mercoledì 23 settembre 2020

Come cambia il trasporto mondiale delle merci

 

Durante una cerimonia ad aprile, tenendo una piccola ascia in una mano guantata di bianco, la first lady della Corea del Sud, Kim Jung-Sook, ha tagliato le funi che legavano la HMM Algeciras e ha lanciato ufficialmente la più grande nave portacontainer del mondo.

La nave, alta come una torre, la prima di una dozzina ordinata dalla compagnia di navigazione HMM, ha le dimensioni di quattro campi da calcio. Se caricati su un treno, i 23.964 container da 20 piedi che può trasportare si estenderebbero per quasi 145 chilometri.

Eppure, nonostante tutto lo sfarzo mostrato al cantiere navale Daewoo quel giorno, il tempismo non avrebbe potuto essere meno propizio. I lockdown globali avevano ormai strangolato l’attività economica negli Stati Uniti e in Europa, che sono i maggiori mercati per le esportazioni asiatiche di prodotti manifatturieri.

Di conseguenza c’è stato un forte calo del traffico di container marittimi, milioni dei quali attraversano gli oceani supportando le catene di approvvigionamento globali e trasportando di tutto, dall’elettronica all’abbigliamento ai rottami metallici e alla frutta fresca.

A maggio, quasi il 12% dell’intera flotta globale era inattiva, secondo i dati di Clarksons Research. Decine di migliaia di marinai sono rimasti bloccati in mare.

“Lo shock della domanda è stato ancora più forte che durante la crisi finanziaria globale”, afferma Morten Bo Christiansen, a capo della direzione strategica della danese AP Moller-Maersk, la più grande compagnia di spedizioni di container del mondo. “In ogni modo è stato senza precedenti.”

In un simile contesto, il settore del trasporto di container da 180 miliardi di dollari l’anno avrebbe potuto trovarsi in una condizione pericolosa, soprattutto dato il suo recente record di deboli profitti e sovraccapacità. Eppure, sei mesi dopo che la pandemia ha portato il caos nell’economia globale, molte delle linee di container hanno superato la crisi sorprendentemente bene.

Riducendo i servizi per prevenire la sovraproduzione, finora non solo si sono protetti da un assalto finanziario, ma molti stanno facendo più soldi di prima.

I vettori hanno imparato una lezione preziosa quest’anno“, afferma Lars Jensen, amministratore delegato di SeaIntelligence Consulting. “A meno che qualcosa non vada orribilmente storto negli ultimi mesi, usciranno dal 2020 con un risultato finanziario molto migliore rispetto allo scorso anno, nonostante l’interruzione“.

Data la sua posizione al centro dell’economia globale, la performance dell’industria del trasporto di container risuona ben oltre il settore. Alcuni economisti sono arrivati ​​al punto di ipotizzare che Covid-19 potrebbe persino significare la fine dell’era d’oro della globalizzazione, un periodo di cui i container sono stati sia il simbolo che lo strumento. Ci sono anche molti problemi a breve termine ancora da affrontare, compresi i lavoratori marittimi ancora impossibilitati a tornare a casa.

Ma finora l’industria ha dimostrato una notevole capacità di recupero. L’aumento dell’e-commerce gli ha dato una spinta. Si sta anche studiando l’opportunità di viaggi più brevi all’interno delle regioni su navi di dimensioni più piccole e più agili di quelle come HMM Algeciras – un’indicazione che il modello della globalizzazione potrebbe cambiare piuttosto che ritirarsi.

Roberto Giannetta, capo della Hong Kong Liner Shipping Association, afferma che mentre l’ambiente marittimo “cambia rapidamente”, il commercio globale “si è adattato e adattato molto rapidamente in modo tale da poter continuare ininterrottamente per un po’ più a lungo”.

Capacità ridotta, prezzi più alti

L’invenzione della moderna spedizione di container, negli anni ’50, ha rivoluzionato il commercio internazionale. I carichi sfusi trasportati in casse di legno, barili e sacchi di dimensioni diverse venivano movimentati da eserciti di portuali. Riducendo la necessità di manodopera e il rischio di furto e danneggiamento, la modesta scatola di metallo ha ridotto i costi e i tempi per lo spostamento delle merci attraverso gli oceani.

Ha scatenato un’enorme espansione del commercio durante la seconda metà del 20 ° secolo. I volumi di container marittimi sono aumentati quasi ogni anno negli ultimi quattro decenni, da circa 100 milioni di tonnellate nel 1980 a 1,8 miliardi di tonnellate nel 2017, secondo le Nazioni Unite. Fino ad ora, l’unica contrazione durante quel periodo è stata a seguito della crisi finanziaria del 2008-2009.

Hai difficoltà a trovare un settore che abbia creato collettivamente tanto valore quanto la spedizione di container, perché è lì che si muovono tutti i prodotti di valore“, afferma John McCown, un veterano del settore dei trasporti e fondatore di Blue Alpha Capital, una società di consulenza. “Eppure, per molte ragioni, resta poco prezioso per l’industria stessa. È stato cronicamente sottoperformante, nonostante una crescita incredibile“.

La concorrenza brutale ha reso elusiva una redditività sostenuta e dignitosa. Il settore comprende una flotta di circa 5.000 navi. Dopo il crollo finanziario globale, i vettori hanno continuato a ordinare navi sempre più grandi mentre inseguivano economie di scala, culminando in guerre sui prezzi che hanno martellato i guadagni. Un rapporto McKinsey nel 2018 ha stimato che negli ultimi 20 anni l’industria del trasporto di container  ha distrutto 100 miliardi di dollari di valore per gli azionisti.

Il pendolo ora sta oscillando dall’altra parte. Nonostante i timori iniziali sull’impatto del Covid-19, le tariffe di trasporto applicate dai vettori – un barometro chiave dello stato di salute del mercato – hanno ampiamente resistito.

L’indice composito dello Shanghai Containerized Freight Index, un punto di riferimento per i prezzi del mercato spot, ha recentemente raggiunto un massimo da otto anni ed è aumentato di oltre la metà da aprile, il suo punto più basso quest’anno. Ciò è stato determinato da un aumento delle “toccate” tra Shanghai e le coste degli Stati Uniti, nonché sulle rotte verso l’Europa.

Il consolidamento del settore ha portato a tassi più elevati. Dopo il fallimento della coreana Hanjin Shipping, nel 2017, il primo grande crollo nel settore da 30 anni a questa parte, il numero di vettori si è ridotto. Le navi di linea dominanti oggi operano nell’ambito di tre principali “alleanze”, i cui membri condividono lo spazio a bordo e raggruppano le navi in base ai servizi.

Insieme, queste tre alleanze controllano circa l’85% della capacità sulle rotte commerciali transpacifiche e quasi tutte sulle rotte commerciali dell’Estremo Oriente [verso] l’Europa, con un comportamento molto più razionale [di prima]”, afferma David Kerstens, analista di investimenti presso Jefferies.

Dall’inizio della pandemia, le compagnie di linea hanno parcheggiato parte delle navi, inviato navi per viaggi più lunghi e annullato centinaia di partenze, il che ha ridotto la capacità disponibile.

Questa scelta ha dato i suoi frutti. La divisione oceanica di Maersk ha registrato un aumento del 26% (1,36 miliardi di dollari) su base annua degli utili del secondo trimestre, ante interessi, tasse, deprezzamento e ammortamento, nonostante un calo del 16% dei volumi. Ciò grazie alla gestione della capacità della rete, delle tariffe di trasporto più elevate e costi del carburante inferiori, a seguito del crollo dei prezzi del petrolio.

L’EBITDA del secondo trimestre del rivale tedesco Hapag-Lloyd è cresciuto di sei mesi su un anno, mentre HMM – che ha una storia recente fatta di salvataggi statali – ha registrato nel trimestre un utile operativo per la prima volta in circa cinque anni.

Se l’attuale forza del mercato persiste, SeaIntelligence Consulting prevede un profitto totale del settore compreso tra $ 12 e $ 15 miliardi nel 2020, un sostanziale miglioramento rispetto ai $ 5,9 miliardi dello scorso anno.

Il rovescio della medaglia è che i clienti interessati a spostare le merci – gli “spedizionieri” – devono pagare di più. Anche se alcune partenze annullate sono state ripristinate, ci sono lamentele riguardo alle difficoltà di ottenere spazio a bordo di navi e navi di linea che addebitano premi per evitare che il carico venga “trasferito” su navi successive.

È meglio di come è stato nel bel mezzo della pandemia, ma non è ancora eccezionale“, afferma Philip Edge, amministratore delegato della Edge Worldwide Logistics del Regno Unito. “Le tariffe per la spedizione di merci veramente urgenti [dall’Asia all’Europa], sono il doppio di quanto paghi normalmente. È un incubo. Al momento devi prenotare da quattro a sei settimane in anticipo.

Mentre i critici affermano che le alleanze del settore distorcono la concorrenza, i dirigenti affermano che si ignorano le tensioni finanziarie che le aziende devono affrontare.

Questo settore non ha recuperato il costo del capitale negli ultimi 10-12 anni, in nessun anno”, afferma Rolf Habben Jansen, amministratore delegato di Hapag-Lloyd, [quindi] probabilmente perché le tariffe sono state tradizionalmente troppo basse.

I volumi di container marittimi sono aumentati quasi ogni anno negli ultimi quattro decenni, da circa 100 milioni di tonnellate nel 1980 a 1,8 miliardi di tonnellate nel 2017, secondo le Nazioni Unite


Disordini sindacali

Anche se le linee di container possono continuare a mantenere la disciplina di fornitura che supporta tassi più elevati, potrebbero comunque essere impattate da fattori umani e politici al di fuori del loro controllo.

Quando a gennaio si è imbarcato su una nave portacontainer per lavorare come terzo ufficiale, Martin Li si aspettava di essere in mare solo per quattro mesi. Ma dopo che la pandemia ha impedito agli equipaggi di poter sbarcare, il marinaio, sulla trentina, si è ritrovato bloccato sulla nave, viaggiando ripetutamente tra il Canada e l’Europa senza alcuna idea di quando sarebbe tornato a casa. “Stavamo solo andando avanti e indietro“, dice. “L’operazione non si è mai fermata.

Il signor Li alla fine è tornato a Hong Kong in agosto. Ma si ritiene che 250.000 persone siano ancora abbandonate in situazioni simili. Le autorità di alcuni paesi hanno impedito lo sbarco dei marittimi per motivi di rischio di infezione. Un altro ostacolo è il fermo delle compagnie aeree internazionali su cui molti fanno affidamento per tornare a casa dopo i viaggi. La maggior parte dei marittimi stimati nel mondo a 1,65 milioni proviene da paesi come Cina, Filippine, Indonesia, Russia, Ucraina e India.

Quella che era già una crisi umanitaria per chi lavorava a bordo delle navi portacontainer comincia ora ad avere implicazioni per le merci che transitano. Secondo l’Organizzazione marittima internazionale, circa il 90% di tutto il commercio è trasportato via mare – più della metà su navi portacontainer. I sindacati affermano che la stanchezza e lo stress emotivo tra il personale aumentano il rischio di errori a bordo.

Avvertendo il potenziale rischio per le catene di approvvigionamento, Fidelity International, un asset manager, ha invitato aziende e governi ad affrontare il problema.

Sembra che siano diventati un esercito di persone dimenticate“, dice Guy Platten, segretario generale della Camera di spedizione internazionale. “Questo alla fine influenzerà le catene di approvvigionamento.

Il signor Platten sottolinea i “primi segni” di questo in Australia, dove gli equipaggi si sono rifiutati di lavorare e le navi sono state sequestrate dal governo per aver violato le leggi sul lavoro. “Quello che vedi in Australia. . . questa è solo la punta dell’iceberg“, dice. “Questo è quello che potrebbe accadere in tutto il mondo.


Commercio regionalizzato

Il progresso inarrestabile della globalizzazione ha generato navi sempre più grandi per soddisfare una domanda di beni apparentemente inesauribile da parte dei consumatori.

Ma se HMM Algeciras simboleggia l’apice della logistica transoceanica, alcune compagnie di linea stanno ora scommettendo che il commercio futuro potrebbe essere più adatto a navi che non sono così grandi e vantano una maggiore flessibilità e velocità.

Nel 2014, Zim, una compagnia di navigazione israeliana, ha cancellato la sua rotta dalla Cina alla costa occidentale degli Stati Uniti perché non poteva competere con i grandi vettori. Ma sulla scia della pandemia ha lanciato un nuovo “servizio accelerato” che trasporta le merci più velocemente, spostando le merci dai magazzini di Shenzhen al porto di Los Angeles in due settimane: approvvigionando di un mondo che in gran parte sta a casa.

Abbiamo individuato una necessità“, afferma Nissim Yochai, vicepresidente esecutivo di Zim per il commercio transpacifico. “Questa esigenza è cresciuta a causa del virus.

L’accelerazione nell’e-commerce sta influenzando la spedizione di container. Gli articoli ordinati online dai consumatori occidentali da fornitori asiatici vengono in genere trasportati nel ventre degli aerei, un metodo molto più veloce che via mare. Ma la messa a terra della maggior parte della flotta aerea globale significa che è stato necessario spedire più articoli.

Il settore del trasporto di container comprende una flotta di circa 5.000 navi e genera un fatturato stimato di 180 miliardi di dollari all’anno

Un altro fattore contro navi sempre più grandi è che il traffico di container sulle rotte intraregionali dovrebbe crescere più rapidamente rispetto alle tre principali rotte est-ovest – transpacifica, transatlantica e Asia-Europa – che insieme rappresentano circa i due quinti di tutto traffico container.

Arriva quando molte aziende rivalutano le loro catene di approvvigionamento dopo che il coronavirus ha esposto le vulnerabilità nel modo in cui le merci sono prodotte e distribuite. Uno studio del Global McKinsey Institute ha rilevato che le aziende potrebbero trasferire un quarto del loro approvvigionamento di prodotti globali in nuovi paesi nei prossimi cinque anni.

Paesi come Vietnam, Cambogia, Laos e Bangladesh stavano già costruendo forti settori manifatturieri, un riflesso di manodopera a basso costo e aziende che cercavano di evitare i dazi statunitensi sui beni cinesi. L’aumento dei livelli di reddito dovrebbe significare che queste nazioni avranno un maggiore appetito per i prodotti manifatturieri.

La regione intra-asiatica sembra essere il mercato che attira sempre più attenzione da parte delle compagnie di navigazione“, afferma Antonella Teodoro, analista di MDS Transmodal.

Significherà più navi che si fermeranno nei porti del continente e viaggeranno per distanze più brevi, invece di caricare completamente in Cina e salpare per l’ovest. I porti regionali più piccoli spesso non dispongono di infrastrutture adeguate per le navi più grandi, mentre anche sulle rotte principali potrebbero esserci rendimenti di dimensioni inferiori.

Abbiamo più o meno raggiunto il limite [sulle dimensioni della nave]”, afferma Jensen di SeaIntelligence.

Mentre l’elettronica di consumo più piccola significa che TV e computer occupano già meno spazio, la composizione delle merci all’interno dei container potrebbe evolversi ulteriormente.

Un’area che dovrebbe rivelarsi fertile è il carico deperibile, che si prevede abbia sofferto meno dell’impatto del Covid-19 rispetto ai prodotti manifatturieri, secondo la società di consulenza per la ricerca marittima Drewry. Si prevede un’espansione media annua del 3,7% fino al 2024 nei container refrigerati, o “reefers”, rispetto al

venerdì 18 settembre 2020

La finanza Usa in Cina

 

La Cina sta divenendo un centro d’attrazione per il settore finanziario statunitense, e i big di Wall Street sembrano seguire più l’adagio finanziario follow the money che le indicazioni dell’amministrazione nord-americana.

Quest’aspetto rende certamente più complesso il quadro delle relazioni sino-statunitensi, ormai inserite in una cornice da guerra fredda di nuovo tipo  in cui i due Paesi, lottando per l’egemonia, cercano di primeggiare su differenti fronti: dallo scontro spaziale a quello sulle risorse, dal conflitto monetario a quello sull’informazione.

Questo flusso di investimenti dei big di Wall Street, che prende la strada dei fondi d’investimento e della gestione patrimoniale, è il risultato della coniugazione di due fattori: la sete di capitale della finanza USA e la parziale apertura cinese a questo tipo d’investimenti, in un settore comunque rigidamente orientato, per usare un eufemismo.

Ovunque si guardi, ci sono molti soldi e in quale altro posto al mondo c’è un’opportunità come questa per andare a prendersi questa quantità di denaro per il management? Afferma un manager di una società legata a Citigroup nell’articolo del «Financial Times» che abbiamo qui tradotto.

Non si potrebbe essere più chiari.

Dove reperire risorse, se non dove sono ancorate ad una solida base economica piuttosto che al sentiment dei mercati?

Così i grandi nomi della finanza USA – BlackRock, Vanguard, Citigroup e JP Morgan, per non citarne che alcuni – vedono una prospettiva d’investimento nel settore in Cina.

Alcune branche di questo settore – secondo quanto sostenuto da alcuni analisti – potrebbero ben presto superare la piazza di Londra.

Che il baricentro di questo tipo di investimenti si sposti dalla City a Pechino  è un fatto di per sé epocale per il lungo XX secolo.

Che questi big leghino i propri destini all’economia cinese non è un fatto secondario per gli Stati Uniti. Perché sarebbe difficile convincere il management di queste aziende a tagliare il ramo su cui si sono posate, come del resto abbiamo già visto succedere con alcuni aziende dell’high Tech connesse alla Repubblica Popolare. Il che non rende certo facile – al di là del tipo di amministrazione che governerà gli Stati Uniti – il “decoupling” da parte nord-americana.

Se è il capitale privato a dettare legge, è sempre abbastanza problematico sbarrargli la possibilità di profitto. Più facile per la Cina separarsi dagli USA, perché potrebbe decidere di favorire alcuni capitali al posto di altri nel complicato risiko delle relazioni internazionali, giocando per esempio l’UE contro gli USA.

In sintesi, le scelte politiche della Cina potrebbero avere conseguenze sugli investimenti finanziari nord-americani in uno dei settori chiave: quello che regge la baracca nell’economia statunitense drogata dalla finanza.

Allo stesso tempo potrebbe essere una breccia, per i settori del capitale finanziario USA in grado di legare a sé la parte di élite economica cinese che ha maggiormente beneficiato della globalizzazione neoliberista, con tutto quello che potrebbe conseguirne nella ridefinizione dei rapporti di classe nella Repubblica Popolare e non solo tra le varie componenti della classe dirigente.

I potenziali di crescita sono enormi, anche se il mercato cinese è tutto meno che de-regolamentato, con un ruolo decisivo giocato dalla gestione pubblica dell’economia – a partire dal settore bancario – che ha fatto tesoro delle turbolenze finanziare già dalla prima crisi asiatica.

L’industria cinese dei fondi comuni di investimento”, recita l’articolo di Hale, Riding e Xuequiao, “è ancora agli inizi. Goldman Sachs stima che solo il 7% del patrimonio delle famiglie del Paese sia in azioni e fondi comuni di investimento, rispetto al 32% negli Stati Uniti. Due terzi dei beni delle famiglie cinesi sono in proprietà e quasi un quinto è detenuto in contanti e depositi.”

I beni delle famiglie cinesi sono dunque per un terzo economia reale, quindi; ed anche il 20% in risorse cash e depositi bancari aono assicurati da un sistema che, fino a qui, è riuscito a sterilizzare le tossine ed estromettere la “corruzione sistemica” portata dal mondo della speculazione finanziaria. Mentre un buon terzo del patrimonio delle famiglie Usa è qualcosa che può improvvisamente tramutarsi in carta straccia, come ha dimostrato la crisi dei sub-prime.

Ciò che traspare è una certa resistenza al buttarsi a capofitto nella scommessa finanziaria – per ciò che concerne i risparmiatori cinesi – a causa delle fluttuazioni connesse a questo tipo di investimenti, che hanno nell’incertezza uno delle caratteristiche fondamentali: ovvero quelle crisi “allogene” che hanno contribuito a dare una percezione più corretta di cosa sia il capitalismo occidentale.

Sarebbe comunque auto-consolatorio pensare che la legge del valore, per certi versi, si “sospendesse”, invece che fagocitare tutto ciò trova davanti, a meno di non incontrare ostacoli solidissimi.

giovedì 10 settembre 2020

Rassegnarsi al declino? E perché mai

 

Il sistema attuale di governance nel Vecchio Continente non funziona più. Dopo 40 anni in cui l’unico “successo” rivendicabile è l’aver congelato inflazione, distruggendo il valore del lavoro e i salari corrispondenti.

In realtà, se non vi fosse stata – dopo l’89 – una ciclopica delocalizzazione produttiva verso i Paesi di nuova industrializzazione (Cina in primis), in cui il costo del lavoro era inizialmente pari allo zero virgola, neanche quel “successo” sarebbe stato conseguito.

Comunque sia, ora non sta più in piedi e l’unica dinamica attiva è l’autofagia. I Paesi con le economie più forti, tramite i meccanismi costrittivi dell’Unione Europea, “sussumono” risorse e asset di quelli più deboli.

Uno dei meccanismi più forti è stato addirittura inventato in Italia, quando – nel 1981 – il ministro del tesoro Nino Andreatta decretò “il divorzio” tra il suo ministero e la Banca d’Italia. In concreto, la banca centrale non poteva più partecipare alle aste di collocazione dei titoli di stato. Cosa che aveva sempre contribuito a tenere basso il rendimento dei titoli stessi (e quindi degli interessi da pagare), perché Bankitalia comprava “a prezzo pieno” mentre gli operatori di mercato puntavano logicamente a pagare il meno possibile.

Quella decisione di Andreatta – il vero “maestro” di Romano Prodi e di tutti i successivi protagonisti delle politiche finanziarie pubbliche (di destra e di centrosinistra) – aveva una motivazione ufficiale “virtuosa”: bloccare la crescita del debito pubblico (allora intorno al 60% del Pil) tramite il “vincolo esterno” rappresentato dai “mercati”.

In pratica, secondo le teorie monetariste dominanti, i governi sarebbero stati costretti a ridimensionare la spesa per non dover veder crescere la dimensione degli interessi da pagare sui titoli (il cosiddetto “servizio del debito”).

Un ragionamento da ragioniere che si è rivelato ben presto suicida. Governare un Paese non è come amministrare una piccola impresa o un bilancio familiare, ci sono spese incomprimibili per ragioni politiche e sociali, al di là della scontata “avidità” personale di una classe politica già allora non irreprensibile.

Di fatto, il debito pubblico cominciò proprio allora a correre senza più fermarsi, nonostante fossero tagliate spese sociali ad ogni legge finanziaria (oggi “legge di stabilità”), nonostante fosse dismesso quasi tutto il patrimonio di imprese pubbliche (Telecom, Alitalia, l’Iri, le cinque banche di “interesse nazionale”, ecc).

Quel “vincolo esterno” fu addirittura accolto e rafforzato con gli accordi di Maastricht (1992) e la successiva introduzione dell’euro. Creando quella situazione tragica che ormai conosciamo bene: si taglia la spesa, si cancellano servizi sociali e diritti, si congelano salari e pensioni, si accantona annualmente un “avanzo primario”… e il debito pubblico cresce lo stesso.

La crisi del 2008 e ora quella fatta esplodere dalla pandemia mettono il nostro Paese in una situazione insostenibile. Bisogna per forza aumentare la spesa pubblica per ripianare il tracollo del sistema privato (soldi alle imprese di ogni dimensione, ed anche per gli ammortizzatori sociali temporanei), incrementare il debito tramite la compartecipazione al Recovery Fund (non sono “soldi che ci arrivano dall’Europa”, ma debiti che facciamo insieme alla UE), e già ora arrivano gli ammonimenti a riprendere la strada dell’austerità e dei tagli (vedi il presidente di Bundesbank Jens Weidmann, il cancelliere austriaco Kurz e la stessa Unione).

Servono soldi subito per far ripartire l’economia, ma se si prendono a debito la vedremo crollare subito dopo, con aggravamento della situazione per grandi parti della popolazione.

I “campioni europeisti” di entrambi gli schieramenti, e ormai anche i Cinque Stelle, ci dicono che “non c’è alternativa”, anche se poi condiscono con balle diverse la stessa impostazione.

Eppure le alternative, anche all’interno del sistema attuale, ci sarebbero. Alcune vietate, alcune no, altre da “ricontrattare”…

Lorenzo Toglia, ex alto dirigente al tesoro, ora in pensione, ha scritto un libro (Il nuovo risorgimento nell’epoca della globalizzazione, OnTheWave Edizioni), in cui vengono ripercorse le vicende che hanno portato alla situazione attuale. E i temi centrali sono appunto il divorzio tesoro/Bankitalia, il ruolo della Bce, l’ipotesi di un “fondo sovrano” (ce ne sono diversi, anche europei) e di una nuova Iri.

Una rapida occhiata all’abstract del testo illumina sulla ricchezza di strumenti utilizzabili fin da subito. E pone certamente molte domande – cui da anni cerchiamo anche noi di dar risposta – sulle ragioni di un degrado voluto, ricercato, programmato, per i Paesi del Sud Europa.

lunedì 7 settembre 2020

Scuola: tutti i governanti sono colpevoli

 

La scuola è chiusa da sette mesi e le condizioni e persino i tempi della sua riapertura sono ancora nella totale incertezza.

Perché MANCANO insegnanti, tecnici, bidelli, servizi, aule presìdi sanitari, trasporti, organizzazione, informazione a studenti e genitori. E persino i tamponi mancano ancora.

Tagli di anni hanno distrutto la scuola pubblica come la sanità e la riapertura dell’anno scolastico sarebbe stata un macello anche senza il Covid. Però ci sono stati sette mesi per pensarci e darsi da fare e invece siamo ancora all’improvvisazione d’emergenza.

Mentre i guasti di fondo di vent’anni di “riforme” liberiste della scuola non vengono affrontati.

Mentre comincia la vergognosa caccia all’insegnante assenteista, quando i nostri docenti, causa Fornero, sono i più anziani d’Europa e mancano all’appello centinaia di migliaia di assunzioni.

Man mano che si avvicina la data della riapertura ricomincia il rimpallo di responsabilità tra governo e giunte regionali, esattamente come sulle mancate “zone rosse”, sull’apertura delle discoteche, su tutta la gestione sanitaria.

La verità è che il sistema italiano è fondato sul potere consociativo di governo e regioni e dopo sette mesi in cui dovevano predisporre la ripresa della scuola, da Conte a Bonaccini, da Fontana a De Luca, sono TUTTI egualmente colpevoli del caos che si annuncia.

Caos che purtroppo costringerà personale scolastico, studenti, genitori ad arrangiarsi e magari poi a sentirsi dire che sono eroi.

Dopo sette mesi non ci sono giustificazioni per tutta la classe politica di governo, comunque schierata, che ancora una volta mostra tutta la sua indecente incapacità ad affrontare la crisi.

martedì 1 settembre 2020

Il collasso istituzionale. Dalla scuola in su…

 

A un marziano che passi da queste parti verrebbe da pensare che siamo tutti pazzi, in generale. Ma che più matti di tutti sono quelli che hanno una qualche responsabilità istituzionale, a qualsiasi livello.

La situazione è non semplice ma chiara. Stiamo vivendo in una pandemia che si potrà debellare solo quando avremo uno o più vaccini “sicuri”, ossia testati secondo protocolli scientifici in modo da evitare “effetti collaterali” pericolosi.

Su questo virus si sa molto, ormai, ma non ancora tutto. Soprattutto per quanto riguarda la “carica virale”, perché ci sono moltissimi “asintomatici” – ossia “portatori sani” – a loro volta divisi tra chi è infettivo e chi non lo è (dipende dalla carica virale, appunto).

Tra i “sintomatici”, fortunatamente una minoranza, si riesce ad intervenire ora nelle prime fasi di sviluppo della malattia con una serie di farmaci non risolutivi ma abbastanza efficaci.

Nella fase acuta (febbraio, marzo, aprile 2020), invece, gli ospedali accoglievano solntanto casi da ricovero immediato, mentre i “sintomatici leggeri” venivano mandati a casa o addirittura – in Lombardia e Piemonte, ma non solo – nelle case di riposo. In pratica, veniva mandati a sviluppare in solitudine la fase acuta della malattia (i vuoti di organico tra i medici di base, causa tagli e privatizzazioni della sanità pubblica). Oppure a fare incosapevolmente da fattore scatenante per la strage di anziani avvenuta nelle Rsa.

Insomma, siamo in una condizione molto migliore di allora. Ma stiamo per entrare nell’autunno, stagione normalmente “ottimale” per la diffusione delle influenze, e con la necessità di riaprire le scuole, visto che gli studenti di ogni ordine e grado hanno già, nei fatti, perso un anno.

Su come riaprirle, appunto, la confusione è totale. Frutto dell’improvvisazione, della pressione di interessi differenti, quasi sempre di brevissimo momento.

Abbiamo un governo che dirama “disposizioni e protocolli” parecchio incongruenti; Regioni che dispongono altrimenti sul proprio territorio (perché guidate da partiti dell’opposizione oppure per interessi elettorali a breve); e persino singoli Comuni che emanano (o fingono di farlo, come nel caso della Sutri del sindaco Sgarbi) “delibere” in aperto contrasto con le indicazioni nazionali.

Un collasso istituzionale che rende impossibile alla cittadinanza nel suo insieme di adottare quei comportamenti collettivi che, in un’epidemia, possono essere efficaci solo se praticati da tutti.

Un breve elenco delle “disposizioni” relative alla scuola chiarisce il caos.

1) Lo stesso Comitato tecnico-scientifico (Cts) che prescrive il distanziamento sociale minimo di un metro se si indossa la mascherina è arrivato alla conclusione opposta solo per il caso scuola: “Niente mascherina a scuola se viene rispettata la distanza di un metro tra i banchi e i ragazzi sono fermi o seduti”. Di fatto, fate un po’ quello che potete, se potete…

2) Sui mezzi di trasporto – con cui si va a scuola o al lavoro, principalmente – la distanza viene di fatto azzerata in base all‘accordo sulle linee guida nel trasporto pubblico locale raggiunto nella Conferenza unificata Stato-Regioni: il limite di affollamento sui mezzi, fissato su una capienza massima dell’80% che può arrivare al 100% per distanze al di sotto dei 15 minuti. Fate un po’ come potete, se potete…

3) Tutta la querelle sui banchi individuali per assicurare le distanze è già nel dimenticatoio; resta solo come argomento di polemica sui costi.

Si comprende benissimo che queste “non regole” sono il risultato di una presa d’atto: non ci sono risorse, né volontà di trovarle, per mantenere – nelle scuole, sui mezzi di trasporto, sui posti di lavoro, ecc – quelle misure di sicurezza che negli scorsi mesi hanno ridotto al minimo il contagio, i ricoveri, i morti.

Se due più due fa ancora quattro, bisogna attendersi un rapido aumento dei contagi tra chi va a scuola (insegnanti e Ata compresi), tra chi va al lavoro e dunque di chi abita con loro (a partire dagli anziani). In generale, insomma, con un ritorno anche dei “casi gravi”.

La sanità pubblica, benedetta nel momento più acuto dell’emergenza, è rimasta tale e quale, così com’era stata disegnata in base a tagli drastrici e continui; anzi con vuoti di organico maggiori perché molti operatori sono morti nella “battaglia”.

Sui posti di lavoro, il livello di “attenzione” degli imprenditori è stato testimoniato nel caso dell’Aia di Treviso (produzione di carni che poi finiscono sulle nostre tavole…), nel corso del programma Presa diretta (Rai3), il 31 agosto.

I lavoratori che manifestavano i sintomi classici venivano inviati a fare il tampone e poi erano obbligati a tornare al lavoro fino al risultato, se positivo. In pratica, veniva considerato dall’azienda “sano e non infettivo” fino all’evidenza clinica. Risultato: 182 contagiati su 700 addetti. E solo dopo che il disastro aveva richiamato l’attenzione dell pubbliche “autorità” si è arrivati a decidere la riduzione della produzione del 50%, il distanziamento fra le postazioni operative e la diminuzione del numero di lavoratori per turno.

Naturalmente Carlo Bonomi, neo presidente di Confindustria, dirà che quello è un “caso isolato”, come le “mele marce” nella polizia o tra i carabinieri. Ma le segnalazioni che ci giungono da tutta Italia dicono l’esatto opposto: gli imprenditori “risparmiano” su tutto, scaricando sui lavoratori ogni rischio.

Ma non è un problema solo italiano. I nostri vicini dell’Unione Europea sono altrettanto incasinati, non solo in termini di contagi (molto più alti ovunque, soprattutto in Francia, Germania e Spagna), ma anche sul piano delle misure idiote.

Se fa ridere ed incazzare un Cts che azzera il distanziamento sociale a scuola e sui mezzi pubblici, non sembra più intelligente – anzi… – il suo omologo tedesco che alcune settimane fa disponeva la riapertura dei bordelli (in Germania sono “attività produttive” come le altre, pienamente legalizzate) con una sola limitazione: massaggi erotici sì, ma niente sesso.

Se anche la classe dirigente tedesca è ridotta a queste stronzatine da opera buffa, vuol dire che il collasso istituzionale, o il fallimento della governance neoliberista, sta crescendo col passare dei giorni e l’accumularsi dei problemi sistemici.

Viviamo in un mondo – quello capitalistico – dove non solo gli individui, ma anche i meccanismi sociali complessi (produzione, commercio, amministrazione pubblica, ecc) sono tutti profondamente interconnessi. Non è insomma possibile “risolvere” un singolo problema senza mettere contemporaneamente mano a molte altre strutture e meccanismi. E in definitiva senza mettere in discussione – radicalmente – l’interesse privato al profitto individuale come “elemento intoccabile”, fondativo dell’assetto sociale attuale.

I governi si susseguono molto frequentemente, tutti i piccoli personaggi che li compongono e poi tornano a recitare la parte dell’”opposizione”, non sanno assolutamente dove mettere le mani. O quando anche lo sanno, sanno altrettanto bene di non poter toccare nulla di essenziale.

La “concorrenza politica feroce” che straborda da tv e giornali e una danza rumorosa ma immobile giocata intorno all’inessenziale, ai dettagli, alle clientele sempre più in difficoltà per mancanza di nutrimento (il taglio della spesa pubblica non danneggia soltanto i servizi sociali, ma anche i parassiti dell’intermediazione politica).

Le tecniche stesse di questa “concorrenza” – blocco sistematico di ogni decisione, a prescindere dalla sua utilità o necessità sociale; delegittimazione radicale di ogni altra posizione, ecc – farebbero pensare a un “conflitto radicale e rivoluzionario”. E invece, se si guarda ai programmi, si nota la totale identità di vedute (persino sull’immigrazione e la “chiusura dei porti” c’è una differenze solo sul piano del linguaggio; i “decreti Salvini” vengono ancora applicati senza alcuna vergogna…).

L’incompetenza sistemica della classe politica è diventato un problema di tutto l’Occidente, in Europa come negli Stati Uniti.

Del resto, 30 anni e più di neoliberismo, di “riduzione del ruolo dello Stato”, non potevano certo produrre una classe politica migliore. Ma solo degli esecutori disinvolti, senza progetti di lungo periodo, e dunque visione, statura, cultura.

Si aprirebbe una splendida occasione di trasformazione, se anche “a sinistra” il processo non avesse seminato la stessa peste. Anzi, di più…