martedì 23 febbraio 2016

Brexit, la tentazione inglese

Quando la Francia nel 1940 fu sottomessa all’invasione nazista, Winston Churchill propose un’alleanza che tenesse sotto un minimo comune denominatore Gran Bretagna e il paese di de Gaulle. Il progetto non decollò, ma l’intento era quello di creare un bilanciamento che potesse contenere gli straripamenti tedeschi. Un altro leader conservatore, David Cameron, che a Churchill si ispira, indirà il prossimo 23 giugno un referendum decisivo sul quale si giocherà molto del futuro dell’Europa. Ben 6 ministri del suo governo hanno già ribadito di rifiutare l’accordo di questi giorni e di tagliare i ponti con il continente. Le pressioni negoziali di Cameron tuttavia hanno mostrato nelle ultime settimane una certa dose di abilità politica e diplomatica. L’accordo per evitare l’exit della Gran Bretagna ha avuto il bollino di uscita, ma con una trattativa evidentemente tutta al ribasso per l’UE. Intesa all’unanimità ha proclamato il presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk. Adesso toccherà ai cittadini inglesi firmare o non firmare la cambiale. Certo, alla Gran Bretagna questa Europa non è mai piaciuta. Troppa burocrazia, troppe norme. I malumori erano già iniziati all’epoca di Margaret Thatcher. “Give my money back” la famosa espressione con la quale la lady di ferro strappò importanti concessioni da parte dell’allora Comunità Europea sul contributo finanziario che gli inglesi dovevano versare al bilancio europeo.
Le rivendicazioni inglesi trovarono importanti meccanismi di compensazione a partire dal Consiglio di Fontainebleau del 1984. Un riconoscimento sostanziale della loro forza. Ma l’atteggiamento non fu distruttivo e infatti solo 2 anni dopo, lo stesso governo Thatcter ritornò al tavolo per siglare l’Atto Unico Europeo che aprì le porte ad una nuova fase del capitalismo, anticipando il crollo del muro di Berlino e la fine della Guerra Fredda Ma nella sostanza cosa ha chiesto Cameron? Prima di tutto la possibilità di tagliare per diversi anni i benefici sociali dei lavoratori europei che espatriano nel Regno Unito; in secondo luogo un trattamento preferenziale in quanto a regolamentazione bancaria e finanziaria vista la posizione occupata dalla City. Va detto che l’Inghilterra negli ultimi anni non si è certo sottratta a fenomeni eurofobici: il successo dell’Ukip di Nigel Farage ne è diretta testimonianza e segna la soglia oltre la quale l’immigrazione diventa motivo di paura e intolleranza. Uno scontro alimentato ancora di più in questo periodo, nel quale la crisi dei rifugiati sta mettendo a dura prova il Consiglio a 28 con rischio di far saltare definitivamente Schengen dopo che l’Austria ha mandato il proprio esercito sul Brennero in modo da bloccare l’ingresso delle proprie frontiere. Non a caso al di là delle dichiarazioni formali di Tusk sappiamo che il blocco dei paesi dell’Est, tra i quali spiccano Polonia e Ungheria, non ha gradito i termini della trattativa. Anche la Grecia sembra si sia messa di traverso perché vorrebbe maggiori garanzie da parte dell’Ue sulla crisi dei rifugiati che sbarcano sulle sue coste. L’ennesima prova di forza che mostra l’asimmetria tra i paesi membri. E’ in questo quadro che si gioca il patto tra Bruxelles e Londra. Unica nota a margine il fatto che l’Unione Europea da parte sua sia riuscita a strappare un risultato concreto, vale a dire la fine dei veti britannici su una maggiore integrazione politica, possibilità sempre più remota Cosa accadrebbe però se prevalesse una dipartita secca del Regno Unito? Indubbiamente se nel referendum i britannici si esprimeranno in maggioranza contro l’Unione e prevarrà una visione che implicitamente chiede più sicurezza, meno tecnocrazia e più controllo legislativo interno (la così detta rule of law). Le conseguenze sarebbero gravissime.
Con l’abbandono definitivo di Londra, in Europa vi sarà un unico tavolo di decisione, quello della Germania, pure su dossier che vanno al di là della moneta unica e delle decisione a 19. L’Italia non se lo potrebbe permettere. Ed ecco che torniamo alla proposta di Churchill. E’ infatti solo con la fine della Seconda Guerra Mondiale che si era trovato un equilibrio: la scissione in due sfere d’influenza della Germania. L’unico paese che per visione più flessibile e liberale in economia potrebbe imporsi sta avviando una sua fuoriuscita, segno premonitore e che nella storia come sappiamo non ha mai portato a nulla di buono: l’Europa privata della Gran Bretagna, cioè del solo paese che può realisticamente contrapporsi all’attitudine germanocentrica, è insostenibile, non può esistere. D’altra parte non vi sarebbe solo un’accentuata preponderanza del mercantilismo tedesco, ma anche una perdita di rilevanza sul piano militare e della politica estera per l’Ue. Londra ha sempre avuto un approccio pragmatico al progetto europeo e del mercato unico. Inoltre è membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu: il pieno recupero alla sua sovranità significherebbe una perdita di centralità geopolitica in materie decisive e che interessano tutti gli europei Di fatto se si è arrivati in questa situazione è perché la costruzione europea sia sul fronte monetario che su quello delle istituzioni non offre alcun progetto di lungo respiro. Questo è frutto di una costruzione farraginosa, del troppo peso economico lasciato negli ultimi anni ai tedeschi, di una forte litigiosità fra stati che ultimamente sta creando divergenze in materia immigratoria. Come disse l’ex Ministro delle Finanze greco, Yanis Varoufakis, l’Europa non esiste per come la intendono i suoi popoli: “hanno semplicemente creato un comitato d’affari, un OPEC collegato da una moneta unica”. Come dargli torto?

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