Il
neoliberismo ha i mesi contati? Inutile fare oroscopi, però è bene
mettere in fila una ormai lunga serie di segnali che evidenziano la
difficoltà – o l’impossibilità – di riproporre per la millesima volta la
stessa ricetta davanti ai venti di crisi globale che stanno
accompagnando questo finale di decennio.
Tenendoci soltanto a questa prima settimana dell’anno, abbiamo dovuto registrare un cambio di prospettiva – assai poco enfatizzato dai media mainstream – addirittura di Mario Monti, secondo cui l’Unione Europea dovrebbe “Delineare una formula per lo scomputo controllato degli investimenti pubblici dal calcolo del deficit; e avviare un deciso intervento di armonizzazione fiscale, che combatta ogni sleale concorrenza basata sulle imposte.”
Sembra una cosetta da nulla, un codicillo da super-tecnici. In realtà è un’idea che richiederebbe la riscrittura di alcuni trattati oggi in vigore, che obbligano a considerare gli investimenti pubblici come “spesa”, al pari di stipendi degli statali, acquisti di armi (peraltro “consigliati” da Ue e Nato), interessi sul debito, sanità, istruzione, ecc. Una autentica “riforma” della Ue che andrebbe in direzione opposta a quella seguita finora, pur restando – ovviamente – del tutto coerente con la difesa oltranzista degli interessi del grande capitale multinazionale.
Perché un guardiano dell’ortodossia come Monti è arrivato a questo punto? Perché la recessione è iniziata (si attendono i dati sul Pil del quarto trimestre per ufficializzarla anche tecnicamente), “i privati” hanno congelato i loro investimenti non vedendo luce nell’immediato futuro, e dunque – se nessuno investe – la crisi può solo aggravarsi.
Fin qui siamo tutti rimasti a galla grazie agli immensi quantitative easing messi in atto prima dalla Federal Reserve statunitense, poi anche dalla BoJ giapponese, dalla Bank of England e dalla Bce. Ma tutto quel denaro “stampato” da nulla non è finito nell’economia reale, ma nei circuiti finanziari, che hanno lo sguardo – al massimo – sui rendimenti trimestrali. Dunque non lasciano “sgocciolare” crediti verso l’economia reale, che ha tempi di realizzo e ritorno mediamente molto più lunghi.
Dunque, “contrordine liberisti!, lo Stato deve poter spendere per investimenti. Poi gli diremo anche quali può fare (quelli che servono al big buniness) e quali no” (indovinate un po’…).
Non sarà semplice invertire la rotta, nel Vecchio Continente, perché l’attuale assetto ha consentito di riscrivere le filiere produttive europee in un senso completamente favorevole alle grandi imprese soprattutto tedesche. E quelli sono interessi che pesano decisamente più della Grecia o dell’Italia. Però qualcosa bisognerà che se lo inventino, perché l’altro pistone del “motore europeo” – la Francia – sta battendo colpi in testa sia sul piano economico che, soprattutto, su quello della tenuta sociale. Se le ruspe prendono come bersaglio i ministeri, invece che i campi rom, come in Italia, per il potere si fa dura…
Ma non è l’unico “revisionista” in campo neoliberista. Il giorno dopo, sul Corriere, l’economista ex Bce Lucrezia Reichlin invita ad un “coordinamento europeo per una forte politica fiscale espansiva”, visto che quella monetaria (ossia la Bce) non può fare più niente. Del resto, il crollo ventennale in Europa degli investimenti e della deflazione salariale ha creato una situazione impossibile: si produce roba mediamente vecchia ed è stato depresso il mercato interno (continentale) che dovrebbe comprarla. L’innovazione, infatti, si fa altrove e il modello mercantilista (bassi salari per rendere più competitivo l’export) non funziona più, perlomeno in tempi di crisi e/o di guerre commerciali (i dazi).
Se ne è accorto persino l’ometto delle banche, quell’Emmanuel Macron che non può più uscire per strada, che l’ultimo giorno dell’anno se n’è uscito con una considerazione che per uno come lui suona come un’ammissione di sconfitta: “Il capitalismo ultraliberista e finanziario, troppo spesso guidato da una visione di corto termine e dall’avidità di qualcuno, va verso la sua fine”. Ma non è che cambia la sua politica di “riforme”, solo per questo…
La Cina – come resocontato altrove – reagisce al rallentamento generale con una poderosissima spinta fatta di incentivi fiscali, alti salari (+15% annuo il livello minimo), investimenti pubblici (rete ferroviaria, ecc).
Ma anche negli Stati Uniti, tra protezionismo e paure di perdere altro consenso sociale, stanno aumentando i salari persino per i lavoratori non qualificati. Non avveniva dagli anni settanta…
Per ora l’insofferenza per l’establishment neoliberista è andato maggioritariamente verso Donald Trump, in chiave nazionalista, razzista, anti-immigrati e anti-cinese. Ma persino lì è emersa una “nuova sinistra” che – orrore! – si professa pubblicamente socialista. Negli Usa, fino a poco tempo fa, era praticamente un insulto e uno stigma che impediva la carriera politica. Oggi non più.
Le proposte che arrivano da questa parte non sono nulla di rivoluzionario, diciamolo subito. In pratica, ripropongono il modello fiscale pre-reaganiano: alta tassazione per i più ricchi e investimenti pubblici. La novità sta soprattutto nell’obiettivo: finanziare la transizione ecologica dal modello industriale fondato sugli idrocarburi ad uno più sostenibile.
Può sembrare, anche in questo caso, poca cosa, ma è praticamente enorme. Sia sul piano della torsione da dare – se si affermerà questa visione – all’intero sistema industriale Usa (e a cascata su tutte le filiere produttive agganciate a quelle statunitensi); sia sul piano sociale. Se si guarda infatti alle “soluzioni europee” pensate fin qui, abbiamo un quadro molto diverso, se non opposto: disincentivare i consumi tramite aumento della tassazione sui carburanti inquinanti (Francia) o, più modestamente, sui nuovi modelli di auto diesel. Un modo, insomma, di far pagare timidi accenni di “transizione ecologica” a lavoratori, in primo luogo pendolari per necessità.
Per un’informazione più dettagliata su quel che cova in America, invitiamo a leggere questo interessante articolo dell’agenzia Agi, che espone le proposte avanzata dalla neoparlamentare socialista Alexandria Ocasio Cortez.
Per capirci: i media mainstream, in questi giorni, ne stanno parlando solo in riferimento a un video girato qualche anno fa – quando era studentessa – in cui, come tanti altri ragazzi della sua età…. balla! (bene, peraltro…).
E poi si chiedono perché i giornali più noti hanno perso così tanta credibilità sociale….
Tenendoci soltanto a questa prima settimana dell’anno, abbiamo dovuto registrare un cambio di prospettiva – assai poco enfatizzato dai media mainstream – addirittura di Mario Monti, secondo cui l’Unione Europea dovrebbe “Delineare una formula per lo scomputo controllato degli investimenti pubblici dal calcolo del deficit; e avviare un deciso intervento di armonizzazione fiscale, che combatta ogni sleale concorrenza basata sulle imposte.”
Sembra una cosetta da nulla, un codicillo da super-tecnici. In realtà è un’idea che richiederebbe la riscrittura di alcuni trattati oggi in vigore, che obbligano a considerare gli investimenti pubblici come “spesa”, al pari di stipendi degli statali, acquisti di armi (peraltro “consigliati” da Ue e Nato), interessi sul debito, sanità, istruzione, ecc. Una autentica “riforma” della Ue che andrebbe in direzione opposta a quella seguita finora, pur restando – ovviamente – del tutto coerente con la difesa oltranzista degli interessi del grande capitale multinazionale.
Perché un guardiano dell’ortodossia come Monti è arrivato a questo punto? Perché la recessione è iniziata (si attendono i dati sul Pil del quarto trimestre per ufficializzarla anche tecnicamente), “i privati” hanno congelato i loro investimenti non vedendo luce nell’immediato futuro, e dunque – se nessuno investe – la crisi può solo aggravarsi.
Fin qui siamo tutti rimasti a galla grazie agli immensi quantitative easing messi in atto prima dalla Federal Reserve statunitense, poi anche dalla BoJ giapponese, dalla Bank of England e dalla Bce. Ma tutto quel denaro “stampato” da nulla non è finito nell’economia reale, ma nei circuiti finanziari, che hanno lo sguardo – al massimo – sui rendimenti trimestrali. Dunque non lasciano “sgocciolare” crediti verso l’economia reale, che ha tempi di realizzo e ritorno mediamente molto più lunghi.
Dunque, “contrordine liberisti!, lo Stato deve poter spendere per investimenti. Poi gli diremo anche quali può fare (quelli che servono al big buniness) e quali no” (indovinate un po’…).
Non sarà semplice invertire la rotta, nel Vecchio Continente, perché l’attuale assetto ha consentito di riscrivere le filiere produttive europee in un senso completamente favorevole alle grandi imprese soprattutto tedesche. E quelli sono interessi che pesano decisamente più della Grecia o dell’Italia. Però qualcosa bisognerà che se lo inventino, perché l’altro pistone del “motore europeo” – la Francia – sta battendo colpi in testa sia sul piano economico che, soprattutto, su quello della tenuta sociale. Se le ruspe prendono come bersaglio i ministeri, invece che i campi rom, come in Italia, per il potere si fa dura…
Ma non è l’unico “revisionista” in campo neoliberista. Il giorno dopo, sul Corriere, l’economista ex Bce Lucrezia Reichlin invita ad un “coordinamento europeo per una forte politica fiscale espansiva”, visto che quella monetaria (ossia la Bce) non può fare più niente. Del resto, il crollo ventennale in Europa degli investimenti e della deflazione salariale ha creato una situazione impossibile: si produce roba mediamente vecchia ed è stato depresso il mercato interno (continentale) che dovrebbe comprarla. L’innovazione, infatti, si fa altrove e il modello mercantilista (bassi salari per rendere più competitivo l’export) non funziona più, perlomeno in tempi di crisi e/o di guerre commerciali (i dazi).
Se ne è accorto persino l’ometto delle banche, quell’Emmanuel Macron che non può più uscire per strada, che l’ultimo giorno dell’anno se n’è uscito con una considerazione che per uno come lui suona come un’ammissione di sconfitta: “Il capitalismo ultraliberista e finanziario, troppo spesso guidato da una visione di corto termine e dall’avidità di qualcuno, va verso la sua fine”. Ma non è che cambia la sua politica di “riforme”, solo per questo…
La Cina – come resocontato altrove – reagisce al rallentamento generale con una poderosissima spinta fatta di incentivi fiscali, alti salari (+15% annuo il livello minimo), investimenti pubblici (rete ferroviaria, ecc).
Ma anche negli Stati Uniti, tra protezionismo e paure di perdere altro consenso sociale, stanno aumentando i salari persino per i lavoratori non qualificati. Non avveniva dagli anni settanta…
Per ora l’insofferenza per l’establishment neoliberista è andato maggioritariamente verso Donald Trump, in chiave nazionalista, razzista, anti-immigrati e anti-cinese. Ma persino lì è emersa una “nuova sinistra” che – orrore! – si professa pubblicamente socialista. Negli Usa, fino a poco tempo fa, era praticamente un insulto e uno stigma che impediva la carriera politica. Oggi non più.
Le proposte che arrivano da questa parte non sono nulla di rivoluzionario, diciamolo subito. In pratica, ripropongono il modello fiscale pre-reaganiano: alta tassazione per i più ricchi e investimenti pubblici. La novità sta soprattutto nell’obiettivo: finanziare la transizione ecologica dal modello industriale fondato sugli idrocarburi ad uno più sostenibile.
Può sembrare, anche in questo caso, poca cosa, ma è praticamente enorme. Sia sul piano della torsione da dare – se si affermerà questa visione – all’intero sistema industriale Usa (e a cascata su tutte le filiere produttive agganciate a quelle statunitensi); sia sul piano sociale. Se si guarda infatti alle “soluzioni europee” pensate fin qui, abbiamo un quadro molto diverso, se non opposto: disincentivare i consumi tramite aumento della tassazione sui carburanti inquinanti (Francia) o, più modestamente, sui nuovi modelli di auto diesel. Un modo, insomma, di far pagare timidi accenni di “transizione ecologica” a lavoratori, in primo luogo pendolari per necessità.
Per un’informazione più dettagliata su quel che cova in America, invitiamo a leggere questo interessante articolo dell’agenzia Agi, che espone le proposte avanzata dalla neoparlamentare socialista Alexandria Ocasio Cortez.
Per capirci: i media mainstream, in questi giorni, ne stanno parlando solo in riferimento a un video girato qualche anno fa – quando era studentessa – in cui, come tanti altri ragazzi della sua età…. balla! (bene, peraltro…).
E poi si chiedono perché i giornali più noti hanno perso così tanta credibilità sociale….
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