venerdì 30 agosto 2019

Anche gli ultrà europeisti vogliono “cambiare la Ue”. Per competere meglio…

Tormento o delizia di ogni analista, l’Unione Europea resta l’ircocervo che si preferisce in genere affrontare solo dal punto di vista ideologico, come se questa strana creatura fosse davvero una “anticipazione” della fine dei nazionalismi e non invece – come è – una struttura di regolazione dei vari nazionalismi. Con effetti fortemente asimmetrici, quasi sempre voluti, che avvantaggiano sempre i paesi più forti a scapito di quelli più deboli.
Come è facile capire, dato un mercato comune (come spazio e regole), se qualcuno ci perde (va in deficit) è perché qualcuno ci guadagna (va in surplus).
Un mercato comune che opera in modo sfrangiato (nazionalisticamente, a parte qualche trattato come il Ceta con il Canada o quello con il Mercosur) e ambisce ad essere un competitore globale all’altezza di Stati Uniti, Cina, Russia. Nel nostro linguaggio si potrebbe anche dire un imperialismo competitivo con altri, il che getta una luce non proprio favorevole sull’immagine di ”Europa” dipinta dalla propaganda, che cita sempre e solo Schengen e l’Erasmus.
Per aiutare anche i più restii, pubblichiamo qui l’editoriale del Corriere della Sera di oggi, a firma di Lucrezia Reichlin (tra i nomi in ballo per il ministero dell’economia).
Articolo notevole per chiarezza, che centra bene tutti i temi rilevanti sul piano economico e geopolitico, le assurdità e l’idiozia dell’austerità (non la definisce così, ma il senso è quello), la perdita di centralità degli Usa e il ruolo comunque ingombrante del dollaro, la fragilità esterna della gabbia Ue e l’inesistente “messa in comune” interna (politiche comuni e condivisione dei rischi, anche finanziari). Un luogo popolato di fessi (l’italietta degli ultimi 30 anni, con qualsiasi governo, anche con presenza Lega e Fdi) che firmano accordi suicidi e avvoltoi che li scrivono per beneficiarne al meglio.
Ma la Reichlin non è né una euroscettica di destra, né un’internazionalista comunista contro la Ue (nonostante i genitori…).
E infatti, dopo aver elencato i punti di debolezza della situazione globalle, in specifico di quella continentale, riassume il tutto in un progetto di ridisegno della “visione europea” tale da darle effettivamente la possibilità di “giocare alla pari” con gli altri competitori globali.
Per riuscirci, naturalmente, bisogna superare le politiche micragnose degli ultimi 30 anni con l’obbiettivo di “una maggiore condivisione del rischio a fianco di impegni per politiche nazionali responsabili, altrimenti “rimaniamo fragili e in balia delle scelte americane, oggi più che mai volatili e non cooperative”.
L’occasione è ora, che – non viene ricordato, ma è “il problema europeo” per eccellenza – la Germania sta andando in recessione, vede il suo modello mercantilista e deflazionista (bassi salari e precarietà contrattuale) in crisi e quindi sta preparando un aumento monstre della spesa pubblica nazionale mentre raccomanda a tutti gli altri di stringere la cinghia.
Ma non c’è alcuna ragione di “equità” o “redistribuzione della ricchezza” a monte di questo progetto di “riforma dei trattati”. Solo la necessità di fare il tagliando alla macchina perché possa “competere meglio”. Anche armandosi di più, in relativa autonomia (siamo pur sempre dentro il trattato Nato, con basi Usa sparse un po’ ovunque sul continente).
Chi ancora pensa che l’”europeismo” sia una “cosa di sinistra”, magari da correggere qua e là, dovrebbe farsene finalmente una ragione.

giovedì 29 agosto 2019

Altro giro, altro Conte, stesso ristagno

Tutto secondo logica e copione scritto nei cieli. Giuseppe Conte risale al Quirinale per ricevere l’incarico di formare un nuovo governo, mettendo insieme Cinque Stelle e Partito Democratico.
Sul piano strettamente istituzionale, non fa una piega. Nel Parlamento eletto il 4 marzo 2018 ci sono sostanzialmente tre formazioni di minoranza e l’unico governo possibile vien fuori dall’accorpamento di due di queste, tenendo conto che i Cinque Stelle hanno una notevole maggioranza relativa che impedisce soluzioni che li escludano (anche se Pd e Lega si somigliano più di quanto non si voglia ammettere).
Al primo tentativo sono state Lega e Cinque Stelle a formare una coalizione fortemente mostruosa, ora si prova con l’altra soluzione. La cosa più difficile è stata ed è farla digerire a “capi politici” (sia del Pd che grillini) che avevano costruito il proprio “nemico giurato” nella forza che ora devono sposare per forza. Basti guardare a quei poveretti di Repubblica, costretti per setimane da un lato ad appoggiare il tentativo e dall’altra “obbligati” a proseguire il bombardamento cui Cinque Stelle decsritti come “antisistema” (anti UE, anti euro, filocinesi, ecc) nonostante ogni evidenza contraria.
Se non si voleva andare alle elezioni immediatamente questo era l’unico governo politico possibile, altrimenti se ne faceva uno di “garanzia elettorale”, incaricato di firmare la legge di stabilità (che tanto viene strutturata nei fondamentali dalla Commissione UE) e di gestire in modo un po’ meno ad personam lo svolgimento delle elezioni (con Salvini ministro dell’interno, dunque padrone della macchina di raccolta dei risultati, ogni sospetto di brogli sarebbe stato legittimo e impossibile da allontanare).
Ma il piano istituzionale non esaurisce il problema politico. Il rapporto tra “partiti” e popolazione è ai minimi termini, la credibilità dei “leader” sale e scende in un attimo, la “comunicazione” ha sostituito le differenti visioni del mondo (sciolte nel “pensiero unico neoliberista”) e favorito la ricerca ossessiva dello slogan di facie presa e zero durata.
Questo governo, dunque, è come gli altri formalmente legittimo e popolarmente non credibile. Dà tregua, togliendo qualche megafono ai leghisti (I grandi media, specie televisivi, sono lestissimi a seguire il carro del vincitore momentaneo), e dunque garantisce qualche mese di ordinaria amministrazione, senza strilli generali sull’”invasione”, i “porti chiusi”, gli inviti al pogrom contro immigrati e rom.
Ma non risolve niente. Le dinamiche che vanno devastando il corpo sociale restano tutte attive, e la mancanza di soluzioni non potrà che agevolare il compito dei guastatori. Anche perché i Di Maio, gli Zingaretti e tutto il codazzo delle seconde linee (Renzi, Calenda, Di Battista, ecc) non riesce proprio a nascondere la propria piccineria, l’ansia di proganismo, stile “mi si nota di più se dico questo o quest’altro”. Aumentando l’antica certezza che “quelli lassù” a tutto pensano meno che a diminuire I problemi della maggioranza delle figure sociali.
La stessa Lega, che alzerà i toni proporzionalmente alla restrizione ddegli spazi televisivi, è fortemente deflazionista sul piano interno. Voleva e vuole ripristinare le “gabbie salariali”, con stipendi differenziati per aree e regioni (più bassi comunque al Sud), impedire l’approvazione di qualsiasi salario minimo (e dunque protrarre il semischiavismo dei salari a 2-3 dollari l’ora, come per riders e braccianti di qualsiasi nazionalità), favorire in ogni modo le imprese e i ricchi (flat tax, taglio dei contributi previdenziali in busta paga per dare l’impressione di “aumenti salariali” finanziati con la riduzione delle entrate e dei servizi sociali), tagliare la spesa sanitaria in dimensioni drastiche (la battuta di Giorgetti sull’inutilità dei medici di base è indicativa).
Ma le prime indiscrezioni sulle caratteristiche della “manovra” di fine anno, in via di concertazione tra i nuovi soci di governo, non si discosta molto dalle linee che anche la Lega condivide. Giusto un po’ più di “reddito di inclusione” camuffato da “reddito di cittadinanza” (spiccioli, in termini assoluti), per fare vedere che ci si preoccupa dei più poveri (che dalla flat tax non avrebbero nessun vantaggio). Propaganda, insomma, che accompagna le cose più importanti e meno pubblicizzate.
C’è da bloccare ancora una volta l’aumento automatico delle aliquote Iva, e in genere questo significa taglio ad altre spese, oppure un aumento delle entrate fiscali. Da questo punto di vista il prossimo ministro dell’economia potrà contare sul un discreto pacchetto di miliardi derivante dall’entrata in vigore della fatturazione elettronica che, pur non essendo inaggirabile, ha comunque tagliato via un bel po’ di evasione dell’Iva. Almeno setto-otto miliardi, secondo le stime del ministro Tria, che consentirebbero a qualsiasi governo di limitare interventi brutalissimi su altri capitoli di spesa.
Altri miliardi sono disponibili per i minori esborsi relativi a “quota 100” e reddito di cittadinanza. Quindi un po’ meno lacrime e sangue, ma comunque una manovra dura che il prossimo anno peserà sulla popolarità anche di questo esecutivo.
Dei “tre governi” in uno – Lega, grillini, Unione Europea – è rimasto in pedi soltanto quello con una solida base di potere alle spalle e con un “programma” da cui non si può prescindere. Il prezzo maggiore lo paga l'”alternativa farlocca” incarnata per qualche anno da i Cinque Stelle, passati nel giro di appena diciotto mesi dal “non faremo governi insieme a nessuno” all’aver fatto governi con tutti, senza naturalmente cambiare assolutamente nulla.
Il problema dell’alternativa a questa rappresentanza politica – tutta – resta immutato, ma se non altro sono state bruciate molte cazzate diventate “senso comune” anche in certi ambiti “di sinistra” (l’antipolitica, “uno vale uno”, la “democrazia in rete”, “ognuno dice la sua”, “destra e sinistra non esistono più”, ecc). La breve stagione di successo dei grillini mostra che si può rompere lo schema del “bipolarismo obbligato”, cui il nuovo governo Conte oggettivamente riconduce. Sta a noi dare risposta a una domanda sociale che resta inevasa.
La destra per ora fa mostra di indignazione, ma è probabilmente già iniziato lì dentro il processo di giubilazione di Salvini e la caccia a un nuovo “leader” (che sia ovviamente un “bravo comunicatore”). Perché – almeno a noi – sembra impossibile tenersi un “genio” capace di mandare in fumo un capitale di potere e consenso delle dimensioni di cui era arrivato a godere il Secondo Matteo.
Tutto come al solito, insomma. Il lento declino determinato dall’adesione ai trattati europei proseguirà senza scossoni troppo forti, come rane che si adeguano alla temperatura dell’acqua nell pentola, fino a ritrovarsi bollite.

mercoledì 28 agosto 2019

Le (auto)censure dell’Occidente distratto

Lo riconosco, un mese in patria non è molto. Appena 30 giorni in un calendario che dipende dalle circostanze e dall’attesa del visto per il ritorno nel Niger, scaduto ancora prima di partire per inavvertenza. Del Sahel e del Niger, almeno finora, nessuna traccia in televisione, nei giornali e nei discorsi.
Abbiamo smesso di esistere entrambi e con noi la sabbia e i morti quotidiani ad opera degli imprenditori della guerra e i bambini dei poveri che hanno, ormai da tempo, smesso di andare a scuola. Gli insegnanti minacciati perché considerati fiancheggiatori dell’Occidente che soprattutto con la scuola ne perpetua il colonialismo culturale e politico.
Malgrado la vicenda delle navi coi migranti salvati dalle acque libiche in attesa di attraccare a Lampedusa quanto accade a monte, anzi nel deserto, è stato cancellato. Le (auto) censure sono le più pericolose e, come avvenuto anche in altre epoche, potrebbero condurre ad ulteriori derive un continente che fatica ad assumere le conseguenze dei principi che propone e spesso impone agli altri.
L’insostenibile censura di quanto costituisce la realtà, che è sempre processo da interpretare, voluto o inatteso, di scelte operate nella contingenza del tempo. Non si dice più nulla dei migranti cancellati dai radar prima che raggiungano, a migliaia, i campi di detenzione in Libia. Si è dimenticato, colpevolmente, che adesso le frontiere europee sono scese anche da Agadez nel Niger, verso la costa atlantica. La gente del posto non è più libera né di restare né di partire. Quanti, a proprio rischio e pericolo, cercano ancora di partire, sono intruppati nei campi di ‘accoglienza detenuta’ gestiti dall’OIM.
Quest’ultimo, delle Migrazioni Internazionali, ha fatto la propria Organizzazione e cioè il business in nome dell’Occidente che lo finanzia. Che i migranti siano ormai dei criminali da fingere di fermare alle frontiere è fatto conosciuto ed accettato da quelli che contano.
Delle politiche Europee che da decenni e in particolare, per quanto riguarda il Sahel, dal 2015, incontro intercontinentale della Vallette, non ci sono più tracce. Eppure è in conseguenza di tali politiche che poi appaiono le navi salvatrici di persone che l’Occidente condanna e poi spinge al naufragio.
La gente non è libera di partire né libera di restare perché lo smantellamento delle economie locali e la rapina sistematica e coerente delle risorse impedisce o rende almeno problematico il restare. Dalla pesca sulla costa ai minerali, per passare all’agricoltura, il sistema di spogliazione globale continua ad infierire nello spazio saheliano. 
Ciò accade con la complicità delle élites locali, da tempo acquistate dal sistema e membri subalterni delle classi dominanti internazionali. Ottenere visti e permessi di soggiorno è una missione ritenuta dai più impossibile e la sola via che rimane da percorrere per farsi accettare come nuovi schiavi dell’Occidente è il cammino nel deserto o altre rotte impossibili che durano anni.
Queste cose non si dicono più a causa di questa censura che, come una coltre di fumo, impedisce di cogliere la storia e si limita alla cronaca da manipolare secondo gli interessi dominanti. Si censura il ‘politico’ come ambito privilegiato di costruzione sociale comune e ci si ribatte sulla gestione amministrativa e romanzata della politica.
La censura intesa come complice occultamento del reale porta come conseguenza l’insopportabile tradimento dei poveri. Essa comincia dagli occhi, asserviti alle mercanzie e le pubblicità dominanti e coinvolge allo stesso tempo le orecchie, preda dei cellulari, che ne ritmano l’ascolto. Si cammina guardando lo schermo e ascoltando e parlando in continuazione in immaginari dialoghi a distanza mentre i volti reali della gente scompaiono frantumati dall’assenza.
L’auto censura, ancora più ingiustificabile coinvolge i mezzi di comunicazione, i cittadini comuni e gli imprenditori sociali e religiosi. Assimila e colonizza l’ambito politico, educativo ed economico delle società dell’Occidente. Lo smascheramento di questa omertà è il primo passo verso la redenzione. Il secondo si chiama rivolta, ossia la conversione ai volti.

martedì 27 agosto 2019

La Lega scende nei sondaggi, gli altri ci guadagnano, il Quirinale decide

Oggi è il giorno in cui il Quirinale tirerà le somme e valuterà se ci sono le condizioni per una nuova maggioranza di governo.
Intanto il Sole 24 Ore ha pubblicato domenica un sondaggio WinPoll, il quale ha confermato il trend negativo già delineato da altri sondaggi e che indicano un severo arretramento della Lega di Matteo Salvini nei consensi.
Secondo il sondaggio WinPoll infatti i consensi alla Lega sono scesi al 33,7% in calo di 5,2 punti percentuali rispetto al sondaggio del 30 luglio scorso. A guadagnare da questa debacle della Lega sono quasi tutti gli altri partiti. Il Partito Democratico migliora di sette decimi di punto andando al 24%, mentre il Movimento 5 Stelle sale di 1,8 punti andando al 16,6%.
Tra i partiti più piccoli Fratelli d’Italia e Più Europa guadagnano quasi un punto (0,9) ottenendo rispettivamente l’8,3% e il 3,2%. La Sinistra sale di quattro decimi andando al 2,3% e i Verdi ottengono l’1,4% segnando un +0,3.  L’unico partito in calo è Forza Italia, che perde un decimo di punto e va al 6,6%.
Il 58% degli elettori intervistati da WinPoll ritiene che la credibilità di Matteo Salvini sia diminuita durante questa crisi di governo estiva e solo il 23% pensa invece che sia aumentata. Il 54% ha scelto la Lega come partito che si è comportato peggio, il 30% il M5S e il 13% il PD. Quando si è invece dovuto scegliere chi si è comportato meglio, il 26% ha scelto la Lega, il 22% il PD, il 20% il M5S e l’11% FdI. Il 19% indica invece “nessuno”.

lunedì 26 agosto 2019

Una gabbia distorta che produce mostri

Compiti ardui si preannunciano per le rinnovate istituzioni europee, Parlamento, Commissione e BCE. L’Unione non ha di fronte a sé solo il problema strutturale della bassa crescita economica che ha caratterizzato gli scorsi dieci anni, ed i pericolosi segnali di un forte rallentamento anche in Germania, ma le questioni che furono lasciate irrisolte ai tempi del Trattato di Maastricht nel 1992, aggravatesi di recente per via dei difetti che caratterizzano anche l’architettura dell’euro.
Con la consueta lucidità, Paolo Savona, Presidente della Consob, ha messo a fuoco questi temi nel suo intervento al Meeting di CL: permane ampio il divario nei livelli debiti pubblici tra i diversi Paesi; gli ampi differenziali nei tassi di interesse pagati sui titoli di Stato, gli spread, rallentano i processi di risanamento finanziario e la crescita economica; i vincoli istituzionali posti alla Bce non solo le inibiscono la possibilità di stroncare tempestivamente la speculazione, intervenendo come Lender of last resort, ma soprattutto le impediscono di operare in modo asimmetrico, correggendo le distorsioni esistenti.
Gli acquisti di titoli di Stato attraverso il Qe ne sono un esempio lampante: avendo utilizzato come criterio di ripartizione le quote di partecipazione al capitale della Bce, si è proceduto massicciamente anche nei confronti dei Bund, che sono per definizione i safe asset dell’Eurozona con il risultato di far precipitare i tassi a livelli negativi.
Un comportamento paradossale, con conseguenze distorsive: mentre gli investitori cercano disperatamente titoli sicuri, i safe asset, la Bce glieli sottraeva. Con una conseguenza ulteriore, ancor peggiore per l’intera economia europea: non essendoci Bund a sufficienza, la liquidità immessa dalla Bce si è riversata sui titoli di Stato americani, altro safe asset, che pagano tassi positivi.
Savona ha dunque messo in luce i difetti della costruzione dell’Eurozona, ed i vincoli che la Bce ed il suo Governatore Mario Draghi sono costretti a rispettare. Quest’ultimo, anzi, ha il merito di aver ribaltato la strategia monetaria restrittiva lasciatagli in eredità da Jean-Claude Trichet, battezzata Exit Strategy. Draghi, in carica dal settembre 2011, ha recuperato immediatamente gli errori della precedente gestione monetaria, sia tagliando i tassi che lanciando a cavallo tra la fine dell’anno e l’inizio del 2012 ben due operazioni di Ltro, illimitate nelle quantità di liquidità disponibili ed a tasso minimo.
Purtroppo, ha sottolineato Savona, già a quel tempo molte imprese italiane avevano subito danni irreparabili: i ritardi e gli errori della Bce sono stati compiuti prima che Draghi si insediasse.
Ora, bisogna pensare al futuro.
Punto primo: occorre accelerare la riduzione dei debiti pubblici ed abbattere i differenziali dei tassi pagati sugli interessi. E’ indispensabile intervenire a favore degli Stati che, come l’Italia, non possono operare solo sul versante dell’avanzo primario in condizioni di tassi di interesse assai elevati.
Anziché insistere sugli eurobond, che implicano una sorta di solidarietà che non è politicamente accettata dai Paesi con un basso livello di debito, Savona ha proposto sin da giugno scorso di attivare l’ESM (European Stability Mechanism): questa istituzione, emettendo titoli che il mercato considera safe asset, spunterebbe tassi estremamente convenienti. Se così facesse, mentre si offrirebbero al mercato i titoli sicuri di cui è alla ricerca, dall’altra si presterebbe il ricavato agli Stati che, come l’Italia, ne beneficerebbero in termini di tassi di interesse più modesti.
Azzerando per un paio d’anni le emissioni nette, e limitandosi dunque al solo rinnovo del debito in scadenza, anche per questa via si ridurrebbe il costo degli interessi, avviando anche lo spread verso lo zero. Un prestito del genere, assistito da privilegi a favore dell’ESM, consentirebbe anche il finanziamento degli investimenti pubblici in infrastrutture che aumenterebbero la produttività. Tutto passa, dunque, da una completa riprogrammazione del bilancio pubblico
Punto secondo: occorre riportare l’intera struttura dei tassi di interesse europei ad un livello fisiologicamente positivo. L’attuale, endemica, situazione di tassi nominali negativi sui bond e sui depositi bancari ha conseguenze pesantemente negative: non solo taglieggia il risparmio, ma penalizza anche il sistema bancario per via della mortificazione del margine di intermediazione.
Questa situazione va corretta, innanzitutto riducendo gli acquisti da parte della Bce di safe asset, quali i Bund: una riproposizione del Qe dovrebbe quindi adottare un criterio di ripartizione degli acquisti di titoli pubblici che escluda quelli che hanno già rendimenti pari a zero, o addirittura negativi.
D’altra parte, concentrando gli acquisti sui titoli che pagano un tasso più elevato, si accelera anche il riequilibrio dei fattori di costo finanziario tra le diverse economie: non vi è nessuna ragione al mondo, infatti, che giustifichi ancora il maggiore onere per interessi pagato dalle imprese italiane rispetto alle concorrenti, diverso dal loro merito di credito. Le imprese italiane pagano un premio al rischio sproporzionatamente alto, e penalizzante in termini di competitività, solo a causa dell’operare in un Paese che ha un alto debito pubblico. Occorre rimediare anche a questa distorsione della concorrenza sul mercato.
Punto terzo: una struttura di tassi di interesse estremamente diversa tra Usa ed Eurozona, penalizzante per i capitali impiegati in quest’ultima, comporta un deflusso di valuta che indebolisce l’euro sul dollaro. Questo elemento, a sua volta, determina il prolungarsi di uno squilibrio commerciale che gli Stati Uniti ritengono inaccettabile.
Non c’è nessun motivo al mondo, anche in questo caso, che giustifichi un differenziale di interessi così elevato tra Bund e Treasury bond, neppure il tasso di inflazione. Se volgiamo evitare una esasperazione dei conflitti commerciali e del protezionismo da parte degli Usa, occorre provvedere tempestivamente: il Presidente americano Trump ha già messo nel mirino la debolezza dell’euro dovuta alla politica monetaria. Anche per questo, chiede alla Fed di tagliare i tassi.
Quarta, ed ultima questione. Dopo anni trascorsi a discutere degli zerovirgola, di deficit lillipuziani che violavano le regole del Fiscal Compact e non delle ragioni di fondo che perpetuano in Italia un debito pubblico elevatissimo, ora è la Germania che si trova a fronteggiare una situazione economica e finanziaria assai pesante.
Sarebbe curioso consentirle ora un ampio deficit per finanziare investimenti pubblici e sgravi fiscali dell’ordine di una cinquantina di miliardi di euro, come si va leggendo, solo perché ha un basso livello di debito pubblico. Dopo aver imposto l’austerità fiscale ed i fallimenti bancari ai suoi concorrenti, ora si tirerebbe fuori dalle secche lasciando tutti gli altri ancora una volta al palo. Con investimenti in nuove tecnologie, in campo informatico ed ambientale, ricostruirebbe le basi per una nuova dominanza.
Occorre un quadro d’insieme: la Germania ha beneficiato per un verso, e subìto per l’altro, le conseguenze delle regole imposte alla Bce. In Germania, la forte riduzione nel rapporto debito/pil è stata determinata dall’abbassamento dei tassi di interesse, ormai negativi su tutte le scadenze di emissione. Ma questi ultimi penalizzano fortemente le banche ed i risparmiatori tedeschi: la recentissima scarsa affluenza all’asta dei Bund a scadenza trentennale, al cui esito è stata piazzato un importo inferiore alla metà del preventivato, dimostra la ritrosia degli investitori ad accettare ancora una penalizzazione anziché un premio per l’impiego dei capitali.
Avrebbe dunque tutto da guadagnare da un ripensamento da parte della Bce del criterio acquisto dei titoli in un nuovo Qe, che riporti i tassi a valori fisiologicamente positivi. Del pari, avrebbe interesse ad una profonda revisione dello Statuto del Mes che gli consenta sia di emettere safe asset per prestarne il provento agli Stati, come auspicato da Savona per l’Italia, sia per fronteggiare situazioni di crisi di banche sistemiche come potrebbe accadere a qualche istituto tedesco già in difficoltà. Si sgraverebbe, così facendo, la Bce e la politica monetaria da compiti impropri.
In Italia, elezioni o no, occorre affrontare tutti questi temi. Sono questioni, apparentemente solo tecniche, che hanno risvolti economici e sociali enormi: sono le regole a cui si conformerà il futuro dell’intera Unione, non solo dell’Italia. Già da mesi, d’altra parte, Paolo Savona ha sollecitato la Commissione ad aprire un dibattito sulla Politeia.
La questione dei debiti pubblici eccessivi, rimasta irrisolta ai tempi del Trattato di Maastricht, si è riproposta con la recente, pesantissima crisi. Non si risolve solo con l’austerità e con i sacrifici, se non si cambiano alcuni aspetti dell’architettura europea. Non è un problema solo dell’Italia, ma un pericolo per la tenuta della moneta unica e della stessa Unione: una nuova crisi sarebbe fatale.
Coloro che hanno a cuore la costruzione europea, e soprattutto la Germania che ha tratto immensi vantaggi dalla introduzione dell’euro, dovrebbero aprire gli occhi e provvedere. Prima che sia troppo tardi.

mercoledì 14 agosto 2019

Ponte Morandi. Un minuto di silenzio in attesa della prossima tragedia

Ben 43 persone uccise dal crollo del ponte. Decine di feriti, alcuni molto gravi. Centinaia di sfollati. Il quartiere di Certosa, un quartiere storicamente operaio, all’improvviso isolato dal resto della città, con pesanti conseguenze per migliaia di cittadini.
Tutti porteranno per tutta la vita i segni della tragedia.
C’è una Genova che non ha ancora elaborato il lutto e vive come una ferita sempre aperta la violenza subita dal crollo del Ponte Morandi, ma c’è anche una Genova che nonostante tutto è stata capace di reagire.
Quando è possibile, nessun genovese passa più da quella zona. Fa male vedere quel vuoto, quello squarcio.
C’è una Genova che si sente sopravvissuta, perché ognuno di noi sa che poteva essere sul ponte nel momento del crollo, ma si sente anche colpevole perché tante erano le voci di popolo che raccontavano le criticità del ponte,erano anni che venivano svolti lavori notturni, ma non è stato fatto abbastanza.
Come USB ha denunciato immediatamente, la tragedia non è frutto di un “destino cinico e baro”. Le responsabilità sono chiare ed hanno un nome: “il profitto”.
In seguito al processo saranno chiarite le responsabilità penali della Società Atlantia (famiglia Bentton), che gestisce quel ramo di autostrada e dello Stato che ne è il proprietario.
Milioni di euro di profitti per l’azienda e per lo Stato da quando la gestione è stata privatizzata ed assegnata ad Atlantia, a fronte di una risibile quota di investimenti, rispetto a quelli necessari, destinata ad una adeguata manutenzione.
E’ stato un anno segnato dal susseguirsi di decreti di emergenza in deroga a diritti, ambiente, salute, vita quotidiana.
Purtroppo però la tragedia non ha insegnato nulla. In questo anno molte tragedie nel nostro Paese sono legate all’incuria del territorio e delle infrastrutture. Altre purtroppo ci saranno. Cosa dire, ad esempio, della tragedia di 500 morti sul lavoro in questi primi otto mesi del 2019?
Si sta già costruendo il ponte nuovo, indispensabile alla città, ma la ricostruzione è stato trasformata in un evento mediatico, nella celebrazione di un’immagine di “efficienza”, finalizzata al tentativo di ridimensionare la tragedia. Un ponte che sarà costruito con i nostri soldi , ma a guadagnarci saranno sempre gli stessi.
E’ l’ennesima immane tragedia che non ha condotto ad alcun cambiamento da parte dello Stato nella gestione delle infrastrutture e del territorio. Prevale ancora il profitto rispetto alla vita delle persone.
Atlantia è ancora la concessionaria dell’autostrada nel tratto del Ponte Morandi.
Più volte abbiamo ribadito la necessità della nazionalizzazione di tutte le infrastrutture.
Si dice che la nuova struttura sarà intitolata a Fabrizio De Andrè, ma nutriamo forti dubbi sul fatto che se fosse in vita sarebbe d’accordo con questa scelta. In una sua famosa canzone cantava: “anche se voi vi credete assolti siete lo stesso coinvolti”.
USB -P.I. Funzioni locali della Liguria ribadisce la propria piena solidarietà alle famiglie dei morti, agli sfollati ed alla città tutta. Noi ci siamo e continueremo a lottare affinché non accadano più tragedie causate dall’incuria e dai tagli in nome del dio “pareggio di bilancio”.
Non c’è alternativa seria, non c’è minuto di silenzio credibile, se non si cambia il paradigma.
Spendere prima per non piangere dopo.
Non servono grandi opere, ma investimenti per la messa in sicurezza del territorio e di tutte le infrastrutture che sono state quasi tutte costruite negli anni 60.

giovedì 1 agosto 2019

L’asse franco-tedesco sul fronte militare-informatico

L’Europa ha avuto una storia complessa, attraversata da guerre con le quali ha ridisegnato continuamente i suoi confini, e le contese per lembi di terra hanno infiammato eserciti e popoli.
Non c’è secolo che non abbia contato le sue vittime, non c’è secolo che non abbia avuto narrazioni drammatiche dipanate tra morte e distruzione.
Anche il secolo attuale è attraversato da una guerra invisibile, quella finanziaria, ed è una guerra che, al pari di quelle tradizionali, conta i suoi morti, anche senza il fragore delle bombe, senza il sangue dei soldati, ma con il silenzio assordante della morte per povertà.
La guerra finanziaria è stata dichiarata contro tutti i poveri, senza distinzione, sia europei che non europei.
Uno dei personaggi che più di altri è responsabile per aver causato perdite umane tra i poveri, mantenendo intatte, ma anche aggravando le cause della povertà, è la francese Christine Lagarde quando era Direttrice Generale del Fondo Monetario Internazionale.
Quando fu accusata di aver adottato politiche criminali, fu memorabile la domanda retorica che lei pose pubblicamente a se stessa: “Allora io sarei il capo dei criminali?”.
Non ebbe risposte, ma solo un silenzio confermativo da parte degli astanti.
Negli anni successivi, in Grecia, giusto per citare un esempio particolarmente odioso, grazie alle ricette della Lagarde, si è registrato un incremento preoccupante della mortalità infantile quale effetto collaterale delle sue politiche di austerity imposte a quella nazione.
Questo secolo si è predisposto anche ad un altro tipo di guerra non convenzionale, la cyber war, la guerra cibernetica, che fa spostare l’aùttenzione sulla tedesca Ursula Von Der Leyen.
In Germania Ursula von der Leyen, quando era Ministro della Difesa, ha istituito nel Bundeswher, l’esercito tedesco, un comando informatico, già operativo dal 2017 ma che sarà a pieno regime nel 2021.
Il comando informatico, al pari della marina o dell’aeronautica, ha una struttura organizzativa indipendente, ed è diventata il sesto ramo dell’esercito tedesco.
Il comando informatico ha il compito prioritario di proteggere tutte le reti informatiche civili, industriali e militari della nazione, ma in realtà è addestrato per attacchi digitali con la finalità di sabotare i sistemi informatici, i computer, i sistemi di controllo, le reti di un’altra nazione con lo scopo di provocare danni significativi.
Dunque attacchi informatici offensivi che, nelle preoccupazioni espresse da molte forze politiche, dovrebbero richiedere il preventivo mandato del Bundestag, mentre invece sono forti i timori, non smentiti, che il comando informatico, presentato come necessaria unità difensiva dalla Von Der Leyen, presto si trasformerà in un’unità militare offensiva senza controlli, ad onta della protezione dei dati privati e, soprattutto, ad onta della democrazia.
Nel gennaio 2019 la Francia e la Germania, sottoscrivendo il Trattato di Aquisgrana, hanno consolidato la cooperazione tra le due nazioni, non soltanto sul piano economico, ma anche su quello militare, prevedendo una collaborazione diretta tra i rispettivi ministri.
L’asse franco-tedesco ha creato, di fatto, un’Europa a due velocità, con due sole nazioni capofila, mentre per le altre si alimenteranno le disuguaglianze interne, si favorirà la nascita di governi liberticidi, si determineranno condizioni di sfruttamento e povertà senza precedenti.
Il Trattato di Aquisgrana non è stato sottoscritto invano: la nomina della francese Christine Lagarde alla Presidenza della Banca Centrale Europea e l’elezione della tedesca Ursula Von Der Leyen alla Presidenza della Commissione europea, ne sono gli immediati effetti tangibili.
In tutto questo l’Italia resta avvitata tra la violenza delle istituzioni e la barbarie degli imbecilli al potere, incapaci di risollevare l’economia anche perché incapaci di opporsi ai diktat della Troika.
Sono solo capaci di fare la voce grossa con 50 naufraghi disidratati, ma di fronte agli ordini della Lagarde e della Von Der Leyen saranno pecore tosate, beleranno pavidi e prontamente sottomessi, affinché non ci si soffermi troppo sulla loro mediocrità.