Qualcuno,
nella Cgil, si doveva essere illuso che la nomina di Maurizio Landini a
segretario generale significasse davvero una “svolta a sinistra” per
quel che resta ancora “il più grande sindacato italiano”. Illusione
durata poche ore…
La vicenda del doppio tweet sul Venezuela sarebbe solo grottesca se non rivelasse, invece, qualcosa di più profondo e serio: l’inconsistenza assoluta del concetto di “sinistra” nell’attuale panorama politico italiano.
Ieri mattina – 24 gennaio – mentre il Congresso va cercando la “quadra” sulla composizione della segreteria confederale (spartendo gli incarichi tra i sostenitori del neosegretario e quelli dell’ex avversario ora vice, Colla), alle 13.36 parte un tweet di aperta condanna delle “ingerenze esterne” negli affari del Venezuela: “Il Congresso Cgil, secondo i propri principi di libertà , democrazia e solidarietà, approva una mozione di condanna verso l’autoproclamazione di Juan Guaidò a presidente e le ingerenze esterne verso la presidenza democraticamente eletta di Maduro”.
Momenti di incertezza, stupore e – per moltissimi – anche di sollievo. Che una forza sindacale di quella storia e dimensioni mantenga un briciolo di memoria sulle questioni internazionali sarebbe comunque un buon segnale, nella devastata “cultura politica” di questo paese.
Tanto più che il giorno prima, a Treviso, la locale sezione dei pensionati Spi-Cgil aveva invece promosso un presidio pro-golpisti; andato deserto, ma finito al centro della comunicazione social. Insomma, su una cosa su cui è davvero difficile restare neutrali come un tentativo di golpe, quel tweet sembrava porre la parola fine alla domanda: “da che parte sta la Cgil?”
Per chi nutre meno illusioni sull’autoproclamato mondo della “sinistra” italica, invece, quel doppio messaggio indicava che nel corpaccione Cgil ognuno – renziani, bersaniani, dalemiani, martiniani, zingarettiani, comunisti rimasti lì per ragioni ormai incomprensibili, ecc – stava andando per la sua strada. Restituendo così l’immagine di un sindacato privo di identità e direzione.
Caos – ed equivoci – durato poche ore. Alle 17.37 un secondo tweet definiva un “errore” quello di quattro ore prima, sintetizzando il testo integrale della mozione con le parole: “Nessun sostegno a Maduro, né alle ingerenze esterne”.
Non è difficile capire cos’è accaduto in quelle quattro ore. La differenza di posizionamento tra golpisti filomericani e non si è consumata a colpi di giochi di parole per trovare la formula che mettesse tutti d’accordo. Una classica posizione “né, né” che può andar bene per problemi che, in fondo, non ci riguardano… Che non sono, come si usa dire, “divisivi”.
Il problema è che quel che accade in Venezuela, per come accade e per i protagonisti – da un lato un governo democraticamente eletto lo scorso 20 maggio, sotto il controllo di numerosi organismi internazionali (tra cui l’istituto statunitense dell’ex presidente Jimmy Carter), dall’altra una potenza imperiale che ha deciso di riprendersi il “cortile di casa” latinoamericano a colpi di golpe, a volte giudiziari (Paraguay, Brasile, Argentina), altre militari (Honduras) – è un fatto che riguarda tutti. E divide il bene dal male, il giusto dall’ingiusto, l’aggredito dall’aggressore.
E infine perché bisogna pur sapere se il “gioco democratico” è reale – e quindi ogni popolo può eleggere il governo che più gli aggrada, per fare le politiche che preferisce – oppure serve solo a coprire le scelte insindacabili della potenza che controlla una determinata area. Un interrogativo che vale in modo hard per l’America Latina, e in modo più soft per l’Europa (i “trattati” della Ue determinano al millimetro i margini di manovra dei governi nazionali), ma a cui va data una risposta chiara. E soprattutto vera.
La Cgil ha agito, su questo punto, secondo le solite modalità della “sinistra” italica: un sapiente giro di parole, mezze verità, non detti, allusioni, colpi al cerchio e alla botte, termini vaghi fino all’inconsistenza… tutto per non prendere una posizione dotata di senso politico e sindacale.
Davanti a una potenziale guerra civile innescata dall’intervento finanziario-politico e militare (per ora solo minacciato, da Washington) non esiste alcuna possibile “terza posizione” (né… né…). Davanti all’ennesima aggressione a un paese colpevole di avere le più grandi riserve petrolifere del pianeta (al pari e forse più dell’Arabia Saudita), retto da un partito-movimento progressista capace di reggere alla morte del fondatore – Chavez – e di affrontare oltre venti tornate elettorali in 20 anni (alcune volte perdendo, quasi sempre vincendole), non si può giocare con le parole sulle tragedie altrui.
Per esser chiari: va benissimo che si condannino “con estrema fermezza le ingerenze e le pressioni esterne, a partire dall’embargo imposto dagli USA su farmaci e sistema finanziario, che anziché aiutare il Venezuela ad uscire da questa crisi, ne hanno favorito la crescita, la profondità e la distanza tra le parti”, così come “le immediate prese di posizione a favore dell’auto-proclamazione a capo dello stato del presidente del Parlamento, Juan Guaidò”. Ma che senso ha “rivolgere un appello alle istituzioni ed al governo del Venezuela affinché siano garantiti i diritti e le libertà di espressione e di associazione senza nessun tipo di discriminazione”?
Se in Venezuela si vota liberamente da 20 anni significa che sono già “garantiti i diritti e le libertà di espressione e di associazione senza nessun tipo di discriminazione”. Se poi tre partiti di estrema destra non si presentano all’ultima di queste elezioni e alimentano invece attacchi armati alle istituzioni – compreso un tentativo di attentato con i droni contro lo stesso Maduro – non si può certo chiedere al governo “democraticamente eletto” di farsi ordinatamente da parte.
Tra Pinochet e Allende bisognava scegliere, e – nella “sinistra” di allora – abbiamo tutti scelto di stare dalla stessa parte. Tra Maduro e Gaidò c’è da fare l’identica scelta; l’unica differenza decisiva non è nella ovvia e diversa personalità dei due presidenti progressisti, ma nella fedeltà dell’esercito venezuelano al governo legittimo del paese, anziché agli ordini degli Usa.
Ogni scelta divide e unisce allo stesso tempo, perché avviene davanti a un bivio. E, come a ogni bivio, chi non vuole scegliere finisce per schiantarsi sul guard rail… Alla “sinistra” italiana questo schianto capita ogni giorno.
La vicenda del doppio tweet sul Venezuela sarebbe solo grottesca se non rivelasse, invece, qualcosa di più profondo e serio: l’inconsistenza assoluta del concetto di “sinistra” nell’attuale panorama politico italiano.
Ieri mattina – 24 gennaio – mentre il Congresso va cercando la “quadra” sulla composizione della segreteria confederale (spartendo gli incarichi tra i sostenitori del neosegretario e quelli dell’ex avversario ora vice, Colla), alle 13.36 parte un tweet di aperta condanna delle “ingerenze esterne” negli affari del Venezuela: “Il Congresso Cgil, secondo i propri principi di libertà , democrazia e solidarietà, approva una mozione di condanna verso l’autoproclamazione di Juan Guaidò a presidente e le ingerenze esterne verso la presidenza democraticamente eletta di Maduro”.
Momenti di incertezza, stupore e – per moltissimi – anche di sollievo. Che una forza sindacale di quella storia e dimensioni mantenga un briciolo di memoria sulle questioni internazionali sarebbe comunque un buon segnale, nella devastata “cultura politica” di questo paese.
Tanto più che il giorno prima, a Treviso, la locale sezione dei pensionati Spi-Cgil aveva invece promosso un presidio pro-golpisti; andato deserto, ma finito al centro della comunicazione social. Insomma, su una cosa su cui è davvero difficile restare neutrali come un tentativo di golpe, quel tweet sembrava porre la parola fine alla domanda: “da che parte sta la Cgil?”
Per chi nutre meno illusioni sull’autoproclamato mondo della “sinistra” italica, invece, quel doppio messaggio indicava che nel corpaccione Cgil ognuno – renziani, bersaniani, dalemiani, martiniani, zingarettiani, comunisti rimasti lì per ragioni ormai incomprensibili, ecc – stava andando per la sua strada. Restituendo così l’immagine di un sindacato privo di identità e direzione.
Caos – ed equivoci – durato poche ore. Alle 17.37 un secondo tweet definiva un “errore” quello di quattro ore prima, sintetizzando il testo integrale della mozione con le parole: “Nessun sostegno a Maduro, né alle ingerenze esterne”.
Non è difficile capire cos’è accaduto in quelle quattro ore. La differenza di posizionamento tra golpisti filomericani e non si è consumata a colpi di giochi di parole per trovare la formula che mettesse tutti d’accordo. Una classica posizione “né, né” che può andar bene per problemi che, in fondo, non ci riguardano… Che non sono, come si usa dire, “divisivi”.
Il problema è che quel che accade in Venezuela, per come accade e per i protagonisti – da un lato un governo democraticamente eletto lo scorso 20 maggio, sotto il controllo di numerosi organismi internazionali (tra cui l’istituto statunitense dell’ex presidente Jimmy Carter), dall’altra una potenza imperiale che ha deciso di riprendersi il “cortile di casa” latinoamericano a colpi di golpe, a volte giudiziari (Paraguay, Brasile, Argentina), altre militari (Honduras) – è un fatto che riguarda tutti. E divide il bene dal male, il giusto dall’ingiusto, l’aggredito dall’aggressore.
E infine perché bisogna pur sapere se il “gioco democratico” è reale – e quindi ogni popolo può eleggere il governo che più gli aggrada, per fare le politiche che preferisce – oppure serve solo a coprire le scelte insindacabili della potenza che controlla una determinata area. Un interrogativo che vale in modo hard per l’America Latina, e in modo più soft per l’Europa (i “trattati” della Ue determinano al millimetro i margini di manovra dei governi nazionali), ma a cui va data una risposta chiara. E soprattutto vera.
La Cgil ha agito, su questo punto, secondo le solite modalità della “sinistra” italica: un sapiente giro di parole, mezze verità, non detti, allusioni, colpi al cerchio e alla botte, termini vaghi fino all’inconsistenza… tutto per non prendere una posizione dotata di senso politico e sindacale.
Davanti a una potenziale guerra civile innescata dall’intervento finanziario-politico e militare (per ora solo minacciato, da Washington) non esiste alcuna possibile “terza posizione” (né… né…). Davanti all’ennesima aggressione a un paese colpevole di avere le più grandi riserve petrolifere del pianeta (al pari e forse più dell’Arabia Saudita), retto da un partito-movimento progressista capace di reggere alla morte del fondatore – Chavez – e di affrontare oltre venti tornate elettorali in 20 anni (alcune volte perdendo, quasi sempre vincendole), non si può giocare con le parole sulle tragedie altrui.
Per esser chiari: va benissimo che si condannino “con estrema fermezza le ingerenze e le pressioni esterne, a partire dall’embargo imposto dagli USA su farmaci e sistema finanziario, che anziché aiutare il Venezuela ad uscire da questa crisi, ne hanno favorito la crescita, la profondità e la distanza tra le parti”, così come “le immediate prese di posizione a favore dell’auto-proclamazione a capo dello stato del presidente del Parlamento, Juan Guaidò”. Ma che senso ha “rivolgere un appello alle istituzioni ed al governo del Venezuela affinché siano garantiti i diritti e le libertà di espressione e di associazione senza nessun tipo di discriminazione”?
Se in Venezuela si vota liberamente da 20 anni significa che sono già “garantiti i diritti e le libertà di espressione e di associazione senza nessun tipo di discriminazione”. Se poi tre partiti di estrema destra non si presentano all’ultima di queste elezioni e alimentano invece attacchi armati alle istituzioni – compreso un tentativo di attentato con i droni contro lo stesso Maduro – non si può certo chiedere al governo “democraticamente eletto” di farsi ordinatamente da parte.
Tra Pinochet e Allende bisognava scegliere, e – nella “sinistra” di allora – abbiamo tutti scelto di stare dalla stessa parte. Tra Maduro e Gaidò c’è da fare l’identica scelta; l’unica differenza decisiva non è nella ovvia e diversa personalità dei due presidenti progressisti, ma nella fedeltà dell’esercito venezuelano al governo legittimo del paese, anziché agli ordini degli Usa.
Ogni scelta divide e unisce allo stesso tempo, perché avviene davanti a un bivio. E, come a ogni bivio, chi non vuole scegliere finisce per schiantarsi sul guard rail… Alla “sinistra” italiana questo schianto capita ogni giorno.
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