mercoledì 16 gennaio 2019

L’elemosina dei miliardari

Nel febbraio 2017, il fondatore e amministratore delegato di Facebook Mark Zuckerberg era su tutte le prime pagine per le sue attività di beneficenza. La Chan Zuckerberg Initiative, fondata dal miliardario della tecnologia e da sua moglie, Priscilla Chan, annunciava di voler elargire oltre tre milioni di dollari in aiuti per la crisi abitativa nella zona della Silicon Valley. David Plouffe, presidente per le strategie e la promozione dell’Iniziativa, ha dichiarato che questi aiuti erano destinati a “sostenere organizzazioni impegnate per aiutare le famiglie in urgente crisi, finanziando la ricerca di nuove idee per soluzioni a lungo termine – una strategia in due fasi che guiderà gran parte delle nostre strategie e azioni di promozione”.

Questa è solo una piccola parte dell’impero filantropico di Zuckerberg. L’iniziativa destinava miliardi di dollari a progetti filantropici mirati ad alleviare problemi sociali, con particolare attenzione alle soluzioni trainate dalla scienza, dalla ricerca medica e dall’istruzione. Tutto era iniziato nel dicembre 2015, quando Zuckerberg e Chan avevano pubblicato una lettera scritta al loro ultimo figlio Max. Nella lettera si impegnavano nel corso della loro vita a destinare il 99% delle loro azioni di Facebook (che in quel momento ammontavano a 45 miliardi di dollari) alla “missione” di “far progredire il potenziale umano e promuovere l’uguaglianza”.

L’iniziativa abitativa si teneva ovviamente molto più vicino a casa, poiché affrontava problemi che si manifestano letteralmente alle porte della sede centrale di Facebook a Menlo Park. In quest’area il prezzo medio di una casa era quasi raddoppiato nel quinquennio tra il 2012 e il 2017, raggiungendo circa i due milioni di dollari.

Più in generale, San Francisco è una città caratterizzata da enormi disuguaglianze di reddito e la reputazione di avere il mercato immobiliare più caro degli Stati Uniti. L’intervento della Chan Zuckerberg era chiaramente mirato a compensare i problemi sociali ed economici causati dagli affitti e dai prezzi delle case, saliti alle stelle, a un livello tale che persino dipendenti con stipendi a sei cifre hanno difficoltà ad arrivare a fine mese. Per chi ha un reddito più modesto, vivere decentemente, per non parlare di avere una famiglia, è quasi impossibile.

Ironia della sorte, proprio il boom del settore tecnologico in questa regione – un boom nel quale Facebook è in prima linea – è stato un importante catalizzatore della crisi. Come spiega Peter Cohen del Council of Community Housing Organizations: “A fronte di una tale concentrazione di ricchezza, il fiume di denaro che circola nel mercato immobiliare non è giustificato dallo sviluppo degli alloggi necessari a una popolazione in crescita. Si tratta semplicemente di speculazione edilizia.”

A prima vista, l’apparente generosità di Zuckerberg è un piccolo tentativo di rimediare al disastro causato dal successo dell’industria nella quale opera. In un certo senso, le sovvenzioni abitative (pari mediamente al prezzo di un vano e mezzo a Menlo Park) cercano di mettere una toppa su un problema che Facebook e altre società della Bay Area hanno causato ed esacerbato. Sembrerebbe che Zuckerberg, in uno slancio di generosità, voglia investire una parte dei proventi del capitalismo tecnologico neoliberista per cercare di affrontare i problemi di polarizzazione della ricchezza creati dallo stesso sistema sociale ed economico che ha permesso a quei proventi di accumularsi.

È facile immaginare Zuckerberg come una specie di CEO-eroe – un ragazzotto il cui genio lo ha reso uno degli uomini più ricchi del mondo, e che ha deciso di usare quella ricchezza a beneficio degli altri. L’immagine che proietta è di altruismo non contaminato dall’interesse personale. Ma grattando appena la superficie si scopre che la struttura dell’opera di beneficenza di Zuckerberg è informata da ben altro che altruismo e buon cuore. Anche se molti hanno applaudito Zuckerberg per la sua generosità, la natura di questa apparente beneficenza è stata apertamente messa in discussione fin dall’inizio.

La lettera di Zuckerberg del 2015 potrebbe facilmente essere interpretata nel senso che l’intenzione fosse quella di destinare interamente i 45 miliardi di dollari in beneficenza. Ma come riportato dal giornalista investigativo Jesse Eisinger, l’iniziativa Chan Zuckerberg, tramite la quale questa donazione doveva essere gestita, non è una fondazione caritatevole senza fini di lucro, bensì una società a responsabilità limitata. Questo status giuridico ha implicazioni pratiche significative, soprattutto per gli aspetti fiscali. Come azienda, l’iniziativa può fare molte cose oltre ad attività di beneficenza: il suo status legale le conferisce il diritto di investire in altre società e di fare donazioni politiche. In effetti la società non limita affatto il potere decisionale di Zuckerberg su ciò che vuole fare con i suoi soldi; resta lui il capo. Inoltre, come spiega Eisinger, l’audace mossa di Zuckerberg ha prodotto un enorme ritorno sull’investimento in termini di pubbliche relazioni per Facebook, anche se in realtà si è trattato semplicemente di “spostare i soldi da una tasca all’altra” rendendo in questo modo “improbabile che alcuna imposta verrà mai pagata”.

La creazione dell’iniziativa Chan Zuckerberg – che, decisamente, non è un’organizzazione benefica – significa che Zuckerberg è in grado di controllare gli investimenti della società come meglio crede, ottenendo significativi vantaggi commerciali, fiscali e politici. Tutto questo non esclude che le motivazioni di Zuckerberg possano includere un moto di generosità o un genuino desiderio di favorire il benessere e l’uguaglianza dell’umanità.

Ciò suggerisce, tuttavia, che quando si tratta di sborsare denaro, l’approccio del CEO è di non vedere alcuna incompatibilità tra altruismo, continuo controllo sui fondi elargiti e aspettativa di ottenere benefici in cambio. Questa riformulazione della generosità – non più considerata incompatibile con il controllo e il guadagno personale – è un segno distintivo della “società dei CEO”: una società in cui i valori associati alla leadership aziendale sono applicati a tutte le dimensioni dell’agire umano.

Mark Zuckerberg non è affatto il primo CEO contemporaneo a promettere ed elargire donazioni su larga scala a buone cause prestabilite. Nella società dei CEO la creazione di strumenti per donare ricchezza è un distintivo d’onore per gli uomini d’affari più ricchi del mondo. È anche stato istituzionalizzato in quella che è nota come The Giving Pledge, una campagna filantropica avviata da Warren Buffett e Bill Gates nel 2010. La campagna si rivolge a miliardari in tutto il mondo, incoraggiandoli a cedere parte della loro ricchezza. L’impegno non specifica a cosa debbano servire esattamente le donazioni, o se debbano essere fatte subito o dopo la morte; è solo un impegno generale a usare la ricchezza privata per un apparente bene comune. Non è nemmeno giuridicamente vincolante, solo un impegno morale.

La lista dei nomi che hanno sottoscritto l’impegno è molto lunga. Ci sono Mark Zuckerberg e Priscilla Chan, insieme ad altri 174, inclusi nomi noti come Richard e Joan Branson, Michael Bloomberg, Barron Hilton e David Rockefeller. Sembrerebbe che molte delle persone più ricche del mondo non vedano l’ora di regalare i propri soldi a buone cause. È quella che i geografi umani Iain Hay e Samantha Muller chiamano con scetticismo “l’età dell’oro della filantropia”: dalla fine degli anni ’90, l’ammontare dei lasciti in beneficenza dei super-ricchi ha raggiunto centinaia di miliardi di dollari. In un articolo del 2014, Hay and Muller sostengono che questi nuovi filantropi abbiano apportato alla beneficenza uno “spirito imprenditoriale”, suggerendo tuttavia che lo scopo ultimo sia “distogliere attenzione e risorse dai fallimenti delle manifestazioni contemporanee del capitalismo”, e che potrebbero sostituirsi all’intervento pubblico che gli stati non sono più in grado di sostenere.

In sostanza, ciò a cui stiamo assistendo è il trasferimento di responsabilità dalle istituzioni democratiche ai ricchi per quanto riguarda beni e servizi pubblici, che verrebbero così amministrati dalla classe imprenditoriale. Nella società dei CEO l’esercizio delle responsabilità sociali non viene più discusso in termini di decidere se le corporazioni debbano o non debbano essere responsabili di aspetti che esulino dai propri interessi commerciali in senso stretto. La questione è piuttosto capire come la filantropia può essere utilizzata per rafforzare un sistema politico-economico che consenta a un numero così esiguo di persone di accumulare quantità di ricchezza oscene. L’investimento di Zuckerberg per risolvere la crisi abitativa della Bay Area è un esempio di questa tendenza generale.

Il finanziamento di progetti pubblici con la beneficenza di imprenditori miliardari fa parte di quello che è stato chiamato “filantrocapitalismo”. Così si spiega l’apparente antinomia tra beneficenza (tradizionalmente focalizzata sul dare) e il capitalismo (basato sul perseguimento dell’interesse economico personale). Come spiega lo storico Mikkel Thorup, il filantrocapitalismo si fonda sull’affermazione che “i meccanismi capitalistici sono superiori a tutti gli altri (specialmente allo stato) quando si tratta non solo di creare progresso economico ma anche umano, e il mercato, o gli attori del mercato, sono o dovrebbero essere nella posizione migliore per costruire una buona società”.

L’età d’oro della filantropia non riguarda solo i vantaggi cumulati dai singoli donatori. Più in generale, la filantropia serve a legittimare il capitalismo, nonché a estenderlo sempre di più a tutti i campi di attività sociale, culturale e politica.

Il filantrocapitalismo è molto più che un finto atto di generosità: mira anche ad instillare i valori neoliberisti personificati dai CEO miliardari che se ne fanno onere. La filantropia viene dunque riformulata negli stessi termini con cui un CEO considererebbe un’impresa commerciale. L’offerta di beneficenza si traduce in un modello di business che impiega soluzioni basate sul mercato, caratterizzate dall’efficienza e dalla quantificazione di costi e benefici.

Il filantrocapitalismo riprende l’applicazione del modus operandi e delle pratiche di gestione delle società commerciali, adattandole al campo sociale. L’attenzione è focalizzata su imprenditorialità, approcci basati sul mercato e indicatori del rendimento. Il processo è finanziato da imprenditori super-ricchi e gestito da personale con esperienza nel mondo degli affari. Il risultato, a livello pratico, è che la filantropia è intrapresa dai CEO in modo simile alla gestione di un’impresa.

Il questo contesto, le fondazioni di beneficenza negli ultimi anni hanno subito un mutamento. Come spiegato in un articolo di Garry Jenkins, professore di giurisprudenza all’Università del Minnesota, sono divenute “sempre più compartimentate, regolamentate, impostate su dati metrici e orientate al business nelle loro interazioni con gli enti pubblici, allo scopo di presentare il lavoro della fondazione come ‘strategico’ e ‘affidabile’”.

Tutto ciò è ben lontano dal benevolo passaggio a un modo diverso e migliore di fare cose che afferma di essere – uno stile iper-capitalistico per “salvare il mondo attraverso il pensiero imprenditoriale e i metodi di mercato”, nelle parole di Jenkins. Il rischio del filantrocapitalismo sta piuttosto nell’assorbimento delle opere sociali da parte degli interessi commerciali, tale che la generosità verso gli altri venga inglobata nel predominante dominio del modello capitalistico della società e delle sue istituzioni aziendali.

Il CEO moderno è in prima linea nella scena politica e dei media. Questo spesso porta i CEO a diventare personaggi famosi, ma nel contempo li espone al rischio di essere identificati come capri espiatori per tutte le ingiustizie economiche. Il ruolo pubblico assunto sempre più spesso dagli amministratori delegati è legato alla nuova impronta corporativa della loro più ampia responsabilità sociale. Le imprese devono ora bilanciare, almeno retoricamente, un duplice impegno tra profitti ed esiti sociali. Ciò si riflette nella promozione della “tripla linea di fondo”, che nel reporting aziendale combina priorità sociali, finanziarie e ambientali.

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