giovedì 31 gennaio 2019

Conte soccorre Salvini sulla vicenda della “Diciotti”.

Il vertice di ieri sera a Palazzo Chigi tra il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e i due vicepremier, Luigi Di Maio e Matteo Salvini, non sembra aver sciolto i nodi sulle vicende incrociate della nave Sea Watch 3 e del deferimento di Salvini al Tribunale dei ministri sul caso Diciotti,
La “rognosità” delle due questioni sulla tenuta dell’alleanza di governo, era già emersa dall’esito di una precedente riunione tra Di Maio e i senatori M5s sulla linea da tenere riguardo all’autorizzazione a procedere nei confronti del ministro dell’Interno. Salvini in una lettera pubblicata dal ‘Corriere della Sera’ aveva scritto che l’autorizzazione contro di lui “va negata” perchè la gestione della Diciotti ha riguardato l’”interesse pubblico”. Una mossa che ha aperto un grosso problema tra i M5S visto che, come ha ricordato Alessandro Di Battista, “è complicato per il M5s votare contro l’autorizzazione a procedere perchè non lo abbiamo mai fatto”. A cercare di parare le terga a Salvini è intervenuto Conte affermando che il caso della Diciotti è una sua responsabilità. “Io – ha detto Conte – sono la massima autorità di governo e quindi sono responsabile di questa politica, mi devo assumere la piena responsabilità politica di quello che è stato fatto e in particolare sulla Diciotti”.
La richiesta presentata dai magistrati nei confronti di Salvini è relativa a quanto accaduto la scorsa estate alla nave della Marina militare italiana “Diciotti” con dei naufraghi a bordo alla quale Salvini per giorni e giorni vietò l’attracco in un porto “italiano”. I Cinque Stelle affermano che intendono “studiare le carte”, e che non c’è nulla di già deciso.
Dal vertice di Palazzo Chigi, non è ancora uscita alcuna nota dopo oltre un’ora di confronto tra Conte, Di Maio e Salvini.
Sul piatto pesa anche la disponibilità manifestata da Conte al termine degli incontri a Cipro, di 5 paesi (Germania, Romania, Francia, Portogallo e Malta) che si sono detti disponibili ad accogliere i migranti a bordo della Sea Watch 3. Anche in questo scenario però i profughi a bordo della nave verrebbero fatti sbarcare in territorio italiano, una ipotesi che vede Salvini tirare calci, soprattutto dopo la mossa politica del premier di dichiararsi “responsabile” per il caso Diciotti.
Sulla emergenza della Sea Watch si registra una pilatesca posizione della Corte Europea dei diritti umani ha infatti chiesto al governo italiano di “prendere tutte le misure necessarie”, il “più rapidamente possibile”, per portare ai migranti a bordo della Sea-Watch 3 assistenza medica, acqua e cibo, ma non ha chiesto invece di farli sbarcare. L’ong tedesca Sea-Watch aveva annunciato di essersi rivolta alla Corte Europea contro l’Italia dopo il rifiuto di accogliere 47 migranti soccorsi nel Mediterraneo dieci giorni fa dalla nave, che incrocia attualmente al largo delle coste della Sicilia.
Insomma si discute e si rimpallano responsabilità ma decine di persone in carne ed ossa sono ancora in mezzo al mare.

mercoledì 30 gennaio 2019

La tesi di sinistra contro i confini aperti

Prima del “Costruite il muro!”, c’era il “Butti giù questo muro!”. Nel suo famoso discorso del 1987, Ronald Regan chiese che la “cicatrice” del Muro di Berlino fosse cancellata e ribadì che l’oltraggiosa restrizione alla circolazione che esso rappresentava equivaleva niente di meno che a una “questione di libertà per tutto il genere umano”. Continuò dicendo che quelli che “rifiutavano di unirsi alla comunità della libertà” sarebbero “stati superati” come risultato dell’irresistibile forza del mercato globale. E così fu. Per celebrare, Leonard Bernstein ha diretto una rappresentazione dell'”Inno alla gioia” e Roger Waters si è esibito in “The Wall”. Le barriere alla mobilità del lavoro e dei capitali crollarono in tutto il mondo; fu dichiarata la fine della storia; e seguirono decenni di globalizzazione dominata dagli Stati Uniti.

Nei suoi 29 anni di esistenza, circa 140 persone sono morte cercando di superare il Muro di Berlino. Nel mondo promesso della libertà e della prosperità economiche globali, sono morte 412 persone soltanto l’anno scorso nel tentativo di attraversare il confine tra Messico e Stati Uniti, e più di tremila sono morte l’anno prima nel Mediterraneo. Delle canzoni pop e dei film di Hollywood sulla libertà non c’è traccia. Cosa è andato storto?

Naturalmente, il progetto reaganiano non si concluse col crollo dell’Unione Sovietica. Reagan – e i suoi successori di entrambi i partiti – ha usato la stessa retorica trionfalistica per vendere lo svuotamento dei sindacati, la liberalizzazione delle banche, l’espansione delle esternalizzazioni, e la globalizzazione dei mercati lontano dal peso morto degli interessi economici nazionali.

Per questo progetto è stato centrale l’attacco neoliberale alle barriere nazionali alla circolazione della forza lavoro e dei capitali. In casa, Reagan sovrintese a una delle più significative riforme a favore dell’immigrazione nella storia americana, il “Reagan Amnesty” del 1986, che ampliò il mercato del lavoro permettendo a milioni di migranti illegali di ottenere uno status legale.

Inizialmente, i movimenti popolari che lottavano contro differenti elementi di questa visione post-Guerra Fredda insorsero da sinistra, nella forma di movimenti anti-globalizzazione e successivamente di Occupy Wall Street. Ma, mancando del potere negoziale per sfidare il capitale internazionale, questi movimenti di protesta non si risolsero in nulla. Il sistema economico globalizzato e finanziarizzato ha tenuto nonostante tutte le devastazioni che ha provocato, anche durante la crisi finanziaria del 2008.

Oggi, il movimento anti-globalizzazione di gran lunga più visibile ha preso la forma di una forte reazione contro i migranti, guidata da Donald Trump e altri “populisti”. La sinistra, nel frattempo, non sembra avere altre opzioni che ritrarsi inorridita dal “Muslim ban” di Trump e dalle nuove storie sull’ICE che bracca le famiglie di migranti; può soltanto reagire contro qualsiasi cosa Trump stia facendo. Se Trump è a favore dei controlli sull’immigrazione, la sinistra chiederà l’opposto. E così oggi i discorsi sui “confini aperti” sono entrati nel dibattito liberale mainstream, quando una volta erano confinati ai think tank radicali del libero mercato e ai circoli anarco-libertari.

Anche se nessun importante partito politico di sinistra sta offrendo proposte concrete per una società realmente senza confini, accogliendo gli argomenti morali della sinistra open-border e gli argomenti economici dei think tank del libero mercato, la sinistra si è messa all’angolo. Se “nessun essere umano è illegale!”, come affermano i canti di protesta, la sinistra sta implicitamente accettando la tesi morale a favore di nessuna frontiera o sovranità nazionale. Ma quali implicazioni avrà l’immigrazione illimitata su progetti come la sanità e l’educazione pubbliche universali, o la garanzia dei lavori federali? E come potranno i progressisti spiegare questi obiettivi in modo convincente all’opinione pubblica?

Durante la campagna delle primarie democratiche del 2016, quando il redattore di Vox Ezra Klein suggerì le politiche open border a Bernie Sanders, il senatore com’è noto dimostrò la sua età rispondendo: “Confini aperti? No. Quella è una proposta dei fratelli Koch” [1]. Questo per un attimo portò confusione nella narrazione ufficiale, e Sanders fu velocemente accusato di “parlare come Donald Trump”. Sotto le differenze generazionali rivelate da questo scambio, in ogni caso, c’è un tema più grande. La distruzione e l’abbandono delle politiche del lavoro implicano che, al momento, i temi dell’immigrazione possano essere messi in scena soltanto all’interno della cornice di una cultura di guerra, combattuta interamente sul terreno morale. Nelle intense emozioni del dibattito pubblico americano sulla migrazione, prevale una semplice dicotomia morale e politica. È “di destra” essere “contro l’immigrazione” e “di sinistra” essere “a favore dell’immigrazione”. Ma l’economia della migrazione racconta una storia diversa.

GLI UTILI IDIOTI

La trasformazione della posizione open border in una posizione di “sinistra” è un fenomeno del tutto nuovo ed è in contrasto con la storia della sinistra organizzata in diversi modi fondamentali. I confini aperti sono da lungo tempo un grido di battaglia per la destra degli affari e del libero mercato. Attingendo da economisti neoclassici, questi gruppi hanno sostenuto la liberalizzazione della migrazione sulla base della razionalità del mercato e della libertà economica. Si oppongono ai limiti alla migrazione per le stesse ragioni per cui si oppongono alle restrizioni sui movimenti di capitali. Il Cato Institute, finanziato dai Koch, che promuove anche l’abolizione delle restrizioni legali sul lavoro minorile, ha prodotto una difesa radicale delle frontiere aperte per decenni, sostenendo che il sostegno alle frontiere aperte è un principio fondamentale del libertarismo e “Dimenticate il muro, è già tempo che gli Stati Uniti abbiano confini aperti” [2]. L’Adam Smith Institute ha fatto lo stesso, sostenendo che “le restrizioni all’immigrazione ci rendono più poveri” [3].

Seguendo Reagan e figure come Milton Friedman, George W. Bush ha sostenuto la liberalizzazione della migrazione prima, durante e dopo la sua presidenza. Grover Norquist, zelante difensore dei tagli fiscali di Trump (e di Bush e di Reagan), per anni si è scagliato contro l’intolleranza dei sindacati, ricordandoci che “l’ostilità verso l’immigrazione è stata tradizionalmente una causa sindacale” [4].

Non ha torto. Dalla prima legge che limitava l’immigrazione nel 1882 a Cesar Chavez e ai famosi lavoratori multietnici della United Farm che protestavano contro l’uso e l’incoraggiamento, da parte dei datori di lavoro, dell’emigrazione illegale nel 1969, i sindacati si sono spesso opposti alla migrazione di massa. Videro l’importazione deliberata di lavoratori illegali a basso salario come un indebolimento del potere contrattuale della forza lavoro e come forma di sfruttamento. Non c’è modo di aggirare il fatto che il potere dei sindacati dipende per definizione dalla loro capacità di limitare e ritirare l’offerta di lavoro, cosa che diventa impossibile se un’intera forza lavoro può essere sostituita facilmente ed economicamente. Le frontiere aperte e l’immigrazione di massa sono una vittoria per i padroni.

E i padroni la supportano quasi universalmente. Il think tank e organizzazione di lobbying di Mark Zuckerberg, Forward, che promuove la liberalizzazione delle politiche migratorie, elenca tra i suoi “fondatori e finanziatori” Eric Schmidt e Bill Gates, nonché amministratori delegati e dirigenti di YouTube, Dropbox, Airbnb, Netflix, Groupon, Walmart , Yahoo, Lyft, Instagram e molti altri. La ricchezza personale cumulata rappresentata da questa lista è sufficiente a influenzare pesantemente la maggior parte delle istituzioni di governo e dei parlamenti, se non a comprarli del tutto. Sebbene spesso celebrati dai progressisti, le motivazioni di questi miliardari “liberali” sono chiare. Non dovrebbe sorprendere la loro generosità verso i repubblicani dogmaticamente schierati contro il lavoro, come Jeff Flake della famosa “Gang of Eight“.

Certo, l’opposizione sindacale alla migrazione di massa nelle epoche precedenti è stata a volte mescolata con il razzismo (che era presente in tutta la società americana). Ciò che viene omesso nei tentativi dei libertari di diffamare i sindacati come “i veri razzisti”, tuttavia, è che ai tempi dei sindacati forti, questi erano in grado di usare il loro potere anche per organizzare campagne di solidarietà internazionale con i movimenti dei lavoratori in tutto il mondo. I sindacati hanno aumentato i salari di milioni di membri non bianchi, mentre oggi si stima che la de-sindacalizzazione costi ai maschi neri americani 50 dollari a settimana [5].

Durante la rivoluzione neoliberale di Reagan, il potere sindacale subì un duro colpo dal quale non si è mai più ripreso e i salari sono rimasti fermi per decenni. Sotto questa pressione, la sinistra stessa ha subito una trasformazione. In assenza di un potente movimento operaio, è rimasta radicale nella sfera della cultura e della libertà individuale, ma può offrire poco più di proteste inoffensive e appelli al noblesse oblige nella sfera dell’economia.

Con le immagini oscene di migranti a basso reddito che vengono braccati come criminali dall’ICE, di altri che affogano nel Mediterraneo, e la preoccupante crescita del sentimento anti-immigrazione in tutto il mondo, è facile capire perché la sinistra vuole impedire che i migranti illegali diventino bersagli e vittime. E con ragione. Ma agendo sulla base del giusto impulso morale a difendere la dignità umana dei migranti, la sinistra ha finito per trascinare la linea del fronte troppo indietro, difendendo efficacemente lo stesso sistema di sfruttamento della migrazione.

I benintenzionati attivisti di oggi sono diventati gli utili idioti del grande business. Adottando la difesa dei “confini aperti” – e un feroce assolutismo morale che considera ogni limite alla migrazione come un male indicibile – qualsiasi critica al sistema di sfruttamento delle migrazioni di massa viene effettivamente respinta come bestemmia. Persino politici saldamente di sinistra, come Bernie Sanders negli Stati Uniti e Jeremy Corbyn nel Regno Unito, sono accusati di “nativismo” dai critici se riconoscono a un certo punto la legittimità delle frontiere o delle restrizioni sulla migrazione. Questa radicalismo delle frontiere aperte in definitiva giova alle élite dei paesi più potenti del mondo, indebolisce ulteriormente il lavoro organizzato, deruba il mondo in via di sviluppo di professionisti di cui ha disperato bisogno e mette i lavoratori contro i lavoratori.

Ma la sinistra non ha bisogno di credermi sulla parola. Basta chiedere a Karl Marx, la cui posizione sull’immigrazione lo farebbe bandire dalla sinistra moderna. Anche se la velocità e le dimensioni attuali dei fenomeni di migrazione sarebbero stati impensabili ai tempi di Marx, egli espresse una visione estremamente critica degli effetti della migrazione che si verificò nel diciannovesimo secolo. In una lettera a due dei suoi compagni di viaggio americani, Marx sosteneva che l’importazione di immigrati irlandesi poco pagati in Inghilterra li costringeva a una concorrenza ostile con i lavoratori inglesi. Lo vedeva come parte di un sistema di sfruttamento, che divideva la classe operaia e che rappresentava un’estensione del sistema coloniale. Scrisse:

A causa della concentrazione sempre crescente delle locazioni, l’Irlanda invia costantemente il proprio surplus umano al mercato del lavoro inglese, e quindi fa scendere i salari e riduce la posizione materiale e morale della classe operaia inglese.

E la cosa più importante di tutte! Ogni centro industriale e commerciale in Inghilterra ora possiede una classe operaia divisa in due campi ostili, proletari inglesi e proletari irlandesi. Il comune lavoratore inglese odia il lavoratore irlandese come un concorrente che abbassa il suo tenore di vita. Rispetto all’operaio irlandese, si considera membro della nazione dominante e conseguentemente diventa uno strumento dell’aristocrazia e dei capitalisti inglesi contro l’Irlanda, rafforzando così il loro dominio su se stesso. Ama i pregiudizi religiosi, sociali e nazionali contro il lavoratore irlandese. Il suo atteggiamento nei suoi confronti è molto simile a quello dei “bianchi poveri” verso i negri negli ex stati schiavisti degli Stati Uniti. L’irlandese lo ripaga con gli interessi nella propria moneta. Vede nell’operaio inglese sia il complice che lo stupido strumento dei governanti inglesi in Irlanda.

Questo antagonismo è artificialmente tenuto in vita e intensificato dalla stampa, dal pulpito, dai fumetti, in breve, da tutti i mezzi a disposizione delle classi dominanti. Questo antagonismo è il segreto dell’impotenza della classe operaia inglese, nonostante la sua organizzazione. È il segreto con cui la classe capitalista mantiene il suo potere. E quest’ultima è abbastanza consapevole di questo [6].

Marx continuava dicendo che la priorità per l’organizzazione dei lavoratori in Inghilterra era “far capire agli inglesi che per loro l’emancipazione nazionale dell’Irlanda non è una questione di giustizia astratta o di sentimento umanitario, ma la prima condizione della loro emancipazione sociale”. Qui Marx ha indicato la strada per un approccio che oggi difficilmente si trova. L’importazione di manodopera sottopagata è uno strumento di oppressione che divide i lavoratori e beneficia chi ha il potere. La risposta adeguata, quindi, non è un moralismo astratto sull’accoglienza di tutti i migranti come un atto immaginario di carità, ma piuttosto affrontare le cause profonde della migrazione nel rapporto tra le economie grandi e potenti e le economie più piccole o in via di sviluppo da cui le persone migrano.

IL COSTO UMANO DELLA GLOBALIZZAZIONE

I sostenitori delle frontiere aperte spesso trascurano i costi della migrazione di massa per i paesi in via di sviluppo. In effetti, la globalizzazione crea spesso un circolo vizioso: le politiche commerciali liberalizzate distruggono l’economia di una regione, che a sua volta porta all’emigrazione di massa da quella zona, erodendo ulteriormente il potenziale del paese di origine e deprimendo i salari per i lavoratori meno pagati nel paese di destinazione. Una delle principali cause della migrazione di manodopera dal Messico agli Stati Uniti è stata la devastazione economica e sociale causata dall’Accordo Nord Americano di Libero Scambio (NAFTA). Il Nafta costrinse gli agricoltori messicani a competere con l’agricoltura americana, con conseguenze disastrose per il Messico. Le importazioni messicane sono raddoppiate e il Messico ha perso migliaia di allevamenti di suini e coltivatori di mais a favore della concorrenza statunitense. Quando i prezzi del caffè sono scesi al di sotto del costo di produzione, il Nafta ha proibito l’intervento statale per mantenere a galla i coltivatori. Inoltre, alle società statunitensi è stato permesso di acquistare infrastrutture in Messico, tra cui, ad esempio, la principale linea ferroviaria nord-sud del paese. La ferrovia quindi interruppe il servizio passeggeri, determinando la decimazione della forza lavoro ferroviaria dopo aver schiacciato uno sciopero selvaggio. Nel 2002, i salari messicani erano diminuiti del 22%, anche se la produttività degli operai aumentava del 45% [7]. In regioni come Oaxaca, l’emigrazione devastò le economie e le comunità locali, mentre gli uomini emigrarono per lavorare nelle fattorie e nei macelli dell’America, lasciandosi alle spalle donne, bambini e anziani.

E che dire della consistente forza lavoro qualificata e dei colletti bianchi emigrati? Nonostante la retorica sui “paesi cesso” o sulle nazioni “che non mandano i migliori”, il prezzo della fuga di cervelli per le economie in via di sviluppo è stato enorme. Secondo le cifre del Census Bureau per il 2017, circa il 45% dei migranti che sono arrivati ​​negli Stati Uniti dal 2010 ha un’istruzione superiore [8]. I paesi in via di sviluppo stanno lottando per far restare i propri cittadini qualificati e i professionisti, spesso istruiti con un costo elevato per le finanze pubbliche, perché economie più ricche e più grandi che dominano il mercato globale hanno la ricchezza per prenderli. Oggi il Messico è anche uno dei maggiori esportatori al mondo di professionisti istruiti, e la sua economia soffre di un persistente “deficit di occupazione qualificata”. Questa ingiustizia nello sviluppo non è certamente limitata al Messico. Secondo la rivista Foreign Policy, “ci sono più medici etiopi che praticano a Chicago oggi che in tutta l’Etiopia, un paese di 80 milioni di persone” [9]. Non è difficile capire perché le élite politiche ed economiche dei paesi più ricchi del mondo vorrebbero che il mondo “mandasse il suo meglio”, indipendentemente dalle conseguenze per il resto del mondo. Ma perché la sinistra moralista a favore dei confini aperti fornisce un volto umanitario a questo puro e semplice egoismo?

Secondo le migliori analisi dei flussi di capitali e della ricchezza globale di oggi, la globalizzazione sta arricchendo le persone più ricche dei paesi più ricchi a spese dei più poveri, e non viceversa. Alcuni lo hanno chiamato “aiuti al rovescio”. Miliardi di pagamenti di interessi sul debito passano dall’Africa alle grandi banche di Londra e New York. La grande ricchezza privata viene generata ogni anno in industrie estrattive di materie prime e attraverso l’arbitraggio del lavoro, e rimpatriata verso le nazioni ricche in cui sono basate le multinazionali. Fughe di capitali di trilioni di dollari si verificano perché le multinazionali approfittano dei paradisi fiscali e delle giurisdizioni segrete, rese possibili dalla liberalizzazione per mano dell’Organizzazione Mondiale del Commercio dei regolamenti sulla fatturazione “inefficienti per il commercio” e di altra politiche [10].

La disuguaglianza della ricchezza globale è il principale fattore di spinta che guida la migrazione di massa e la globalizzazione del capitale non può essere separata da questa materia. C’è anche l’effetto di richiamo dei datori di lavoro sfruttatori negli Stati Uniti, che cercano di trarre profitto da lavoratori non sindacalizzati e con salari bassi in settori come l’agricoltura, nonché attraverso l’importazione di una grande forza lavoro impiegatizia già addestrata in altri paesi. Il risultato netto è una popolazione stimata di undici milioni di persone che vivono illegalmente negli Stati Uniti.

martedì 29 gennaio 2019

La grande emorragia della Grecia

Il governo greco, formato dalla coalizione tra un movimento di sinistra radicale e un partito nazionalista di destra, al potere dal 2015, lo scorso agosto ha festeggiato la fine del terzo accordo di salvataggio per il Paese come un “ritorno alla normalità”. I nostri partner dell’Unione Europea e i creditori, che hanno sborsato 288,7 miliardi di euro di prestiti durante gli scorsi anni, si sono affrettati a cantare vittoria rispetto alla crisi iniziata nel 2010.

Tutti vogliono vedere la fine della crisi greca, non ultimo il popolo greco, esausto dalla lunga e grave depressione, dalla continua austerità e da riforme di cui non hanno visto i benefici.

Ma la Grecia è ben lontana dalla “normalità”. Molto è stato fatto per rendere l’economia sostenibile, ma il Paese ha bisogno di un nuovo boom di fiducia e di attività imprenditoriale. La ripresa ha bisogno di importanti investimenti, di stabilità politica e di ulteriori riforme della pubblica amministrazione. Nel frattempo però non solo il debito pubblico è aumentato rispetto al 2009, ma anche i redditi dei cittadini sono crollati, i loro beni si sono svalutati, le proprietà sono andate perdute e i debiti moltiplicati.

Le elezioni nazionali si dovranno tenere entro l’autunno. I sondaggi mostrano che il partito di opposizione Nuova Democrazia, di centro-destra, è in vantaggio su Syriza, il principale partito della coalizione di governo, in una contesa che sta già facendo peggiorare la polarizzazione della nostra politica [ovvero della politica greca, ndT]. Il governo, che si è sempre trovato in una posizione di disagio a causa dell’austerità e delle riforme, ha promesso di elargire aiuti. L’opposizione promette invece di rovesciare le politiche e le decisioni sulle quali non è d’accordo.

In una drammatica manifestazione di sfiducia, più di 700.000 persone hanno lasciato la Grecia dal 2010 a oggi, in cerca di opportunità all’estero. Il numero delle morti supera il numero delle nascite, dato che le persone hanno meno figli o non hanno più il coraggio di averne del tutto. Recenti ricerche suggeriscono che se i tassi attuali rimanessero costanti, la popolazione greca, che contava 10,9 milioni di persone nel 2015, diminuirebbe di un numero tra 800.000 e 2,5 milioni di unità entro il 2050. La forza lavoro è attualmente di 4,7 milioni di persone. Una minore popolazione in età lavorativa dovrà sostenere un numero crescente di pensionati, e con la minore crescita e il minore gettito fiscale si dovrebbero coprire i costi crescenti della previdenza sociale.

La crisi ha colpito le imprese. Una diminuzione della domanda interna, condizioni di credito più restrittive, controlli sui capitali, incertezza politica e delocalizzazione all’estero hanno portato le piccole e medie imprese a dimezzare la propria produzione. Queste aziende sono la linfa vitale dell’economia, generano un quarto del PIL e rappresentano il 76 percento dell’occupazione nel paese.

Con un timido ritorno alla crescita nel 2017 le aziende hanno cominciato a recuperare. Nei primi sei mesi del 2018 le 153 aziende quotate in borsa all’Athens Stock Exchange riportavano profitti (al lordo delle tasse) per 957 milioni di euro, secondo quanto riportato dall’ICAP. Se messe a confronto con il debito pubblico, però, questo dato indica solo la grandezza della sfida che i greci dovranno affrontare nei prossimi anni.

Nel 2009 il debito pubblico raggiungeva i 299,7 miliardi di euro, ovvero il 130 percento del PIL. Da allora la Grecia ha preso in prestito 288,7 miliardi di euro dagli stati membri e dalle istituzioni dell’Unione Europea, nonché dal Fondo Monetario Internazionale. Poi nel 2012 c’è stata una ristrutturazione del debito di 107 miliardi di euro. Nonostante ciò, nel 2018 il debito pubblico era a 357,25 miliardi di euro, cioè un valore più elevato di quello che già la Grecia era incapace di sostenere prima della crisi.

Alcuni indicatori suggeriscono che la Grecia sia sulla giusta strada. La disoccupazione è scesa al 18,3 percento rispetto al picco massimo del 27,9 percento del 2013. Nel 2018 si è stimato che il surplus primario abbia superato gli obiettivi imposti dai creditori per il terzo anno di fila. Ma questo si è potuto ottenere a un costo elevato: il ritardo dei pagamenti dello Stato verso privati e aziende, nonché ulteriori tagli alla spesa sociale, agli ospedali e ad altri servizi.

La stretta proseguirà ancora per decenni, con la Grecia impegnata a raggiungere un surplus annuale del 3,5 per cento fino al 2022, e ad essere ancora sotto stretta supervisione finché non avrà ripagato tutti i prestiti nel 2060, secondo gli impegni presi. Il problema è complicato dall’enorme aumento del debito privato. Quasi metà dei prestiti totali che devono essere restituiti alle quattro maggiori banche del Paese, per un totale di circa 86 miliardi di euro, sono inesigibili o quasi. Questo impedisce alle banche stesse di iniettare liquidità nell’economia. Le aziende che tentano di prendere a prestito capitale dall’estero si trovano ad affrontare elevati tassi di interesse.

Circa 4,2 milioni di persone hanno debiti in arretrato da restituire allo Stato, con debiti fiscali di circa 103 miliardi di euro. Le autorità hanno già confiscato salari, pensioni e beni privati a oltre un milione di persone. I debiti scaduti verso i fondi di sicurezza sociale ammontano attualmente a 34,4 miliardi di euro.

Con tasse più che mai elevate e quasi metà dei nuovi posti di lavoro che consistono in part-time sottopagati o lavoro a turni, questi debiti non potranno che aumentare. Sempre più persone vengono classificate come a rischio di povertà o esclusione sociale (nel 2017 era il 34,8 percento della popolazione) rispetto a prima della crisi (27,7 percento).

I poveri sono diventati più poveri e la classe media è in grave difficoltà, schiacciata da un fardello crescente. Le tasse sulle proprietà sono aumentate, arrivando a 3,7 miliardi di euro nel 2017 rispetto ai circa 600 milioni di prima della crisi. Il 19 per cento dei contribuenti apporta circa il 90 per cento del gettito fiscale, secondo quanto ammesso dal primo ministro Alexis Tsipras. Il diminuito valore delle proprietà riflette l’aumento delle tasse e la diminuzione delle rendite. Gli appartamenti hanno perso in media il 41 per cento del loro valore tra il 2007 e il 2017, secondo la Banca Centrale Greca.

La necessità di pagare le tasse e di adempiere ad altri obblighi finanziari ha portato a un crollo dei depositi privati presso le banche greche: sono arrivati a 131,4 miliardi di euro lo scorso novembre, rispetto ai 237,8 miliardi del 2009. Molte persone sono state costrette a vendere i gioielli di famiglia e altri valori per sopravvivere. Le agenzie di pegni e i “compro oro” hanno aumentato enormemente il loro giro di affari nel Paese, fondendo gioielleria e altri oggetti in lingotti d’oro.

La polizia ha recentemente arrestato parecchie persone sospettate di trafficare oro verso la Turchia. Il giro d’affari giornaliero valeva una media di 400.000 euro al giorno, ovvero l’equivalente di circa 11 chili di oro al giorno. Si è poi scoperto che i trafficanti non avevano i permessi di esportazione verso la Turchia. L’indagine, però, ha gettato luce anche su aspetti più personali e meno visibili della crisi.

Ma l’ambito nel quale si vede più nettamente la gravità dell’emorragia della Grecia è l’abbandono del Paese da parte dei giovani. La Grecia in passato ha già visto emigrazioni di massa, quando la povertà, la guerra, la dittatura e la mancanza di prospettive hanno spinto le persone, soprattutto quelle meno qualificate, a cercare fortuna in America, Australia, Africa, o altrove in Europa. Questa volta, però, la maggior parte di quelli che partono privano il Paese delle proprie elevate competenze e, con esse, degli stessi investimenti nazionali. Il 92 per cento di coloro che emigrano sono laureati presso università o alte scuole tecniche, e il 64 per cento del totale ha titoli di studio post-laurea, come il dottorato, secondo un sondaggio della ICAP su 1.068 greci emigrati in 61 paesi. Circa 18.000 medici hanno lasciato il Paese nel corso della crisi: ciascuno di loro è costato alla Grecia, in termini di formazione, 85.000 euro, secondo l’Associazione Medica di Atene.

Il paradosso è che la Grecia forma professionisti a costi molto elevati, ma poi non può offrire loro alcuna stabilità o opportunità, di cui hanno bisogno per trovare occupazione. Questo porta beneficio solo ai paesi che accolgono gli emigranti greci, e danneggia la crescita della Grecia stessa, dove le aziende non riescono a trovare impiegati con le competenze necessarie. Inoltre, quando i giovani si trovano a lungo fuori dalla forza lavoro non acquisiscono nessuna esperienza dai più anziani, e questo porta a un’ulteriore distruzione di competenze e a una minore produttività.

In maggio le elezioni nell’Unione Europea non determineranno solo l’appartenenza al Parlamento Europea, ma anche chi dovrà guidare il suo corpo esecutivo, la Commissione Europea. Inoltre, verrà scelto un nuovo presidente della Banca Centrale Europea.

In un mondo sempre più instabile, nessuno vuole che la crisi greca sia ancora al centro dei programmi politici. Ma la crisi del Paese è lungi dall’essere finita. La ripresa dipenderà dagli sforzi degli stessi greci e dal sostegno di un’Unione Europea determinata a funzionare anziché a cedere alle divisioni. Quest’anno si vedrà verso quale direzione la Grecia e l’Unione Europea nel suo insieme vorranno andare.

lunedì 28 gennaio 2019

Corte europea dei diritti umani: «L'Italia non ha protetto i cittadini dall'inquinamento dell'Ilva

La Corte europea ha censurato i decreti Salva-Ilva che avevano garantito  l’immunità penale (e la garantiscono tuttora ad ArcelorMittal, non essendo stati abrogati dall’esecutivo) e ha affermato che le misure per assicurare la protezione della salute e dell’ambiente devono essere messe in atto il più rapidamente possibile. Per i 7 giudici europei, che hanno deciso all’unanimità, le autorità italiane hanno violato gli articoli 8  e 13 della Convenzione europea sui diritti umani.
La sentenza sottolinea che la popolazione «resta, anche oggi, senza informazioni sulle operazioni di bonifica del territorio» e che i cittadini non hanno avuto modo di ricorrere davanti a un giudice italiano contro l’impossibilità di ottenere misure anti-inquinamento, violando quindi il loro diritto a un ricorso effettivo. I giudici hanno europeo hanno però rigettato la richiesta di fermare l’attività del complesso siderurgico.
Ora l'esecutivo potrà scegliere se presentare ricorso alla Grande Camera o conformarsi a quando richiesto dai giudici, ovvero cancellare l’immunità penale e rivedere i tempi di allineamento all'Autorizzazione integrata ambientale.

La soddisfazione di Peacelink

PeaceLink ha espresso immensa soddisfazione per la vittoria storica in sede internazionale, come spiegano Fulvia Gravame, presidente di Peaclink Taranto, e Alessandro Marescotti, presidente nazionale dell'associazione che da anni combatte sulla vicenda dell'Ilva.
«Per la prima volta un autorevole tribunale internazionale riconosce la responsabilità delle istituzioni italiane nella mancata tutela dei diritti umani - dicono - La pronunica della Corte Europea dei Diritti Umani (CEDU) con sede a Starburgo è un passo fondamentale anche per rimuovere le condotte politico-istituzionali lesive dei diritti dei cittadini, condotte che hanno consentito il perpetuarsi di un evidente inquinamento che ha violato i fondamentali diritti umani, primo fra tutti il diritto alla vita. In tal senso le leggi Salva-Ilva sono state il prodotto eclatante di queste condotte lesive dei diritti fondamentali dei cittadini».
«Secondo i giudici di Strasburgo l’Italia è colpevole della “persistenza di una situazione di inquinamento ambientale”, che mette a rischio la salute di quanti vivono nell’area circostante l’impianto industriale - aggiungono Gravame e Marescotti - Per la CEDU le istituzioni “non hanno adottato tutte le misure necessarie per garantire una protezione efficace” della popolazione. Secondo la stessa Corte, esposti e denunce presso le autorità nazionali non hanno avuto esito efficace e in questo senso va considerato che ben 42 esposti alla Procura attualmente giacciono nei cassetti per via dell'immunità penale concessa ai commissari e ai gestori. Pertanto la sentenza della Corte di Strasburgo di oggi è il punto di partenza per anche chiedere la cancellazione dell'immunità penale. Attendiamo il ricorso alla Corte Costituzionale da parte dei magistrati competenti».

venerdì 25 gennaio 2019

La Cgil, sul Venezuela, gioca con la parole

Qualcuno, nella Cgil, si doveva essere illuso che la nomina di Maurizio Landini a segretario generale significasse davvero una “svolta a sinistra” per quel che resta ancora “il più grande sindacato italiano”. Illusione durata poche ore…
La vicenda del doppio tweet sul Venezuela sarebbe solo grottesca se non rivelasse, invece, qualcosa di più profondo e serio: l’inconsistenza assoluta del concetto di “sinistra” nell’attuale panorama politico italiano.
Ieri mattina – 24 gennaio – mentre il Congresso va cercando la “quadra” sulla composizione della segreteria confederale (spartendo gli incarichi tra i sostenitori del neosegretario e quelli dell’ex avversario ora vice, Colla), alle 13.36 parte un tweet di aperta condanna delle “ingerenze esterne” negli affari del Venezuela: “Il Congresso Cgil, secondo i propri principi di libertà , democrazia e solidarietà, approva una mozione di condanna verso l’autoproclamazione di Juan Guaidò a presidente e le ingerenze esterne verso la presidenza democraticamente eletta di Maduro”.
Momenti di incertezza, stupore e – per moltissimi – anche di sollievo. Che una forza sindacale di quella storia e dimensioni mantenga un briciolo di memoria sulle questioni internazionali sarebbe comunque un buon segnale, nella devastata “cultura politica” di questo paese.
Tanto più che il giorno prima, a Treviso, la locale sezione dei pensionati Spi-Cgil aveva invece promosso un presidio pro-golpisti; andato deserto, ma finito al centro della comunicazione social. Insomma, su una cosa su cui è davvero difficile restare neutrali come un tentativo di golpe, quel tweet sembrava porre la parola fine alla domanda: “da che parte sta la Cgil?
Per chi nutre meno illusioni sull’autoproclamato mondo della “sinistra” italica, invece, quel doppio messaggio indicava che nel corpaccione Cgil ognuno – renziani, bersaniani, dalemiani, martiniani, zingarettiani, comunisti rimasti lì per ragioni ormai incomprensibili, ecc – stava andando per la sua strada. Restituendo così l’immagine di un sindacato privo di identità e direzione.
Caos – ed equivoci – durato poche ore. Alle 17.37 un secondo tweet definiva un “errore” quello di quattro ore prima, sintetizzando il testo integrale della mozione con le parole: “Nessun sostegno a Maduro, né alle ingerenze esterne”.
Non è difficile capire cos’è accaduto in quelle quattro ore. La differenza di posizionamento tra golpisti filomericani e non si è consumata a colpi di giochi di parole per trovare la formula che mettesse tutti d’accordo. Una classica posizione “né, né” che può andar bene per problemi che, in fondo, non ci riguardano… Che non sono, come si usa dire, “divisivi”.
Il problema è che quel che accade in Venezuela, per come accade e per i protagonisti – da un lato un governo democraticamente eletto lo scorso 20 maggio, sotto il controllo di numerosi organismi internazionali (tra cui l’istituto statunitense dell’ex presidente Jimmy Carter), dall’altra una potenza imperiale che ha deciso di riprendersi il “cortile di casa” latinoamericano a colpi di golpe, a volte giudiziari (Paraguay, Brasile, Argentina), altre militari (Honduras) – è un fatto che riguarda tutti. E divide il bene dal male, il giusto dall’ingiusto, l’aggredito dall’aggressore.
E infine perché bisogna pur sapere se il “gioco democratico” è reale – e quindi ogni popolo può eleggere il governo che più gli aggrada, per fare le politiche che preferisce – oppure serve solo a coprire le scelte insindacabili della potenza che controlla una determinata area. Un interrogativo che vale in modo hard per l’America Latina, e in modo più soft per l’Europa (i “trattati” della Ue determinano al millimetro i margini di manovra dei governi nazionali), ma a cui va data una risposta chiara. E soprattutto vera.
La Cgil ha agito, su questo punto, secondo le solite modalità della “sinistra” italica: un sapiente giro di parole, mezze verità, non detti, allusioni, colpi al cerchio e alla botte, termini vaghi fino all’inconsistenza… tutto per non prendere una posizione dotata di senso politico e sindacale.
Davanti a una potenziale guerra civile innescata dall’intervento finanziario-politico e militare (per ora solo minacciato, da Washington) non esiste alcuna possibile “terza posizione” (né… né…). Davanti all’ennesima aggressione a un paese colpevole di avere le più grandi riserve petrolifere del pianeta (al pari e forse più dell’Arabia Saudita), retto da un partito-movimento progressista capace di reggere alla morte del fondatore – Chavez – e di affrontare oltre venti tornate elettorali in 20 anni (alcune volte perdendo, quasi sempre vincendole), non si può giocare con le parole sulle tragedie altrui.
Per esser chiari: va benissimo che si condannino “con estrema fermezza le ingerenze e le pressioni esterne, a partire dall’embargo imposto dagli USA su farmaci e sistema finanziario, che anziché aiutare il Venezuela ad uscire da questa crisi, ne hanno favorito la crescita, la profondità e la distanza tra le parti”, così come “le immediate prese di posizione a favore dell’auto-proclamazione a capo dello stato del presidente del Parlamento, Juan Guaidò”. Ma che senso ha “rivolgere un appello alle istituzioni ed al governo del Venezuela affinché siano garantiti i diritti e le libertà di espressione e di associazione senza nessun tipo di discriminazione”?
Se in Venezuela si vota liberamente da 20 anni significa che sono già “garantiti i diritti e le libertà di espressione e di associazione senza nessun tipo di discriminazione”. Se poi tre partiti di estrema destra non si presentano all’ultima di queste elezioni e alimentano invece attacchi armati alle istituzioni – compreso un tentativo di attentato con i droni contro lo stesso Maduro – non si può certo chiedere al governo “democraticamente eletto” di farsi ordinatamente da parte.
Tra Pinochet e Allende bisognava scegliere, e – nella “sinistra” di allora – abbiamo tutti scelto di stare dalla stessa parte. Tra Maduro e Gaidò c’è da fare l’identica scelta; l’unica differenza decisiva non è nella ovvia e diversa personalità dei due presidenti progressisti, ma nella fedeltà dell’esercito venezuelano al governo legittimo del paese, anziché agli ordini degli Usa.
Ogni scelta divide e unisce allo stesso tempo, perché avviene davanti a un bivio. E, come a ogni bivio, chi non vuole scegliere finisce per schiantarsi sul guard rail… Alla “sinistra” italiana questo schianto capita ogni giorno.

giovedì 24 gennaio 2019

La Germania dei maestri somari: sotto indagine Deutsche Bank

Mentre firmano il trattato di Aquisgrana per tentare di ricostituire un “motore europeo” decisamente imballato; mentre continuano a dar lezioni a destra e a manca su come si gestiscono “ordinatamente” l’accumulazione capitalistica e i conti pubblici… la principale banca tedesca finisce sotto inchiesta.
Non di Bruxelles e tantomeno della Bce (che pure qualche “vigilanza” istituzionalmente, dovrebbe esercitarla), ma della Federal Reserve statunitense.
La Fed sta infatti esaminando le modalità con cui il colosso bancario tedesco ha gestito alcuni miliardi di dollari in transazioni sospette da Danske Bank, il maggiore istituto della Danimarca. Com’è noto – fuori d’Italia, perché qui si preferisce fare gli “allievi diligenti” di Berlino, in molte redazioni – questo caso riguarda il maggiore scandalo europeo sul riciclaggio di denaro dalla Russia.
Il colpo americano arriva mentre Db è impegnata nella complicata chiusura del bilancio 2018 (mica è uno Stato membro della Ue, se la può prendere con calma…) e, contemporaneamente, nella progettata fusione con l’altra “grande malata” della finanza germanica, Commerzbank. Un’operazione che persino la Bce non vede di buon occhio ma, come si dice, “chissenefrega, siamo tedeschi e non obbediamo neanche alle regole che abbiamo scritto noi”.
Dal punto di osservazione statunitense, invece, il problema è serissimo, visto che Washington non permette che società operanti anche sul proprio territorio abbiano rapporti d’affari con paesi sottoposti a sanzioni (ne sa qualcosa la “capa” di Huawei, accusata di rapporti con l’Iran).
Danske Bank è sotto indagine da qualche mese per le transazioni sospette che si sono verificate nella filiale di Tallin, in Estonia. Quasi 150 miliardi di dollari provenienti dalla Russia sarebbero infatti passati di lì e poi gestiti dalla filiale statunitense di Deutsche Bank. Nel caso c’è un “pentito” molto importante, a conoscenza di molti dettagli:

mercoledì 23 gennaio 2019

Europeismo e sovranismo, due facce della stessa falsa medaglia

La politica malata è dominata da parole malate. Riforma è una parola che ha rovesciato il suo significato sociale. Nata come momento della marcia verso il progresso sociale, ora è diventata la realizzazione dei programmi socialmente devastanti del liberismo. “Più riforme”, chiedono UE e FMI e lavoratori e poveri sanno che esse saranno contro di loro.
Anche sinistra è una parola malata. Non per i suoi valori storici di eguaglianza e giustizia, ma per la pratica di chi concretamente la sinistra ha rappresentato. E persino la parola umanitario ha visto il suo significato ferocemente ribaltato nel suo mostruoso opposto della “guerra umanitaria”. E umanitari sono gli accordi europei coi tagliagole libici per fermare i migranti prima del mare.
È in questo mare di significati rovesciati che la destra reazionaria e fascista ha potuto risorgere in Europa usando come arma fondamentale la denuncia della ipocrisia dominante: “siete feroci anche voi, ma vi travestite da buoni, questo vi impedisce di fare bene il lavoro necessario“. Così la destra accumula consenso e finisce per sottomettere anche chi si dichiari “né di destra né di sinistra”, cioè chi usa i significati falsi per giustificare il suo non scegliere tra quelli veri.
Ora due nuove parole malate si preparano a dominare il confronto politico in vista delle elezioni europee: europeismo e sovranismo, fieramente contrapposti.

Gli “europeisti” sbandierano la democrazia e la libertà e la pace di settanta anni, vantandoli come successi incontrovertibili dell’Unione Europea. I “sovranisti” a loro volta contesta(va)no la UE nel nome della sovranità dei popoli, messa in gabbia da un potere burocratico e autoritario sovranazionale.
La realtà è che entrambe le parole coprono una montagna di menzogne. La democrazia e la libertà dei popoli europei sono false, se un sistema di regole liberiste e autoritarie impone ad ogni paese la sua forma nazionale di distruzione dei diritti del lavoro e dello stato sociale, cioè delle conquiste europee più avanzate che le classi dominanti del continente vogliono cancellare.
Quanto alla pace, in Europa in realtà essa è stata messa in discussione appena nata la UE, all’inizio degli anni 90, con la guerra in Jugoslavia. E da allora la UE, forte di un rapporto sempre più stretto con la NATO, ha delocalizzato a sud e a est le guerre come le fabbriche. Partecipando a tutte le guerre nel Mediterraneo, nel Medio Oriente, nell’Est Europa. Dove la nuova guerra fredda contro la Russia ha portato a quella calda in Ucraina. Dove la UE antifascista sostiene un governo di cui fanno parte riconosciuta ed integrante forze dichiaratamente neonaziste.
Il “sovranismo” si afferma come reazione alle promesse mancate e alla ipocrisia dell’”europeismo”, ma rivela subito la propria menzogna. Esso non è il raggiungimento di una maggiore indipendenza e democrazia popolare, ma solo una diversa forma di subordinazione del popolo alle regole di sempre. Il principio fondamentale del “sovranismo” è prima gli italiani, gli ungheresi, i francesi, i tedeschi e così via.
Con questo prima, il “sovranismo” riconosce l’inevitabilità delle politiche di rigore e austerità della UE e per questo pretende la selezione sociale tra chi è popolo e chi non lo è. “I soldi non ci sono per tutti, quindi prima il nostro popolo”, quello vero senza migranti, poveri, fannulloni, mestatori sociali, antipatrioti, comunisti, ecc. Ogni “sovranista” allunga la catena degli esclusi a secondo dei gusti e delle circostanze.
Il popolo dei “sovranisti” non è la nazione della rivoluzione francese, non è la cittadinanza che lotta per l’eguaglianza, ma un popolo etnico selezionato. Il “sovranismo” promette al suo popolo di cambiare la UE, ma appena va al governo ne accetta tutte le regole liberiste fondamentali, chiude i porti ai migranti e fa a gara per aprirsi ai capitali. Più soldi, meno persone con gli stessi diritti. Il “sovranismo” è tutto qui.
Europeismo e sovranismo oggi sono la finta alternativa della politica europea. Essi sono due forme diverse dello stessa ideologia del libero mercato ed esprimono entrambi nazionalismo, o più in grande o più in piccolo. E alla fine propongono le stesse cose: cambiare la UE dall’interno, nuove regole che la rendano più vicina ai popoli, finirla con le politiche di austerità. E al di là delle parole, verso i migranti fanno la stessa politica criminale.
La recente conversione di Le Pen e Salvini all’”europeismo” dimostra quanto i due fronti siano vicini e amalgamabili. “Europeismo” e “sovranismo” sono le due spalle sulle quali si regge il potere delle classi dominanti, oggi si dice élites. Elites che possono spostare l’equilibrio del potere su una spalla o sull’altra, a seconda delle circostanze, pur di conservarlo ben saldo.
“Europeismo” e “sovranismo” oggi sono due menzogne che mandano lampi di verità solo nelle reciproche accuse. “Europeismo” e “sovranismo” si scontreranno fieramente nella campagna elettorale europea e poi si metteranno d’accordo come hanno già fatto in Austria.
Chi crede che siano possibili un europeismo o un sovranismo di sinistra, si condanna alla subalternità e alla inutilità. Una sinistra vera, cioè socialista, comunista, anticapitalista, popolare, che voglia ricostruirsi oltre le macerie di quella finta, deve preventivamente rompere con europeismo e sovranismo.
La UE é un sistema di potere ingiusto e sbagliato che bisogna abbattere, mentre “europeismo” e “sovranismo” – quel sistema – vogliono salvarlo e continuarlo.
In fondo è una verità semplice; la sinistra vivrà se la capirà, altrimenti sparirà dal continente dove è nata.

martedì 22 gennaio 2019

Le relazioni Cina-Africa continuano a svilupparsi supportate dagli investimenti nel continente

Il Ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha effettuato una visita ufficiale in Etiopia, il quartier generale dell'Unione Africana, Burkina Faso, Gambia e Senegal dal 2 al 6 gennaio. Il suo primo viaggio diplomatico del 2019. Come tradizione diplomatica, il ministro degli esteri cinese ha visitato l'Africa come primo viaggio di ogni anno, come accaduto negli ultimi 29 anni consecutivi. La continua cooperazione tra Cina e Africa non ha solo lo scopo di approfondire la loro amicizia tradizionale, ma è anche necessaria per sostenere lo sviluppo economico nel continente africano.

Con l'accelerazione dello sviluppo economico, dell'industrializzazione e dell'urbanizzazione in Africa, i fondi sono stati continuamente iniettati in vari paesi africani. Attualmente, la Cina è il più grande investitore del continente, con un investimento che copre molte aree di sviluppo. Per questo motivo, nel corso del 29° Summit dell'Unione Africana (UA), nel 2017, diversi funzionari senior dell'UA hanno affermato che il collegamento tra l'Agenda 2063 dell'AU e l'iniziativa "Belt and Road" (B&R) dovrebbe essere rafforzato. Successivamente, 37 paesi africani e l'UA hanno firmato i documenti di cooperazione B&R con la Cina, che ha accettato di cogliere l'opportunità di B&R per approfondire la cooperazione e contribuire a sostenere le richieste di sviluppo della regione. In termini di comunicazione politica, attraverso i continui scambi ad alto livello tra Cina e Africa, l'esperienza di sviluppo della Cina è stata gradualmente accettata e adottata da molti paesi africani.

Secondo un recente rapporto pubblicato dalla società africana di sondaggi Afrobarometer, quasi i due terzi degli intervistati hanno dichiarato che l'influenza della Cina in Africa è abbastanza o molto positiva. Per quanto riguarda la connettività delle infrastrutture, nel 2017 la ferrovia di Mombasa-Nairobi e la ferrovia di Addis Abeba-Gibuti hanno iniziato le operazioni, promuovendo efficacemente il processo di integrazione nell'Africa orientale. Inoltre, la Cina sta portando avanti con continuità il progetto di connettività di potenza in Africa orientale, il progetto di trasmissione di energia in Africa centrale e il progetto di produzione di energia idroelettrica transfrontaliera nell'Africa occidentale.

Nel frattempo, grazie alle reciproche relazioni commerciali bilaterali, il commercio tra Cina e Africa ha registrato una rapida crescita, passando da 10,8 miliardi di dollari nel 2001 a 169,75 miliardi di dollari nel 2017. Il commercio bilaterale ha raggiunto i 222 miliardi di dollari nel 2014.

Inoltre, la Cina ha anche offerto sostanziali aiuti e investimenti in Africa. Secondo il rapporto dell'Ayactiveness Program Africa nel 2017, dal 2005, la Cina ha investito in 293 progetti di investimenti diretti esteri in Africa, per un totale di 66,4 miliardi di dollari e creando oltre 130.000 posti di lavoro.

La cooperazione allo sviluppo Cina-Africa ha ottenuto ampio riconoscimento tra i paesi africani. A causa delle diverse condizioni nazionali e delle richieste in diversi paesi africani, la Cina combina sempre le esigenze dei vari paesi con le sue capacità per progettare un programma di cooperazione allo sviluppo differenziato in modo da allocare aiuti, investimenti e risorse commerciali in modo razionale e reciprocamente accettabile. Un tale modello di cooperazione allo sviluppo con caratteristiche cinesi ha ottenuto ampio consenso da parte del popolo africano.

Negli ultimi decenni, la Cina ha aiutato l'Africa a costruire oltre 10.000 chilometri di autostrade, oltre 6.000 chilometri di ferrovie e centinaia di aeroporti, porti e centrali elettriche, con la costruzione di numerosi ospedali e scuole in tutto il continente. La Cina ha anche aiutato a formare centinaia di migliaia di professionisti per vari settori attraverso i progetti di sviluppo delle risorse umane.

Inoltre, il successo della cooperazione allo sviluppo tra Cina e Africa ha attirato l'attenzione anche della comunità internazionale in Africa. Dopo la Guerra Fredda, le questioni africane furono nuovamente gradualmente marginalizzate dall'Occidente. È la continua espansione della cooperazione allo sviluppo Cina-Africa che recentemente ha attirato l'attenzione dell'Occidente. Il motivo per cui i paesi occidentali si sono concentrati sugli affari africani negli ultimi anni è principalmente dovuto alle loro preoccupazioni sulla "competizione cinese" nel continente africano.

La cooperazione tra Cina e Africa è al contempo una scelta storica e l'esigenza dei tempi, che non è unilaterale, ma una cooperazione vantaggiosa per tutti. Non solo l'Africa ha bisogno della Cina, ma anche la Cina ha bisogno dell'Africa. Anche se l'Occidente potrebbe non essere felice di vedere la Cina "entrare in Africa", alcune grandi potenze occidentali vedono anche un forte aumento delle attività cinesi e la crescente presenza cinese dell'influenza cinese in Africa come una sfida ai loro interessi.

Tuttavia, di fronte alla volontaria diffusione della cooperazione tra Cina e Africa, i governi e le persone africane ignorano tale discordia e aderiscono fermamente alla politica amichevole nei confronti della Cina. Questa è in realtà la migliore difesa e interpretazione di "costruire una comunità Cina-Africa con un futuro condiviso".

lunedì 21 gennaio 2019

Quel trattato va archiviato

Il Ttip, trattato di liberalizzazione degli scambi e delle regole di produzione e distribuzione tra Europa e Usa, è morto con l’elezione di Donald Trump. E non sfiorerà la nostra agricoltura. Così all’elezione del presidente statunitense si assicurava da Bruxelles agli Stati membri, dopo la massiccia opposizione manifestatasi in tutti i Paesi dell’Unione. Ma la realtà oggi è un’altra: la Commissione Ue continua a trattare con gli Stati Uniti di Trump, stando solo più attenta a far filtrare meno dettagli possibile. Novità allarmanti, però, ci arrivano da Oltreoceano: il Congresso Usa ha votato non solo autorizzando il suo esecutivo a rilanciare il Ttip, ma facendoci anche sapere che se sul tavolo non ci sarà l’agricoltura, non ci potrà essere alcun accordo. A Trump è stata accordata una “corsia preferenziale” (fast track) per raggiungere l’obiettivo, considerato che ha superato metà del suo mandato, ed è stato autorizzato a ottenere dall’Ue non solo l’abbattimento delle barriere doganali sui prodotti agricoli e le bevande, ma anche un accordo quadro sul livellamento delle barriere non tariffarie, quindi gli standard di qualità e sicurezza che caratterizzano la produzione europea, compreso l’abbattimento dei limiti attuali al commercio in Europa dei prodotti a base biotech, vecchi e nuovi (Ogm e NTBs), stando al comunicato ufficiale del Ministero del commercio (Ustr).
La Commissaria europea al Commercio Cecilia Malmstrom ha assicurato, dopo il recente incontro con ministro americano Robert Lighthizer, che l’Ue stante l’equilibrio raggiunto oggi in Consiglio non è intenzionata a mettere sul tavolo l’agricoltura. In realtà già il dialogo informale avvenuto nel luglio tra il presidente della Commissione Claude Junker e il presidente Trump ha portato a un forte aumento delle importazioni di soia Ogm dagli Usa negli ultimi mesi. E in una recente audizione in Congresso delle principali associazioni dei produttori di alimenti e bevande americane i potenti interlocutori hanno chiarito, echeggiati dal presidente della Commissione Finanze del Congresso e protagonista dell’agribusiness in Iowa Chuck Grassley, che non appoggerebbero alcun accordo che non includa i temi di loro interesse.
Trump, d’altronde, considera sin dalla riapertura del tavolo con l’Unione questo scambio agricoltura contro prodotti industriali non negoziabile se l’Europa vuole risparmiare quel 25 per cento di dazio sulle auto e sui ricambi Made in Ue che il presidente americano minaccia di far calare sull’export straniero. Ha puntato il dito sulla tariffa di importazione europea del 10 per cento per le automobili estere che vorrebbe azzerata. Obiettivo strategico degli Usa è anche quello di ottenere da parte dell’Europal’esenzione da tasse e restrizioni legate alla protezione della privacy e alla localizzazione per i download digitali di software, film, musica e altri prodotti statunitensi.
A questo punto sono i governi europei a dover far sentire a Bruxelles le proprie priorità: saranno loro, infatti, a dover precisare il mandato negoziale alla Commissaria Malmstrom, e a dover quindi escludere esplicitamente tutte le materie che non vorranno mettere a disposizione del negoziato o, più coerentemente, a negare il mandato alla Commissione. Per il governo italiano, a un passo dalle elezioni europee, è il momento giusto per dimostrare le proprie vere intenzioni: l’attuale maggioranza, infatti, si è sempre schierata esplicitamente contro il Ttip, considerato il modello di trattato da contrastare anche con la bocciatura nel Parlamento nazionale, che la campagna StopTtip/Ceta Italia chiede avvenga il prima possibile, del trattato-fotocopia di liberalizzazione degli scambi con il Canada Ceta. Dalle parole ai fatti, il prima possibile.

venerdì 18 gennaio 2019

Auto: multa alle finanziarie e il Codacons lancia una class action

L'Autorità Antitrust ha comminato una multa da 678 milioni di euro a società finanziarie e case automobilistiche per accordi illegittimi sui finanziamenti concessi per l'acquisto di auto. La notizia non ha mancato di fare scalpore nel settore e Assofin, in rappresentanza delle finanziarie, ha già annunciato ricorso al Tar.
Le società coinvolte sono elencate dalla stessa Autorità:Banca PSA Italia, Banque PSA Finance, Santander Consumer Bank, BMW Bank, BMW AG, Daimler AG, Mercedes Benz Financial Services Italia, FCA Bank, FCA Italy, CA Consumer Finance, FCE Bank, Ford Motor Company, General Motor Financial Italia, General Motors Company, RCI Banque, Renault, Toyota Financial Services, Toyota Motor Corporation, Volkswagen Bank, Volkswagen, nonché le associazioni di categoria Assofin ed Assilea.
Intanto il Codacons, associazione di consumatori, plaude all'iniziativa dell'Antitrust: «Giusta sanzione, è stato riconosciuto un cartello anticoncorrenza nel settore dei finanziamenti per l’acquisto di automobili». Quanto accaduto, «che ha portato per anni allo scambio di informazioni sensibili relative a quantità e prezzi attuali e futuri, ha determinato una riduzione della concorrenza tra operatori con effetti diretti per i consumatori – spiega il Codacons – Il cartello avrebbe quindi tenuto elevati i costi dei finanziamenti concessi agli automobilisti che acquistavano una automobile a rate, impedendo di godere dei tariffe più vantaggiose garantite in caso di una correttezza concorrenza tra operatori».
«Chiediamo che ora tutti gli utenti che tra il 2003 e il 2017 hanno contratto finanziamenti per acquisto di auto tramite le società sanzionate dall’Antitrust siano rimborsati delle maggiori somme pagate a causa dell’intesa anticoncorrenziale messa in atto da case automobilistiche e società finanziarie» afferma il presidente Carlo Rienzi.
«Considerata la gravità della questione, crediamo ci siano gli estremi per un intervento della magistratura – spiega il presidente Carlo Rienzi – Il comportamento messo in atto dagli operatori sanzionati ha avuto effetti diretti sulle tasche dei consumatori attraverso un illecito rialzo delle tariffe, e potrebbe aver realizzato il reato di truffa aggravata, fattispecie per la quale chiediamo a 104 Procure di procedere in tutta Italia».

mercoledì 16 gennaio 2019

L’elemosina dei miliardari

Nel febbraio 2017, il fondatore e amministratore delegato di Facebook Mark Zuckerberg era su tutte le prime pagine per le sue attività di beneficenza. La Chan Zuckerberg Initiative, fondata dal miliardario della tecnologia e da sua moglie, Priscilla Chan, annunciava di voler elargire oltre tre milioni di dollari in aiuti per la crisi abitativa nella zona della Silicon Valley. David Plouffe, presidente per le strategie e la promozione dell’Iniziativa, ha dichiarato che questi aiuti erano destinati a “sostenere organizzazioni impegnate per aiutare le famiglie in urgente crisi, finanziando la ricerca di nuove idee per soluzioni a lungo termine – una strategia in due fasi che guiderà gran parte delle nostre strategie e azioni di promozione”.

Questa è solo una piccola parte dell’impero filantropico di Zuckerberg. L’iniziativa destinava miliardi di dollari a progetti filantropici mirati ad alleviare problemi sociali, con particolare attenzione alle soluzioni trainate dalla scienza, dalla ricerca medica e dall’istruzione. Tutto era iniziato nel dicembre 2015, quando Zuckerberg e Chan avevano pubblicato una lettera scritta al loro ultimo figlio Max. Nella lettera si impegnavano nel corso della loro vita a destinare il 99% delle loro azioni di Facebook (che in quel momento ammontavano a 45 miliardi di dollari) alla “missione” di “far progredire il potenziale umano e promuovere l’uguaglianza”.

L’iniziativa abitativa si teneva ovviamente molto più vicino a casa, poiché affrontava problemi che si manifestano letteralmente alle porte della sede centrale di Facebook a Menlo Park. In quest’area il prezzo medio di una casa era quasi raddoppiato nel quinquennio tra il 2012 e il 2017, raggiungendo circa i due milioni di dollari.

Più in generale, San Francisco è una città caratterizzata da enormi disuguaglianze di reddito e la reputazione di avere il mercato immobiliare più caro degli Stati Uniti. L’intervento della Chan Zuckerberg era chiaramente mirato a compensare i problemi sociali ed economici causati dagli affitti e dai prezzi delle case, saliti alle stelle, a un livello tale che persino dipendenti con stipendi a sei cifre hanno difficoltà ad arrivare a fine mese. Per chi ha un reddito più modesto, vivere decentemente, per non parlare di avere una famiglia, è quasi impossibile.

Ironia della sorte, proprio il boom del settore tecnologico in questa regione – un boom nel quale Facebook è in prima linea – è stato un importante catalizzatore della crisi. Come spiega Peter Cohen del Council of Community Housing Organizations: “A fronte di una tale concentrazione di ricchezza, il fiume di denaro che circola nel mercato immobiliare non è giustificato dallo sviluppo degli alloggi necessari a una popolazione in crescita. Si tratta semplicemente di speculazione edilizia.”

A prima vista, l’apparente generosità di Zuckerberg è un piccolo tentativo di rimediare al disastro causato dal successo dell’industria nella quale opera. In un certo senso, le sovvenzioni abitative (pari mediamente al prezzo di un vano e mezzo a Menlo Park) cercano di mettere una toppa su un problema che Facebook e altre società della Bay Area hanno causato ed esacerbato. Sembrerebbe che Zuckerberg, in uno slancio di generosità, voglia investire una parte dei proventi del capitalismo tecnologico neoliberista per cercare di affrontare i problemi di polarizzazione della ricchezza creati dallo stesso sistema sociale ed economico che ha permesso a quei proventi di accumularsi.

È facile immaginare Zuckerberg come una specie di CEO-eroe – un ragazzotto il cui genio lo ha reso uno degli uomini più ricchi del mondo, e che ha deciso di usare quella ricchezza a beneficio degli altri. L’immagine che proietta è di altruismo non contaminato dall’interesse personale. Ma grattando appena la superficie si scopre che la struttura dell’opera di beneficenza di Zuckerberg è informata da ben altro che altruismo e buon cuore. Anche se molti hanno applaudito Zuckerberg per la sua generosità, la natura di questa apparente beneficenza è stata apertamente messa in discussione fin dall’inizio.

La lettera di Zuckerberg del 2015 potrebbe facilmente essere interpretata nel senso che l’intenzione fosse quella di destinare interamente i 45 miliardi di dollari in beneficenza. Ma come riportato dal giornalista investigativo Jesse Eisinger, l’iniziativa Chan Zuckerberg, tramite la quale questa donazione doveva essere gestita, non è una fondazione caritatevole senza fini di lucro, bensì una società a responsabilità limitata. Questo status giuridico ha implicazioni pratiche significative, soprattutto per gli aspetti fiscali. Come azienda, l’iniziativa può fare molte cose oltre ad attività di beneficenza: il suo status legale le conferisce il diritto di investire in altre società e di fare donazioni politiche. In effetti la società non limita affatto il potere decisionale di Zuckerberg su ciò che vuole fare con i suoi soldi; resta lui il capo. Inoltre, come spiega Eisinger, l’audace mossa di Zuckerberg ha prodotto un enorme ritorno sull’investimento in termini di pubbliche relazioni per Facebook, anche se in realtà si è trattato semplicemente di “spostare i soldi da una tasca all’altra” rendendo in questo modo “improbabile che alcuna imposta verrà mai pagata”.

La creazione dell’iniziativa Chan Zuckerberg – che, decisamente, non è un’organizzazione benefica – significa che Zuckerberg è in grado di controllare gli investimenti della società come meglio crede, ottenendo significativi vantaggi commerciali, fiscali e politici. Tutto questo non esclude che le motivazioni di Zuckerberg possano includere un moto di generosità o un genuino desiderio di favorire il benessere e l’uguaglianza dell’umanità.

Ciò suggerisce, tuttavia, che quando si tratta di sborsare denaro, l’approccio del CEO è di non vedere alcuna incompatibilità tra altruismo, continuo controllo sui fondi elargiti e aspettativa di ottenere benefici in cambio. Questa riformulazione della generosità – non più considerata incompatibile con il controllo e il guadagno personale – è un segno distintivo della “società dei CEO”: una società in cui i valori associati alla leadership aziendale sono applicati a tutte le dimensioni dell’agire umano.

Mark Zuckerberg non è affatto il primo CEO contemporaneo a promettere ed elargire donazioni su larga scala a buone cause prestabilite. Nella società dei CEO la creazione di strumenti per donare ricchezza è un distintivo d’onore per gli uomini d’affari più ricchi del mondo. È anche stato istituzionalizzato in quella che è nota come The Giving Pledge, una campagna filantropica avviata da Warren Buffett e Bill Gates nel 2010. La campagna si rivolge a miliardari in tutto il mondo, incoraggiandoli a cedere parte della loro ricchezza. L’impegno non specifica a cosa debbano servire esattamente le donazioni, o se debbano essere fatte subito o dopo la morte; è solo un impegno generale a usare la ricchezza privata per un apparente bene comune. Non è nemmeno giuridicamente vincolante, solo un impegno morale.

La lista dei nomi che hanno sottoscritto l’impegno è molto lunga. Ci sono Mark Zuckerberg e Priscilla Chan, insieme ad altri 174, inclusi nomi noti come Richard e Joan Branson, Michael Bloomberg, Barron Hilton e David Rockefeller. Sembrerebbe che molte delle persone più ricche del mondo non vedano l’ora di regalare i propri soldi a buone cause. È quella che i geografi umani Iain Hay e Samantha Muller chiamano con scetticismo “l’età dell’oro della filantropia”: dalla fine degli anni ’90, l’ammontare dei lasciti in beneficenza dei super-ricchi ha raggiunto centinaia di miliardi di dollari. In un articolo del 2014, Hay and Muller sostengono che questi nuovi filantropi abbiano apportato alla beneficenza uno “spirito imprenditoriale”, suggerendo tuttavia che lo scopo ultimo sia “distogliere attenzione e risorse dai fallimenti delle manifestazioni contemporanee del capitalismo”, e che potrebbero sostituirsi all’intervento pubblico che gli stati non sono più in grado di sostenere.

In sostanza, ciò a cui stiamo assistendo è il trasferimento di responsabilità dalle istituzioni democratiche ai ricchi per quanto riguarda beni e servizi pubblici, che verrebbero così amministrati dalla classe imprenditoriale. Nella società dei CEO l’esercizio delle responsabilità sociali non viene più discusso in termini di decidere se le corporazioni debbano o non debbano essere responsabili di aspetti che esulino dai propri interessi commerciali in senso stretto. La questione è piuttosto capire come la filantropia può essere utilizzata per rafforzare un sistema politico-economico che consenta a un numero così esiguo di persone di accumulare quantità di ricchezza oscene. L’investimento di Zuckerberg per risolvere la crisi abitativa della Bay Area è un esempio di questa tendenza generale.

Il finanziamento di progetti pubblici con la beneficenza di imprenditori miliardari fa parte di quello che è stato chiamato “filantrocapitalismo”. Così si spiega l’apparente antinomia tra beneficenza (tradizionalmente focalizzata sul dare) e il capitalismo (basato sul perseguimento dell’interesse economico personale). Come spiega lo storico Mikkel Thorup, il filantrocapitalismo si fonda sull’affermazione che “i meccanismi capitalistici sono superiori a tutti gli altri (specialmente allo stato) quando si tratta non solo di creare progresso economico ma anche umano, e il mercato, o gli attori del mercato, sono o dovrebbero essere nella posizione migliore per costruire una buona società”.

L’età d’oro della filantropia non riguarda solo i vantaggi cumulati dai singoli donatori. Più in generale, la filantropia serve a legittimare il capitalismo, nonché a estenderlo sempre di più a tutti i campi di attività sociale, culturale e politica.

Il filantrocapitalismo è molto più che un finto atto di generosità: mira anche ad instillare i valori neoliberisti personificati dai CEO miliardari che se ne fanno onere. La filantropia viene dunque riformulata negli stessi termini con cui un CEO considererebbe un’impresa commerciale. L’offerta di beneficenza si traduce in un modello di business che impiega soluzioni basate sul mercato, caratterizzate dall’efficienza e dalla quantificazione di costi e benefici.

Il filantrocapitalismo riprende l’applicazione del modus operandi e delle pratiche di gestione delle società commerciali, adattandole al campo sociale. L’attenzione è focalizzata su imprenditorialità, approcci basati sul mercato e indicatori del rendimento. Il processo è finanziato da imprenditori super-ricchi e gestito da personale con esperienza nel mondo degli affari. Il risultato, a livello pratico, è che la filantropia è intrapresa dai CEO in modo simile alla gestione di un’impresa.

Il questo contesto, le fondazioni di beneficenza negli ultimi anni hanno subito un mutamento. Come spiegato in un articolo di Garry Jenkins, professore di giurisprudenza all’Università del Minnesota, sono divenute “sempre più compartimentate, regolamentate, impostate su dati metrici e orientate al business nelle loro interazioni con gli enti pubblici, allo scopo di presentare il lavoro della fondazione come ‘strategico’ e ‘affidabile’”.

Tutto ciò è ben lontano dal benevolo passaggio a un modo diverso e migliore di fare cose che afferma di essere – uno stile iper-capitalistico per “salvare il mondo attraverso il pensiero imprenditoriale e i metodi di mercato”, nelle parole di Jenkins. Il rischio del filantrocapitalismo sta piuttosto nell’assorbimento delle opere sociali da parte degli interessi commerciali, tale che la generosità verso gli altri venga inglobata nel predominante dominio del modello capitalistico della società e delle sue istituzioni aziendali.

Il CEO moderno è in prima linea nella scena politica e dei media. Questo spesso porta i CEO a diventare personaggi famosi, ma nel contempo li espone al rischio di essere identificati come capri espiatori per tutte le ingiustizie economiche. Il ruolo pubblico assunto sempre più spesso dagli amministratori delegati è legato alla nuova impronta corporativa della loro più ampia responsabilità sociale. Le imprese devono ora bilanciare, almeno retoricamente, un duplice impegno tra profitti ed esiti sociali. Ciò si riflette nella promozione della “tripla linea di fondo”, che nel reporting aziendale combina priorità sociali, finanziarie e ambientali.

martedì 15 gennaio 2019

Parigi Parigi non si oppone alla candidatura di Assad alle prossime presidenziali in Siria

Il ministro degli Esteri francese Jean-Yves Le Drian ha riaffermato l'impegno della Francia per una soluzione politica in Siria e ha fatto capire che Parigi non si oppone alla partecipazione di Bashar al-Assad alle elezioni presidenziali. "Se il presidente Bashar al-Assad è candidato, sarà un candidato, sono i siriani che devono decidere il loro futuro", secondo quanto rilevato dall'AFP.

Commentando la situazione nel paese del Medio Oriente all'indomani della decisione di Washington di ritirare le sue truppe dalla Repubblica araba siriana, Le Drian ha sottolineato che la guerra contro l'ISIS non è finita.


"C'è una guerra contro l'ISIS che non è finita, e quelli che considerano l'ISIS sradicato si sbaglia, e poi c'è una guerra civile interna, e a volte entrambe le guerre sono collegate", ha aggiunto.

La scorsa settimana, Le Drian ha promesso di ritirare le truppe francesi dalla Siria non appena "una soluzione politica" sarà raggiunta. Ha inoltre sottolineato che la Russia "ha responsabilità politiche affinché la Siria abbia una soluzione politica, non militare".
 

lunedì 14 gennaio 2019

Boom economico? Industria, a novembre crolla la produzione.

Intervenendo agli Stati generali dei Consulenti del lavoro, Di Maio ha parlato di un nuovo boom grazie al digitale.
Le due notizie sono di ieri e dimostrano la distanza che ai vertici del governo si situa tra la realtà drammatica concretezza della situazione in atto e la fantasia improvvisatrice di chi addirittura evoca il boom economico.
Una dimostrazione lampante della difficoltà che incontra la politica italiana ormai immersa in una sorta di delirio mediatico attraverso il quale si sono sparse promesse, si è fatto lievitare un consenso fondato su di un gigantesco voto di scambio, si sono aperti conflitti a tutti i livelli che sarà difficile comporre in futuro.
Come si combina poi l’idea del boom economico con la “decrescita felice” che apparentemente stava alla base della filosofia alternativa espressa dal M5S, rimane tutto da dimostrare.
Evocare il boom economico poi non è affare da poco e quindi vale la pena rinfrescare un poco la memoria riassumendo, molto sommariamente, come si svolse la fase che tra la fine degli anni’50 e primi anni’60 del XX secolo segnò un salto negli indici di sviluppo dell’Italia mutando anche profondamente la vita quotidiana di una parte importante del Paese.
Non erano tutte rose e fiori: quest’affermazione va posta in premesse e ricordata bene; si verificarono squilibri enormi sul piano sociale e dell’uso del territorio tra le diverse parti dell’Italia e si verificarono avvenimenti di grande importanza anche sul piano politico.
Una sintetica ricostruzione della fase del “miracolo economico”
L’Italia, in passato, è stata protagonista propri nella fase di ricostruzione dalla tragedia bellica di una particolare forma di economia mista che aveva già caratterizzato il fascismo (dal quale del resto la giovane Repubblica aveva ereditato strumenti d’iniziativa e gestione economica come l’IRI e l’ENI).
Nel corso degli anni, a partire dalla seconda metà del ‘900, si verificarono veri e propri spostamenti d’asse sul piano globale al riguardo dei riferimenti relativi all’economia, alla produzione industriale, alla distribuzione del reddito, alla diffusione del welfare state e della democrazia.
In questo quadro però l’economia italiana mantenne comunque limiti strutturali sui quali vale la pena indagare anche dal punto di vista della ricostruzione storica.
Limiti strutturali che poi ebbero un peso nel corso dei tumultuosi processi innestatisi nel corso degli anni’90 del XX secolo a causa dell’esplosione di Tangentopoli e delle esigenze di riallineamento dovute alla stipula dei trattati europei (specificatamente quello di Maastricht, datato 1992) e successivamente all’ingresso nell’area della moneta unica.
Limiti già apparsi evidenti fin dalla fase della seconda ricostruzione post-bellica, preparatoria a quel “miracolo economico” che il nostro Paese visse a cavallo tra la fine degli anni’50 e i primissimi anni del decennio successivo.
 Una fase, quella 58 – 63 indicata come effettivamente contraddistinta dal “miracolo economico” e coincidente con fenomeni politici di grande rilevanza sia sul piano internazionale sia sul piano interno: dal cosiddetto “disgelo” tra i due grandi blocchi militari allora esistenti sul piano planetario, all’incubazione e formazione – in Italia – della formula del centrosinistra, con l’ingresso del PSI nell’area di governo a fianco della DC.
Ricostruire quella fase, allora, può risultare un esercizio utile anche per capire alcuni fondamentali tratti della situazione attuale.
Tratti che forse sfuggono a chi pensa di poter parlare di “miracolo economico” imminente.
A partire dal 1951 i successivi dodici anni furono caratterizzati da un veloce sviluppo e da una profonda trasformazione strutturale.
Gli aspetti fondamentali di questa evoluzione furono essenzialmente questi:
a)    Il forte sviluppo dell’industria manifatturiera, sviluppo che trasformò il Paese facendolo passare da un’economia prevalentemente agricola a un’economia prevalentemente industrializzata. Questo tipo di trasformazione risultò particolarmente accentuato nella zona del triangolo industriale Milano –Torino – Genova dove le novità manifatturiere arrivarono a contribuire per il 40% del PIL e per il quasi 45% al totale del prodotto del settore privato;
b)    Il passaggio da una struttura chiusa agli scambi con l’estero a una struttura fortemente caratterizzata da un processo di integrazione con gli altri paesi industrializzati;
c)     La conseguente trasformazione nella struttura degli insediamenti, nella direzione di una concentrazione sempre più elevata nelle grandi città con oltre 100.000 abitanti che nel 1955 raccoglievano il 21,6% della popolazione: nel 1968 ne raccoglievano già oltre il 28%.
Oltre a questi aspetti, del resto comuni a ogni frangente di pronunciato sviluppo industriale, il “caso italiano” ha presentato, in quel periodo, alcune caratteristiche giudicate peculiari (formative, infatti, della dizione “caso italiano” fin troppo frequentemente usata nel tempo, anche a sproposito).
Queste caratteristiche peculiari potevano essere così descritte:
1)    Un progressivo “dualismo” della struttura produttiva, che nel contempo registrava la nascita e la crescita di imprese tecnologicamente avanzate al livello delle industrie più progredite nei paesi europei e il permanere di piccole strutture arretrate, caratterizzate da bassa produttività e inefficienza;
2)    La cosiddetta “distorsione del consumismo” consistente nel fatto che, mentre alcuni consumi privati anche di genere non necessario (motorizzazione privata, elettrodomestici, televisori) si erano andati sviluppando molto velocemente mentre altrettanto non era avvenuto nel settore dei consumi pubblici, anche nei casi che avrebbero dovuto essere riconosciuti come assolutamente prioritari: istruzione, sanità, casa;
3)    Si allargava, intanto, una distanza profonda fra il grado di sviluppo delle regioni settentrionali e quello delle regioni meridionali, nonostante il flusso della spesa pubblica fosse orientato prevalentemente verso il Sud.
Questi tre aspetti, appena elencati, potevano da subito essere individuati come elementi negativi eliminandoli attraverso una corretta impostazione della politica economica.
Attorno a questi elementi si sviluppò all’epoca un importante dibattito politico che, alla fine, sortì però un esito sostanzialmente negativo : la politica di pianificazione che il PSI avrebbe voluto portare all’interno della formazione del centrosinistra fu sconfitta nell’arenarsi dello stesso centro sinistra a mera formula di governo; il dibattito nel partito comunista (sviluppatosi nel periodo a cavallo della morte di Togliatti, tra il convegno del Gramsci sulle tendenze del capitalismo italiano del 1962 e l’XI congresso del 1966) si attestò alla fine su di un punto di mediazione di tipo politicista sboccando alla fine in una proposta quella del “compromesso storico” che poneva il tema del governo con la DC tutta intera quale prospettiva decisiva per l’avvenire della sinistra e del movimento operaio.
Rimase senza seguito anche la celebre “Nota aggiuntiva alla relazione della situazione economica del Paese”, redatta da Ugo La Malfa nel 1962, in cui si riconobbe che l’imponente trasferimento di popolazione e di forza lavoro si risolveva in un “depauperamento di un ambiente economico, sociale e umano incapace di trovare un nuovo equilibrio sulla base di condizioni più moderne di produzione e di produttività”.

Si segnò così un evidente “dualismo” nella realtà produttiva: da un lato un settore comprendente industria meccanica, chimica e in un momento successivo anche l’abbigliamento e le calzature caratterizzato da livelli di produttività assai elevati e dall’adozione di tecnologie molto avanzate e dall’altro settori definiti “stagnanti” comprendete le industrie tessili e alimentari, l’industria delle costruzioni e il commercio al dettaglio.

Un dualismo mantenuto anche dal tipo di intervento pubblico in economia sostenuto dalla presenza dell’IRI e dalla mancata realizzazione di un progetto di uscita dalla sudditanza dalla politica energetica incentrata sul petrolio governato dalla “sette sorelle” attraverso l’ENI, mutilato a quel punto dall’ancora misteriosa scomparsa di Enrico Mattei.
Fin dagli ultimi anni del miracolo economico, quando l’espansione era ancora in atto, emerse già la consapevolezza che il veloce sviluppo del decennio precedente, se pure aveva risolto alcuni problemi tra i più impellenti del paese (elettrificazione, infrastrutture, case popolari, istruzione di base, aggressione alle più evidenti sacche di povertà), altri ne aveva lasciati totalmente insoluti, se non addirittura aggravati e che si trovano ancora alla base dai limiti di fondo dell’economia italiana, pur nel mutato quadro tecnologico e di riferimenti di “vincolo esterno” come realizzatosi nei decenni successivi:
a)    Dualismo della struttura industriale che ha portato con il soccombere della parte a quel tempo più dinamica (siderurgia, chimica, elettronica);
b)    Distorsione nei consumi;
c)     Distacco tra Nord e Sud;
d)    Inefficienza crescente della spesa pubblica.
Il quadro dello sviluppo economico italiano di quel periodo non sarebbe completo se non si tentasse un minimo di approfondimento su di un punto debole che, oggi come oggi, si trova proprio al centro del dibattito: l’inefficienza progressiva della spesa pubblica.
L’espansione del pubblico impiego è stato uno dei modi che, di fatto, sono stati impiegati per alleviare la disoccupazione, specie meridionale, rappresentando una sorta di attività sostitutiva dell’investimento diretto.
Eguale esito di complessiva inefficienza ebbero le politiche riguardanti l’assetto urbano e le abitazioni.
Una delle caratteristiche comuni di tutte le Regioni italiane a partire dal periodo preso in esame da questo lavoro, sia al Nord sia al Sud, fu rappresentato dall’accrescimento delle concentrazioni urbane.
La crescita tumultuosa degli insediamenti urbani recava con sé una domanda crescente di case di abitazione.
Il tema dello sviluppo edilizio richiederebbe un capitolo a parte che allungherebbe troppo questo testo. Si rimanda quindi a una successiva ricostruzione non senza ricordare quanto abbia pesato e stia pesando il disordine urbanistico e il degrado dell’assetto del territorio sui fattori fondamentali della crescita economica.

Nella sostanza da quella fase risultò favorita l’industria delle costruzioni, assistita anche da una politica creditizia particolarmente generosa e che poteva contare su profitti cospicui e sicuri e l’industria automobilistica, ma ne dovettero subire gli intralci tutte le altre attività produttive.

Emerge da questo quadro, allora, l’insieme dei limiti profondi già presenti nell’economia italiana fin dagli anni dello sviluppo più forte: dualismo tra i diversi settori, distacco tra Nord e Sud, bassi salari e distorsione nel consumo, disordine urbano, inefficienza della spesa pubblica.
Si aprì, in questo modo, la stagione delle svendite: le grandi PPSS del dopoguerra, l’IRI, l’Intersind, la Grande ENI di Mattei, il piano siderurgico di Sinigaglia, la nazionalizzazione dell’energia elettrica, la STET (che Agnelli si portò a casa pagando lo 0,6% del capitale), la privatizzazione delle Banche Credito e Comit finirono dentro i giochi della borghesia dei “salotti buoni”.
Tutto è cambiato attorno a noi, sul piano della tecnologia, dei riferimenti internazionali, del quadro possibile di sviluppo economico e tutto è cambiato nella struttura produttiva italiana, in particolare per responsabilità delle privatizzazioni compiute negli anni’90 fino alla dismissione dell’IRI, ma quegli elementi di sofferenza del sistema sono ancora presenti e ci fanno affermare come, anche per il futuro, rappresentino elementi di grande difficoltà che soltanto un diverso approccio sul piano politico potrà affrontare seriamente.
Le drammatiche vicende legate al progressi processo di ulteriore de-industrializzazione, di degrado del tessuto infrastrutturale e nell’uso del territorio , di smantellamento dello stato sociale e di improvvisa crescita di una visione politica di tipo populista e sovranista che sta assumendo addirittura tratti egemonici,in atto nel nostro Paese in parallelo con la crisi dell’Unione Europea,. chiamano a una riflessione attorno alla possibilità di avanzamento di una proposta di politica economica.
Il concetto di fondo che sarebbe necessario portare avanti e rilanciare rimane quello della programmazione economica, combattendo a fondo l’idea che si tratti di uno strumento superato, buono soltanto – al massimo – a coordinare sfere private fondamentalmente irriducibili.
Una riflessione in questo senso potrebbe rappresentare la base per un avvio di programma d’alternativa all’esistente,anche se bussano alle porte nuovamente i temi della limitazione della democrazia e di manomissione della Costituzione Repubblicana.
Quello redatto in questo testo rimane un appunto schematico e lacunoso tirato giù tanto per ricordare qualche passaggio allo scopo di indicare contraddizioni e difficoltà che pure s’incontrarono e si svilupparono nel tempo, ricordando ancora come non sia mai vissuta una presunta “età dell’oro” ma una stagione di grandi lotte sociali e politiche in un quadro di grandi contraddizioni.
Tutto ciò che si ottenne a livello di miglioramento complessivo delle condizioni di vita, che in effetti si verificò, fu frutto di enormi sacrifici di gran parte delle popolazione pagando il prezzo di una distorsione storica che ancora agisce sul presente e sulla quale fanno leva le operazioni in corso da tempo tese a provocare un vero a proprio “arretramento” economico, politico, sociale, culturale.