venerdì 26 febbraio 2016

Lavoratori sfruttati e precari: il fine della buona scuola

Le disposizioni sull’alternanza scuola-lavoro, se per un verso il Miur non dà chiare indicazioni, dall’altro avrebbe lo scopo di “attuare modalità di apprendimento flessibili ed equivalenti sotto il profilo culturale ed educativo, rispetto agli esiti dei percorsi del secondo ciclo, che colleghino sistematicamente la formazione in aula con l’esperienza pratica”, e di “arricchire la formazione acquisita nei percorsi scolastici e formativi con l’acquisizione di competenze spendibili anche nel mercato del lavoro”.
E già questo linguaggio, spiega Internazionale.it, vaghissimo e in aziendalese dovrebbe mettere in allerta. E difatti le proposte che arrivano alle scuole sono le più disparate: dal volontarismo ai negozi di abbigliamento che cercano commessi, dalle agenzie pubblicitarie (che cercano volantinatori e uomini sandwich) alle società di marketing fino anche alle parrocchie dove imparare a fare l’aiutante della perpetua.
La caratteristica comune di tutti questi progetti (di cui né ministero né le singole scuole sono tenuti a verifica in anticipo) è che gli studenti impegnati in quest’alternanza andranno a lavorare gratis e raramente potrà assicurare quell’“acquisizione di competenze da spendere nel mercato del lavoro”. Mentre per le aziende si tratterà di disporre a getto continuo, durante tutto l’anno scolastico, di una manodopera giovane, generalmente motivata, non pagata.
I nuovi esperti di riferimento del Miur immaginano un mondo in cui la scuola debba formare, di fatto, al precariato e allo sfruttamento.
Dall’ultimo censimento Unioncamere risultano 117.000 posizioni di lavoro disponibili. Ed economisti e sociologi parlano di mezzo milione di posti scoperti per mancanza di qualificazione. Ma è davvero possibile di questi tempi?
Possibilissimo se fra questi lavori c’è anche quello di “porcaio”.
Ma, sottolinea L’internazionale, il punto è: quanti ragazzi o quanti dei loro genitori accetterebbero un simile lavoro.
Nessuno lo accetterebbe se si trattasse di attendere ai maiali per tutta la vita. Ma non è un lavoro da disprezzare: si possono apprendere nozioni di biologia, fisiologia. Perché non può far parte di un percorso di studi per diventare veterinario? Si deve accettare l’idea di cambiare lavoro. Eppure è più semplice se il lavoro resta lo stesso per tutta la vita: sindacati, burocrazia e aziende, troppi hanno interesse a mantenere un lavoro ‘per sempre’.
Dietro questa visione si nascondono due bugie: la prima, che i progetti di alternanza scuola-lavoro sono formativi; la seconda, che il progetto pedagogico consiste nel fare il porcaio sottopagato per diventare, magicamente, veterinario, invece di prevedere investimenti in ricerca e in istruzione di alto livello.
I nuovi esperti di riferimento di questo ministero dell’istruzione immaginano un mondo in cui serve sempre meno lavoro, in cui la scuola, non solo quella superiore, debba formare non al lavoro qualificato, ma alla flessibilità, all’adattamento. Di fatto: al precariato e allo sfruttamento.
Cos’altro sono duecento o quattro ore non pagate? Perché lo stesso studente non potrebbe decidere – se vuole rendersi economicamente più autonomo – di svolgere lo stesso lavoro d’estate ma pagato? Perché lo stesso studente non potrebbe decidere di dedicare lo stesso tempo a formarsi sul molto altro su cui spesso la scuola italiana è carente? Perché lo stesso studente non può immaginare di evitare di usare questo tempo per quella che di fatto è un’ulteriore materia curricolare, e invece studiare meglio le materie che fanno parte del corso di studi che ha scelto?
Non è difficile ammettere che la ratio dell’alternanza scuola-lavoro è: non investire nella formazione permanente destinata al mondo del lavoro, ma cercare di trasformare il prima possibile gli studenti in operai disponibili ai lavori sottopagati e precari, con nessuna possibilità di avanzamento

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