lunedì 29 febbraio 2016

DRONI, SPIATE AMERICANE E LA FINTA GLASNOST DI RENZI

Mentre prosegue l’occupazione Usa di Sigonella, con i Droni pronti a partire per la Libia, veniamo a sapere “ufficialmente” che gli americani hanno spiato il governo Berlusconi nel 2011. Non basta, perchè è freschissima la condanna europea inflitta all’Italia per il caso Abu Omar, l’imam rapito e torturato poi nelle galere egiziane, una perfetta collaborazione tra Servizi e Cia. Ciliegina sulla torta: la “trasparenza” proclamata ai quattro venti un anno e mezzo fa da Renzi & C. in materia di stragi e misteri di Stato è tutto un bluff, una autentica patacca, come denunciano – indignati – i familiari delle vittime, fregati e sbeffeggiati per l’ennesima volta.
Riavvolgiamo il nastro e vediamo in quale modo il nostro Paese guidato dal super Rottamatore sta inginocchiandosi sempre di più di fronte al Moloch a stelle e strisce: oggi ancora impersonato dal “mite” Obama, domani forse da uno tsunami chiamato Trump. Per la serie: quando mai l’Italia rialzerà la schiena, di fronte ai diktat sempre più imperialistici di marca statunitense? Quando una vera opposizione agli ordini di frau Merkel su scala europea? Utopie, oggi, quando il maggiordomo Renzi va in giro per il mondo a raccontare le sue favolette a base di scout e giovani marmotte.
Primo atto. 22 febbraio. Dal Belpaese l’ok agli States: le piste di Sigonella – storico avamposto in provincia di Catania che un tempo Bettino Craxi osò contestare a Reagan & C. – verranno gentilmente concesse dall’attuale leadership (sic) italiana ai droni armati yankee per “liberare” la Libia e, se possibile, tutto il nord Africa, oppresso dalle milizie dello stato islamico, questo mostro chiamato Daesh. Un primo assaggio, un vero antipasto al possibile attacco di terra, che vedrà ancora una volta genuflesso – perfetto stile tappetino – l’esecutivo di casa nostra.
Schermata 2016-02-23 alle 20.08.04Il polo logistico di riferimento per le “manovre” della sesta flotta Usa, in territorio siciliano, già da anni ospita un bell’arsenale da guerra, composto da una portaerei della marina a stelle e strisce, super dotata di velivoli P3 Orion da pattugliamento. Nella list, poi, tre droni Global Hawk da ricognizione (che si aggiungono ad altri cinque targati Nato). Ancora: sempre pronti per l’uso, nella base strategica di Sigonella, 6 droni, stavolta Predator. Ma la novità fresca fresca di giornata sono i droni Raper, della generazione Predator B, ai quali i vertici militari Usa hanno già fatto ricorso per “azioni mirate”, le famose “operazioni chirurgiche” già sperimentate nella guerra d’occupazione irachena anni fa, quando venivano “chirurgicamente”, appunto, bombardati ospedali e scuole, allegramente scambiate per avamposti del terrore e basi logistiche di assatanati fedelissimi di Saddam. Ufficialmente, comunque, i Raper (“mietitori”, come la terribile morte falciatrice nei dipinti di Van Gogh), sono impiegati per “proteggere” (sic) i militari votati alla “lotta al terrorismo”, quindi solo in funzione “umanitaria”. Ma c’è una altrettanto umana, e generosa postilla, nell’accordo raggiunto con i nostri vertici politici e militari: il governo Renzi, infatti, dovrà dare di volta in volta la propria autorizzazione alle operazioni, una sorta di semaforo verde: c’è da immaginare qualche timido no o sbiadito disco rosso?
CARI AMICI USA, VOLETE SPIARCI? PREGO, ACCOMODATEVI
Secondo atto (ma guarda caso in perfetto sincronismo con il primo). Dal pozzo sempre ricco di Wikileaks, spunta adesso la conferma di un sospetto più che concreto ormai da anni. I nostri esecutivi – del resto fantoccio – sono costantemente “monitorati”, ossia spiati, dagli amici-alleati americani: stesso copione andato in onda, circa un anno fa, con gli altri amici e alleati, i tedeschi della cancelliera Angela, che s’incavolò, ma non più di tanto: evidenti prassi in voga tra il Padrone indiscusso del vapore, la corazzata a stelle e strisce, e i sudditi europei, nella cui classifica parziale l’Italia è ottima cameriera multiuso. Nel mirino, in particolare, l’ultimo governo Berlusconi: regolarmente intercettate tutte le conversazioni (telefoniche e non solo) dell’ex premier e dei suoi collaboratori con i leader di mezzo mondo. E – si scopre – un deciso “intervento” per far cadere quel governo, comunque uscito dalle urne, e per consegnare il Paese-vassallo ad una serie di esecutivi (Monti, Letta, Renzi) mai votati dagli italiani e quindi ovviamente scelti da altri: Usa e Bankster europei, in perfetta sintonia, per far del Belpaese una colonia da mangiare pezzo dopo pezzo, svendere al “peggiore” offerente, con un popolo italiano ormai autentica carne da cannone.
Nicolò Pollari
Nicolò Pollari
Un vero “contrappasso”, per sua Emittenza Berlusconi, che aveva usato un identico metodo, dieci anni prima, per monitorare, controllare e spiare i suoi “nemici” politici, quando inaugurò il suo esecutivo 2001, il dopo D’Alema. Vennero allertati, allora, i Servizi segreti guidati da Nicolò Pollari che, col fido braccio destro Pio Pompa, dossierò decine e decine fra magistrati, giornalisti (a quanto pare la “cupola” disinformativa faceva capo proprio alla Voce delle Voci!) e politici al fine di delegittimarli e creare ogni possibile intralcio alla loro attività.
Tutto venne per caso alla luce nel corso delle indagini per il rapimento dell’imam Abu Omar, su cui indagava la Procura di Milano. Nel corso di una perquisizione negli archivi romani di Via Nazionale dei Servizi made in Pollari, vennero scoperte decine di fascicoli riguardanti proprio i presunti “anti Berlusconi”. Da qui un’altra inchiesta della magistratura romana, poi spostata per competenza a Perugia visto che tra i dossierati c’erano anche alcune toghe che lavoravano nella capitale. Da allora, un incredibile balletto che ha coinvolto anche la Corte Costituzionale, visto che la difesa degli imputati (Pollari, Pompa & C.) si è sempre trincerata dietro il muro di gomma del “segreto di stato”, assurdo in questo caso: i Servizi, infatti, hanno illegalmente dirottato fondi pubblici dedicati alla sicurezza per fini privati, ossia quel controllo ordinato da Berlusconi. Incredibile ma vero, tutti i premier che si sono succeduti (Prodi, ri-Berlusconi, e gli ultime tre non eletti) hanno invariabilmente opposto il “Segreto di Stato” per coprire operazioni altrimenti indifendibili! Nello stesso modo – su tutt’altro terreno, e in maniera altrettanto ai confini della realtà – l’esecutivo Renzi ha opposto il taumaturgico “Segreto di Stato” anche in tema di “derivati”: per la serie, i risparmiatori non potranno mai sapere quali sono gli accordi segreti – anche internazionali – che le banche hanno sottoscritto sul fronte dei bond spazzatura somministrati agli inconsapevoli risparmiatori (come è successo anche per le 4 banche killer).
Osserva un esperto di diritto internazionale: “il segreto di stato può essere invocato solo e unicamente per problemi inerenti la sicurezza del Paese, ossia per qualsiasi cosa che abbia a vedere con grossi problemi di politica estera, possibili conflitti con altre nazioni. Cosa ci possono mai entrare, in tutto questo, i bond? I traffici delle banche? I dossieraggi ordinati da un premier ai Servizi per fatti personali e non di sicurezza nazionale pubblica? Si tratta solo di ridicole scuse per coprire manovre che niente hanno a che vedere con la trasparenza e il rispetto minimo della privacy”.
ABU OMAR, LA CONDANNA DA STRASBURGO
Torniamo ad Abu Omar, perchè siamo al terzo atto, anche questo “fresco fresco”. Altri incredibili rimbalzi fra tribunali e corti italiane ed internazionali. Ultimo, in ordine di tempo, il pronunciamento della Corte europea per i diritti dell’uomo, che inchioda l’Italia alle sue responsabilità. Le nostre autorità, secondo Strasburgo, “erano a conoscenza dell’extraordinary rendition”, ossia di tutte le trame messe in campo dagli Usa, con il centro Cia di Milano, per rapire, segregare, e quindi inviare, come un pacco postale, Abu Omar in Egitto, dove venne torturato a puntino dalle locali “autorità”. Hanno mai passato qualcosa, subito qualche conseguenza gli 007 di casa nostra, i consueti Pollari & C.? Macchè. Il solito Segreto di stato salvatutto. Arriva solo adesso – meglio tardi che mai, dopo un decennio abbondante da quei fatti criminosi – il provvedimento di Strasburgo, che alza definitivamente il sipario e certifica quella connection Usa (sempre a dirigere l’orchestra) e noi ad eseguire lo spartito: “norme violate – scrive la corte europea – torture e maltrattamenti accertati”. Così come è accertata la collusione tra i due paesi, e il nostro viene condannato ad un risarcimento da 70 mila euro (una bazzecola, comunque, rispetto a quanto fatto) per Abu Omar, e da 15 mila euro per sua moglie. La sentenza – se non verrà appellata dal nostro Stato – diventerà definitiva fra tre mesi. Un altro calcio in pieno viso per il governo Renzi, prono, come quelli che lo hanno preceduto, di fronte ai diktat yankee.
Del resto, come si spiegano altri “misteri”? In particolare, il mistero sul disvelamento dei misteri? Mistero che continua, letterale presa “per il culo” degli italiani, con i comitati di familiari delle vittime delle stragi di Stato – da Ustica a Bologna, da piazza Fontana a Brescia – che urlano il loro ennesimo dolore e la loro ennesima stradelusione per uno Stato prima complice, poi depistatore, quindi finto “amico” votato alla nuova glasnost, la trasparenza, la magica apertura degli ammuffiti archivi con tutti gli esplosivi segreti nascosti da anni.
A metà 2014 le trombe del premier Renzi: verità per tutti, aperti gli archivi. A seguire la fanfara del direttore del DIS (Dipartimento Informazione e Sicurezza), Giampiero Massolo, che annunciò in pompa magna l’Operazione Trasparenza. “Siamo felici di questo nuovo patto con gli italiani – per far chiarezza dopo anni di buio, far entrare la luce del sole in questi archivi. E’ iniziata una nuova era”. Adesso si vede. “Se i Servizi segreti fanno i furbetti e continuano a nascondere le carte sulle stragi – denunciano senza reticenza i comitati – Renzi li rimetta in riga, altrimenti perde la faccia”. La cosiddetta “direttiva Renzi”, infatti, circa un anno e mezzo fa aveva dato disco verde alla desecretazione, e quindi all’accesso pubblico ad una mole di documenti relativi alle stragi di Stato. Una finta, una presa in giro, vedendo adesso i risultati della “sceneggiata”. “Il metodo ‘tecnico’ di versamento è un nuovo muro di gomma – è il j’accuse dei familiari – sembra fatto apposta per boicottare la direttiva: la volontà di depistare continua”. Non sa o fa finta di non sapere Alice-Renzi? Che ora quella ‘faccia’ rischia di perderla sul serio. “Tra quei documenti non c’è nulla – viene denunciato – nessun riferimento agli autori delle stragi, ai mandanti, ai complotti internazionali, ai rapporti con istituzioni, servizi segreti nostrani o stranieri”.
Caccia al tesoro inutile? Depistaggio nel depistaggio? A quanto pare, infatti, le carte “vere”, l’archivio autentico sarebbe sparito, o comunque disseminato in vari “giacimenti”: uno di questi – forse il più “ricco” – a quanto pare si trova in un fabbricato lungo la circumvallazione Appia a Roma. Staremo a vedere. Per capire, in modo particolare, fino a che punto Lorsignori sono disposti a proseguire nella “Sceneggiata”, al solito sulle pelle di chi ha già subito lutti & ingiustizie di Stato.
MISTER AFEF, QUELLA MAMMOLA PERSEGUITATA
Finalino ancora a base di Servizi, sempre ottimi e abbondanti. E in onda l’ennesima sceneggiata. Protagonista, stavolta, mister Pirelli, Marco Tronchetti Provera: il quale, ancora una volta, viene crocifisso sull’altare della giustizia. Dovrà infatti subire – lui, viola mammola – l’ennesimo processo per via degli spionaggi targati “Kroll”, la multinazionale Usa dedita, a sua volta, allo spionaggio. Per la serie: se lo spione spia altri spioni. Sul banco degli imputati la Tavaroli band, il Tiger Team della security made in Telecom-Pirelli e quindi agli ordini del super capo Tronchetti Provera. Condannato in primo grado a 20 mesi di galera, scagionato in appello, per mister pneumatico la Cassazione ora ha deciso per un nuovo giudizio, e quindi rispedito gli atti al secondo grado, evidentemente non convinta dei motivi di assoluzione.
Una matassa che più intricata non si può. Molto più semplice la vicenda di altri spionaggi in casa Telecom-Pirelli, le famose migliaia di intercettazioni e dossieraggi ordinati dal capo ai suoi dipendenti, guidati dal tandem Mancini-Tavaroli: a carico di “avversari” politici (stile Berlusconi-Pompa), economico-finanziari, sportivi (l’avversario della sua Inter, ossia il direttore della Juve Luciano Moggi, ma anche il “suo” Bobo Vieri), e perfino la moglie Afef, sulla quale evidentemente nutriva qualche piccolo dubbio. Per le toghe meneghine, però, da quelle accuse giglio Tronchetti andava assolutamente assolto: per la serie, poteva tranquillamente non sapere. Ossia: erano i ficcanaso agli ordini di Tavaroli & Mancini a voler scoprire quegli altarini che interessavano al Capo. Ma lo facevano a sua insaputa…

domenica 28 febbraio 2016

Sempre più connessi, ma con quali rischi?

Secondo le recenti statistiche, solamente l’11 per cento dei ragazzi italiani di età compresa tra gli 11 e i 18 anni non ha ancora un accesso a internet. E se pensiamo che su questo 11 per cento incide in modo determinante la quota di famiglie che vieta l’uso dei social, allora è chiaro come la totalità degli adolescenti tenda a utilizzare internet e il web. Un dato molto significativo, a tal proposito, riguarda la percentuale di giovani che ogni giorno chatta con qualcuno: ben il 93 per cento.
RISCHI E PERICOLI DI INTERNET -
I nostri ragazzi, insomma, sono sempre più connessi, ma quali sono i rischi a cui vanno incontro? Il 64 per cento di loro pensa che il rischio maggiore che possa arrivare dalla rete è il bullismo, seguito dallo spaccio di sostanze stupefacenti e dalle molestie sessuali. Un altro dato molto interessante è che il 36 per cento dei ragazzi si dice consapevole del pericolo isolamento: il timore che internet possa isolare invece di allargare conoscenze e relazioni appare infatti molto diffuso.

venerdì 26 febbraio 2016

Lavoratori sfruttati e precari: il fine della buona scuola

Le disposizioni sull’alternanza scuola-lavoro, se per un verso il Miur non dà chiare indicazioni, dall’altro avrebbe lo scopo di “attuare modalità di apprendimento flessibili ed equivalenti sotto il profilo culturale ed educativo, rispetto agli esiti dei percorsi del secondo ciclo, che colleghino sistematicamente la formazione in aula con l’esperienza pratica”, e di “arricchire la formazione acquisita nei percorsi scolastici e formativi con l’acquisizione di competenze spendibili anche nel mercato del lavoro”.
E già questo linguaggio, spiega Internazionale.it, vaghissimo e in aziendalese dovrebbe mettere in allerta. E difatti le proposte che arrivano alle scuole sono le più disparate: dal volontarismo ai negozi di abbigliamento che cercano commessi, dalle agenzie pubblicitarie (che cercano volantinatori e uomini sandwich) alle società di marketing fino anche alle parrocchie dove imparare a fare l’aiutante della perpetua.
La caratteristica comune di tutti questi progetti (di cui né ministero né le singole scuole sono tenuti a verifica in anticipo) è che gli studenti impegnati in quest’alternanza andranno a lavorare gratis e raramente potrà assicurare quell’“acquisizione di competenze da spendere nel mercato del lavoro”. Mentre per le aziende si tratterà di disporre a getto continuo, durante tutto l’anno scolastico, di una manodopera giovane, generalmente motivata, non pagata.
I nuovi esperti di riferimento del Miur immaginano un mondo in cui la scuola debba formare, di fatto, al precariato e allo sfruttamento.
Dall’ultimo censimento Unioncamere risultano 117.000 posizioni di lavoro disponibili. Ed economisti e sociologi parlano di mezzo milione di posti scoperti per mancanza di qualificazione. Ma è davvero possibile di questi tempi?
Possibilissimo se fra questi lavori c’è anche quello di “porcaio”.
Ma, sottolinea L’internazionale, il punto è: quanti ragazzi o quanti dei loro genitori accetterebbero un simile lavoro.
Nessuno lo accetterebbe se si trattasse di attendere ai maiali per tutta la vita. Ma non è un lavoro da disprezzare: si possono apprendere nozioni di biologia, fisiologia. Perché non può far parte di un percorso di studi per diventare veterinario? Si deve accettare l’idea di cambiare lavoro. Eppure è più semplice se il lavoro resta lo stesso per tutta la vita: sindacati, burocrazia e aziende, troppi hanno interesse a mantenere un lavoro ‘per sempre’.
Dietro questa visione si nascondono due bugie: la prima, che i progetti di alternanza scuola-lavoro sono formativi; la seconda, che il progetto pedagogico consiste nel fare il porcaio sottopagato per diventare, magicamente, veterinario, invece di prevedere investimenti in ricerca e in istruzione di alto livello.
I nuovi esperti di riferimento di questo ministero dell’istruzione immaginano un mondo in cui serve sempre meno lavoro, in cui la scuola, non solo quella superiore, debba formare non al lavoro qualificato, ma alla flessibilità, all’adattamento. Di fatto: al precariato e allo sfruttamento.
Cos’altro sono duecento o quattro ore non pagate? Perché lo stesso studente non potrebbe decidere – se vuole rendersi economicamente più autonomo – di svolgere lo stesso lavoro d’estate ma pagato? Perché lo stesso studente non potrebbe decidere di dedicare lo stesso tempo a formarsi sul molto altro su cui spesso la scuola italiana è carente? Perché lo stesso studente non può immaginare di evitare di usare questo tempo per quella che di fatto è un’ulteriore materia curricolare, e invece studiare meglio le materie che fanno parte del corso di studi che ha scelto?
Non è difficile ammettere che la ratio dell’alternanza scuola-lavoro è: non investire nella formazione permanente destinata al mondo del lavoro, ma cercare di trasformare il prima possibile gli studenti in operai disponibili ai lavori sottopagati e precari, con nessuna possibilità di avanzamento

giovedì 25 febbraio 2016

Contratti derivati, un segreto di Stato

Il Ministero dell'Economia ha negato la consegna e la diffusione di copia dei contratti derivati tra lo Stato italiano e alcune banche d'affari internazionali.
Francesco Bochicchio - In queste settimane di turbolenze bancarie appare evidente che il governo ha qualche problema a confrontarsi in maniera adeguata con il settore e i temi finanziari. Può essere utile, a questo proposito, ricordare un altro episodio che rimonta a sole alcune settimane fa e che è passato quasi inosservato.
Il Ministero dell'Economia, di fronte alle pressanti richieste di alcuni settori dell'opinione pubblica, del Movimento5Stelle, di alcune associazioni di consumatori, di trasmissioni televisive e di alcune testate giornalistiche, ha negato la consegna e la diffusione di copia dei contratti derivati tra lo Stato italiano e alcune banche d'affari internazionali.
Gli aspetti tecnici dei derivati con lo Stato
Si tratta di un diniego del tutto surreale ed in contrasto con la normativa. L'offerta al pubblico di strumenti derivati è un'attività di servizi di investimento in strumenti finanziari, riservata a banche e S.I.M. e soggetta a particolari controlli di stabilità, trasparenza e correttezza, controlli affidati alla Consob. In tale ottica, il contratto deve rispondere a certi principi e criteri e, anche quando sviluppato con clienti esenti da alcune particolari esigenze di tutela, in particolare con clienti istituzionali come lo Stato italiano, deve sempre essere finalizzato all'interesse dei clienti.
E ciò appare inevitabile ed è una caratteristica essenziale degli investimenti in strumenti finanziari: basti pensare, al contrario, ai depositi bancari, nei quali la somma di denaro passa di proprietà della banca, obbligata a restituire l'importo ricevuto, maggiorato di interessi ad un tasso predeterminato. Il cliente è sicuro di avere indietro la somma, oltre gli interessi, tranne che in caso di dissesto della banca debitrice, la quale impiega comunque le somme ricevute a proprio beneficio e rischio, in fidi ed in operazioni di tesoreria. Oltre ai controlli di stabilità, non vi sono altri controlli a tutela dei risparmiatori, se non quelli di trasparenza sulle condizioni economiche praticate dalla banca. Controlli sui crediti, oltre ai profili di stabilità, non sono a tutela dei risparmiatori, in quanto i crediti incidono solo sull'interesse della banca.
Nei servizi di investimento, al contrario, le somme investite restano di proprietà dei risparmiatori, che corrono il rischio e beneficiano degli utili, mentre l'intermediario che cura gli investimenti, eseguendoli od addirittura scegliendoli, ha l'unico interesse ad una commissione predeterminata e non può avere altro interesse che si ponga in contrasto, anche potenziale, con quello del cliente ad un mix ottimale del nesso rischio/beneficio.
Negli investimenti in conto proprio -negoziazione in conto proprio, forma questa in cui sono conclusi i derivati, collocamento con preventiva sottoscrizione od acquisto a fermo-, dove l'intermediario è controparte del cliente, l'interesse dell'intermediario autonomo rispetto a quello del cliente ed addirittura in contrasto con esso è inevitabile, ma la circostanza che l'intermediario investe sempre per conto del cliente obbliga il primo a soddisfare il proprio interesse senza trascurare quello del secondo. Sono pertanto richieste una serie di condizioni circa la liquidabilità e l'oggettività del prezzo del titolo, ed in ogni caso l'intermediario deve contemperare tra di loro i due interessi in partenza contrapposti.
Il ruolo della Consob
Proprio l'imperatività della tutela del cliente comporta il controllo della Consob sui contratti: il controllo di tale Autorità pubblica è di natura pubblicistica ed è inderogabile. Una rinunzia del cliente a perseguire i propri interessi, configurabile in ambito ristretto, non avrebbe valore per i controlli pubblici. Pertanto, la Consob ha il potere di esercitare i controlli sui contratti dello Stato con le banche internazionali, anche in caso di remora dello stesso Stato a provvedere alla propria tutela. La sovranità statale non può infatti concretizzarsi nella rinunzia alla propria tutela, poiché una rinunzia può investire i valori privatistici dello Stato, ma non i principi ed i valori essenziali, quale quello a (il controllo su) un corretto esercizio dell'attività dei servizi di investimento sul proprio territorio.
La consegna del contratto dello Stato con le banche internazionali non può pertanto essere negata in seguito ad una richiesta della Consob: tale richiesta, obbligatoria in presenza di seri dubbi quali quelli prospettati, ha come destinatarie le banche internazionali.
Una volta ottenuta la copia, se emergono gravi dubbi di illecito, la Consob ha l'obbligo di avviare un procedimento sanzionatorio nei confronti delle banche, sottoposto ai profili di trasparenza propri dei procedimenti dell'ente.
Nel caso di sanzione della Consob nei confronti delle banche estere, si porrebbe certamente il problema politico del perché lo Stato non abbia attivato autonomamente il procedimento avviato dall'Organo di controllo e non abbia provveduto alla propria tutela. Le risposte sarebbero imbarazzanti e getterebbero luci inquietanti sugli aspetti giuridici ed istituzionali del (la fase del dominio del) capitale finanziario. Ma di questo imbarazzo non si può evidentemente far carico la Consob, tenuta per legge ad attivare detti controlli.
Non risulta peraltro che la Consob abbia presentato al Ministero dell'Economia tale richiesta, ed è - quanto meno - dubbio che lo faccia nel futuro, vista l'estrema timidezza mostrata da tale Autorità nelle attività e nei prodotti più rischiosi - derivati, obbligazioni subordinate, etc -: ebbene, tale omissione è del tutto inammissibile ed in contrasto con la legge

mercoledì 24 febbraio 2016

Gli USA bombardano la Libia: una grande operazione è imminente

Il 19 febbraio, aerei da guerra degli USA colpivano vari bersagli in Libia tra cui un campo di addestramento dello Stato islamico (SI) nei pressi di Sabratha, non lontano dal confine con la Tunisia, e un importante capo estremista. Il raid aereo è stato condotto da velivoli con e senza equipaggio, tra cui 2 F-15 statunitensi decollati da Lakenheath, nel Regno Unito. Decine di persone sono state uccise nel bombardamento, secondo funzionari ed attivisti locali. Gli aerei da guerra hanno colpito una casa a 6 km dal centro della città, secondo l’amministrazione comunale di Sabratha. Un alto funzionario degli USA ha detto a NBC News che il raid aereo ha probabilmente ucciso l’operativo tunisino Nuradin Shushan. Il raid è avvenuto dopo che il presidente Barack Obama ha avvertito che Washington era pronta a colpire in Libia. “Continueremo ad intraprendere azioni in cui vi sia un chiaro obiettivo” ha detto al vertice dell’ASEAN il 16 febbraio. L’amministrazione Obama ha promesso di colpire obiettivi chiave quando se ne presenta l’opportunità. L’attacco non sembra segnare l’inizio di una campagna degli USA in Libia, ma un portavoce del Pentagono ha detto, “che non sarà l’ultimo”. Il portavoce, Peter Cook, ha detto che gli Stati Uniti sono decisi a fermare lo Stato islamico che “avanza” in Libia. Cook ha detto che il campo di addestramento era “relativamente nuovo”, e che gli Stati Uniti hanno identificato simili campi di addestramento dello Stato islamico altrove in Libia, suggerendo possibili attacchi futuri in difesa degli interessi regionali e della sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Il Pentagono ha detto a gennaio che forze speciali degli Stati Uniti erano in Libia per cercare di “associare” milizie locali contro lo Stato islamico. Forze speciali inglesi, francesi e italiane sono presenti per sostenere sorveglianza aerea, mappatura e raccolta di informazioni in varie città, tra cui Bengasi ad est e Zintan ad ovest, secondo due ufficiali libici. La scorsa settimana il ministro degli Esteri inglese Tobias Ellwood ha rivelato che aerei da guerra della RAF compiono missioni sulla Libia. Ciò ricorda la dichiarazione del 22 gennaio del Generale Joseph F. Dunford Jr., Presidente del Joint Chiefs of Staff degli Stati Uniti, che ha chiarito cosa fa il governo degli Stati Uniti dicendo, “E’ giusto dire che cerchiamo d’intraprendere un’azione militare decisiva contro lo Stato islamico in concomitanza con il processo politico (in Libia)… Il presidente ha chiarito che abbiamo il potere di usare la forza militare”. I funzionari dell’amministrazione dicono che la campagna in Libia potrebbe iniziare tra poche settimane, prevedendo che sarà sostenuta da un manipolo di alleati europei, tra cui Gran Bretagna, Francia e Italia. Il 18 febbraio, il quotidiano al-Qalij pubblicava il seguente pezzo di Qamal Balhadi, “Tutti i segnali indicano che i preparativi militari sono nella fase finale e che il coordinamento politico è massimo, soprattutto dopo la recente riunione di Roma tra i ministri degli Esteri dell’alleanza anti-SI. Tuttavia le posizioni arabe non sono chiare, e la struttura dell’Unione del Maghreb è paralizzata da anni… Molti punti di vista indicano che l’intervento in Libia si avrà a marzo e i colpi attualmente in corso sono volti a preparare il terreno per l’attacco generale. La primavera è la stagione in cui la maggior parte degli interventi militari si svolge (Iraq nel 2003 e Libia nel 2011). Così, sembra che ci sia pochissimo tempo per prepararsi ad una situazione altamente pericolosa. soprattutto perché la situazione sociale non è meno esplosiva e pericolosa di quanto lo sia quella regionale”, ha aggiunto l’autore.
Italy_LibyaFinora, la coalizione guidata dagli USA ha sostenuto gli sforzi delle Nazioni Unite per mediare la fine alla guerra civile in Libia, nella speranza che un governo di unità convinca le suscettibili milizie del Paese a puntare le loro armi contro i jihadisti. Ma il piano di governo di unità delle Nazioni Unite è stato respinto dal parlamento di Tobruq il 25 gennaio, facendo temere che ritardando l’azione contro lo SIIL, esso catturerà e distruggerà i porti petroliferi strategicamente vitali della Libia. La vicinanza della Libia all’Europa aggrava le preoccupazioni sulla sicurezza dei Paesi occidentali, in particolare mediterranei. Non solo la Libia è adatta idealmente a trampolino di lancio per attacchi terroristici, ma un grande conflitto potrebbe produrre ancor più rifugiati, problema difficile da gestire con cui l’Europa lotta. Inoltre, i Paesi occidentali sono preoccupati che lo Stato islamico destabilizzi ulteriormente i Paesi vicini Algeria, Tunisia ed Egitto. Italia e Spagna sono particolarmente preoccupate per come l’insicurezza libica possa incidere sui loro interessi su petrolio e gas, se il gruppo avanzasse verso ovest. Perciò appare sempre più probabile che un intervento militare sia in vista. Geograficamente, il piatto terreno aperto della Libia si presta più facilmente agli attacchi aerei di precisione e ai movimenti delle truppe rispetto alle zone montuose della Siria. Mentre l’amministrazione Obama redige i piani per aprire un terzo fronte nella guerra contro lo Stato islamico, non vi è alcun dibattito significativo al Congresso sulla saggezza nel lanciare un’operazione militare. Un nuovo intervento militare in Libia rappresenterebbe una progressione significativa della guerra che potrebbe facilmente diffondersi ad altri Paesi. Avverrà nel momento in cui gli Stati Uniti sono sempre più coinvolti in Siria e Iraq. Anche se il Pentagono e gli alleati colpissero gli obiettivi dello Stato islamici, rimane incerto quanto una forza terrestre possa affidabilmente operare sul terreno e controllarlo. Legalmente l’operazione si baserà sulla legge del 2001 (l’Autorizzazione all’uso della forza militare – AUMF) adottata dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, autorizzando le Forze Armate degli Stati Uniti a compiere attacchi contro i responsabili della tragedia. La questione non fu rivista dai legislatori degli Stati Uniti, permettendo di aggirare il Congresso sul voto di guerra. “Crediamo che ciò sia stato effettuato secondo il diritto internazionale e, in particolare, che questa operazione fosse compatibile con il diritto nazionale ed internazionale”, ha detto Cook, anche se non ha fatto esplicitamente riferimento a una legge particolare, aggiungendo che l’operazione è stata condotta “con la consapevolezza delle autorità libiche”. Mark C. Toner, viceportavoce del dipartimento di Stato non ha saputo dare una risposta definitiva. Quando gli fu chiesto di specificare a quali “autorità libiche” si riferisse, Toner sembrava confuso dicendo che “vi è una certa struttura governativa presente”. “Le nuove, beh, voglio dire, ci sono ovviamente le autorità libiche sul terreno”, ha risposto a una domanda sul governo di unità libico recentemente annunciato, “lavoriamo a sostenere il governo di Accordo Nazionale. Vogliamo vederlo tornare ed affermarsi a Tripoli”.
Entrambi i portavoce dei due dipartimenti degli Stati Uniti non hanno risposto sull’aspetto giuridico delle azioni militari in Libia! La risposta è molto semplice, non vi è alcun governo in Libia con l’autorità di approvare tali operazioni. Non c’è inoltre un diritto internazionale su cui basarsi, né alcuna risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. L’azione è illegale e gravida di serie conseguenze. Senza ampio sostegno internazionale, Stati Uniti ed alleati s’impantaneranno incapaci di fermare la dissoluzione interna. Ad esempio, la Turchia sostiene i Fratelli musulmani in Libia, gruppo che difficilmente può essere visto alleato degli Stati Uniti. Il gruppo di contatto internazionale sulla Libia (ICG-L) è formato da 26 organizzazioni e Paesi, tra cui Russia, Stati Uniti e Cina. Il 26 gennaio, il gruppo s’è riunito ad Addis Abeba, Etiopia. Nelle conclusioni i partecipanti alla riunione “hanno sottolineato l’importanza di un’azione coordinata internazionale, di consultazioni continue e condivisione delle informazioni”. Le conclusioni non dicono nulla sulle azioni unilaterali. Al contrario, il documento sottolinea l’importanza di uno sforzo collettivo. Gli Stati Uniti l’hanno firmato, ma ora iniziano ad agire autonomamente con attacchi aerei in aperta violazione del diritto internazionale; le lezioni dell’Iraq ovviamente sono state dimenticate.

martedì 23 febbraio 2016

Brexit, la tentazione inglese

Quando la Francia nel 1940 fu sottomessa all’invasione nazista, Winston Churchill propose un’alleanza che tenesse sotto un minimo comune denominatore Gran Bretagna e il paese di de Gaulle. Il progetto non decollò, ma l’intento era quello di creare un bilanciamento che potesse contenere gli straripamenti tedeschi. Un altro leader conservatore, David Cameron, che a Churchill si ispira, indirà il prossimo 23 giugno un referendum decisivo sul quale si giocherà molto del futuro dell’Europa. Ben 6 ministri del suo governo hanno già ribadito di rifiutare l’accordo di questi giorni e di tagliare i ponti con il continente. Le pressioni negoziali di Cameron tuttavia hanno mostrato nelle ultime settimane una certa dose di abilità politica e diplomatica. L’accordo per evitare l’exit della Gran Bretagna ha avuto il bollino di uscita, ma con una trattativa evidentemente tutta al ribasso per l’UE. Intesa all’unanimità ha proclamato il presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk. Adesso toccherà ai cittadini inglesi firmare o non firmare la cambiale. Certo, alla Gran Bretagna questa Europa non è mai piaciuta. Troppa burocrazia, troppe norme. I malumori erano già iniziati all’epoca di Margaret Thatcher. “Give my money back” la famosa espressione con la quale la lady di ferro strappò importanti concessioni da parte dell’allora Comunità Europea sul contributo finanziario che gli inglesi dovevano versare al bilancio europeo.
Le rivendicazioni inglesi trovarono importanti meccanismi di compensazione a partire dal Consiglio di Fontainebleau del 1984. Un riconoscimento sostanziale della loro forza. Ma l’atteggiamento non fu distruttivo e infatti solo 2 anni dopo, lo stesso governo Thatcter ritornò al tavolo per siglare l’Atto Unico Europeo che aprì le porte ad una nuova fase del capitalismo, anticipando il crollo del muro di Berlino e la fine della Guerra Fredda Ma nella sostanza cosa ha chiesto Cameron? Prima di tutto la possibilità di tagliare per diversi anni i benefici sociali dei lavoratori europei che espatriano nel Regno Unito; in secondo luogo un trattamento preferenziale in quanto a regolamentazione bancaria e finanziaria vista la posizione occupata dalla City. Va detto che l’Inghilterra negli ultimi anni non si è certo sottratta a fenomeni eurofobici: il successo dell’Ukip di Nigel Farage ne è diretta testimonianza e segna la soglia oltre la quale l’immigrazione diventa motivo di paura e intolleranza. Uno scontro alimentato ancora di più in questo periodo, nel quale la crisi dei rifugiati sta mettendo a dura prova il Consiglio a 28 con rischio di far saltare definitivamente Schengen dopo che l’Austria ha mandato il proprio esercito sul Brennero in modo da bloccare l’ingresso delle proprie frontiere. Non a caso al di là delle dichiarazioni formali di Tusk sappiamo che il blocco dei paesi dell’Est, tra i quali spiccano Polonia e Ungheria, non ha gradito i termini della trattativa. Anche la Grecia sembra si sia messa di traverso perché vorrebbe maggiori garanzie da parte dell’Ue sulla crisi dei rifugiati che sbarcano sulle sue coste. L’ennesima prova di forza che mostra l’asimmetria tra i paesi membri. E’ in questo quadro che si gioca il patto tra Bruxelles e Londra. Unica nota a margine il fatto che l’Unione Europea da parte sua sia riuscita a strappare un risultato concreto, vale a dire la fine dei veti britannici su una maggiore integrazione politica, possibilità sempre più remota Cosa accadrebbe però se prevalesse una dipartita secca del Regno Unito? Indubbiamente se nel referendum i britannici si esprimeranno in maggioranza contro l’Unione e prevarrà una visione che implicitamente chiede più sicurezza, meno tecnocrazia e più controllo legislativo interno (la così detta rule of law). Le conseguenze sarebbero gravissime.
Con l’abbandono definitivo di Londra, in Europa vi sarà un unico tavolo di decisione, quello della Germania, pure su dossier che vanno al di là della moneta unica e delle decisione a 19. L’Italia non se lo potrebbe permettere. Ed ecco che torniamo alla proposta di Churchill. E’ infatti solo con la fine della Seconda Guerra Mondiale che si era trovato un equilibrio: la scissione in due sfere d’influenza della Germania. L’unico paese che per visione più flessibile e liberale in economia potrebbe imporsi sta avviando una sua fuoriuscita, segno premonitore e che nella storia come sappiamo non ha mai portato a nulla di buono: l’Europa privata della Gran Bretagna, cioè del solo paese che può realisticamente contrapporsi all’attitudine germanocentrica, è insostenibile, non può esistere. D’altra parte non vi sarebbe solo un’accentuata preponderanza del mercantilismo tedesco, ma anche una perdita di rilevanza sul piano militare e della politica estera per l’Ue. Londra ha sempre avuto un approccio pragmatico al progetto europeo e del mercato unico. Inoltre è membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu: il pieno recupero alla sua sovranità significherebbe una perdita di centralità geopolitica in materie decisive e che interessano tutti gli europei Di fatto se si è arrivati in questa situazione è perché la costruzione europea sia sul fronte monetario che su quello delle istituzioni non offre alcun progetto di lungo respiro. Questo è frutto di una costruzione farraginosa, del troppo peso economico lasciato negli ultimi anni ai tedeschi, di una forte litigiosità fra stati che ultimamente sta creando divergenze in materia immigratoria. Come disse l’ex Ministro delle Finanze greco, Yanis Varoufakis, l’Europa non esiste per come la intendono i suoi popoli: “hanno semplicemente creato un comitato d’affari, un OPEC collegato da una moneta unica”. Come dargli torto?

lunedì 22 febbraio 2016

Eurexit all’inglese

E’ veramente straordinario l’attaccamento al fantasma dell’Europa, il che appunto ne evoca l’essenza di natura morta quanto a ideali e democrazia e ne sottolinea invece il decisionismo al servizio di poteri e interessi economici: in questi giorni si sta discutendo sul “pacchetto” richiesto dal premier britannico Cameron per tentare di non essere sommerso nel referendum sulla Brexit che a quanto pare è di gran lunga la prospettiva preferita dai sudditi di sua Maestà. Ma per salvare in qualche modo il feticcio della Ue e dei suoi meccanismi oligarchici, Bruxelles dovrà di fatto dichiarare morta la stessa Ue. Londra infatti pretende di rimanere formalmente nell’unione continentale solo a patto che questa si tenga ben lontana dalle bianche scogliere di Dover e chiede ufficialmente di non essere costretta ad altri passi verso l’integrazione, il riconoscimento che la Ue è un’area multi monetaria sventando così future richieste di entrata nell’euro, di negare il welfare ai cittadini comunitari che lavorano nella perfida Albione e una legislazione separata per le banche e i centri finanziari britannici, oltre ovviamente al mantenimento di quella normativa fiscale “diversa” e abnorme per un’ Unione di qualsiasi tipo, grazie alla quale la Gran Bretagna riesce a succhiare ormai da due decenni le linfe vitali del continente, spacciando questa rapina per un proprio dinamismo liberista.
In due parole la Gran Bretagna chiede di restare in Europa uscendo definitivamente dall’Europa, offre la possibilità di evitare una frattura formale purché sia garantita quella sostanziale. Non so in che misura tutto questo sarà accettato da Bruxelles, ma è probabile che vi sarà una quasi completa capitolazione di fronte alle richieste inglesi, vista la crisi politica che sta attraversando l’europeismo di marca franco – tedesca, assediato ad est dagli Usa e dalla loro colonizzazione in funzione antirussa, all’interno dalla reazione all’austerità e dai problemi della migrazione, a sud dal riesplodere del debito e delle resistenze popolari ai governi burattinati dal milieu finanziario. Del resto i trattati che hanno costituito la maggiore rapina di sovranità di bilancio e di autonomia politica sono legati alla moneta unica perciò non riguardano se non marginalmente la Gran Bretagna che ha conservato la sterlina: è facile che ci si accontenti di poter mantenere al laccio l’Italia, la penisola iberica e il fritto misto tra nordico, frisone e centro europa dei piccoli Paesi.
In ogni caso è evidente che il disegno europeo si sta clamorosamente sfilacciando visto che per tenerlo in piedi in qualche modo occorre negarne i presupposti, ovvero quell’insieme di aspirazioni via via sostituite da meccanismi di potere sempre più lontani dalla democrazia e dalla partecipazione. Dunque non importa se è necessario buttare a mare ciò che l’Europa ha rappresentato per salvare ciò che è diventata, la fisionomia, sociale, politica e di potere che ha acquisito: nel caso britannico sembra contare soprattutto che non siano i cittadini a decidere anche se poi, proprio per evitare questo esito infausto, nelle segrete stanze si fa esattamente e forse anche più di quanto essi chiederebbero. La questione vitale è che non ci sia una frattura formale e popolare, non che questa avvenga nella sostanza.
A un livello generale ci si dovrebbe chiedere come mai l’Europa venga vissuta in maniera così negativa, come una palla al piede piuttosto che come un’opportunità: ma chi si dovrebbe fare questa domanda sono proprio i colpevoli, quelli che le ragioni le conoscono a menadito. Però dal punto di vista operativo vedo che tutti i critici a parole delle politiche continentali non solo non parlano di ciò che sta avvenendo, ma nemmeno sembrano rendersi conto che il divorzio di fatto inglese aprirebbe la possibilità di ridiscutere i termini dei trattati visto che un membro importante e storico dell’Unione se la sta svignando all’Inglese. Invece parrebbe che prevalga la paura di disturbare i manovratori in un momento delicato.

venerdì 19 febbraio 2016

L’EURO-RIBELLISMO SOTTOMESSO DI MATTEO RENZI

Più di un commentatore ha notato l’assoluto nonsenso della lettera di risposta di Matteo Renzi ad Eugenio Scalfari, il quale sollecitava una posizione del governo italiano sulla proposta del presidente della BCE, Mario Draghi, di istituire la figura del ministro del Tesoro europeo. Renzi ha infatti ripresentato, persino nelle virgole, la stessa litania che ripete da due anni: l’austerità non basta, la Germania non rispetta le regole, mentre noi le rispettiamo, ecc.
Se Renzi avesse voluto, o potuto, spostare la polemica su un piano più incisivo, avrebbe quantomeno messo in evidenza l’inganno insito nella proposta di Draghi, la quale non fa altro che prospettare ai governi del Sud-Europa altre deleghe in bianco in cambio di promesse generiche. In queste condizioni di impotenza, la strada maestra per Renzi sarebbe di tacere di più e di fare di meno in termini di “riforme”, dato che ogni atto di obbedienza non fa altro che ribadire la sottomissione ai diktat di Bruxelles e di Francoforte. Se è vero che Draghi tiene il Tesoro italiano per i cosiddetti, dato che è proprio la BCE oggi a sostenere il debito pubblico italiano comprando i suoi titoli, è anche vero che un default dell’Italia non sarebbe una buona notizia per le banche del Nord-Europa.
Non è questione di “sovranità” o di indipendenza, dato che ci sarebbe da discutere sul fatto che l’Italia tale indipendenza l’abbia mai avuta davvero. Molti storici tedeschi ritengono, legittimamente, che l’Unità d’Italia sia una creatura prussiana. Senza la guerra austro-prussiana del 1866 - quella che in Italia è passata come Terza Guerra d’Indipendenza -, non solo l’Italia non avrebbe potuto ottenere il Veneto dall’Austria sconfitta, ma la stessa Austria non avrebbe cessato la sua assistenza alla guerriglia legittimista del Meridione d’Italia (il famoso “brigantaggio”, ma oggi lo si chiamerebbe “terrorismo”); guerriglia che infatti si esaurì di lì a poco. La guerra franco-prussiana del 1870 e la sconfitta francese consentirono inoltre l’annessione di Roma al Regno d’Italia, poiché il cancelliere Bismark aveva neutralizzato il protettore del papa, Napoleone III. Non a caso la “Breccia di Porta Pia” e l’ingresso delle truppe sabaude a Roma avvennero venti giorni dopo la disfatta francese di Sedan contro i Prussiani. Insomma, la tesi storica secondo cui l’unificazione italiana sarebbe stata un sottoprodotto dell’unificazione tedesca operata dal cancelliere prussiano Otto Von Bismark, ha un suo fondamento oggettivo.
La schizofrenia renziana, ed in genere della classe “dirigente” italiana, consiste nel voler combinare il servilismo tremebondo con l’illusione di poter un giorno discutere allo stesso livello con i padroni; cioè non si pone la propria condizione di debolezza come un dato scontato da cui partire per far valere le proprie ragioni. La cognizione della propria debolezza non è autorazzismo, mentre lo è la smania di rendersi “degni” dei propri padroni, magari dimostrando di saper fare i “compiti” che ci assegnano. L’autorazzismo si esprime con un senso di inadeguatezza nazionale; un’inadeguatezza che andrebbe colmata attraverso le solite “riforme

mercoledì 17 febbraio 2016

No Triv, la sentenza della Consulta ai primi di marzo sugli altri due quesiti potrebbe far saltare il castello di carte di Renzi

Nel 2016 gli italiani rischiano di essere chiamati alle urne quattro o addirittura cinque volte: ci sono i due turni delle amministrative, il referendum sulle trivelle (cui potrebbe aggiungersi una seconda votazione perché ci sono altre due questioni al vaglio della Consulta) e il referendum costituzionale di ottobre, quello indetto da Renzi in persona. Perché non accorpare il referendum sulle trivelle con le amministrative?
Enzo Di Salvatore, costituzionalista, ed esponente del movimento No Triv che domenica scorsa ha tenuto una importante assemblea organizzativa, entra nel dettaglio della mossa del Governo, che ha fissato al 17 aprile la data del referendum contro le trivelle nel mediterraneo, facendo il punto sui dati reali.
E se quindi da una parte Renzi vuole evitare quella che chiama “ideologizzazione” dall’altra il suo entuourage parla di un rischio concreto per il rottamatore d'Italia. Stando ad alcuni sondaggi riservati, insomma, la causa No Triv in realtà ha molti più consensi di quello che sembra, e di quello che viene raccontato dal circuito dei mass media, mai come in questo momento ben schierati dalla parte del Governo. L'unica, insomma, è mirare al "quorum". Da qui la decisione sulla data del 17 aprile. Ma davvero non c'è il rischio che tanta pervicacia non venga ripagata dalla saggezza popolare con la stessa moneta? Cioè, se, come sembra, ad aprile dovrebbero concentrarsi i giochi su una sempre più probabile "manovra bis", non potrebbe darsi che diventi proprio quello il "referendum "pro/anti-Renzi" che l'ex sindaco avrebbe voluto ad ottobre?
Ovviamente per il 17 aprile i tempi sono molto ristretti. E domenica scorsa l’assemblea ha cercato di darsi un ordine e dei passaggi organizzativi molto precisi. Sono ben 27 milioni gli italiani che hanno diritto al voto. Ci sono da coordinare sia i vari comitati locali, ma anche l'eventuale elenco di personalità illustri, i vari delegati regionali, e i parlamentari.
Il pronunciamento della Corte costituzionale su “piano delle aree” e “permessi e concessioni sulla terraferma” è atteso per i primi del mese di marzo. Un eventuale verdetto positivo determinerebbe un altro appuntamento referendario. E sarebbe davvero illogico non accorparlo con il precedente, questo punto spostandolo in avanti in virtù del nuovo pronunciamento.
“Ci si sfidi sul merito del quesito ma non che si faccia di tutto perché i cittadini non siano informati”, sottolinea Di Salvatore in questa intervista a Radio Rete Edicole.
Alcune delle tante associazioni che danno vita all’universo “No Triv” hanno scritto una lettera al Presidente della Repubblica per chiedere di rivedere il provvedimento in favore di un Election Day.
Anche perché a conti fatti, l’accorpamento avrebbe conseguito due risultati: ampliare la partecipazione democratica dei cittadini e risparmiare una cifra quantificata fra 350 e 400 milioni di euro.
Nella lettera inviata al presidente Mattarella, le associazioni ribadiscono le ragioni a sostegno della necessità di un election day che accorpi il referendum alle prossime elezioni amministrative: una “richiesta avanzata da Regioni, parlamentari, associazioni ambientaliste, comitati e rappresentanti della società civile” e ignorata dal governo, nonostante fosse “un’opzione perseguibile in tempi brevi, adottando lo strumento del decreto legge”.
Nove regioni su venti si sono schierate a favore del movimento No Triv. E di queste, ben sette sono a guida Pd (le altre sono Lega e Centrodestra). “Forse questo ha convinto Renzi a fare di tutto per scongiurare i referendum e, una volta passati, tentare di contrastarli in modo deciso puntando al fatto che i cittadini non fossero informati”

lunedì 15 febbraio 2016

L'ultima della spending review: "eliminare le vedove"

Una mente criminale si distingue per la gelida indifferenza alle conseguenze dei propri atti su altre persone. E se si esamina l'ultima pensata del governo Renzi in materia di “assistenza” non si può che evocare le politiche di sterminio all'italiana. Che in genere non si manifestano come strage sistematica e “industriale” di una certa categoria di esseri umani, ma come creazione della condizioni che rendono la sopravvivenza impossibile. L'esempio della prigione di Fenestrelle, a 2.000 metri, sulle Alpi, in cui vennero rinchiusi i soldati borbonici fatti prigionieri in seguito alla “riunificazione dell'Italia”, può essere molto esplicativo. Gente del Sud portata in una ghiacciaia, ovviamente senza indumenti adatti e con un vitto che sarebbe stato insufficiente anche in pianura, tenuta lì in attesa che la natura facesse il suo corso.
L'ultima pensata dello staff (o dei manovratori) di Renzi è solo in apparenza meno sanguinaria, ma triplamente infame perché mira essenzialmente alle donne anziane e povere.
Il Consiglio dei Ministri ha infatti approvato disegno di legge delega ironicamente indicato come “norme riguardanti la lotta alla povertà” che prevede il riordino di tutte le prestazioni di carattere assistenziale. Un disegno organico di riforma del sistema assistenziale che nasconde trappole “tecniche”, a prima vista quasi illegibili per chi non sia esperto di burocratese e richiami ad altri testi legislativi.
La logica è quella del riordino a costo zero, o magari con qualche sostanzioso risparmio, per le casse pubbliche. Quindi si toglie qualcosa (o molto a qualcuno) per dare pochissimo ad altri. Indipendentemente dalle condizioni di vita reali delle persone coinvolte.
La denuncia, partita da alcuni sindacalisti orripilati, indica un autentico buco nero nella norma che va a trasformare le pensioni di reversibilità: da prestazione previdenziale a prestazione assistenziale. Sembra una questione di lana caprina, solo terminologica, ma come ogni definizione burocratica cambia la realtà - e l'esigibilità - della prestazione stessa.
Cosa sono le pensioni di reversibilità? Quelle che vengono pagate in genere alle vedove (le donne vivono statisticamente più degli uomini, quindi l'istituto riguarda soprattutto loro) di lavoratori che hanno versato contributi per tutta la loro vita lavorativa. Siccome c'è un rapporto diretto tra contributi accantonati e erogazione dell'assegno pensionistico, questa è una tipica prestazione previdenziale. Ossia un diritto acquisito pagando di persona (con l'accantonamento mensile) quel che poi dovrà essere restituito con la pensione.
Se lo si trasforma in prestazione assistenziale, invece, lo si rende una “concessione”, revocabile in base a molte e varie considerazioni (il reddito del beneficiario, le esigenze di cassa dello Stato, ecc).
E infatti il disegno di legge governativo si preoccupa subito di indicare una ghigliottina tecnica capace di tagliare questa “concessione” per la maggior parte degli attuali beneficiari: il famigerato “reddito Isee”, a sua volta “riformato” un anno fa per rendere di fatto impossibile usufruire di qualsiasi sgravio fiscale (dalle tasse universitarie per i figli ai ticket sanitari, ecc).
I dettagli tecnici sono come sempre volontariamente ingarbugliati, così si fa prima a fare qualche esempio concreto. Una vedova che abbia ancora un figlio convivente, magari precario, con un reddito annuale anche insufficiente per vivere (altrimenti sarebbe andato già a vivere da solo), rischia di vedersi togliere l'assegno mensile pagato con i conributi del marito scomparso. Idem per una donna sola che però sia anche proprietaria della casa di abitazione (ricordiamo che quasi il 70% dei cittadini vive in una casa di prorpietà...), perché questo governo considera la casa un “reddito”, anche se ovviamente – abitandoci – rappresenta più una fonte di spesa (tasse e manutenzione). Idem anche per due donne che abbiano deciso di condividere la stessa abitazione per ridurre le spese e dunque sopravvivere con due pensioni di reversibilità.
L'elenco potrebbe continuare, ma già questi esempi ci sembrano sufficienti. Il risultato facilmente prevedibie, se questa “riforma” non sarà bloccata, è l'aumento della mortalità fra le vedove, con rapido abbassamento delle aspettative di vita. E in effetti sembra proprio questo il vero obiettivo di certe politiche antisociali dei governi europei: perché nutrire ancora le persone anziane, perché curarle? Smettiamo di spendere, risparmiamo quei soldi, in fondo "i vecchi" non servono a niente (quelli poveri, naturalmente). Così come i disabili, gli invalidi, gli inabili al lavoro...
In altri tempi e in altri paesi queste categorie di persone sarebbero state rinchiuse in un lager. “All'italiana”, secondo l'immortale lezione dei

domenica 14 febbraio 2016

Crescita, l’Europa senza euro surclassa i paesi della Bce

Se l’euro non fosse stato adottato, la crisi sarebbe da tempo alle nostre spalle. Lo sostiene l’insigne economista danese Lars Christensen, che sostiene che la crisi greca non riguarda la Grecia, ma è il sintomo di un problema più grande, cioè l’euro stesso. Se non fosse stato per la moneta della Bce, «non saremmo stati obbligati ad affrontare massicci salvataggi di Stati, non ci saremmo trovati con sette anni di recessione nell’Eurozona e la disoccupazione sarebbe stata molto più bassa». Tutto questo sarebbe avvenuto «se in Europa avessimo avuto un tasso di cambio flessibile invece di quello che potremmo chiamare il Meccanismo di Strangolamento Monetario (Mms)». Fortunatamente, non tutti i paesi europei sono entrati nell’euro: «L’andamento economico dei paesi che non sono entrati potrebbe darci qualche suggerimento su come le cose avrebbero potuto andare se l’euro non fosse mai stato introdotto». Per questo, Christensen ha esaminato i risultati della crescita nei paesi dell’area euro e in quelli che in Europa hanno avuto tassi di cambio flessibili (o quasi flessibili), per mettere a confronto paesi “agganciati” con paesi “flessibili”. Inutile dire che la differenza è impressionante: chi è fuori dall’euro se la cava, gli altri hanno un Pil inferiore a quello che avevano nel 2007.
Nel campione, Christensen ha incluso gli Stati dell’Eurozona con tassi di cambio fissi nei confronti dell’euro (Bulgaria e Danimarca) e i paesi Ue con tassi di cambio variabile (Regno Unito, Svezia, Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Romania). Lars ChristensenInoltre, ha incluso la Svizzera e allo stesso modo i paesi dell’Area economica europea (Eea), cioè Norvegia e Islanda (tutti con tassi di cambio flessibile). Infine, ha incluso la Turchia, che confina con la Grecia, e che ha anche lei un tasso di cambio flessibile. In tutto, spiega Christensen in un’analisi su “The Market Monetarist” ripresa da “Voci dall’Estero”, sono 31 paesi europei, tutti molto diversi tra loro. Alcuni hanno un sistema politico poco funzionale e lottano con la corruzione (per esempio Romania o Turchia), mentre altri normalmente sono considerati economie relativamente efficienti, con un mercato del lavoro e un mercato interno che funzionano bene, conti con l’estero in attivo e finanze pubbliche solide, come Danimarca, Finlandia e Olanda. Il risultato lascia sgomenti: dei 21 paesi nell’euro (inclusi i due con ancoramento del cambio) quasi la metà (10) oggi ha un livello di Pil reale più basso che nel 2007, mentre tutti quelli col cambio flessibile oggi hanno un prodotto interno lordo maggiore di quello di 9 anni fa.
Stanno meglio perfino l’Islanda, «che ha avuto una grave crisi bancaria nel 2008», e l’Ungheria, «da sempre politicamente disfunzionale e con un debito alto». Entrambi i paesi (con tasso di cambio rimasto flessibile) sono cresciuti in misura maggiore dei paesi nell’euro e di quelli agganciati all’euro. Islanda e Ungheria, infatti, pur essendo «quelli con la crescita più lenta nel gruppo dei tassi di cambio flessibili», di fatto «sono cresciuti più di Olanda, Danimarca e Finlandia – paesi che sono sempre stati considerati un esempio di grande volontà nel realizzare le riforme, con strategie ultraprudenti, bilancia dei pagamenti salda e finanze pubbliche in piena salute». Se si osserva la media dei tassi di crescita del Pil reale tra il 2007 e il 2015, i L'Islanda contro le banche, oggi cresce“flessibili” hanno significativamente superato in crescita i paesi nell’euro di un “fattore 5”, cioè un 7.9% contro l’1.5%. «Anche se escludiamo dal campione i tre paesi flessibili cresciuti più velocemente (Turchia, Romania e Polonia) i flessibili comunque superano largamente i paesi nell’euro (6.5% contro 1.5%)».
Conclusione: si scrive euro, ma si legge “spazzatura”. «Non ci possono essere dubbi: l’importante vantaggio nella crescita dei paesi con tasso di cambio flessibile rispetto a quelli nell’euro non è una coincidenza», sottolinea l’economista danese, specializzato in dinamiche internazionali, mercati emergenti e politiche monetarie, forte anche della ventennale esperienza all’Adam Smith Institute di Londra. Secondo Christensen, «l’euro è stato un Meccanismo di Strangolamento Monetario: e se non lo avessimo avuto, la crisi in Europa sarebbe stata superata da molto tempo», come in effetti è stato per la maggior parte dei “flessibili”. «Possiamo discutere sul perché l’euro è stato una simile macchina per uccidere la crescita, ma non c’è dubbio che la crisi in Europa oggi è stata causata dall’euro in sé e non da errori di gestione nelle singole economie».Se l’euro non fosse stato adottato, la crisi sarebbe da tempo alle nostre spalle. Lo sostiene l’insigne economista danese Lars Christensen, che sostiene che la crisi greca non riguarda la Grecia, ma è il sintomo di un problema più grande, cioè l’euro stesso. Se non fosse stato per la moneta della Bce, «non saremmo stati obbligati ad affrontare massicci salvataggi di Stati, non ci saremmo trovati con sette anni di recessione nell’Eurozona e la disoccupazione sarebbe stata molto più bassa». Tutto questo sarebbe avvenuto «se in Europa avessimo avuto un tasso di cambio flessibile invece di quello che potremmo chiamare il Meccanismo di Strangolamento Monetario (Mms)». Fortunatamente, non tutti i paesi europei sono entrati nell’euro: «L’andamento economico dei paesi che non sono entrati potrebbe darci qualche suggerimento su come le cose avrebbero potuto andare se l’euro non fosse mai stato introdotto». Per questo, Christensen ha esaminato i risultati della crescita nei paesi dell’area euro e in quelli che in Europa hanno avuto tassi di cambio flessibili (o quasi flessibili), per mettere a confronto paesi “agganciati” con paesi “flessibili”. Inutile dire che la differenza è impressionante: chi è fuori dall’euro se la cava, gli altri hanno un Pil inferiore a quello che avevano nel 2007.
Nel campione, Christensen ha incluso gli Stati dell’Eurozona con tassi di cambio fissi nei confronti dell’euro (Bulgaria e Danimarca) e i paesi Ue con tassi di cambio variabile (Regno Unito, Svezia, Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Romania). Inoltre, ha incluso la Svizzera e allo stesso modo i paesi dell’Area economica europea (Eea), cioè Norvegia e Islanda (tutti con tassi di cambio flessibile). Infine, ha incluso la Turchia, che confina con la Grecia, e che ha anche lei un tasso di cambio flessibile. In tutto, spiega Christensen in un’analisi su “The Market Monetarist” ripresa da “Voci dall’Estero”, sono 31 paesi europei, tutti molto diversi tra loro. Alcuni hanno un sistema politico poco funzionale e lottano con la corruzione (per esempio Romania o Turchia), mentre altri normalmente sono considerati economie relativamente efficienti, con un mercato del lavoro e un mercato interno che funzionano bene, conti con l’estero in attivo e finanze pubbliche solide, come Danimarca, Finlandia e Olanda. Il risultato lascia sgomenti: dei 21 paesi nell’euro (inclusi i due con ancoramento del cambio) quasi la metà (10) oggi ha un livello di Pil reale più basso che nel 2007, mentre tutti quelli col cambio flessibile oggi hanno un prodotto interno lordo maggiore di quello di 9 anni fa.
Stanno meglio perfino l’Islanda, «che ha avuto una grave crisi bancaria nel 2008», e l’Ungheria, «da sempre politicamente disfunzionale e con un debito alto». Entrambi i paesi (con tasso di cambio rimasto flessibile) sono cresciuti in misura maggiore dei paesi nell’euro e di quelli agganciati all’euro. Islanda e Ungheria, infatti, pur essendo «quelli con la crescita più lenta nel gruppo dei tassi di cambio flessibili», di fatto «sono cresciuti più di Olanda, Danimarca e Finlandia – paesi che sono sempre stati considerati un esempio di grande volontà nel realizzare le riforme, con strategie ultraprudenti, bilancia dei pagamenti salda e finanze pubbliche in piena salute». Se si osserva la media dei tassi di crescita del Pil reale tra il 2007 e il 2015, i “flessibili” hanno significativamente superato in crescita i paesi nell’euro di un “fattore 5”, cioè un 7.9% contro l’1.5%. «Anche se escludiamo dal campione i tre paesi flessibili cresciuti più velocemente (Turchia, Romania e Polonia) i flessibili comunque superano largamente i paesi nell’euro (6.5% contro 1.5%)».
Conclusione: si scrive euro, ma si legge “spazzatura”. «Non ci possono essere dubbi: l’importante vantaggio nella crescita dei paesi con tasso di cambio flessibile rispetto a quelli nell’euro non è una coincidenza», sottolinea l’economista danese, specializzato in dinamiche internazionali, mercati emergenti e politiche monetarie, forte anche della ventennale esperienza all’Adam Smith Institute di Londra. Secondo Christensen, «l’euro è stato un Meccanismo di Strangolamento Monetario: e se non lo avessimo avuto, la crisi in Europa sarebbe stata superata da molto tempo», come in effetti è stato per la maggior parte dei “flessibili”. «Possiamo discutere sul perché l’euro è stato una simile macchina per uccidere la crescita, ma non c’è dubbio che la crisi in Europa oggi è stata causata dall’euro in sé e non da errori di gestione nelle singole economie».

venerdì 12 febbraio 2016

A Sigonella il centro satellitare per teleguidare i droni killer USA

La base siciliana di Sigonella si prepara ad ospitare uno dei principali centri al mondo per il comando, il controllo satellitare e la manutenzione di tutti i droni delle forze armate statunitensi. Il 14 novembre 2015 il Naval Facilities Engineering Command Office per l’Europa e l’Asia sud-occidentale della Marina militare Usa con sede a Napoli ha pubblicato il bando di gara per la realizzazione nella stazione aeronavale n. 2 di Sigonella (NAS 2) dell’UAS SATCOM Relay Pads and Facility, un sito fornito di tutte le attrezzature necessarie a supportare le telecomunicazioni via satellite del Sistema degli aerei senza pilota (Unmanned Aircraft System - UAS) e assicurare “lo spazio per la gestione delle operazioni e delle attività di manutenzione” dei droni in dotazione all’US Air Force e all’US Navy. Il bando, classificato con il codice n. 3319116r1007, prevede la demolizione e la rimozione delle vecchie infrastrutture ospitate nell’area e la realizzazione del nuovo centro per il controllo satellitare dei velivoli senza pilota con relative strade d’accesso per un importo compreso tra i 10 e i 25 milioni di dollari. La società contractor dovrà consegnare i lavori entro 550 giorni dalla stipula dell’accordo con il Dipartimento della marina statunitense.
Il progetto per realizzare in Sicilia l’UAS SATCOM Relay Pads and Facility era stato presentato la prima volta al Congresso nell’aprile del 2011, ma l’approvazione è giunta solo in occasione della predisposizione del bilancio per le costruzioni militari per l’anno fiscale 2016. “Nel nuovo centro saranno installati dodici ripetitori UAS SATCCOM con antenne, macchinari e generatori di potenza con la possibilità di aggiungere altri otto ripetitori della stessa tipologia”, è riportato nella scheda progettuale fornita dal Dipartimento della difesa. “Il progetto prevede inoltre tutti i sistemi infrastrutturali, meccanici, elettrici, stradali, di prevenzione incendi ed allarme per supportare il sito per le comunicazioni satellitari”.
“Il Sistema degli aerei senza pilota richiede un’ampia facility che assicuri la massime efficienza operativa durante le missioni di attacco armato e di riconoscimento a supporto dei war-fighters”, aggiunge il Pentagono. “La costruzione di una SATCOM Antenna Relay facility è necessaria per supportare i link di comando dei velivoli controllati a distanza, in modo da collegare le stazioni terrestre presenti negli Stati Uniti con gli aerei senza pilota operativi nella regione dell’Oceano atlantico. Con il completamento di questo progetto saranno soddisfatte le richieste a lungo termine di ripetitori SATCOM per i “Predator” (MQ-1), i “Reaper” (MQ-9) e i “Global Hawk” (RQ-4). Il nuovo sito supporterà inoltre il sistema si sorveglianza aeronavale con velivoli senza pilota UAV Broad Area Maritime Surveillance (BAMS) di US Navy e le missioni speciali del Big Safari di US Air Force”. Il programma BAMS vede l’acquisizione di una quarantina di droni di ultima generazione “Global Hawk” da schierare nelle stazioni aeronavali di Jacksonville (Florida), Kadena (Giappone), Diego Garcia, Hawaii e Sigonella; il Big Safari è invece un articolato programma di acquisizione, gestione, potenziamento di speciali sistemi d’arma avanzati (velivoli senza pilota, grandi aerei da trasporto e per le operazioni d’intelligence e riconoscimento, ecc.) coordinato dal 645th Aeronautical Systems Group dell’US Air Force con sede nella base di Wright-Patterson (Ohio).
I droni-spia e i droni-killer che opereranno sotto il controllo del nuovo centro di Sigonella saranno utilizzati per le missioni pianificate dai comandi strategici di Eucom, Africom e Centcom, in modo da fornire in tempo reale le “informazioni più aggiornate ai reparti combattenti”. “Il sito di Sigonella garantirà la metà delle trasmissioni del Sistema dei velivoli senza pilota UAS e opererà in appoggio al sito di Ramstein (Germania)”, aggiunge il Pentagono. “Senza l’UAS SATCOM Relay Site gli aerei senza pilota non saranno in grado di effettuare le loro missioni essenziali, non potranno essere sostenuti gli attacchi armati e si verificherà una riduzione significativa delle capacità operative odierne e un impatto negativo grave per le future missioni d’oltremare”.
La stazione per il controllo satellitare dei droni di Ramstein è stata completata nel secondo semestre del 2013 all’interno della foresta che sorge nei pressi del grande impianto di baseball utilizzato dal personale militare Usa di stanza nella grande installazione tedesca. Secondo quanto riportato in una lunga inchiesta pubblicata nell’aprile 2015 da The Intercept, il giornale fondato da Glenn Greenwald, l’UAS Satcom Relay di Ramstein è il vero “cuore hi-teach della guerra Usa dei droni”. “Ramstein fa viaggiare sia il segnale satellitare che dice al drone cosa fare sia quello che trasporta le immagini che il drone vede”, aggiunge The Intercept. “Questi dati viaggiano attraverso i cavi sottomarini a fibra ottica, ma è grazie al sistema UAS Satcom che il segnale riesce a viaggiare senza ritardi in modo da permettere ai piloti di manovrare un velivolo a migliaia di chilometri con la necessaria tempestività”. Dalla stazione di Ramstein i segnali sono trasmessi ai satelliti militari operanti nello spazio in banda Ku e alla grande base aerea di Creech (Nevada), la principale centrale di US Air Force per le operazioni planetarie dei droni. Il nuovo UAS Satcom Relay di Sigonella opererà come stazione “gemella” dell’infrastruttura ospitata in Germania, assicurando l’“indispensabile” backup alle operazioni d’intelligence e di telecomunicazione satellitare di Ramstein.
A Sigonella sarà realizzata pure un’ampia area per la sosta dei velivoli senza pilota USA. “Il costo delle infrastrutture di supporto è superiore del 25% di quanto calcolato preventivamente perché la facility deve essere realizzata in un’area sottosviluppata e delicata dal punto di vista ecologico”, spiega il Pentagono. “La SATCOM Communications Support Facility avrà un’estensione di 1.200 metri quadri e non potrà contare sull’apporto finanziario della NATO”. Quando la nuova stazione entrerà in funzione, verranno trasferiti a Sigonella 55 militari e 58 dipendenti civili dell’US Air Force.
La base aereonavale siciliana ospita stabilmente dal 2009 alcuni droni-spia “Global Hawk” della Marina Usa e dal 2013 pure uno stormo di droni-killer MQ-1 “Predator” dell’US Air Force, utilizzati per le incursioni in Libia, Somalia, Regione dei Grandi Laghi, Mali e Niger. A partire dal prossimo anno, Sigonella farà pure da centro di comando e controllo dell’AGS - Alliance Ground Surveillance, il nuovo programma di sorveglianza terrestre della NATO che verterà su una componente aerea basata su cinque velivoli a controllo remoto “Global Hawk” versione Block 40, che saranno installati anch’essi in Sicilia.

giovedì 11 febbraio 2016

Obama-Mattarella: triste finale di una Repubblica mediocre

Obama-Mattarella. Un successo: gli americani ci hanno dato la solita pacca sulla spalla confermando che se gli “alleati” europei proveranno a darci una bastonata loro interverranno: non permetteranno che un loro dipendente venga umiliato da altri padroni. Improvvisamente siamo diventati un tassello cruciale della guerra al terrorismo in Iraq dove nessun occidentale ha infiliato neppure un soldato.
Un disastro: questa classe politica, vissuta nella dipendenza dalla Nato e dagli Usa, non è neppure in grado di protestare timidamente per gli errori disastrosi compiuti dalla politica americana nel Mediterraneo e in Medio Oriente che nel caso della Libia ci hanno danneggiato direttamente.
Dei Paesi usciti sconfitti dalla seconda guerra mondiale, l’Italia è l’unico rimasto seduto saldamente al tavolo dei perdenti. Se non alzi la voce, gli altri si sentiranno sempre autorizzati a farti fare quello che vogliono e a subire le loro decisioni senza neppure consultarti. Triste finale di una repubblica mediocre.

mercoledì 10 febbraio 2016

Bandiera Usa sull’Europa

Il problema non è solo quello di cedere una parte piu o meno grande della sovranità ma della strategia politica che si accetta: emblematico ciò che avvenne, e continua ad avvenire, nella Libia . Il manifesto, 9 febbraio 2016 (m.p.r.)
Partecipando (come ormai d’obbligo) all’incontro dei ministri della difesa Ue il 5 febbraio ad Amsterdam, il segretario della Nato Jens Stoltenberg ha lodato «il piano degli Stati uniti di accrescere sostanzialmente la loro presenza militare in Europa, quadruplicando i finanziamenti a tale scopo».
Gli Usa possono così «mantenere più truppe nella parte orientale dell’Alleanza, preposizionarvi armamenti pesanti, effettuarvi più esercitazioni e costruirvi più infrastrutture». In tal modo, secondo Stoltenberg, «si rafforza la cooperazione Ue-Nato». Ben altro lo scopo. Subito dopo la fine della guerra fredda, nel 1992, Washington sottolineava la «fondamentale importanza di preservare la Nato quale canale della influenza e partecipazione statunitensi negli affari europei, impedendo la creazione di dispositivi unicamente europei che minerebbero la struttura di comando dell’Alleanza», ossia il comando Usa. Missione compiuta: 22 dei 28 paesi della Ue, con oltre il 90% della popolazione dell’Unione, fanno oggi parte della Nato sempre sotto comando Usa, riconosciuta dalla Ue quale «fondamento della difesa collettiva». Facendo leva sui governi dell’Est, legati più agli Usa che alla Ue, Washington ha riaperto il fronte orientale con una nuova guerra fredda, spezzando i crescenti legami economici Russia-Ue pericolosi per gli interessi statunitensi. In tutta l’Europa orientale sventola, sul pennone più alto, la bandiera a stelle e strisce assieme a quella della Nato. In Polonia, la nuova premier Beata Szydlo ha ammainato dalla sue conferenze stampa la bandiera della Ue, spesso bruciata nelle piazze da «patrioti» che sostengono il governo nel rifiuto di ospitare i rifugiati (frutto delle guerre Usa/Nato), definiti «invasori non-bianchi».
In attesa del Summit Nato, che si terrà a Varsavia in luglio, la Polonia crea una brigata congiunta di 4mila uomini con Lituania e Ucraina (di fatto già nella Nato), addestrata dagli Usa. In Estonia il governo annuncia «un’area Schengen militare», che permette alle forze Usa/Nato di entrare liberamente nel paese.
Sul fronte meridionale, collegato a quello orientale, gli Stati uniti stanno per lanciare dall’Europa una nuova guerra in Libia per occupare, con la motivazione di liberarle dall’Isis, le zone costiere economicamente e strategicamente più importanti. Una mossa per riguadagnare terreno, dopo che in Siria l’intervento russo a sostegno delle forze governative ha bloccato il piano Usa/Nato di demolire questo Stato usando, come in Libia nel 2011, gruppi islamici armati e addestrati dalla Cia, finanziati dall’Arabia Saudita, sostenuti dalla Turchia e altri.
L’operazione in Libia «a guida italiana» - che, avverte il Pentagono, richiede «boots on the ground», ossia forze terrestri - è stata concordata dagli Stati uniti non con l’Unione europea, inesistente su questo piano come soggetto unitario, ma singolarmente con le potenze europee dominanti, soprattutto Francia, Gran Bretagna e Germania. Potenze che, in concorrenza tra loro e con gli Usa, si uniscono quando entrano in gioco gli interessi fondamentali.
Emblematico quanto emerso dalle mail di Hillary Clinton, nel 2011 segretaria di Stato: Usa e Francia attaccarono la Libia anzitutto per bloccare «il piano di Gheddafi di usare le enormi riserve libiche di oro e argento per creare una moneta africana in alternativa al franco Cfa», valuta imposta dalla Francia a sue 14 ex colonie. Il piano libico (dimostravamo sul manifesto nell’aprile 2011) mirava oltre, a liberare l’Africa dal dominio del Fmi e della Banca mondiale. Perciò fu demolita la Libia, dove le stesse potenze si preparano ora a sbarcare per riportare «la pace».

martedì 9 febbraio 2016

Non sono le piccole imprese a mandare in default le banche ma i grandi gruppi

Secondo l'elaborazione effettuata dall'Ufficio studi della Cgia su dati Banca d'Italia, al 30 settembre 2015, l'81,1 per cento delle sofferenze in capo ai nostri istituti bancari e' stato generato dal primo 10 per cento degli affidati che rappresentano, con buona approssimazione, la platea delle grandi imprese e dei gruppi societari.
A livello regionale spiccano i risultati del Lazio (85,8 per cento), della Valle d'Aosta (83,9 per cento), dell'Emilia Romagna (82,5 per cento) e della Toscana (82,3 per cento) che presentano una quota di sofferenze, originate dal primo 10 per cento degli affidati, superiore al dato medio nazionale.
Sulla totalita' dei finanziamenti per cassa, infatti, ben l'80,4 per cento e' stato erogato al primo 10 per cento degli affidati. Tale soglia ha raggiunto addirittura l'87,7 per cento in Lombardia, l'83,2 per cento in Veneto e l'81,8 per cento nel Lazio.
I gravi problemi di insolvenza che caratterizzano i grandi gruppi societari emergono anche dalla lettura dei dati riferiti alle classi di grandezza delle sofferenze. In quelle da 500.000 mila euro in su che, ovviamente, sono riconducibili ad una clientela di medie-grandi dimensioni, si concentra il 70 per cento circa del totale delle sofferenze misurate al 30 settembre scorso che, secondo i dati della Centrale dei rischi, ammontavano a 184,4 miliardi di euro. Anche la variazione delle sofferenze per classi di grandezza registrata nell'ultimo anno (settembre 2014 sullo stesso mese del 2015) e' stata rilevante. Se per i piccoli prestiti fino 500 mila euro le sofferenze hanno superato i 54,6 miliardi, con un aumento del 2,9 per cento, gli impieghi medio-grandi (500 mila euro in su) hanno toccato quota 129,7 miliardi, con una variazione che è stata del 15,1 per cento: 17 miliardi di euro in piu' in un anno che spiegano il 92 per cento dell'incremento complessivo delle sofferenze, pari a 18,5 miliardi di euro.
Scendendo nel dettaglio, osserviamo che le sofferenze sotto i 125.000 euro, ascrivibili in massima parte alle piccole attivita' produttive/commerciali e alle famiglie, presentano una variazione annua negativa fino alla soglia dei 75.000 euro, mentre sono aumentate di appena lo 0,8 per cento quelle comprese tra i 75 e i 125 mila euro e del +7 per cento nell'intervallo tra i 250 e i 500 mila euro.
Per contro, invece, tra i 500.000 e il milione di euro l'aumento e' stato del 9,7 per cento, tra un milione e 2,5 milioni abbiamo assistito ad un incremento del 13,5 per cento, tra i 2,5 milioni e i 5 e dai 5 ai 25 milioni addirittura del 17,6 per cento.
Complessivamente gli affidati in sofferenza ammontano a poco piu' di 1.240.000 soggetti, pari al 37,3 per cento del totale degli affidati (pari a poco piu' di 3.326.000). Le regioni con il piu' alto numero di affidati insolventi sono la Lombardia (189.315), il Lazio (133.124), la Sicilia (131.404) e la Campania
(130.576).
A livello provinciale, infine, la realta' con la quota piu' elevata di sofferenze causate dal primo 10 per cento degli affidati e' Roma (87,1). Seguono Verbano Cusio Ossola (86,9 per cento), La Spezia (85,9 per cento) e Livorno (85,4 per cento).

lunedì 8 febbraio 2016

Riforma, mea culpa di Renzi: abbiamo fatto pasticci, in settimana decidiamo sul concorso

"Sulla scuola abbiamo fatto qualche pasticcio. In settimana c'è una cosa che dobbiamo fare: dobbiamo scegliere con il ministro Giannini il modello di concorso per la scuola".
A fare il mea culpa sulle decisioni prese dal governo sulla scuola, riferendosi alla riforma, la Legge 107/2015, è stato il premier Matteo Renzi, intervenendo domenica 7 febbraio alla scuola di formazione politica del Pd.
Il presidente del Consiglio non è entrato nel merito degli errori. Forse, però, il riferimento è alle tante proteste che hanno caratterizzato gli ultimi mesi dello scorso anno scolastico, culminati con lo storico sciopero unitario di inizio maggio, per dire no al merito per pochi, ai nuovi comitati di valutazione, agli albi territoriali e allo spostamento delle competenze dei dirigenti scolastici sempre più verso gli aspetti manageriali.
Negli ultimi mesi, la contestazione si è sopita. Il personale ha ripreso a lavorare, ma il malessere rimane vivo. Basti pensare alle polemiche per la gestione, molto approssimativa, dei quasi 50mila docenti assunti con il “potenziamento”, la maggior parte dei quali si sono ritrovati a disposizione delle scuole senza avere ancora oggi dei compiti definiti.
È probabile che il Pd si sia reso conto che tutto questo andare sta facendo perdere non pochi consensi. Il “conto” potrebbe essere presentato al partito, già in occasione delle prossime elezioni amministrative, in programma il 12 giugno (con eventuale ballottaggio per la scelta del sindaco il 26 dello stesso mese) che si svolgeranno in contemporanea in cinque città simbolo della Penisola: Roma, Milano, Torino, Napoli e Bologna.

Renzi, per il momento, ha accennato il discorso. E ha concentrato il resto dei concetti espressi sulla scuola, sul prossimo concorso per docenti: "in settimana una delle cose che dobbiamo fare è scegliere con il ministro Giannini il modello di concorso che porterà 63.217 persone in cattedra".
"Uno dei temi in ballo è mettere o meno una o due domande di inglese e c'è una discussione vera e accesa. Sembra una piccola cosa ma andarla a cambiare, potrebbe portare un prof di matematica a essere bocciato pur essendo molto in gamba", ha aggiunto.
Il premier ha ammesso che "non è un tema semplice. Se lo aprissimo qui credo che saremmo divisi a metà: da un lato uno dice 'A me insegnante precario per dieci anni lo Stato ha dato aspettative ma non ha insegnato a parlare inglese'; dall'altro c'è chi dice 'Sì, ma fuori di qui il mondo chiede modifiche'".
Alla fine dell’intervento, però, Renzi fa anche intendere che le certezze palesate in settimana dal ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini, sui due quesiti in lingua inglese, a fronte di otto complessivi relativi alla prova scritta, stiano venendo meno: "la politica è anche cambiare e fare scelte. Si può anche sbagliare, quello che non è possibile fare è rimandare le scelte, andare avanti con lo stesso schema", ha concluso il premier.
Chissà se lo stesso atteggiamento, se l’apertura a cambiare, arriverà anche sui punti più contesi della riforma? Magari “correggendoli”, o riducendone la portata, attraverso le nove leggi delega che si stanno realizzando con l’apporto delle parti sociali. L’aver detto che “sulla scuola abbiamo fatto qualche pasticcio”, potrebbe fare intendere anche questo. In tanti, quanto meno, lo sperano.

domenica 7 febbraio 2016

Il prezzo di una guerra. L’attacco alla Libia del 2011 nei documenti segreti del Pentagono

Lo stretto rapporto italo-libico di cui si è discusso nel precedente articolo non passò certamente inosservato in Europa, anche per via dell’elefantiaca personalità da gaffeur del presidente Berlusconi, e ben presto anche l’ambizioso Sarkozy fu tentato dal corteggiamento del dittatore libico. Gheddafi venne infatti invitato all’Eliseo e ricevuto con tutti gli onori del caso, scatenando un certo astio da parte della stampa francese che vedeva in questa visita il riconoscimento di un sanguinario colonnello in cambio di qualche commessa petrolifera e aerei da combattimento. Alla fine la Libia comprò ben poco dalla Francia perché tra Finmeccanica-ENI e Dassault-TOTAL Tripoli preferiva restare ai patti stretti con Berlusconi che, tutto sommato, l’aveva sempre trattato meglio. Ma il corteggiamento francese continuò per diverso tempo e il rapido cambio di posizione di Sarkozy nel febbraio 2011 fece nascere più di un dubbio sulle sue reali motivazioni soprattutto al governo italiano.
Berlusconi racconta come il 17 marzo 2011 si trovasse al Teatro dell’Opera di Roma per le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia; insieme a lui erano presenti ministri, sottosegretari, consiglieri e lo stesso Presidente Napolitano. Friedman trascrive: “Eravamo all’Opera, e il Consiglio di sicurezza dell’Onu stava approvando la risoluzione sulla no-fly zone. Durante l’intervallo ebbi una discussione sulla Libia con il presidente Napolitano. Lui aveva già preso una decisione e voleva che appoggiassimo l’attacco. Era stato impegnato in riunioni con il ministro della Difesa e aveva insistito perché in Parlamento la commissione difesa si riunisse e approvasse mozioni a sostegno della missione militare. Quella sera con Napolitano la discussione fu molto tesa. (…) Dopo quell’incontro pensai seriamente di dimettermi”. Due giorni dopo il premier si recò a Parigi con le mani sostanzialmente legate ma nel tentativo di ridurre al minimo la partecipazioni italiana all’azione; le cose non andarono proprio così. Arrivati all’Eliseo gli italiani scoprirono che ormai le decisioni erano già state prese e che i Rafale e i Mirage di Sarkozy avevano già i motori accessi, così come le navi britanniche si appropinquavano al golfo della Sirte. Nelle sue memorie, Hard Choices, Hillary Clinton ha ricordato la sollevazione generale e la rabbia di Berlusconi quando la notizia fu resa pubblica, così come il durissimo scontro verbale tra il premier italiano e il presidente francese. Il segretario americano provò a mediare tra i due ma ottenne soltanto lo sdegno e la rabbia italiana che continuò a sostenere, in modo piuttosto isolato, l’errore nel volere deporre Gheddafi. Afferma Berlusconi: “C’erano interessi commerciali francesi ed era geloso dei miei rapporti con Gheddafi, si era reso conto che non avrebbe mai potuto competere con me in materia di contratti petroliferi e sul gas”. Ma le decisioni, come detto, erano già state prese e quella stessa sera i caccia francesi attaccarono un convoglio di corazzati libici intorno a Bengasi seguito qualche ora più tardi dal lancio di 112 missili Tomahawk da unità navali angloamericane. L’Italia si adeguò in modo piuttosto passivo fornendo inizialmente soltanto basi e ricognitori ma finendo per essere coinvolta sempre più direttamente fino ad impiegare, come ricorda il generale Giuseppe Bernardis, in modo più segreto che pubblico, caccia Tornado IDS, Eurofighter Typhoon, AMX in 1900 sortite con 456 missioni di bombardamento autorizzate dal governo il 26 aprile di cui 310 contro “obiettivi predeterminati al suolo”, 146 di “neutralizzazione delle difese aeree nemiche” e “attacchi ad obiettivi di opportunità”.
L’adesione italiana è un punto ancora poco chiaro ma è certo che all’epoca c’era una grande distanza tra l’esecutivo e il Quirinale che rimaneva comunque il comandante delle forze armate. L’epilogo di questa storia si ebbe il 20 ottobre quando il colonnello Gheddafi fu trascinato per terra, brutalizzato ed ucciso con una vera e propria esecuzione vicino Sirte, la sua città natale. Sarkozy, ovviamente, esultò, la Clinton ebbe uscite infelici, Berlusconi si limitò a commentare amaramente: “Sic transit gloria mundi”. L’intervento armato NATO, iniziato il 19 marzo e terminato il 31 ottobre, con impiego anche di forze speciali e unità di intelligence sul terreno ha tuttavia lasciato molti buchi neri. Il primo fra tutti è proprio l’intervento francese; quali furono le reali motivazioni dell’attacco di Parigi alla Libia? Coprire i debiti del presidente eliminando Gheddafi? Recuperare prestigio internazionale? Isolare l’Italia e attaccare indirettamente i suoi vantaggi nell’area? Fino al mese scorso queste domande sono rimaste puramente speculative ma grazie al Freedom of Information Act oggi sappiamo qualcosa in più e possiamo ricostruire, almeno in parte, i punti neri di questa storia. Parte della corrispondenza di Hillary Clinton tramite le mail confidenziali del Dipartimento di Stato è stata resa pubblica, inclusi gli scambi con Sidney Blumenthal, fonte del governo americano sulla questione libica. Nel primo documento si può leggere che alti ufficiali del Consiglio Nazionale di Transizione diventarono molto presto clienti del governo francese, tra questi il generale Abdelfateh Younis considerato l’uomo più vicino a Parigi all’interno dei ribelli. L’analisi prosegue affermando che sebbene il 2 aprile 2011 i conti del colonnello Gheddafi e della sua famiglia fossero stati congelati il governo libico possedeva comunque 143 tonnellate di oro e altrettante di argento. Verso la fine di marzo quelle riserve erano state trasferite dai caveau della Banca Centrale Libica di Tripoli a Sabha, una zona nel sud-est del paese verso il confine tra Niger e Ciad.
Nella stessa mail possiamo leggere: “Questo oro fu accumulato prima dell’attuale ribellione per essere utilizzato per costituire una valuta pan-africana basata sul dinaro d’oro libico. Questo piano è stato sviluppato per fornire ai paesi francofoni africani una moneta alternativa al franco francese (CFA)”. Il franco CFA è la valuta utilizzata da 14 paesi africani che sono state colonie francesi ed è ancora oggi il Tesoro di Francia a garantire la convertibilità della valuta. In base a quanto raccontato a Blumenthal da informatori libici, la quantità di oro e argento spostata da Tripoli a Sabha era valutata in circa 7 miliardi di dollari; il DGSE, il servizio segreto francese, avrebbe scoperto dell’esistenza di questo progetto poco tempo dopo l’inizio delle ribellioni e sarebbe stato uno dei fattori che avrebbe indotto Sarkozy a decidere per l’attacco. In un’altra mail indirizzata al Segretario di Stato vengono riassunte le motivazioni che avrebbero guidato le mosse del presidente francese: desiderio di ottenere una maggiore partecipazione nella produzione di petrolio libico a danno dell’ENI; aumentare l’influenza francese in Nord Africa; migliorare la situazione politica interna francese in previsione delle elezioni presidenziali del 2012; fornire alle forze armate francesi la possibilità di riaffermare la loro posizione nel mondo; affrontare la preoccupazione dei suoi consiglieri circa il piano a lungo termine di Gheddafi per sostituire la Francia come potenza dominante nella regione francofona iniziando dalla sostituzione della valuta garantita dal Tesoro.
Le motivazioni per muovere guerra a Gheddafi erano dunque numerose e ad esse si sommano le pesanti accuse mosse da Saif al-Islam circa i presunti finanziamenti per la campagna elettorale del 2007. Ma ad avere interessi nel deporre il colonnello erano anche gli inglesi che avevano attivato contatti con leader tribali e civici della Libia orientale per la creazione di una regione semiautonoma nella Cirenaica che potesse garantire a Londra e Parigi opportunità commerciali pari all’impegno militare profuso per sconfiggere le truppe lealiste (mail dell’8 marzo 2012). A cinque anni di distanza da quegli eventi e alla vigilia di un possibile nuovo intervento in Libia per arginare l’avanzata dello Stato Islamico, l’affermazione di un navigato praticante della realpolitik quale Henry Kissinger secondo cui le guerre non si fanno mai per il beneficio dell’umanità ma per interessi nazionali risuonano quanto mai verificate.

venerdì 5 febbraio 2016

Elmetti e moschetti per la Buona Scuola di Renzi & C.

Mussolini proclamava "Col libro e col moschetto Fascista perfetto". Oggi al libro hanno sostituito il tweet, ma in fatto di armamenti il Renzista deve conoscere cose un po' più complesse. 4 febbraio 2016
Lezioni di Costituzione affidate a generali e ammiragli, concorsi spaziali con tanto di premi offerti dalle aziende produttrici di sistemi di morte, seminari e conferenze sulle missioni “umanitarie” delle forze armate italiane in Afghanistan, Iraq, Somalia, Libano e nei Balcani. La buona scuola dell’era Renzi sarà sempre più militare e militarizzata, riserva di caccia del complesso militare-industriale-finanziario e megafono dei pedagogisti-strateghi della guerra globale. Dopo il Protocollo d’Intesa sottoscritto nel settembre 2014 dalle ministre Stefania Giannini e Roberta Pinotti, il ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca scientifica (MIUR) e quello della Difesa varano una serie di iniziative “didattiche e formative” per gli studenti delle istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado, statali e paritarie, con lo scopo di “favorire l’approfondimento della Costituzione italiana e dei principi della Dichiarazione universale dei diritti umani per educare gli alunni all’esercizio della democrazia e favorire l’acquisizione delle conoscenze e lo sviluppo delle competenze relative per l’esercizio di una cittadinanza attiva a tutti i livelli del sistema sociale”.
Con circolare inviata il 15 dicembre 2015 dalla Direzione Generale per gli Ordinamenti e la Valutazione del Sistema Nazionale d’Istruzione, i dirigenti scolastici e gli insegnanti di tutta Italia sono stati invitati a contribuire al successo delle proposte educative della nuova partnership libri-moschetto. Le iniziative per l’anno scolastico in corso e per quello 2016-1017 occupano quasi tutti i campi disciplinari: dalla storia alle scienze, dalle nuove tecnologie al diritto, dallo sport all’educazione stradale. Per celebrare i 70 anni della fondazione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, MIUR e forze armate hanno promosso il concorso Nazioni Unite per la pace: entro la data del 31 marzo, alunni e studenti sono chiamati a presentare composizioni scritte o figurative, progetti multimediali e/o interattivi sulle “sfide relative alla sicurezza di tutti gli Stati”. “In occasione della ricorrenza del 70° anniversario dell’ONU, nonché della prosecuzione delle celebrazioni per il centenario della Grande Guerra, appare opportuno che gli studenti riflettano sul contributo che le Forze Armate hanno offerto in questo periodo per la difesa della Patria e delle libere Istituzioni e per la tutela degli interessi nazionali nel più ampio contesto delle organizzazioni internazionali delle quali l’Italia fa parte”, riporta il comunicato a firma del MIUR e della Difesa. “Le tracce proposte dal bando di concorso Nazioni Unite per la pace costituiranno l’occasione per una riflessione sulla più grande organizzazione intergovernativa mondiale, con particolare riferi

giovedì 4 febbraio 2016

Gli Stati Uniti non hanno una politica per il Medio Oriente.

I problemi del Medio Oriente non possono essere risolti con mezzi militari. Stephen Walt
Ai tempi della guerra fredda, gli Stati Uniti d'America avevano un obiettivo chiaro in Medio Oriente: contenere l'Unione Sovietica. Dopo la caduta dell'Unione, Washington non è stata in grado di capire come operare nella regione, sostiene il politologo e professore di Harvard, Stephen Walt.
In un articolo su Foreign Policy, Walt fa notare che mentre Washington cercava di controllare le azioni dell'Unione Sovietica, garantiva una fornitura ininterrotta di petrolio sui mercati mondiali. Come risultato di questa politica, gli USA avevano chiaramente definito le loro priorità nella regione e conducevano una politica coerente, basata sia sulla forza militare che sull'appoggio agli alleati locali.
Ma ora, il paese non ha più potenti rivali nella regione, e quindi, secondo il politologo, non c'è più un principio organizzatore nella politica del Medio Oriente e la Casa Bianca si trova di fronte un numero di forze nella zona che perseguono obiettivi molto diversi.
I rapporti tra Washington e i suoi alleati in Medio Oriente si sono deteriorati in modo significativo. La politica delle autorità turche a volte vanno contro la linea americana, e le relazioni con l'Arabia Saudita sono state ostacolate dall'accordo nucleare con l'Iran e le diverse opinioni sul conflitto siriano.
Il calo dei prezzi del petrolio e un eccesso di offerta nel mercato del petrolio mettono anche in discussione il senso dell' intervento del paese in Medio Oriente.
In questo senso, i problemi attuali in Medio Oriente non possono essere risolti con mezzi militari, come si è soliti pensare negli Stati Uniti, spiega Walt. E' necessario che nella regione si creino istituzioni politiche efficaci, anche se l'esempio dell'Afghanistan dimostra che l'esercito americano non ha avuto molto successo nello svolgere questo compito.
"I nostri più potenti strumenti di influenza sono di scarsa utilità, e il nostro interesse strategico nella regione è in declino, mentre nessuno dei nostri alleati attuali merita sostegno incondizionato", osserva Walt.
Infine, l'autore sostiene che Washington dovrebbe contribuire a risolvere i problemi con saggezza e volontà. A questo proposito, durante la campagna elettorale negli Stati Uniti, la questione del Medio Oriente non è stata seriamente discussa, anche se si continua a parlare di "leadership" degli Stati Uniti nella regione. Secondo il politologo, è probabile che il prossimo presidente del paese "non abbia idea di cosa fare in quella parte del mondo".

mercoledì 3 febbraio 2016

Un’altra guerra

Siamo alla vigilia di un’altra guerra contro la Libia, “a guida italiana” questa volta. Sembra ormai assodato che le forze speciali SAS sono già in Libia, per preparare l’arrivo di mille soldati britannici. L’operazione complessiva, capitanata dall’Italia, dovrebbe coinvolgere seimila soldati statunitensi ed europei per bloccare i cinquemila soldati dell’Isis. Il tutto verrà sdoganato come “un’operazione di peacekeeping e umanitaria”. L’Italia, dal canto suo, ha già trasferito a Trapani quattro cacciabombardieri AMX pronti a intervenire.
Il nostro paese - così sostiene il governo Renzi - attende però per intervenire l’invito del governo libico di unità nazionale, presieduto da Fayez el Serray. E altrettanto chiaro che sia il ministro degli Esteri, Gentiloni, come la ministra della Difesa, Pinotti, premono invece per un rapido intervento. Sarebbe però ora che il popolo italiano-tramite il Parlamento, si interrogasse, prima di intraprendere un’altra guerra contro la Libia. Infatti, se c’è un popolo che la Libia odia, siamo proprio noi che, durante l’occupazione coloniale, abbiamo impiccato o fucilato centomila libici. A questo dobbiamo aggiungere la guerra del 2011 contro Gheddafi per “esportare la democrazia”, ma in realtà per mettere le mani sull’oro ‘nero’ di quel paese. Come conseguenza, abbiamo creato il disastro, facendo precipitare la Libia in una spaventosa guerra civile, di tutti contro tutti, dove hanno trovato un terreno fertile i nuclei fondamentalisti islamici. Con questo passato, abbiamo, noi italiani, ancora il coraggio di intervenire alla testa di una coalizione militare?
Il New York Times del 26 gennaio scorso afferma che gli Usa da parte loro, sono pronti ad intervenire. Per cui possiamo ben presto aspettarci una guerra. Questo potrebbe anche spiegare perché in questo periodo gli Usa stiano dando all’Italia armi che avevano dato solo all’Inghilterra. L’Italia sta infatti ricevendo dagli Stati uniti missili e bombe per armare i droni Predator MQ- 9 Reaper, armi che ci costano centinaia di milioni di dollari.
Non dimentichiamo che la base militare di Sigonella (Catania) è oggi la capitale mondiale dei droni usati oggi anche per spiare la Libia. L’Italia non solo riceve armi, ma a sua volta ne esporta tante soprattutto all’Arabia Saudita e al Qatar, che armano i gruppi fondamentalisti islamici come l’Isis. I viaggi di Renzi lo scorso anno in quei due paesi hanno propiziato la vendita di armi. Questo in barba alla legge 185 che proibisce al governo italiano di vendere armi a paesi in guerra e che non rispettano i diritti umani