giovedì 10 settembre 2020

Rassegnarsi al declino? E perché mai

 

Il sistema attuale di governance nel Vecchio Continente non funziona più. Dopo 40 anni in cui l’unico “successo” rivendicabile è l’aver congelato inflazione, distruggendo il valore del lavoro e i salari corrispondenti.

In realtà, se non vi fosse stata – dopo l’89 – una ciclopica delocalizzazione produttiva verso i Paesi di nuova industrializzazione (Cina in primis), in cui il costo del lavoro era inizialmente pari allo zero virgola, neanche quel “successo” sarebbe stato conseguito.

Comunque sia, ora non sta più in piedi e l’unica dinamica attiva è l’autofagia. I Paesi con le economie più forti, tramite i meccanismi costrittivi dell’Unione Europea, “sussumono” risorse e asset di quelli più deboli.

Uno dei meccanismi più forti è stato addirittura inventato in Italia, quando – nel 1981 – il ministro del tesoro Nino Andreatta decretò “il divorzio” tra il suo ministero e la Banca d’Italia. In concreto, la banca centrale non poteva più partecipare alle aste di collocazione dei titoli di stato. Cosa che aveva sempre contribuito a tenere basso il rendimento dei titoli stessi (e quindi degli interessi da pagare), perché Bankitalia comprava “a prezzo pieno” mentre gli operatori di mercato puntavano logicamente a pagare il meno possibile.

Quella decisione di Andreatta – il vero “maestro” di Romano Prodi e di tutti i successivi protagonisti delle politiche finanziarie pubbliche (di destra e di centrosinistra) – aveva una motivazione ufficiale “virtuosa”: bloccare la crescita del debito pubblico (allora intorno al 60% del Pil) tramite il “vincolo esterno” rappresentato dai “mercati”.

In pratica, secondo le teorie monetariste dominanti, i governi sarebbero stati costretti a ridimensionare la spesa per non dover veder crescere la dimensione degli interessi da pagare sui titoli (il cosiddetto “servizio del debito”).

Un ragionamento da ragioniere che si è rivelato ben presto suicida. Governare un Paese non è come amministrare una piccola impresa o un bilancio familiare, ci sono spese incomprimibili per ragioni politiche e sociali, al di là della scontata “avidità” personale di una classe politica già allora non irreprensibile.

Di fatto, il debito pubblico cominciò proprio allora a correre senza più fermarsi, nonostante fossero tagliate spese sociali ad ogni legge finanziaria (oggi “legge di stabilità”), nonostante fosse dismesso quasi tutto il patrimonio di imprese pubbliche (Telecom, Alitalia, l’Iri, le cinque banche di “interesse nazionale”, ecc).

Quel “vincolo esterno” fu addirittura accolto e rafforzato con gli accordi di Maastricht (1992) e la successiva introduzione dell’euro. Creando quella situazione tragica che ormai conosciamo bene: si taglia la spesa, si cancellano servizi sociali e diritti, si congelano salari e pensioni, si accantona annualmente un “avanzo primario”… e il debito pubblico cresce lo stesso.

La crisi del 2008 e ora quella fatta esplodere dalla pandemia mettono il nostro Paese in una situazione insostenibile. Bisogna per forza aumentare la spesa pubblica per ripianare il tracollo del sistema privato (soldi alle imprese di ogni dimensione, ed anche per gli ammortizzatori sociali temporanei), incrementare il debito tramite la compartecipazione al Recovery Fund (non sono “soldi che ci arrivano dall’Europa”, ma debiti che facciamo insieme alla UE), e già ora arrivano gli ammonimenti a riprendere la strada dell’austerità e dei tagli (vedi il presidente di Bundesbank Jens Weidmann, il cancelliere austriaco Kurz e la stessa Unione).

Servono soldi subito per far ripartire l’economia, ma se si prendono a debito la vedremo crollare subito dopo, con aggravamento della situazione per grandi parti della popolazione.

I “campioni europeisti” di entrambi gli schieramenti, e ormai anche i Cinque Stelle, ci dicono che “non c’è alternativa”, anche se poi condiscono con balle diverse la stessa impostazione.

Eppure le alternative, anche all’interno del sistema attuale, ci sarebbero. Alcune vietate, alcune no, altre da “ricontrattare”…

Lorenzo Toglia, ex alto dirigente al tesoro, ora in pensione, ha scritto un libro (Il nuovo risorgimento nell’epoca della globalizzazione, OnTheWave Edizioni), in cui vengono ripercorse le vicende che hanno portato alla situazione attuale. E i temi centrali sono appunto il divorzio tesoro/Bankitalia, il ruolo della Bce, l’ipotesi di un “fondo sovrano” (ce ne sono diversi, anche europei) e di una nuova Iri.

Una rapida occhiata all’abstract del testo illumina sulla ricchezza di strumenti utilizzabili fin da subito. E pone certamente molte domande – cui da anni cerchiamo anche noi di dar risposta – sulle ragioni di un degrado voluto, ricercato, programmato, per i Paesi del Sud Europa.

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