 2008-2013, considerando i ricavi, gli investimenti e il costo del canone, si è registrato per le aziende del settore un utile netto pari a 8,467 miliardi di euro. Nonostante questi numeri il governo autorizza ogni anno aumenti medi dello 0,77%. Sulle vecchie autostrade il traffico non scende, gli addetti sono in continua diminuzione, gli investimenti promessi (in cambio degli aumenti di pedaggio) non sono invece stati realizzati. Per questi motivi gli aumenti delle tariffe, che per molti sono una vera e propria imposta sulla mobilità, sono ancor più ingiustificati. In Italia il pedaggio era legato ai costi di costruzione, che sono stati saldati nel 2008. A seguito di questo vengono giustificati per la manutenzione che come però risulta evidente anche dai crolli dei ponti, non viene fatta come si dovrebbe.

I concessionari sono 26, di cui due – Autostrade per l’Italia Spa del gruppo Benetton e Sias del gruppo Gavio – gestiscono circa il 70% dell’intera rete. Negli ultimi vent’anni la rete autostradale è rimasta pressoché la stessa, ma i loro ricavi sono più che raddoppiati, passando da 2,5 miliardi di euro nel 1993 a oltre 6,5 miliardi nel 2012, mentre tra il 2008 e il 2016 i pedaggi sono aumentati di circa il 25%, a fronte di una crescita dell’inflazione nello stesso periodo inferiore al 10%. Secondo un recente studio della Banca d’Italia, ogni chilometro di autostrada a pedaggio rende mediamente ai concessionari oltre 1,1 milioni di euro l’anno. Per altro, gli interventi di manutenzione come già detto, sono diminuiti di oltre il 40% anche e soprattutto a causa di un cavillo all’interno di una convenzione che prevede che i concessionari debbano reinvestire fino al 75% degli introiti solo se il traffico sulle autostrade che gestiscono è aumentato più del previsto rispetto ai piani di sviluppo. Risulta oltremodo inspiegabile il motivo per cui non si conoscono i contenuti né della convenzione del 1997, né di quella del secondo Governo Prodi del 2007, né gli atti aggiuntivi del 2013 e del 2015 dei Governi Letta e Renzi. Oltretutto considerando il fatto che l’atto del 2013 fu approvato dal Ministero in soli due giorni lavorativi, durante il periodo di Natale. Ci si chiede anche, che fine abbiano fatto le buone intenzioni del Ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture Graziano Delrio, che nel sostituire Maurizio Lupi, dichiarò che fosse giusto indire delle gare per le concessioni autostradali. Oggi si discute di concedere una proroga delle concessioni per l’Autobrennero (A22) fino al 2045 e per Autovie Venete fino al 2038.

Ulteriore scandalo è rappresentato dal fatto che dal 2009 (prima non era possibile) quasi il 60% dei lavori autostradali sono stati affidati, sempre senza gare, a società controllate o collegate alle concessionarie. Come tenersi i soldi in casa. Questo vantaggio è stato confermato anche dall’ultima correzione al Codice appalti preparata dal Ministero delle Infrastrutture. Ovviamente la politica, in modo bipartisan, fa capo chino di fronte a questa situazione, complice il fatto che sia Gavio che Benetton elargiscono lauti finanziamenti a tutte le coalizioni, prima, dopo e durante le campagne elettorali, “auspicando” che la situazione rimanga a loro favorevole. Nonostante tutto questo, rispetto alle superstrade e alle strade comunali, la rete autostradale sembra un’infrastruttura di ultima generazione e questo rende l’idea della situazione in cui verte il nostro territorio. Questo perché i Comuni che dovrebbero reinvestire i proventi delle multe per rendere più sicure le strade a cominciare dalla chiusura delle buche, invece li utilizzano per fare cassa e chiudere i buchi di bilancio. Giorgio Ragazzi, esperto di infrastrutture e già direttore esecutivo della Banca Mondiale, su Linkiesta: «Sono disgustato. È una vergogna che si trascina da secoli. Non abbiamo ancora trovato un governo che abbia la forza di respingere lobby potentissime come quelle dei concessionari. Speravamo che questo ministro cambiasse qualcosa, ma non mi pare stia avvenendo. Ci vorrebbero ben altra determinazione e capacità

martedì 21 agosto 2018

Perché il ponte Morandi era in mano ai Benetton?

Il 7 febbraio 1992, veniva firmato il Trattato di Maastricht, che entrerà in vigore l’anno successivo, nel 1993. Il ’93 è l’anno in cui il governo Ciampi istituisce il Comitato Permanente di Consulenza Globale e di Garanzia per le Privatizzazioni; sempre in quell’anno gli accordi del ministro dell’industria Paolo Savona* con il Commissario europeo alla concorrenza Karel Van Miert e quelli del ministro degli Esteri Beniamino Andreatta con Van Miert, impegnano l’Italia a fare la messa in piega alle aziende di Stato perché divengano appetibili per gli investitori privati”.

 “A partire dal governo Ciampi del ‘93, come si è detto, le tappe furono serrate: 1) i già citati accordi Italia-Van Miert, che stipulavano la ricapitalizzazione della siderurgia italiana a patto che la si privatizzasse, e l’azzeramento del debito delle aziende di Stato per lo stesso fine, cioè la svendita ai privati. 2) 1997-2000, il grande salto nella svendita dei beni pubblici col centrosinistra, che stabilisce il record europeo delle privatizzazioni (ENI, S. Paolo Torino, Banco di Napoli, SEAT, Telecom, INA, IMI, IRI con SME, Alitalia, ENEL, Comit, Autostrade ecc.)”.

L’Italia doveva farsi la messa in piega, svendersi cioè ai capitali privati, pena l’esclusione dall’euro, come stipulato nero su bianco dagli accordi del Comitato Permanente di Consulenza Globale e di Garanzia per le Privatizzazioni di Ciampi e celebrato poi dal Libro Bianco delle privatizzazioni di Vincenzo Visco”.

È così che il ponte Morandi finì poi nelle mani di uno scherano speculatore privato e con termini di concessione scandalosi ma pienamente approvati da Bruxelles nel suo furore d’imporre le privatizzazione all’Italia che ambiva ad entrare nell’Eurozona.

Da allora:

Lo Stato italiano perse ogni possibilità di tutelare l’Interesse Pubblico nella maggioranza degli snodi di sopravvivenza vitali dei suoi cittadini. E qui trovate i veri colpevoli di questa strage, perché è compito dello Stato vigilare in prima istanza, e CON SPESA SOVRANA, sui propri figli e se esso abdica a queste prerogative, la prima colpa di catastrofi come questa è sua, e in particolare della forza sovranazionale che gli impose quella ignobile abdicazione.

Infatti, i Benetton sono entità speculative private, e quando gli speculatori sono lasciati liberi di agire da uno Stato evirato, non puoi né devi aspettarti alcun riguardo per le vite umane. Gli speculatori privati sono bestie da millenni, e tali rimarranno in eterno. Gli Stati moderni nacquero proprio per controllarli, ma per farlo devono rimanere SOVRANI.

Noi fummo evirati quel 7 febbraio 1992. Quindi ripeto con forza: se lo Stato mette nelle mani di speculatori privati gli snodi di sopravvivenza vitali dei suoi cittadini – come la Sanità o le Infrastrutture essenziali – ma sa di non aver più i mezzi sovrani per COSTRINGERLI all'INTERESSE PUBBLICO esso è scientemente complice della loro immoralità da profitto, e quindi è il primo colpevole dei conseguenti drammi. Ma lo è ancor più lo strapotere a Bruxelles che ve lo costrinse.

E allora chi ha uno straccio di morale non si nasconda dietro ai cavilli di certa stampa: la responsabilità materiale e morale per i (tantissimi) morti che sono seguiti a quella CRIMINALE ESAUTORAZIONE di uno Stato sovrano sono solo di chi la volle in Europa, e dei ‘padri’ italiani dell’euro.

lunedì 20 agosto 2018

Dissesto idrogeologico, a rischio il 91% dei comuni

Si aggiorna lo scenario del dissesto idrogeologico in Italia: nel 2017 è a rischio il 91% dei comuni (88% nel 2015) ed oltre 3 milioni di nuclei familiari risiedono in queste aree ad alta vulnerabilità. I dati arrivano dall'Ispra che ha aggiornato la mappa nazionale del rischio nella seconda edizione del Rapporto “Dissesto idrogeologico in Italia”. In particolare, secondo il rapporto aumenta la superficie potenzialmente soggetta a frane (+2,9% rispetto al 2015) e quella potenzialmente allagabile nello scenario medio (+4%); tali incrementi sono legati a un miglioramento del quadro conoscitivo effettuato dalle Autorità di Bacino Distrettuali con studi di maggior dettaglio e mappatura di nuovi fenomeni franosi o di eventi alluvionali recenti.
Complessivamente, il 16,6% del territorio nazionale è mappato nelle classi a maggiore pericolosità per frane e alluvioni (50 mila km2). Quasi il 4% degli edifici italiani (oltre 550 mila) si trova in aree a pericolosità da frana elevata e molto elevata e più del 9% (oltre 1 milione) in zone alluvionabili nello scenario medio.

In tutto, sono oltre 7 milioni le persone che risiedono nei territori vulnerabili: oltre 1 milione vive in aree a pericolosità da frana elevata e molto elevata (Pai, Piani di assetto idrogeologico) e più di 6 in zone a pericolosità idraulica nello scenario medio (ovvero alluvionabili per eventi che si verificano in media ogni 100-200 anni). I valori più elevati di popolazione a rischio si trovano in Emilia-Romagna, Toscana, Campania, Lombardia, Veneto e Liguria.
Le industrie e i servizi posizionati in aree a pericolosità da frana elevata e molto elevata sono quasi 83 mila, con oltre 217 mila addetti esposti a rischio. Il numero maggiore di edifici a rischio si trova in Campania, Toscana, Emilia-Romagna e Lazio. Al pericolo inondazione, sempre nello scenario medio, si trovano invece esposte ben 600 mila unità locali di impresa (12,4% del totale) con oltre 2 milioni di addetti ai lavori, in particolare nelle regioni Emilia-Romagna, Toscana, Veneto, Lombardia e Liguria dove il rischio è maggiore.
Minacciato anche il patrimonio culturale italiano. I dati dell’Ispra individuano nelle aree franabili quasi 38 mila beni culturali, dei quali oltre 11 mila ubicati in zone a pericolosità da frana elevata e molto elevata, mentre sfiorano i 40 mila i monumenti a rischio inondazione nello scenario a scarsa probabilità di accadimento o relativo a eventi estremi; di questi più di 31 mila si trovano in zone potenzialmente allagabili anche nello scenario a media probabilità. Per la salvaguardia dei Beni Culturali, è importante stimare il rischio anche per lo scenario meno probabile, tenuto conto che, in caso di evento, i danni prodotti al patrimonio culturale sarebbero inestimabili e irreversibili.
I comuni a rischio idrogeologico: in nove Regioni (Valle D'Aosta, Liguria, Emilia-Romagna, Toscana, Umbria, Marche, Molise, Basilicata e Calabria) abbiamo il 100% dei comuni è a rischio. L'Abruzzo, il Lazio, il Piemonte, la Campania, la Sicilia e la Provincia di Trento hanno percentuali di comuni a rischio tra il 90% e il 100%.

lunedì 13 agosto 2018

Birra con glifosato e antiparassitari: ecco le più a rischio in Italia

Un’analisi condotta dall’Istituto nazionale del consumo francese con un approfondimento tutto italiano de Il Salvagente svela che birre popolari sul mercato presentano glifosato e antiparassitari, considerati potenzialmente pericolosi per la salute.
L’Istituto nazionale del consumo francese ha fatto ha fatto analizzare in laboratorio 45 birre alla ricerca di 250 molecole, e in ben 25 sono state trovate tracce di glifosato, etichettato come un “probabile cancerogeno” dall’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC).
Non solo, anche parassitari come i fungicidi boscalid, ftalimmide e folpet, che pur essendo contenuti in questa bevanda al di sotto dei limiti consentiti dalla legge, non sono del tutto esenti da rischi soprattutto se si considera l’effetto cocktail con il pesticida più usato in ambito agricolo.
Secondo l’approfondimento de Il Salvagente, che ha analizzato 28 delle 45 birre monitorate dai francesi in base alla loro reperibilità sugli scaffali dei supermercati italiani, Corona, La Chouffe, Leffe e Guinness Nitro IPA mostrerebbero dei residui di glifosato isolati o combinati con alcuni fungicidi, mentre birre particolarmente popolari come Carlsberg e Heineken sono risultate del tutto prive di tracce di glifosato e di altri pesticidi.

venerdì 10 agosto 2018

Pensioni d’oro: in stand by il taglio promesso dal governo

Quest’estate, per i nababbi a carico dello Stato, sarà diversa”. Così il vicepremier Luigi Di Miao riferendosi al taglio delle pensioni doro, uno dei cavalli di battaglia insieme al reddito di cittadinanza, dei Cinque Stelle.
A fine giugno lo stesso ministero del lavoro e dello sviluppo economico aveva annunciato l’abolizione delle pensioni doro che per legge hanno un tetto di 4-5mila euro. Ad oggi però di provvedimento di legge in tal senso non v’è traccia. In queste settimane il Parlamento è stato impegnato sul decreto dignità e poi sul Milleproroghe, tralasciando il tema previdenza. Ma la dimenticanza avrebbe due spiegazioni come scrive oggi sul Corriere della Sera Lorenzo Salvia. La prima riguarda il fatto che formalizzare adesso la proposta di uno dei due alleati complicherebbe un equilibrio già difficile.
“Della manovra, in realtà, si sta già discutendo (…)  Le pensioni non sono state citate, né per l’intervento sugli assegni sopra i 4 mila euro né per la cosiddetta quota 100, cioè la possibilità di lasciare il lavoro quando a far 100 è la somma tra età anagrafica e anni di contributi versati. Questo non vuol dire che il capitolo pensioni resterà fuori dalla manovra: anche qui si tratterà di avviare un percorso, ma formalizzare adesso la proposta di uno dei due alleati complicherebbe un equilibrio già difficile (…)”.
Il secondo motivo, scrive Salvia, è ancora più politico.
“L’intervento sulle pensioni sopra i 4 mila euro è una proposta del Movimento 5 Stelle. Alla Lega non è mai piaciuta (…) la Lega, che ha già dovuto digerire la stretta sui contratti a termine voluta da Di Maio e criticata da buona parte del proprio elettorato, ha chiesto agli alleati di fermarsi e aspettare la legge di Bilancio. (…) L’idea alla quale hanno lavorato i tecnici di Di Maio prevede il ricalcolo con il sistema contributivo solo della quota dell’assegno che supera i 4 mila euro netti. Secondo i calcoli della Fondazione Tabula, le persone coinvolte sarebbero circa 100 mila con un taglio medio tra il 10 e il 12%. Il risparmio netto, fino a 600 milioni di euro, sarebbe destinato alle pensioni più basse”.

mercoledì 1 agosto 2018

Parliamo di prospettive industriali

La stampa internazionale ha pressoché unanimemente salutato in Marchionne uno dei più grandi manager della sua generazione e lodato le sue grandi capacità. E certo, se guardiamo ai suoi risultati economici e finanziari sino al momento della sua morte, si capisce certamente la ragione di questo tipo di giudizi. Lasciamo stare Trump, che lo ha paragonato a Henry Ford; sul Financial Times, un quotidiano in genere piuttosto misurato, si è parlato di Marchionne come di una leggenda nel settore, è stato sottolineato il suo coraggio, la sua grande capacità di lavoro, la sua abilità nel dealmaking e si è ricordato come egli avesse una mente molto sveglia.

Non c’è da meravigliarsi di queste lodi da un altro punto di vista, quello “ideologico”; siamo ormai da tempo di fronte al pensiero unico relativamente a queste questioni sui media. In effetti, il manager italo-svizzero ha certamente reso felici i suoi azionisti (missione suprema dei manager, a leggere i testi di economia applicata e metro più importante di misura anche per i media) avendo, tra l’altro, moltiplicato il valore dei titoli del gruppo di più di dieci volte nel tempo. Dal punto di vista dei lavoratori e del nostro paese magari le cose sono state meno brillanti.

Per quanto riguarda l’Italia, di fronte a un sistema politico-mediatico che saluta in Marchionne un grande eroe nazionale, una sintesi tra Mazzini e Garibaldi (e non sembra che lo facciano in generale per seguire l’antico detto de mortuis nihil nise bonum), mentre sottolineiamo che certamente ci dispiace della sua morte precoce, ci permettiamo di ribadire che molte delle sue azioni non ci sono a suo tempo piaciute e di pensare che la sua strategia si ritrova oggi in un mare di difficoltà.

Certo Marchionne ha salvato la Fiat dal baratro, suo merito indiscutibile, ma lo ha fatto trasformando, con l’assenso peraltro anche di una parte del sindacato, i lavoratori quasi in paria, cosa che non era affatto necessaria; rispetto ai loro colleghi tedeschi e francesi essi in effetti non solo guadagnano di meno e in certi casi molto meno, ma hanno anche meno diritti e di nuovo in certi casi molto meno. Peraltro, egli ha anche aperto una strada su cui si infilerà poi Renzi con il suo jobs act.

Il gruppo ha poi abbandonato l’Italia come quartier generale senza neanche dire grazie, dopo che per tanti anni esso vi aveva ricevuto tanti favori. Anche in questo caso ci sono molte imprese multinazionali di tutti i paesi che continuano ad avere le loro sedi centrali nel fondo di qualche oscura provincia e questo non sembra essere un problema. Pensiamo ad esempio in Europa a Michelin, che ha il suo quartier generale a Clermond Ferrand o a Philips che lo mantiene ad Eindhoven in Olanda.

La lista delle promesse non mantenute nel tempo è lunga e la ripetiamo anche se è già stata ricordata: quella di arrivare a produrre sino a 7 milioni di vetture, mentre oggi siamo sui 4,7 milioni; di grandi investimenti nel nostro paese, che non si sono poi visti; di una produzione da noi di 1.400.000 vetture all’anno, mentre siamo a 750.000; del reintegro di tutti i cassaintegrati, cosa che non si è verificata e ancora di 400.000 Alfa all’anno, con otto nuovi modelli (siamo a 110.000 con due modelli).

E quasi tutti ci hanno creduto o hanno fatto finta di crederci.

Intanto in Italia oggi l’azienda occupa 29.000 persone, mentre nel 2010 se ne contavano ancora 190.000, anche se va peraltro considerato lo scorporo delle attività confluite nella CNH.

Come è noto, il mondo dell’auto è entrato intanto in un turbinio molto forte e che sta scuotendo anche i valori più consolidati, quali quelli dei grandi produttori tedeschi, che amano i cambiamenti lenti e pianificati e che si ritrovano invece di fronte, tra l’altro, agli attacchi lampo dei nuovi barbari, sotto la veste delle imprese digitali usa e cinesi, che minacciano persino di trasformare le vetture in un semplice telefonino con (forse) quattro ruote.

Mentre i governi si sono finalmente decisi a richiedere, sia pure con grande riluttanza, che le emissioni delle vetture siano fortemente ridotte, sta arrivando l’auto elettrica, alla quale sino a poco tempo fa Marchionne dichiarava di non credere – ma che le norme cinesi hanno imposto e di fretta a tutti i produttori –, nonché l’auto a guida autonoma, che dovrebbe avere una forza distruttiva ancora maggiore, anche se ha forse tempi un poco più lenti di introduzione, mentre si affermano nuovi modi di fruizione dell’auto, in particolare l’affitto a breve termine invece dell’acquisto e qui sono al momento vincenti le aziende tipo la statunitense Uber o la cinese Didi Chuxing (si tratta di un mestiere che le case dell’auto non conoscono; ora provano ad impararlo quelle tedesche, che hanno le risorse per affrontare la sfida, mentre la Fiat non sembra neanche pensarci). Infine l’Asia sta diventando sempre più il cuore del sistema, ma in tale continente il gruppo è presente con livelli di produzione al momento risibili.

Più in generale, rispetto a questi grandi mutamenti, la FCA di Marchionne non ha sino ad oggi fatto quasi nulla. È come se il manager abbia pensato après moi le déluge, ciò che probabilmente coincideva con la volontà della famiglia di vendere in prospettiva tutto.

Da qualche tempo gli azionisti e gli stessi manager del gruppo parlano pudicamente della necessità di trovare un partner per fare massa in un mercato sempre più difficile, ma la realtà sembra quella che difficilmente ci sarà una fusione tra uguali e che l’azienda degli Agnelli dovrà cedere il pacchetto a qualcun altro più attrezzato al nuovo gioco.

Peraltro, il nuovo piano industriale da poco annunciato promette per il futuro rilevanti investimenti nell’auto elettrica e ripropone le 400.000 unità vendute per l’Alfa, con tanti nuovi modelli.

Per quanto riguarda la prima mossa, si può credere a tale nuovo impegno? E, d’altro canto, gli stanziamenti saranno sufficienti e forse non è ormai troppo tardi? Per quanto riguarda la seconda, il gruppo Alfa/Maserati dovrebbe creare un polo del lusso in grado di contrastare i produttori tedeschi e giapponesi, ma le vendite non corrispondono in nulla ai proclami. Ancora nel primo semestre del 2018 i dati di vendita del marchio Maserati appaiono allarmanti (soltanto 570 milioni di euro). È con questi numeri che si affronterà un nemico tanto forte?

Questa è certamente una cosa spiacevole, dal momento che il gruppo ha annunciato che non produrrà più auto piccole in Italia; pensare di sostenere l’occupazione negli stabilimenti nazionali solo con Alfa, Maserati e un po’ di Jeep appare un’impresa certamente disperata. Sembra invece facile prevedere (ma speriamo di sbagliarci) che si cercherà presto di chiudere nel nostro paese almeno uno stabilimento.

Intanto però è stata messa sul mercato la Magneti Marelli – cuore del know-how nazionale nel settore e punto centrale di una possibile strategia di rilancio dell’auto italiana-, nell’indifferenza generale dei media e dei politici, mentre si ignora la sorte di Comau, altro importante punto di forza nazionale nel settore.

Certo, questa volta non si trattava per loro di scatenarsi contro i pur modesti ritocchi che Di Maio vuole apportare al famigerato jobs act, nè di indignarsi perché i francesi volevano toccare Berlusconi nei suoi interessi, né di stracciarsi infine le vesti perché Il Manifesto ha osato parlar male di Marchionne. Il risultato è che la Magneti Marelli potrebbe ad esempio essere preda di attori quali Elliott, il terribile fondo avvoltoio che è stato salutato qualche tempo fa da cori osannanti perché era intervenuto a sostegno del Cavaliere, oppure costituire il regalo di nozze di qualche principe arabo alla sua consorte.

L’unica strategia seria per il nostro paese sarebbe quella di difendere il rilevante insieme di competenze e capacità presenti nel gruppo, a partire da Magneti Marelli e Comau e sino a quelle interne a FCA (in parte smobilitate con il passaggio del centro di gravità a Detroit), sulle quali bisognerebbe però investire molto. Questo anche se può sussistere il dubbio che le competenze portate dalle nuove tecnologie digitali possano presto sovrastare quelle tradizionali. Ma bisognerebbe perlomeno provarci.

Intanto anche questo governo sembra essere occupato in materia economica, ad essere generosi, a pestare l’acqua nel mortaio.

Negli ultimi giorni il nuovo amministratore delegato del gruppo ha presentato le stime riviste per il 2018 e queste non sembrano incoraggianti. Il fatturato è ora previsto in 115-118 miliardi di euro, contro i 125 delle valutazioni iniziali, il reddito operativo adjusted a 7,5-8,0 miliardi contro gli 8,7 previsti inizialmente e così via.