venerdì 27 febbraio 2015

UNO “SBARCO A TRIPOLI” NEL 2015?

Se il ministro degli Esteri Gentiloni ha ventilato pubblicamente la possibilità di un intervento militare italiano in Libia, un motivo ci sarà.
Questo motivo, proprio mentre avviene nel Canale di Sicilia l’ennesima “strage di migranti”, parrebbe essere il contenimento dei flussi migratori illegali che, da quando è stata spazzata via la Jamahiriyya, sono ripresi a ritmi sempre più intensi.
Per la verità, i “migranti” arrivavano via mare anche quando era in sella il Colonnello Gheddafi, ma è innegabile che, con la Libia sempre più ridotta ad una sorta di Somalia, la situazione, anche per quanto riguarda il traffico di esseri umani, sia diventata praticamente insostenibile.
Oltretutto, con la proclamazione dell’affiliazione di parte della Cirenaica al preteso “califfato” del Levante islamico, i motivi di preoccupazione, dal nostro punto di vista, non possono che aumentare. Non perché i “jihadisti” s’insinuerebbero tra coloro che sbarcano illegalmente in Italia (anche se pure su quest’aspetto è bene non sottovalutare il pericolo), bensì perché essendo il cosiddetto “fondamentalismo islamico” una creatura dei servizi d’intelligence occidentali, bisogna assolutamente tenere d’occhio gli sviluppi in quella che non ha mai smesso di essere, per noi, la “Quarta sponda”.
Intendiamoci, le milizie “islamiste” che hanno preso il controllo di parte della Libia non costituiscono alcun problema dal punto di vista strettamente militare. Per dirla con una battuta, non sono nemmeno in grado di fare il buco nell’acqua del famoso missile lanciatoci da Gheddafi in uno dei momenti di tensione che caratterizzarono le nostre relazioni con quello che, in definitiva, si dimostrò a conti fatti un buon contraente per l’Italia.
E veniamo allora al perché, cent’anni dopo lo “sbarco a Tripoli”, si ricomincia a pensare di riconquistare la Libia o, perlomeno, di far sì che non vi si crei una situazione troppo negativa per i nostri interessi laggiù.
L’attacco proditorio alla Jamahiriyya, che aveva stipulato con l’Italia un accordo magnifico dopo anni di faticose trattative, venne portato unilateralmente dagli Usa e dalla Francia, soprattutto, che utilizzando sul terreno armati locali e reduci da altre “guerre sante” per procura ebbero la meglio dell’esercito regolare. Sullo sfondo, la Turchia, che storicamente non ha mai smesso di puntare al controllo della Tripolitania e della Cirenaica (infatti la guerra del 1911-12 è chiamata “Italo-turca”, ed è bene ricordare che, all’epoca, tutto il resto dell’Africa del Nord era colonizzato da Francia e Inghilterra).
Ora, l’Italia afferma timidamente di voler far qualcosa, “sotto mandato dell’Onu”, perché sa benissimo chi e perché ha voluto fare della Libia un campo di battaglia.
La nostra politica estera è inscindibilmente legata ai successi dell’Eni, che in Libia rischia di essere sempre più estromesso qualora essa finisse nelle mani di un “califfato” made in England.
Dunque, bisogna far qualcosa, su questo non c’è dubbio. Specialmente perché la crisi ucraina e la chiusura del South Stream non inducono all’ottimismo energetico. E se ci aggiungiamo i tentativi di scatenare una “primavera” o una “ribellione” in Algeria, tutti prontamente sedati dall’esercito, il quadro è sufficientemente preoccupante.
Ma la domanda principale che a questo punto dovremmo porci è la seguente: se non siamo stati in grado, nel 2011, quando eravamo in una posizione di forza, di far valere il nostro punto di vista, come faremo, questa volta, ad imporre la nostra linea contro chi – è sempre bene ricordarselo – detiene sul nostro territorio oltre cento basi ed installazioni militari?
Dio non voglia che, sotto gli squilli di tromba di un ostentato “orgoglio nazionale”, l’Italia si accodi, un’altra volta, ad un ruolo da comprimario, dilapidando soldi e, chissà, pure vite umane, per realizzare l’ennesimo autogol.

giovedì 26 febbraio 2015

DA BIN LADEN AL “CALIFFO”: LA GUERRA FINALE CONTRO L’ISLAM

Dovevamo infatti arrivare alla fase del “pericolo interno”, delle “quinte colonne” che vivono tra noi; e a quella dell’invasione, che è esattamente l’argomento dei video che ritraggono il “jihadista” di turno di stanza in Libia mentre punta dritto al Vaticano o al Colosseo.
E nel frattempo veniamo ‘intrattenuti’ con la “crisi”, lo spread, “la casta”, l’inchiesta “Roma capitale”, i tifosi del Feyenoord, il “Jobs Act”, i “femminicidi”, “l’emergenza sicurezza”, la Mafia, le “coppie di fatto”, “il crescente antisemitismo”, Tsipras, Pompei, Schettino, il trans con la barba eccetera. Una valanga inarrestabile di armi di dissuasione di massa, come le ha definite qualcuno, il cui unico e convergente scopo è quello di gettare una spessa cortina fumogena tra noi e quelli che ci comandano per davvero.
Chi ci comanda non sono dei vaghi “poteri forti”, come al massimo si spinge a dire qualcuno che ha una “posizione” quando vuole togliersi qualche sassolino dalle scarpe. Questi “poteri forti”, quando sono tirati in ballo, non vengono mai nominati precisamente. Si resta anzi volutamente sul vago, alludendo a “segreti” e “complotti” alla portata di chi non concepisce l’essenza di un vero segreto né cosa si muova effettivamente ‘dietro le quinte’, così ciascuno capirà quello che vuol capire, in base alle informazioni di cui dispone, del suo acume e, soprattutto, a seconda di dove è disposto a spingersi per “vedere” oltre tutti questi diversivi e fumose definizioni.
Ci riferiamo, con questo, a che cosa si è disposti a mettere in discussione di quel rassicurante mondo di immagini mentali, concezioni, prese di posizione che configurano la nostra illusoria personalità, a formare la quale concorre anche la propria attività prevalente, che comporta inevitabilmente delle relazioni sociali che, per essere ben curate, non vanno “rovinate” con prese di posizione “fastidiose” e “scandalose”.
Non si creda però che la questione si limiti al solo fare “scandalo”. Perché anche convincersi intimamente di determinate verità piuttosto che altre non fa vivere bene in mezzo ad un ambiente intriso di discorsi che non si condividono affatto. Da qui la riluttanza, da parte dei più, a mettere in discussione i propri consolidati modi di vedere, perché ciò comporterebbe come minimo un grave scollamento tra quello che si pensa e quello che si dovrebbe dar mostra di pensare.
Non si vive bene fingendo dalla mattina alla sera di bersi le panzane che agli altri non destano il minimo dubbio. Né è il massimo della vita imbarcarsi in continue discussioni per “convincere” qualcun altro, anche perché non è questione di tirare gli altri da una “parte”, quanto esortarli a non accontentarsi delle verità preconfezionate di altri che sono pagati per pensare al posto tuo (gli “esperti” e gli “opinionisti”).
Solo che, in questo mondo moderno desacralizzato, il tanto elogiato “pensare con la propria testa” è stato interpretato nel modo sbagliato. La maggior parte della gente, spinta dallo “spirito dei tempi”, s’è così affrancata dalla religione, deridendo i dogmi e la paura dell’Inferno, per cadere dritta come un pesce nel retino di altri “dogmi” e di altre “paure”.
Un suicidio esistenziale, perché quei dogmi e quella paura che l’uomo moderno – questo “intelligentone” – sbeffeggia, traducono in linguaggio a noi confacentesi delle verità eterne. Abbandonando quelle per volgersi dalla parte dell’incessante fluire degli eventi, preferendo il tempo all’eternità, gli uomini sono passati a dare per buona ogni panzana che esce da strumenti, i media, sotto il controllo assoluto di potentati finanziari che non stanno lì per ‘spirito di servizio’.
Quanto alle paure, dall’unica che dovevano avere – e cioè fallire in questa vita lo scopo per cui si era stati messi al mondo, cioè ri-esistenziati – gli uomini moderni dell’epoca della “informazione globale” sono passati da uno spavento all’altro, a seconda dell’interesse degli stessi suddetti artisti della manipolazione e del raggiro.
Ma perché, ci si dovrebbe chiedere a questo punto, i media sono così impegnati nella manipolazione delle coscienze? Chi non vede oltre l’umano, sarà portato a spiegare tutto in termini di propaganda che tira l’acqua al mulino di qualche “interesse”, ma chi sa andare oltre non può accontentarsi di una ragione così superficiale che alla fine non fornisce alcuna spiegazione decisiva.
Individui senza alcuna empatia che impiegano i loro immensi patrimoni (conseguiti come?) per organizzare un apparato di sviamento e traviamento così metodico e martellante, non possono che obbedire ad una unica ed evidente filiera, o ‘catena di comando’.
Che di grado in grado conduce esattamente dove si può facilmente immaginare, sempre che non si considerino i dogmi e l’Inferno come delle “storielle per bambini” o per “creduloni” del passato.
Il marchio di fabbrica di questi media e dei poteri di cui sono espressione è chiarissimo. Chi è il più grande mentitore ed impostore?
Chi non sa vederlo o non vuole vederlo, peggio per lui. Significa che gli sta bene così: che gli sta bene sentirsi ‘lavorato’, raggirato e manipolato. So bene che la sua sensazione è quella di sentirsi “rassicurato”, perché in fondo se non ci fosse nulla di cui aver paura dovrebbe prendere in mano la sua situazione e scegliere finalmente cosa “fare da grande”. La pecora o il leone? Ma la sostanza del discorso è quella, cioè un sottile gusto nell’essere perennemente condotto per mano, fino al macello che aspetta tutte le pecore.
Una pecora che si sente perfettamente a suo agio, nel recinto, nella gabbia in cui i media l’hanno piazzato. Esattamente come quei malcapitati con la tuta arancione nelle gabbie dell’ISIS, che ci vengono sbattute davanti agli occhi mattina e sera per infonderci il terrore che anche ciascuno di noi potrebbe finire in quel mondo orrendo.
ISIS al Colosseo
E allora all’armi! L’Occidente “cristiano” deve prendere le armi contro i “saraceni”, che puntano dritto al “cuore della Cristianità”! E chi se ne importa se il Colosseo, da che era sempre stato, per generazioni di studenti, il luogo delle stragi di cristiani sbranati dai leoni dei cattivi romani pagani, diventa anch’esso, un “simbolo cristiano”…
Ne sentiremo (e ne vedremo, il che è anche peggio) di tutti i colori. Altro che il nero dell’ISIS, che tra le altre cose, per associazione d’idee, deve evocare il mitico mostro del “Nazifascismo”.
A volte vale la pena di rammentare delle frasi fatte, perché non vengono mai meditate abbastanza: la gabbia peggiore è quella che non sai d’avere intorno. Questo dovrebbe essere l’orientamento di uomini che si ritengono i più “liberi” del mondo. Questa dovrebbe essere l’attitudine di chi vuole uscire dalla condizione di oggetto di questa manipolazione delle coscienze.
Ma la maggioranza vede la gabbia solo quando ci sono le sbarre di ferro. Perché, riferisce un altro celebre detto: non c’è peggior schiavo di chi si crede libero.
Forse, prima di farsi imbarcare in qualche “crociata per conto terzi” alimentata da fabbriche della manipolazione che estorcono il consenso con la frode e l’inganno, chi si ritiene “cristiano” dovrebbe riflettere su queste parole senza tempo tratte dal Vangelo: “Conoscerete la Verità, e la Verità vi farà liberi”.
O vogliamo credere che anche Gesù si sarebbe bevuto le invenzioni dei media occidentali ed avrebbe esortato alla guerra “contro l’Islam”? Che Gesù si sarebbe messo in testa l’elmetto sionista per tirarci dentro – come ha scritto Blondet – un’Europa ad immagine e somiglianza di Israele, che deve vedere in ogni immigrato musulmano un potenziale “terrorista”?
Con la Verità non si scherza. E se Gesù ha detto ai cristiani – ma in realtà a tutti gli uomini – che solo la Verità li renderà liberi, non si può far finta di nulla e credere ai filmati dell’ISIS e a tutto quello che una qualche “organizzazione indipendente” (buona questa!) scova negli anfratti di internet, magari dopo averlo finanziato e prodotto, per poi ostentarcelo come ‘verità rivelata’.
Sono due cose, due posizioni, due atteggiamenti che non possono stare insieme nella stessa persona. Quindi, cari cristiano-sionisti, teo-con, “crociati del terzo millennio” e altre caricature di Goffredo di Buglione, fatevi un esame di coscienza, ascoltate la voce della Verità che ciascuno di voi ha dentro di sé, e se proprio volete fare la guerra a qualcuno evitateci di trascinarci in quest’Armata Brancaleone contro un nemico creato a tavolino, e combattete piuttosto chi ha tutto l’interesse a crearci “problemi” di continuo, distogliendoci dalla Grande battaglia che gli uomini dovrebbero condurre per guadagnare l’unica autentica Libertà.
Si scoprirebbe, anche per questa via, che il tanto sbandierato jihâd, il supremo sforzo contro il proprio ego sulla via che conduce a Dio, lungi dall’essere l’indefinita serie di contenuti depistanti trasfusi in questa parola dagli uni e dagli altri (anche in conflitto apparente tra loro), è l’unica “guerra santa” (perché ha il consenso e la benedizione dall’Alto) nella quale dovrebbero competere tutti gli esseri umani, sia come individui che come nazioni.

mercoledì 25 febbraio 2015

Liberare la Costituzione dal pareggio di bilancio

Stupisce un po' osservare oggi, nel campo della sinistra, la tiepidezza politica e soprattutto la flebile mobilitazione organizzativa che accompagna una rilevante iniziativa politica. Mi riferisco alla raccolta di firme per una proposta di iniziativa popolare di revisione costituzionale, al fine di cancellare l'introduzione del principio di “pareggio di bilancio” nella nostra Costituzione. Si ricorderà che il 22 settembre 2014 un comitato promotore, composto da giuristi come Stefano Rodotà e Gaetano Azzariti, da Maurizio Landini, da parlamentari di Sel, Giulio Marcon e Giorgio Airaudo, e del PD, Pippo Civati e Stefano Fassina, ha depositato la proposta di legge in Cassazione.
Da allora, il dibattito su quel tema è stato languente e soprattutto non si è vista l'attivazione dei comitati per un ampio coinvolgimento dei cittadini.A fine gennaio Sel l'ha rilanciato a Milano, con il convegno Uman Factor (perché in inglese, francamente, non si capisce), ma il fuoco della mobilitazione stenta ancora ad accendersi. Eppure si tratta di una iniziativa politica di prima grandezza, non dissimile per molti aspetti, dalla battaglia per l'acqua bene comune. Intanto per la potenziale ampiezza del consenso che essa può raccogliere. Il fallimento delle politiche di austerità, la devastazione sociale e l'arretramento sul piano dei diritti che esse stanno generando in Europa appare sempre più evidente alla maggioranza dei cittadini. E le forze che sanno opporsi in maniera credibile alla stupida ferocia di questa politica, alla cultura che la sorregge, raccolgono consensi da ogni parte. Dicono qualcosa a tutti noi il successo di Syriza in Grecia e di Podemos in Spagna. Ma dovrebbe dirci qualcosa anche l'avanzata e la proliferazione delle formazioni di destra, che si alimentano di una politica antiausterità, anche se antieuropea. E' evidente ormai che i governi in carica non rappresentano l'opinione pubblica dei paesi dell'Unione, si reggono sull'astensionismo di massa e sulla dispersione delle opposizioni.
Ma togliere dalla Costituzione lo stupido sfregio del principio del pareggio di bilancio ha per noi un significato che va al di là del piano costituzionale e dei diritti. Quella norma, inserita il 20 aprile del 2012, rappresenta una scelta pianificata del declino italiano. Una scelta che appare insensata già alla luce delle caratteristiche storiche del capitalismo italiano. Chi conosce le vicende della nostra industrializzazione sa quale ruolo strategico ha dovuto giocare la mano pubblica, non solo nell'imporre regole e istituzioni, ma nel supplire all'assenza di capitali di rischio in settori strategici per lo sviluppo del paese.
E non si tratta solo delle antiche nostre debolezze. Oggi, dopo i colpi della crisi, viene imposta una riduzione sistematica della spesa pubblica che paralizza comuni e regioni, impedisce investimenti, riduce la produzione di ricchezza, deprime la domanda interna, trascina in un circolo vizioso l'intera macchina economica. Limitare così pesantemente il ruolo economico dello stato in una società di capitalismo maturo denuncia una strategia di pianificata autoemarginazione dell'Italia e dell'Europa. Al confronto il modello Usa, da un punto di vista strettamente capitalistico, appare più lungimirante e avanzato.Come ha mostrato con dovizia documentaria Mariana Mazzuccato ne Lo stato innovatore (Laterza), il potere pubblico gioca in quel paese un ruolo strategico di prima grandezza in investimenti nei quali il capitale privato non si avventura. Esso costituisce la vera avanguardia dell'innovazione tecnologica. Senza dire che lo stato americano ha continuato a investire generosamente in formazione e ricerca mentre in Europa, ma soprattutto in Italia, si è marciato e si continua a marciare in senso contrario.
Ma che cosa dire, d'altronde, del modello di accumulazione originaria in atto in Cina da decenni, dove è lo stato che guida le danze? E potremmo fare un lungo elenco di paesi emergenti in cui lo sviluppo economico è promosso con intelligenza strategica dal potere pubblico. L'Europa no. E' ossessionata dal debito, perché ragiona con l'animo strozzino dei banchieri tedeschi. Confida nel fatto che i conti in ordine attireranno investimenti dall'esterno e che la bassa domanda interna, dovuta a bassi salari e disoccupazione, sarà compensata dalle esportazioni. Ma tutti i paesi del mondo sperano nelle esportazioni e schiacciano i propri lavoratori per poter competere tra di loro nel mercato mondiale, col risultato di ordine e prosperità generale che oggi è sotto gli occhi di tutti. Senza dire che paesi come l'Italia, la Spagna, la Grecia, ecc i conti in ordine, con questo schema, non possono metterli, senza distruggere la società e alla fine gli stessi conti.
Tale riflessione ci consente di vedere la più ampia portata delle recenti politiche della UE.Oggi non siamo solo di fronte a una strategia economica controproducente in un periodo di crisi. Quello che si stenta a cogliere è che essa rappresenta ormai un nuovo orizzonte programmatico dei tecnocrati di Bruxelles. E' emerso sempre più chiaro da un paio di anni con il Patto europlus che impone ai governi dell'Unione le regole del Fiscal compact. Si impone che il disavanzo strutturale di ogni stato non superi lo 0,5% del Pil. Ma il Pil dei paesi di capitalismo maturo è sempre più poca cosa, com'è noto, se mai tornerà a crescere. E come potrà crescere con la contrazione della spesa pubblica? E quanto potrà spendere, con tali patti iugulatori, lo Stato italiano – che in 20 anni deve riportare il suo enorme debito al 60% del Pil - per potenziare la scuola, per ridare dignità e risorse all'Università, per consentire ai comuni di proteggere i loro territori, per mantenere in piedi la sanità coi suoi crescenti bisogni, per tutelare il nostro immenso e immeritato patrimonio artistico?
Dunque, l'UE appare oggi non solo lontanissima dai generosi propositi dei suoi primi ideatori, ma manifestamente peggiorata rispetto anche alla squilibrata fisionomia che si era data con i trattati. La sfida della costruzione di una economia sociale di mercato, che doveva competere con gli USA e col mondo, è stata abbandonata. Oggi le ammaccate conquiste del nostro welfare continuano a proteggere ampie fasce di popolazione dalle asprezze del cosiddetto mercato. Ma di questo passo esse saranno in gran parte spazzate via. In Europa un solo assillo sembra far vivere la volontà degli stati di stare insieme:la logica usuraia della solvibilità del debitore. Chi presta soldi deve riaverli con i giusti interessi. L'Unione, una delle più grandi creazioni politiche dell'età contemporanea, si avvia, dunque, sotto il furore del dogmatismo tedesco, a ridursi a un cane morto.
Ne abbiamo avuto la plastica rappresentazione in questi ultimi giorni nello scontro che ha contrapposto il governo greco di Tsipras ai rappresentanti dell'UE. Con un fuori programma che avrebbe dovuto trovare qualche voce politica capace di rivendicare la dignità degli stati sovrani.Vedere il ministro delle Finanze tedesco, Wolfang Schäuble, ringhiare come fosse il padrone d'Europa, non è stato uno spettacolo edificante. Ma ancor meno edificante è stato vedere che nessun capo di stato o di governo ha osato ricordare al ministro che l'Unione ha i suoi organismi, in rappresentanza di ben 28 paesi. In quelle trattative abbiamo visto non solo due idee di Europa, ma anche il muro che in Germania e a Bruxelles intendono tenere alto contro l'avvenire del nostro paese.
Dopo l'approvazione del jobs act, la grancassa mediatica si è messa in moto e il capo dei prestigiatori italiani amplifica i suoi trucchi per rappresentarci le magnifiche sorti che ci attendono. Non lasciamoci abbacinare. I problemi sociali degli italiani resteranno gravi a lungo, anche se ci sarà qualche segno di ripresa economica.La mutilazione del ruolo dello stato imposta dal pareggio di bilancio è un macigno su cui Renzi non potrà danzare.

martedì 24 febbraio 2015

Una marea anti austerità torna a prendere le piazze di Madrid

I cittadini spagnoli sono tornati a scendere massicciamente in piazza questa Domenica a Madrid, la capitale spagnola, per denunciare le misure di austerità imposte dalle entità nazionali e internazionali tra cui la Troika, composta da BCE, dal FMI e dalla Commissione Europea.
Migliaia di manifestanti si sono diretti verso il Congresso dei deputati scandendo in coro slogans come “por la Libertades, los derechos y los servicios publicos”. “Contro il colpo di Stato politico ed economico” (“Contra el golpe de Estado político y económico”).
“Ci troviamo qui come tutta la cittadinanza in massa, uniti nel rivendicare che sia messa fine in una sola volta la politica dell’austerità che ci impone la Troika (BCE, FMI, Commissione Europea)”, ha denunciato l’attivista Julio Rodriguez.
Di certo, sotto lo sguardo dei duemila poliziotti schierati in assetto antisommossa, sono stati in decine di migliaia gli spagnoli che, partendo da quattro diversi punti della capitale, ieri hanno partecipato alla marcia verso il parlamento per protestare contro gli aumenti delle tasse e i tagli alla spesa pubblica del governo del premier Mariano Rajoy, contro una disoccupazione che ha toccato il 26% della popolazione e la corruzione.
I manifestanti hanno denunciato le misure di austerità che stanno pregiudicando i servizi sociali dall’inizio della crisi economica con gridi di “Sanidad Publica” o con canti come “non permetteremmo neppure un solo sfratto in più” (“No permitimos un desahucio más) ” o “No son muertos, son asesinatos”.
Appoggiati da movimenti di cittadini e da partiti politici fra questi Podemos, il partito ecologista, quelle eco socialista, il Partito Comunista di Spagna, gli oppositori hanno richiesto al governo di Mariano Rajoy di revocare le riforme del lavoro (il “Jobs Act “spagnolo) e la legge di sicurezza conosciuta come la” Ley mordaza”.
Tra i movimenti autonomi si distinguevano quello dei gruppi come la “Plataforma de Afectados por la Hipoteca” (PAH) di Madrid, la “Marea Verde e Blanca”, la “Mesa en defensa de la Sanidad Publica”, ecc., tutte le associazioni che si oppongono alla politica di privatizzazioni e di cessione dei servizi alle grandi multinazionali, politica perseguita dal governo in ossequio alle direttive europee.
Ad esempio il rappresentante del PAH, Pablo Villadangos, ha sottolineato che la sua formazione richiede la cessazione degli sfratti forzati ed il condono dei debiti delle famiglie pregiudicate dalle ipoteche sulle proprie abitazioni.
D’altra parte, Mariano Santiago, che rappresenta la Marea Verde, ha reclamato la fine della privatizzazione dell’insegnamento pubblico, informando che il collettivo ha indetto una convocazione dei sindacati alla convocazione di uno sciopero degli insegnanti per il 17 di Marzo nella provincia di Madrid.
Il tutto alla luce della crisi economica che, iniziata nel 2008, ha prodotto misure di austerità imposte dal governo per superare i problemi finanziari, ma con queste è arrivata la crescita delle disuguaglianze, la povertà, gli sfratti forzati, la disoccupazione di massa e questo ha creato indignazione nella popolazione.
Si sono verificati incidenti e scontri con la polizia al margine della manifestazione, quaranta feriti, non gravi, e 45 persone arrestate, tra cui 9 minori. Questo il bilancio delle manifestazioni.
L’opinione pubblica spagnola è sempre più insofferente nei confronti del governo Rajoy e delle politiche di austerità e di privatizzazioni messe in atto da questo, in applicazione delle direttive europee. La popolarità dei partiti filo governativi è crollata ed i sondaggi prevedono una forte crescita dei movimenti e partiti di protesta, in particolare del Partito “Podemos” , il principale partito d’opposizione che richiede la fine delle politiche imposte da Bruxelles ed il ripudio della Troika. Le elezioni politiche sono previste nel paese per la fine di quest’anno.

lunedì 23 febbraio 2015

Martin Luther King e Charlie Hebdo, stesso killer: Gladio

Il 19 gennaio è stato il Martin Luther King Day, festa nazionale. King era un leader per la difesa dei diritti civili assassinato il 4 aprile 1968, 47 anni fa, all’età di 39 anni. James Earl Ray fu condannato per l’omicidio. Inizialmente Ray si proclamò colpevole, seguendo, a quanto detto, il consiglio del suo avvocato per evitare la pena di morte, ma Ray ritrattò la sua confessione e richiese inutilmente un processo con giuria. I documenti ufficiali sulle indagini rimarranno segreti fino al 2027. Come riporta Wikipedia, “la famiglia King non crede che Ray abbia a che fare con l’omicidio di Martin Luther King”. “La famiglia King e altre persone credono che l’assassinio sia stato portato avanti da una cospirazione da parte del governo americano e che James Earl Ray sia stato un capro espiatorio. Questa conclusione è stata confermata da una giuria in un processo civile del 1999 contro Loyd Jowers e cospiratori anonimi”. Il dipartimento americano di giustizia concluse che la testimonianza di Jower, che influenzò la giuria civile durante il processo, non era attendibile.
Dall’altra parte non vi è alcuna soddisfacente spiegazione del perché alcuni documenti sulle investigazioni su Ray furono messe sotto chiave per 59 anni. Ci sono molti punti oscuri sulla storia dell’assassinio di King, così come ce ne sono per Martin Luther Kingl’assassinio di John Fitzgerald Kennedy e di Bobby Kennedy. Non sono abbastanza i sospetti e le informazioni per cambiare le storie ufficiali. I fatti non contano abbastanza per cambiare le storie ufficiali. Molti americani continueranno a credere che, visto il fallimento del governo nell’averlo etichettato come comunista e donnaiolo, la classe dirigente decise di eliminare un leader emergente e scomodo, assassinandolo. Molti neri americani continueranno a credere che il giorno di festa nazionale sia il modo in cui il governo ha voluto coprire il suo crimine, incolpando il razzismo per l’omicidio di King. Di sicuro il governo non avrebbe dovuto fomentare il sospetto accordandosi con un patteggiamento per un omicidio del genere. Ray era un evaso da un penitenziario di Stato ed è stato arrestato all’aereoporto londinese di Heathrow mentre stava cercando di fuggire in Africa. Sembra improbabile che stesse mettendo a rischio la sua fuga per andare a sparare a King con delle motivazioni razziali.
Dovremmo tenere a mente i numerosi dettagli in sospeso sull’assassinio di Martin Luther King con cui siamo stati bombardati dai media, con quelli che Finian Cunningham definisce «politici emotivamente dinamici che stupiscono il pubblico facendo domande necessariamente dure», i dettagli sugli omicidi di “Charlie Hebdo”, e inoltre quelli del bombardamento alla maratona di Boston, e tutti gli altri attentati che sono risultati essere molto convenienti ai governi. Questi ingenui cittadini che credono che «i nostri governi non ucciderebbero mai la propria gente», devono informarsi di più su cose come l’Operazione Gladio e il Progetto Northwoods, argomenti sui quali sono presenti molte informazioni nella rete, investigazioni parlamentari e documenti segreti resi pubblici. Il Progetto Northwoods fu presentato al presidente Kennedy dallo stato maggiore americano. È stato portato in appello per la sparatoria contro civili per le strade di Washington e Miami, per aver abbattuto aerei di linea americani (reali o simulazioni) e aver attaccato navi di rifugiati che arrivavano da Cuba al fine di creare un terribile caso contro Finian CunninghamCastro, che avrebbe assicurato il supporto dell’opinione pubblica per una invasione che avrebbe portato al cambio del regime a Cuba.
Il presidente Kennedy non accettò la teoria del complotto e fece rimuovere il capo dello stato maggiore, un provvedimento che alcuni ricercatori pensano abbia portato al suo assassinio. L’Operazione Gladio fu invece rivelata dal primo ministro italiano nel 1990. Si trattava di un’operazione segreta coordinata dalla Nato in cooperazione con la Cia e i servizi segreti britannici. Investigazioni parlamentari in Italia, Svizzera e Belgio, insieme a testimoni dei servizi segreti, hanno stabilito che la Gladio, originariamente costituita come un esercito segreto per resistere all’invasione sovietica, era utilizzata per portare a termine bombardamenti sulle popolazioni europee, in particolare contro donne e bambini, con il fine di incolpare i comunisti ed evitare che questi ultimi ottenessero maggiorepotere politico in Europa durante il periodo della Guerra Fredda. Rispondendo all’interrogatorio dei giudici a proposito della strage alla stazione centrale di Bologna del 1980, dove vi furono 85 morti, Vincenzo Vinciguerra disse: «In Italia è presente una forza armata parallela a quella dell’esercito, composta da civili e militari. Una grande organizzazione con un grande rete di comunicazione, armi ed esplosivi che portano a termine azioni omicide in nome della Nato e prevengono una caduta a sinistra nell’equilibrio politico del paese. Questo è quello che hanno fatto, con l’appoggio dei servizi segreti, della classe politica e delle forze armate».
In un’intervista al “Guardian”, Vinciguerra disse che «ogni singolo attentato avvenuto dopo il 1969 rientra in un unico grande contesto, mobilitato per una battaglia contro la strategia comunista, non creata con organizzazioni devianti dalle istituzioni del potere, ma dall’interno degli Stati stessi, in particolar modo all’interno degli ambiti delle relazioni tra gli Stati dell’Alleanza Atlantica». Non vi è alcun dubbio sull’esistenza dell’Operazione Gladio. La Bbc nel 1992 ha realizzato un documentario di due Vincenzo Vinciguerraore e mezza sull’organizzazione terroristica della Nato. Oltre alle investigazioni parlamentari e a testimonianze dei partecipanti, ci sono molti libri, articoli e resoconti sul tema. C’è ragione di credere che, sebbene siano stati scoperti, Gladio sia ancora in attività e sia dietro ad attacchi terroristici in Europa, come quello a “Charlie Hebdo”. Ovviamente oggigiorno Washington ha il totale controllo sull’Europa, quindi non vi saranno investigazioni parlamentari analoghe a quelle che vi sono state per l’Operazione Gladio. Con la documentata e ufficiale ammissione dell’esistenza delle tante cospirazioni governative contro le proprie popolazioni e la conseguente morte di molte persone, solo agenti governativi consapevoli e inconsapevoli rispondono alle osservazioni sui sedicenti attacchi terroristici, cercando di mettere a tacere coloro che ricercano la verità. L’obbiettivo di mettere a tacere i sospetti sulle storie ufficiali è stato portato a termine in maniera egregia dai principali mezzi di comunicazione del mondo occidentale, stampa e tv. Alla prostituzione dei mezzi di comunicazione si è unita quella dei tabloid del web, come “Salon” ad esempio, e altri siti web che in questa maniera ottengono guadagni e vantaggi. I soldi arrivano a chi appoggia la classe dirigente. Molti siti Internet contribuiscono involontariamente al potere di quell’1% che controlla le spiegazioni, e screditano chi ricerca la verità. Questa è la principale funzione della sezione dei commenti sui siti Internet, creati appositamente da persone pagate per “trollare”.
Alcuni studi hanno portato alla conclusione che la maggior parte della popolazione si sente troppo insicura per prendere una posizione diversa dai propri simili. La maggior parte degli americani non ha sufficienti informazioni per sentirsi abbastanza sicura da assumere un’opinione autonoma. Seguono la massa e si fidano dei loro simili che dicono loro cosa è meglio pensare. Chi crea i “troll” è assunto con lo scopo di denigrare e formulare degli attacchi personali a chi non è d’accordo con l’opinione comune. Per esempio, nella sezione dei commenti del mio sito, vengo continuamente attaccato in termini personali da individui che si nascondo dietro un nome o un nickname. Altri assumono persone che odiano Ronald Reagan o gli ideali di sinistra per screditarmi su un piano che solo persone deboli e perfide possono fare. Molte delle persone che mi screditano, baciano il pavimento dove cammina Hillary Clinton. Oggigiorno nelle cosiddette “democrazie occidentali” è permesso essere politicamente scorretti nei confronti dei musulmani, o evocare parole di disprezzo e denigrazione nei loro confronti, ma non è Il caso Charlie Hebdopermesso criticare il governo di Israele per gli attacchi omicidi indiscriminati contro i cittadini palestinesi.
La posizione della lobby israeliana e la sua obbediente e minacciata “stampa della prostituzione”, è quella che qualsiasi critica ad Israele sia un sintomo di antisemitismo e il segnale che l’opinione pubblica voglia un nuovo Olocausto. Questo sforzo di mettere a tacere tutte le critiche sulle politiche di Israele viene applicato anche sugli israeliani e sugli stessi ebrei. Gli israeliani e gli ebrei che leggitimamente criticano le politiche israeliane con la speranza di far cambiare direzione allo Stato sionista, di portarlo lontano dall’autodistruzione, vengono etichettati dalla lobby israeliana come persone che odiano gli stessi ebrei. La lobby ha dimostrato il suo potere distruggendo la libertà accademica, arrivando all’interno delle università cattoliche private e quelle statali, bloccando e ritirando le nomine di ruolo dei Paul Craig Roberts, già viceministro di Reagancandidati, ebrei e non, che non avevano ottenuto l’approvazione della lobby israeliana.
Vedo Martin Luther King come un eroe. Qualsiasi siano stati i suoi fallimenti familiari, se ce ne sono stati, ha sempre combattuto per la giustizia e per la sicurezza di ogni razza e genere nel rispetto della legge. King credeva veramente nel sogno americano e voleva che si realizzasse per il bene di tutti. Sento di aver esaminato la vita di King con occhio critico; avrebbe preso in considerazione il mio caso e avrebbe risposto onestamente, a prescindere dal potere che poteva avere su di me. Non posso aspettarmi la stessa considerazione da nessun governo occidentale o dalle persone che “trollano” i miei commenti con la speranza di fomentare i propri lettori. I creduloni e gli ingenui sono incapaci di difendere la propria libertà. Sfortunatamente queste sono le caratteristiche principali delle popolazioni occidentali. La libertà occidentale sta crollando davanti ai nostri occhi, e ciò rende assurdo il desiderio degli oppositori russi di Vladimir Putin di integrarsi al collasso degli Stati occidentali.

domenica 22 febbraio 2015

Accordo Atene-Berlino, si prolunga l’agonia del popolo greco

È stato uno scontro fra Berlino e Atene, fra visioni e interessi troppo diversi perché si trovasse un accordo vero; alla fine ha vinto il rapporto di forza e di potere. La Grecia ha dovuto accettare solo quattro mesi di respiro, rigidamente subordinati alle condizioni pretese dalla Germania: Atene dovrà presentare già da lunedì una serie di riforme strutturali che, se accettate dai componenti della Troika (unica concessione: cambierà nome in “Istituzioni Internazionali”), faranno partire una trattativa per la revisione delle politiche a cui è assoggettata da cinque anni.
Nel frattempo, Schauble, il Ministro delle Finanze tedesco, ha detto chiaro che la Grecia non riceverà alcun aiuto fino a quando non applicherà fino in fondo quanto gli è stato prescritto nel cosiddetto “piano di salvataggio” in corso, e l’Eurogruppo ha specificato che Atene s’impegna a non modificare unilateralmente quelle politiche o intraprendere misure che possano comportare un aggravio di spesa nel bilancio.
In parole povere, tutti i provvedimenti presi da subito per alleviare le drammatiche condizioni della popolazione greca (sussidi ed aumenti salariali alle categorie più deboli e svantaggiate) saranno sospesi in attesa della definizione di un nuovo piano di misure approvato da Bruxelles. E addio all’intero programma su cui il Popolo greco aveva riposto le speranze di risollevarsi.
Unica eccezione, la possibilità di presentare una serie d’interventi come la lotta all’evasione e alla corruzione (che in Grecia sono altissime, più che in Italia), la riforma radicale della Pubblica Amministrazione ed altri provvedimenti che mirano a scardinare vaste sacche di privilegi, di sprechi e inefficienze; se verranno approvati dai santoni del rigore, si potrà parlare per i prossimi quattro mesi di una timida flessibilità nei conti per il dopo.
Per un momento la trattativa stava per saltare ed è stato Draghi a dover intervenire perché un accordo venisse comunque trovato, facendo notare che le banche elleniche nell’incertezza correvano il rischio di saltare.
È finita con una vittoria a tutto tondo per la Germania, che ormai indirizza a colpi di diktat la politica della Ue, e per la Cancelliera, che ha messo ai vertici della Commissione suoi fedelissimi (Juncker, Dijsselbloem, Katainen e così via). La Grecia s’è trovata isolata in un consesso pavido quanto succube; ha raccolto simpatia e comprensione a mezza bocca, ma nessun alleato disposto a opporsi a Berlino e alle fallimentari politiche della Troika.
Ieri a Bruxelles è stato stabilito un precedente ufficiale di formale limitazione di sovranità di uno Stato che, presentatosi con un programma espresso dal Popolo con libere elezioni, è stato costretto a rimangiarselo dalla cinica convenienza di altri Stati manovrati con arroganza da Berlino.

Cuba fuori lista Usa paesi terroristi?

Un anno dopo aver assunto la presidenza USA, Ronald Reagan, incluse Cuba nella lista degli stati sponsor del terrorismo perché, allora, sosteneva i guerriglieri in America centrale e meridionale.
Cuba restò nella lista dopo la caduta dell'Unione Sovietica, nonostante che Fidel Castro smise di aiutare i movimenti insurrezionali e anche quando l'approccio globale alla lotta contro il terrorismo si rivolse verso il Medio Oriente. Per gli osservatori internazionali, il posto di Cuba in quella lista è una reliquia della Guerra Fredda e una dimostrazione del potere dei nemici del governo comunista cubano nel Congresso USA.
Per Cuba, il rimanere in quella lista si è convertito in un potente simbolo di quello che molti nell'isola considerano cinque decenni di una campagna di intimidazioni da parte della superpotenza del nord.
Ora che i due paesi hanno deciso di porre fine a mezzo secolo di ostilità, il presidente Barack Obama ha chiarito che avrebbe tolto Cuba da quella lista quando ha annunciato la nuova politica estera USA verso l'isola, in un'allocuzione televisiva alla fine dell'anno scorso, dove disse che "in un'epoca in cui siamo concentrati sulle minacce che rappresentano Al Qaeda o il gruppo Stato Islamico, una nazione che soddisfa le nostre esigenze e rinuncia all'uso del terrorismo, non deve affrontare questa sanzione".
Importanti rappresentanti diplomatici di Cuba arriveranno a Washington la prossima settimana per un secondo ciclo di negoziazioni sul ripristino delle relazioni diplomatiche. Cubani, dal presidente cubano Raul Castro a semplici cittadini, considerano essere tolti dalla lista come uno degli elementi più importanti di quella distensione, che potrebbe aiutare a sanare una grande ingiustizia. Agli occhi dei cubani, loro sono le vittime del terrorismo. Non gli USA.
Per i cubani, il peggiore atto di aggressione contro Cuba, dalla sua Rivoluzione nel 1959, si è verificato quando 73 persone a bordo di un aereo civile cubano, che andava dalle Barbados a L'Avana, morirono in un attentato, nel 1976, in un attacco attribuito a esuli anti-castristi sostenuti dagli USA. Due degli uomini accusati di pianificare il crimine si rifugiarono in Florida e uno di loro, Luis Posada Carriles, vive tranquillamente lì, fino ad oggi.
"Questo è un piccolo paese e tutti conoscevano qualcuno che conosceva qualcuno che era sull'aereo" ha detto Juan Carlos Cremata, regista cinematografico e teatrale, che aveva 13 anni quando suo padre, un impiegato della compagnia aerea, 41 anni, morì in quello che i cubani chiamano "il crimine delle Barbados".
"Gli USA vanno a mostrare che sono un paese intelligente perché il più assurdo, la cosa più stupida del mondo, è quella di mettere Cuba in una lista di paesi terroristi", ha aggiunto Cremata.
Uscire dalla lista USA potrebbe fornire a Cuba una protezione contro le azioni legali dentro gli USA, perché essere inclusi in essa toglie alle nazioni importanti immunità che i tribunali USA normalmente offrono ai governi stranieri.
Nel momento in cui L'Avana e Washington stanno lavorando per rafforzare i legami commerciali, proteggere Cuba e qualsiasi partner commerciale USA da azioni legali, da parte di persone che sono state colpite dal governo di Castro, potrebbe essere essenziale.
"Dal punto di vista cubano, risolvere la questione della lista è anche risolvere queste preoccupazioni", opinò Jesus Arboleya, docente di Relazioni Internazionali presso l'Università di L'Avana che fu console cubano a Washington dal 1979 al 1982. "Ma in più vi è un problema politico implicito ed è che a nessuno gli conviene che dicano che è un paese promotore di terrorismo".
Anche se uscire dalla lista degli sponsor del terrorismo non ha alcun impatto diretto sulle sanzioni USA contro Cuba, potrebbe anche facilitare le banche internazionali per giustificare la realizzazione di affari con Cuba, ha detto Robert L. Muse, avvocato specializzato in diritto USA su Cuba .
La banca che aveva gestito le operazioni della Sezione d'Interessi di Cuba a Washington chiuse lo scorso anno, lasciando i diplomatici cubani ad operare quasi esclusivamente in contanti. La possibilità di ri-aprire un conto presso una banca USA è una delle richieste più urgenti di Cuba nelle trattative per riaprire ambasciate. Anche se questa decisione spetta ai singoli istituti, togliere il paese dalla lista del terrorismo lo faciliterà.
"La sua presenza nella lista colpisce gli interessi USA in quanto impedisce il riavvicinamento", ha spiegato Muse. "Cuba deve uscire dalla lista perché non dovrebbe esserci".
Altri paesi nella lista sono Iran, Sudan e Siria. Per rimuovere Cuba, Obama ha bisogno d'inviare al Congresso una relazione attestante che l'isola non ha sostenuto il terrorismo internazionale negli ultimi sei mesi. Cuba potrebbe uscire 45 giorni dopo a meno che la Camera dei Rappresentanti ed il Senato approvino una risoluzione comune per impedirlo. Una risoluzione di questo tipo sembra molto improbabile, anche se legislatori cubano-USA nel Congresso si oppongono con veemenza a togliere L'Avana dalla lista perché considerano che il suo comportamento non è cambiato, anche se le circostanze sì.
"Cuba continua a proteggere i membri di organizzazioni terroristiche straniere, così come fuggiaschi dalla giustizia USA, che sono responsabili della morte di statunitensi", ha detto Brooke Sammon, portavoce del senatore Marco Rubio, repubblicano per la Florida. "Il senatore Rubio non ha visto alcuna indizio che il regime di Castro abbia radicalmente cambiato il suo comportamento per meritare di uscire dalla lista".
Recenti rapporti del Dipartimento di Stato sulla lista menziona che Cuba ha dato rifugio a membri delle Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (FARC) e del gruppo separatista basco ETA. Questo simula poco ciò che realmente gli USA considerano uno stato sponsor del terrorismo.
"Non vi era alcuna indizio che il governo cubano consegni armi o formazione paramilitare a gruppi terroristici" indicò Dipartimento di Stato nel 2013.
Cuba sta patrocinando i negoziati di pace che attualmente realizzano le FARC ed il governo colombiano a L'Avana. E l'interesse della Spagna nei membri dell'ETA che vivono all'estero è diminuito considerevolmente negli ultimi dieci anni, dopo un cessate il fuoco definitivo dichiarato dall'ETA, nel 2011, e la crescente minaccia rappresentata dai radicali islamici.
Il maggior problema per Cuba sono i militanti neri e portoricani che sono arrivati sull'isola dopo aver effettuato attentati negli USA. Tra loro c'è Joanne Chesimard, che ha cambiato il suo nome in Assata Shakur e che ha ricevuto asilo da parte di Fidel Castro dopo la fuga dal carcere dove stava scontando una condanna per aver ucciso un poliziotto nel New Jersey, nel 1973.
Cuba ha messo in chiaro che non ha intenzione di restituire Chesimard, soprattutto perché l'uomo che accusa del "Crimine delle Barbados" Posada Carriles, vive a Miami dal momento che un giudice federale in Texas lo ha dispensato, nel 2011, dal mentire alle autorità USA circa il suo ruolo su una serie di attentati in hotel di l'Avana nel 1997, in cui morì un turista italiano. Il governo USA si rifiuta di estradarlo per essere giudicato per l'attentato all'aereo della Cubana de Aviacion.
Benché pochi cubani credano che gli USA estraderanno Posada Carriles, molti accolgono positivamente la rimozione di Cuba dalla lista dei paesi terroristi.
"Sarebbe un evento straordinario per me, la mia famiglia e credo che per tutte le famiglie delle vittime", ha detto Camilo Rojo, un avvocato che aveva 5 quando suo padre, un dipendente della compagnia aerea, morì nel volo della Cubana.
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venerdì 20 febbraio 2015

La Guerra Italo-Turca

La Storia sembra, alcune volte, divertirsi a creare, come diceva Vico, corsi e ricorsi, in modo che talune vicende, ormai cadute nell’oblio del passato, riemergano e divengano nuovamente attuali nel breve volgere d’un mattino. E’ il caso, ad esempio, della recente attenzione che il Governo Italiano ha rivolto alla Libia, divenuta terra di conquista per le milizie dello Stato Islamico: si è paventato, da più parti, l’intervento armato italiano per eliminare la minaccia rappresentata dalle forze dell’ISIS, giunte pericolosamente a poche centinaia di kilometri dalla Sicilia. La presenza Italiana in Libia, d’altronde, non costituirebbe una novità: si riallaccerebbe quel rapporto vitale intrapreso nel 1911 ed interrotto, tragicamente, nel 1943, quando la Libia era Colonia del Regno d’Italia, la famosa quarta sponda del Mare Nostrum.
Agli albori del XX secolo, la corsa europea alle colonie africane poteva dirsi quasi definitivamente conclusa: Inghilterra e Francia detenevano la maggior parte del continente nero, mentre al giovane Regno d’Italia erano toccate le briciole di minor interesse, ossia la Somalia meridionale e l’Eritrea. Lo scenario mediterraneo, divenuto d’importanza primaria dopo l’apertura del Canale di Suez del 1869, era stato sottovalutato dai governi liberali, che s’erano fatti sfuggire di mano l’occasione di occupare la Tunisia, conquistata nel 1881 dalle armate francesi. Lo “schiaffo di Tunisi”, come definito dalla stampa dell’epoca, aveva impedito la creazione d’una colonia mediterranea, fondamentale per un paese che voleva avere ambizioni di Grande Potenza. Con l’Egitto in mano Inglese, rimaneva soltanto la Libia, nominalmente territorio Ottomano, alla portata delle forze armate sabaude: occorreva attendere lo scenario internazionale giusto per poter, con un colpo di mano, prendere la quarta sponda libica.
Mentre l’Italia godeva d’ottimi rapporti diplomatici con l’Inghilterra ed era formalmente alleata con Austria e Germania, l’Impero Ottomano versava in condizioni d’assoluta criticità, diplomaticamente posto a metà tra la Triplice Alleanza e l’Entente franco-inglese. Dopo la rivoluzione dei Giovani Turchi del 1908 e la fine del Sultanato, s’erano inoltre acuite le istanze indipendentistiche provenienti dai Balcani, dal Vicino Oriente, dall’Arabia, rendendo di fatto l’edificio statale ottomano fragilissimo ed instabile. Al contrario, l’Italia aveva cominciato il processo d’industrializzazione e d’ammodernamento, governata da un discusso ma brillante Presidente del Consiglio, Giovanni Giolitti, voglioso di coronare il 50esimo anniversario dell’Unità Nazionale, nel 1911, con un prestigioso successo politico. Successivamente alla crisi franco-tedesca del luglio 1911, Giolitti decise di risolvere, una volta per tutte, la questione Libica, forte dell’appoggio internazionale e della gran parte dell’opinione pubblica nazionale. Il 19 settembre venne mobilitato l’esercito, ed il 28 dello stesso mese il Marchese di San Giuliano, Ministro degli Esteri e regista dell’operazione, presentò alla Sublime Porta un ultimatum che esigeva lo sgombero ottomano della Libia, “compilato in modo da non aprire strade a qualunque evasione e non dare appigli ad una lunga discussione che dovevamo ad ogni costo evitare”
Il Gran Visir non poté che rifiutare, e nella notte del 29 settembre si aprirono le ostilità tra Impero Ottomano e Regno d’Italia: il contingente italiano, forte di 35mila uomini, al comando del Generale Caneva, fu trasportato dalle navi della Regia Marina nella rada di Tripoli, ove sbarcò il 12 ottobre, dopo che la città era stata occupata dai marinai una settimana prima. I facili successi iniziali diffusero l’idea che la guerra si sarebbe conclusa quasi senza combattere; nei giorni d’ottobre furono occupate Homs, Derna, Bengasi, con pochissime perdite. In realtà, i giovani ufficiali turchi, decisi a resistere all’invasore italiano, scelesero di ritirarsi nel deserto per iniziare una lunga e sanguinosissima guerriglia, aiutati dalle popolazioni nomadi dell’interno, come i Senussiti. Giolitti, desideroso di chiudere la partita, decise di proclamare l’annessione della Libia alla Madrepatria il 5 novembre 1911, affinché si chiudesse la partita prima dell’inverno e si mettesse il mondo intero innanzi al fatto compiuto. In realtà, l’occupazione della Libia fu lenta e difficoltosa, limitata alle zone costiere, mentre l’interno desertico era completamente in mano ai turchi. Ancora all’inizio del 1912, l’occupazione italiana si limitava alle città principali, mentre la volontà turca d’evitare una battaglia campale comportava il prolungamento estenuante delle ostilità. Lo Stato Maggiore del Regio Esercito decise allora di portare il conflitto nel cuore dell’Impero Ottomano: nel maggio 1912 furono occupate le Sporadi Meridionali, arcipelago prospiciente allo Stretto dei Dardanelli. Il dominio Italiano nei mari, l’occupazione di Rodi e delle altre isole, il diffuso scontento tra le truppe e l’inizio delle ribellioni nei Balcani portarono la Sublime Porta alla decisione di chiedere l’armistizio; le trattative andarono avanti tutta l’estate e si conclusero, dopo innumerevoli ripensamenti, il 18 Ottobre del 1912. L’Italia, tramite la Pace di Losanna, ottiene la Tripolitania e la Cirenaica; in realtà ci vorranno quasi vent’anni affinché le truppe Italiane pacifichino la colonia, che diverrà, nel 1934 Governatorato Generale della Libia.
La nuova colonia, sprezzantemente definita da Salvemini “un’inutile scatolone di sabbia”, conoscerà un notevole sviluppo durante gli anni Trenta, grazie a Italo Balbo, quadrumviro della Marcia su Roma, fascista della prima ora, divenuto governatore nel 1934. In sei anni la Libia fu popolata da oltre trentamila coloni ferraresi, arricchita di notevoli infrastrutture, fiore all’occhiello della politica imperiale di Mussolini, lo stesso che, nel 1911, aveva trascorso mesi di carcere in compagnia d’un giovane Pietro Nenni, proprio per essersi opposto all’impresa africana di Giolitti. Corsi e ricorsi, appunto.

giovedì 19 febbraio 2015

Stipendi, media italiana 1.560 euro al mese: Paese al nono posto in Ue

Nel 2014, la retribuzione media di un italiano è stata pari a 28.977 euro lordi all’anno, cioè 1.560 euro netti al mese , ma con “una differenza notevole in base al ruolo ricoperto e al livello contrattuale”: lo stipendio di un amministratore delegato arriva ad essere equivalente a 11,2 volte quello di un operaio. A fotografare il mercato delle retribuzioni in Italia è il Jp Salary Outlook 2015 , rapporto redatto dall’Osservatorio di JobPricing , portale che fa riferimento alla società di consulenza Hr Pros.
I quasi 29mila euro di retribuzione annua lorda collocano l’Italia al nono posto tra i 15 Paesi della zona euro , in linea con i dati Ocse . “Siamo abbondantemente dietro i nostri principali competitor come Francia e Germania – si legge nel rapporto -, ma siamo dietro anche all’Irlanda e solo poco più avanti della Spagna (rispettivamente ottava e decima, ndr ), Paesi che hanno subito più di noi gli effetti della grande crisi in atto dal 2008″. E la situazione peggiora se si tiene conto dello stipendio netto da lavoro dipendente, “dove invece l’Italia si trova agli ultimi posti, a causa del cuneo fiscale e indipendentemente dalla situazione familiare del lavoratore”.
Analizzando le differenze retributive per qualifica professionale, poi, emerge un netto divario tra i dirigenti, che guadagnano in media 107mila euro lordi all’anno, i quadri con poco meno di 54mila euro, gli impiegati con 31mila euro e, infine, gli operai che portano a casa quasi 24mila euro. In poche parole, chi occupa una posizione dirigenziale guadagna oltre quattro volte un operaio, oltre tre volte un impiegato e due volte un quadro. Il divario si allarga ulteriormente tenendo conto del “ multiplo retributivo “, cioè l’indicatore che mette a confronto la fascia più bassa di stipendi operai con quella più alta per le retribuzioni degli amministratori delegati: si passa da 18mila a 210mila euro, con una differenza pari appunto a 11,2 volte.
Da non trascurare, poi, l’ormai storico divario geografico : i lavoratori occupati nel Nord guadagnano mediamente il 4,4% in più rispetto ai colleghi del Centro e il 19,8% rispetto al Sud e alle Isole. Il rapporto spiega questa differenza con la maggiore concentrazione di grandi aziende multinazionali e, di conseguenza, di più alti profili manageriali al Settentrione, aggiungendo che al Sud il costo della vita è inferiore e, pertanto, si abbassa anche il livello retributivo offerto. La Regione dove si guadagna di più è la Valle d’Aosta (oltre 31mila euro lordi all’anno), seguita da Trentino Alto Adige e Lombardia . In Calabria invece si trovano le retribuzioni più basse, circa 22mila euro, con Sardegna e Basilicata rispettivamente al penultimo e terzultimo posto. Milano è la provincia dove le buste paga sono più ricche, con un indice pari a 125,3 se si considera 100 il valore medio in Italia, con Roma e Trieste a seguire in classifica. Eppure, se si rapportano gli stipendi al costo medio della vita, la classifica cambia volto: la capitale balza al primo posto, con Firenze seconda e Venezia terza.
Le retribuzioni si differenziano, naturalmente, anche a seconda del settore dove si lavora. A dominare la classifica è ancora il segmento banche e società finanziarie , dove lo stipendio medio annuale si attesta a quota 41mila euro. Seguono le società di ingegneria, farmaceutica e assicurazioni, con valori medi che si aggirano sui 38mila euro. Se si isolano invece le retribuzioni dei dirigenti, si scopre invece che il manager di un’azienda del settore moda e lusso guadagna in media 130mila euro all’anno. In fondo a questa graduatoria, si trovano invece i lavoratori dell’ agricoltura e dell’allevamento , con stipendi da circa 22mila euro annui, seguiti dai dipendenti che forniscono servizi alla persona e, poi, alle imprese. In questi calcoli, bisogna tenere conto del differente grado di specializzazione richiesto dai vari comparti: nell’agricoltura, il 90% dei lavoratori sono operai, nei servizi finanziari il 73% sono impiegati.
Per quanto riguarda le differenze di genere, invece, gli uomini guadagnano in media 29.981 euro contro i 27.890 euro delle donne, un dato che evidenzia un divario del 7,2 per cento. Questo divario, sottolinea il rapporto, è tra i più bassi all’interno dell’Unione Europea: meglio di noi fanno solo Slovenia, Malta e Polonia, anche se, è bene ricordarlo, il dato riportato dallo studio risale al 2012. Anche l’età e il grado di istruzione fanno la differenza in busta paga. Nel dettaglio, il rapporto parla di un gap retributivo generazionale pari al 107%, mettendo a confronto i valori medi degli stipendi di chi ha appena cominciato a lavorare e di chi sta per andare in pensione: basti pensare che un operaio ventenne guadagna 20mila euro all’anno, mentre un manager di 65 anni porta a casa oltre 122mila euro. Sul fronte dell’istruzione, infine, il conseguimento della laurea determina, in media, una busta paga più ricca del 58%: chi ha frequentato l’università guadagna in media 41mila euro l’anno, contro i 26mila di chi non è in possesso di un titolo accademico.

mercoledì 18 febbraio 2015

Chi ha distrutto la Libia a suon di bombe nel 2011?

Il ministro Gentiloni prospetta l'invio di 5000 militari italiani per andare a fare una nuova guerra in Libia, dove il caos e la lotta tra le varie bande di tagliagole jihadisti (ISIS, miliziani di Misurata, Alba Libica, Ansar Al Sharia, ecc.) si è tradotta in una situazione tragica per i cittadini di quel paese, prospero e pacifico fino a 4 anni fa. Se ne discuterà anche giovedì 19 in Parlamento.
Nemmeno un accenno di autocritica troviamo nelle parole di Gentiloni. Chiediamo al ministro la cui faccia tosta sorprende persino me, che pure sono abituato alle bugie di Bush, di Blair, di Sarkozy e Hollande: ma chi ha distrutto la Libia a suon di bombe nel 2011?
Chi ha attaccato un paese che stava in pace da 42 anni sotto l'intelligente guida di Muhammar Gheddafi che era riuscito a contenere i contrasti tra le varie tribù in cui il paese è diviso, che era diventato il più prospero dell'Africa (il PIL pro-capite era il più alto di tutto il continente), che ospitava 2 milioni di lavoratori immigrati, che aveva ricontrattato le licenze petrolifere con le compagnie straniere ottenendo il 90% dei proventi per lo stato libico redistribuendo i profitti tra la popolazione, che riconosceva pienamente i diritti delle donne, che aveva fornito il paese di acqua potabile riuscendo anche a raggiungere l'autosufficienza alimentare, che aveva allontanato dal paese tutte le basi militari straniere acquisendo una piena indipendenza (a differenza dell'Italia che è ricoperta di basi USA e NATO, piene anche di bombe atomiche)?
Purtroppo l'ipocrisia senza vergogna di Gentiloni, e della sua collega il ministro della difesa Pinotti, e del loro partito, il PD, che fu in prima linea a chiedere la criminale guerra del 2011 che ha distrutto la Libia riducendola nello stato attuale, non è isolata.
Risulta che anche l'ineffabile Scotto, deputato di SEL, parla di "operazioni di peace-keeping", che - per carità - non sarebbero operazioni di guerra! Ma persino in certi appelli pacifisti contro la guerra che circolano in questi giorni (ad esempio quello promosso da Del Boca e Zanotelli) si avvalorano i soliti pregiudizi su Gheddafi feroce dittatore, degno addirittura di un processo internazionale.
Questi pregiudizi furono alimentati da uno stuolo di servili giornalisti nel 2011 in preparazione e giustificazione della guerra (ne sta scrivendo SibiaLiria in un'apposita rubrica). Ricordate Al Jazeera (TV di uno stato, il Qatar, che si preparava ad attaccare la Libia) che parlava di 10.000 civili uccisi dall'aviazione di Gheddafi, notizia ripresa dall'Osservatorio dei Diritti Umani (Struttura legata ai servizi segreti britannici) poi completamente smentita?
Ricordate le false foto delle "fosse comuni" e il viagra distribuito alla truppa per gli stupri di massa (nessuna donna libica ha mai fornito una sola testimonianza in tal senso)?
I nostri giornalisti e i nostri guerrafondai del PD andarono a nozze con queste ignobili bugie.
Ma questi pregiudizi sono indice, anche da parte di settori pacifisti e della "sinistra radicale" , di una mentalità coloniale, per cui qualsiasi paese che non abbia istituzioni uguali a quelle dei paesi liberal-imperialisti (dagli USA ai paesi della NATO e della UE) sarebbe una sanguinaria dittatura.
La stessa demonizzazione ha colpito per gli stessi motivi la Siria, paese laico con un solido sistema di istruzione laico, che riconosce i diritti delle donne e di tutte le minoranze religiose ed anche degli atei (a differenza del nostro principale alleato, l'Arabia Saudita, dove si può essere condannati a morte per apostasia nei confronti della religione imperante, il Wahabismo, o per stregoneria, e dove una donna va in prigione se guida una macchina). Per fortuna la Siria resiste e tiene a bada le bande jihadiste di Al-Nusra ed ISIS.
Ci saremmo aspettati che Gentiloni avesse chiesto scusa a tutti i Libici per i crimini commessi nel 2011, invece si parla di fare una nuova guerra violando ancora una volta la Costituzione.
Diceva il grande Giacomo Leopardi che l'Italia era un paese di fango. Con governanti e "sinistre radicali" come le nostre il giudizio forse non può cambiare.

martedì 17 febbraio 2015

Tutta ‘La verità sul piano Kalergi’, alla radice dell’europeismo contemporaneo

L’Europa della Troika, dell’austerità, del debito e della burocrazia; l’Europa delle banche, quelle commerciali, private, e quella centrale di emissione, private anch’essa; l’Europa fredda, senza passioni, valori, costituzione, l’Europa di nominati e non eletti, se mai la rappresentanza elettorale potesse essere considerata sinonimo di vera partecipazione; l’Europa a due velocità, quella sempre prona all’atlantismo come dimostra la tragica situazione ucraina; l’Europa invasa e senza identità, quella del relativismo e della decadenza… in questa carrellata degli orrori potremmo andare avanti a lungo.
Ma tutto questo avviene ad opera di chi? Quando nasce e perché? I movimenti euroscettici si fermano al contingente, non hanno una visione d’insieme, non scorgono gli ampi disegni e così non riescono ad incidere.
Questo libro, saggio storico-filosofico tutto rivolto all’attualità, colma una lacuna enorme. Il primo libro in Italia e il secondo in assoluto ad esaminare in profondità attori, fatti e misfatti dal 1920 ad oggi, “La verità sul piano Kalergi” rivela ciò che coscientemente è stato celato ai popoli e agli individui circa la natura di questa Europa.
Il conte Kalergi, mente di rilievo ma anche inconsapevole (?) pedina è la figura di spicco di questa costruzione artificiale. Con lui e tramite lui agiscono poteri nascosti, che in un piano dettagliato e tramite un’opera paziente forgiano, anche nella teoria, una nuova élite, un nuovo stile di vita, che in parte è già in atto e in parte deve ancora completarsi.
Il testo di Kalergi “Praktischer Idealismus”, mai tradotto in italiano e praticamente reso introvabile, cancellato dalla storia, è al centro di questa riflessione, così come la sua “applicazione” socio-politica. I risultati di tale analisi sono tanto spiazzanti e preoccupanti quanto indubitabili dal punto di vista storico.
Si tratta di una lettura scomodissima, nella quale tutti i caratteri di questa Europa emergono col loro vero volto, quello di strumenti di una dominazione occulta. Alla luce di queste scoperte l’Europa odierna si configura come elemento centrale del mondialismo. Gli sconfitti, manco a dirlo, sono i popoli europei, nemmeno convocati al tavolo al quale si gioca il loro destino.

lunedì 16 febbraio 2015

Un male contemporaneo

E, per lo meno dagli anni ’80, le politiche pubbliche a livello globale hanno assecondato la loro crescita e la loro legittimazione in ogni sfera della vita pubblica e sociale. Vivere in società profondamente diseguali è diventato normale. Che l’1% della popolazione mondiale detenga quasi la metà (il 48% nel 2014 secondo Oxfam) della ricchezza mondiale è normale. Che il 25,8% degli italiani abbia un reddito inferiore a 10mila euro (ISTAT 2015 su dati 2012) è considerato normale. E che durante la crisi la quota di ricchezza concentrata nelle mani dell’1% più ricco sia aumentata ovunque, è normale.
Non potrebbe essere altrimenti. I rapporti di forza tra poteri economici e politici e tra capitale e lavoro hanno visto prevalere di gran lunga i primi. E il mercato non produce maggiore eguaglianza. Semmai la propaga: dall’economia, alla politica, alla società. Tanto da rendere obsoleto il dibattito che ha contrapposto nella storia del pensiero politico novecentesco eguaglianza formale ed eguaglianza sostanziale, diritti civili, diritti politici e diritti sociali.
I diritti sono sotto attacco: tutti. Perché l’ideologia neoliberista li ha trasformati in privilegi. E i privilegi per lo più si ereditano. Così avere un lavoro e una retribuzione decenti è un lusso. Ha diritto a vivere in un alloggio dignitoso solo chi può permettersi di acquistarlo o locarlo sul mercato. La salute è destinata ad essere un privilegio di chi può rivolgersi al privato. L’assistenza alle persone anziane e non-autosufficienti è delegata alla responsabilità e alla capacità di spesa delle famiglie. E la pensione è un miraggio per chi non può tutelarsi con assicurazioni private.
Per non parlare di chi proviene da altrove. Che muoiano 300 persone nel Mediterraneo mentre fuggono da guerre e conflitti, come è avvenuto di nuovo nei giorni scorsi, al di là della consueta retorica, è nei fatti funzionale a un sistema sociale ed economico strutturalmente escludente. Né, come spiega Franzini nelle pagine che seguono, una eventuale ripresa economica genererebbe di per sé maggiore eguaglianza.
Solo un cambiamento delle politiche pubbliche può invertire questa tendenza. Da tempo Sbilanciamoci! ha individuato alcune priorità: l’abbandono delle politiche di austerità, un intervento pubblico in campo economico finalizzato a rilanciare l’occupazione e a garantire il benessere sociale delle persone, la promozione di politiche di redistribuzione del reddito e della ricchezza, il rafforzamento dei sistemi di welfare che ponga fine alla loro progressiva privatizzazione.
Le persone colpite dalla crescita delle diseguaglianze costituiscono la maggioranza. La sfida che abbiamo in questo momento è quella di riuscire a mobilitarci sottraendoci al gioco di chi contrapponendo studenti e lavoratori, disoccupati e occupati, lavoratori dipendenti e precari, giovani e anziani, abitanti dei centri e delle periferie, donne e uomini, cittadini nazionali e stranieri, ha il solo fine di tenerci quieti.
La crescita delle diseguaglianze è uno dei principali mali del nostro tempo. La riscoperta e il recupero dell’idea di eguaglianza potrebbero aiutarci a ribellarci.

domenica 15 febbraio 2015

Diseguali ma non a causa dell’istruzione

Negli ultimi anni, una gran mole di studi ha indagato le cause dell'aumento della dispersione retributiva verificatosi in gran parte dei paesi occidentali e la causa principale è stata individuata nell'aumento dei differenziali salariali fra lavoratori ad alta e a bassa istruzione.
Tale aumento si sarebbe verificato a causa di un progresso tecnologico skill biased . Le nuove tecnologie informatiche, per risultare produttive, devono infatti essere utilizzate da lavoratori ad alto capitale umano. Ciò avrebbe determinato un aumento della domanda di lavoratori skilled non compensato da una corrispondente crescita dell’offerta, con una pressione al rialzo per le loro retribuzioni. Al contempo, le nuove tecnologie consentirebbero di fare a meno dei lavoratori meno qualificati e ciò, insieme alla crescente offerta di lavoratori unskilled provenienti dai paesi in via di sviluppo, contribuirebbe a comprimere i loro salari.
La diseguaglianza salariale viene dunque ricondotta alle differenti dotazioni di capitale umano dei lavoratori. La visione della diseguaglianza salariale che discende da tale interpretazione è, in una qualche misura rassicurante: la crescita delle sperequazioni dipenderebbe da aspetti meritocratici, legati alle abilità individuali. Una volta che si riuscissero a equalizzare i punti di partenza garantendo agli individui le stesse possibilità di accesso all'istruzione superiore, gli esiti di mercato dipenderebbero da abilità e produttività dei lavoratori. La soluzione di policy proposta è, dunque, semplice, poco costosa e non invasiva del funzionamento dei mercati: basterebbe favorire l'investimento in istruzione per realizzare l'eguaglianza di opportunità, favorire l’equità distributiva e sostenere la crescita economica.
Tuttavia, la visione centrata sul solo capitale umano è chiaramente smentita quando si analizza quanta parte delle diseguaglianze fra lavoratori sia effettivamente attribuibile ai differenti livelli di istruzione dei lavoratori e quanta, invece, si manifesti all'interno di gruppi di lavoratori omogenei per titoli di studio. Semplici tecniche statistiche di scomposizione consentono di misurare quanta parte della diseguaglianza sia legata a differenze medie fra lavoratori con diversa istruzione – la cosiddetta diseguaglianza "between" – e quanta, invece, alle differenze osservate all'interno di gruppi di lavoratori con lo stesso titolo di studio – la cosiddetta diseguaglianza "within".
Da tali scomposizioni emerge che nella quasi totalità dei paesi europei solo un'esigua parte della diseguaglianza nei salari – nell’ordine del 10-15% – è attribuibile a differenze di istruzione e, dunque, oltre l’85% dei differenziali annui fra lavoratori è dovuto a differenze che si realizzano all'interno di gruppi omogenei per istruzione. Inoltre in alcuni paesi, fra cui l'Italia, la quota di diseguaglianza legata al titolo di studio si è ridotta nel corso del tempo: nel nostro paese, infatti, negli scorsi venti anni tale quota è diminuita dal 16,5% all’8,9%.
La diseguaglianza tra lavoratori con la stessa istruzione è quindi altissima e, quantomeno in Italia, crescente. Il fenomeno della diseguaglianza within sfugge alle principali analisi del mercato del lavoro, preoccupate quasi esclusivamente delle differenze “fra” gruppi di lavoratori. Tuttavia, su questo aspetto l’attenzione della letteratura economica è praticamente assente. Al contrario, nel tentativo di trovare una causa delle diseguaglianze osservate più rassicurante e più coerente con le visioni teoriche ortodosse, si attribuisce solitamente ad “abilità individuali non osservabili” la quota di diseguaglianza che non si riesce a spiegare sulla base delle determinanti standard dei salari individuali (come età, anzianità di servizio, genere, istruzione, occupazione, settore). Ciò significa che si ritiene che la diseguaglianza within tragga origine da fattori che, in vario modo, incidono esclusivamente sulle abilità e sulla produttività dei lavoratori, mentre, in realtà, tale diseguaglianza potrebbe dipendere da circostanze ben poco, o per nulla, collegate a queste, quali, ad esempio, le origini familiari, le forme contrattuali o il mero caso.
Più in generale, la diseguaglianza tra lavoratori omogenei per caratteristiche è molto diffusa e rimanda a modalità di funzionamento del mercato del lavoro che sfuggono quasi completamente alle interpretazioni teoriche più diffuse. In effetti, l'esistenza di una elevata diseguaglianza within genera il forte sospetto che il funzionamento di tale mercato sia piuttosto diverso da quello che si ipotizza nella letteratura economica, secondo cui vengono premiate sempre e soltanto efficienza, abilità e produttività dei lavoratori. Nel moderno capitalismo il mercato del lavoro, invece, potrebbe avere caratteri che ben lo distanziano da questo “ideale” valutatore delle abilità individuali. Il modo in cui le origini familiari possono condizionare le prospettive dei lavoratori, a prescindere dalla loro istruzione appare, in particolare, cruciale per capire a fondo il funzionamento del mercato del lavoro, specialmente in Italia.

venerdì 13 febbraio 2015

IL MINOR NUMERO DI NASCITE DI SEMPRE

In Italia non sono mai nati così pochi bambini dal 1861. È uno dei dati emersi dal rapporto Istat sulla popolazione del 2014
di Stefano Mentana - In Italia nel 2014 le nascite hanno toccato il minimo storico dal 1861, anno della nascita dello stato italiano.
I bambini nati in Italia lo scorso anno sono stati solamente 509mila. È quanto emerge dagli ultimi indicatori demografici diffusi dall'Istat nel rapporto sullo stato della popolazione italiana nel corso del 2014.
Undici cose da sapere sull'andamento della popolazione in Italia:
1) Ne 2014 sono nati 509mila bambini, 5mila in meno rispetto al 2013.
2) Nel 2014 sono morte 597mila persone, un dato in calo rispetto ai 601mila del 2013 ma superiore al numero delle nascite.
3) Il numero medio di figli per donna è di 1,39. Questo dato è rimasto invariato tra 2013 e 2014.
4) La regione dove si fanno più figli è il Trentino-Alto Adige, dove sono 1,6 per ogni donna.
5) Il Trentino-Alto Adige è la regione con il tasso di natalità - ovvero il rapporto tra nuovi nati e popolazione - più alto (9,9 per mille), mentre la Liguria è quella ad averlo più basso (6,9 per mille).
6) Trentino-Alto Adige e Campania sono le uniche due regioni ad aver avuto nel 2014 più nascite che morti.
7) L'età media di una donna al momento del parto è di 31,5 anni, in salita rispetto ai 31 anni del 2013.
8) Per la prima volta si registra un calo delle nascite delle donne straniere residenti in Italia, che scende a 1,97 figli per donna.
9) L'aspettativa di vita di un uomo è di 80,2 anni, quella di una donna di 84,9.
10) I cittadini italiani residenti in Italia sono 55,7 milioni.
11) L'età media della popolazione è 44,4 anni, ed è così distribuita: - 13,8 per cento fino ai 14 anni; - 64,4 per cento tra i 15 e i 64; - 21,7 per cento dai 65 in su.

giovedì 12 febbraio 2015

Obama chiede al Congresso l’autorizzazione per combattere l’Isis

Il presidente Obama ha inviato un progetto di legge al Congresso affinché autorizzi l'uso della forza militare contro lo Stato islamico in Iraq e Siria ( ISIS ), che rappresenta "una grave minaccia per il popolo e la stabilità dell’Iraq, della Siria, dell’intero Medio Oriente e per la sicurezza nazionale americana. Se non verrà contrastato, porrà questa minaccia non solo nel Medio Oriente ma anche nel nostro territorio nazionale".
La richiesta è limitata a tre anni di tempo ed esclude un impegno delle truppe di terra a tempo indeterminato.

E’ la prima volta che il Congresso viene chiamato ad autorizzare formalmente un’operazione militare dal 2002, quando approvò la richiesta di George Bush di attaccare l’Iraq. Finora, l'amministrazione Obama ha giustificato l'intervento contro l'Isis con l'Authorization for the Use of Military Force (Aumf) firmata da George W. Bush dopo gli attacchi dell'11 settembre 2001.
Nessun Congresso ha dichiarato guerra dal 4 giugno 1942, con la dichiarazione di cguerra contro la Bulgaria, l'Ungheria, e "Romania" durante la seconda guerra mondiale. Dalla seconda guerra mondiale, nonostante i conflitti in Corea, Vietnam, Iraq e altri punti caldi -i presidenti hanno agito senza dichiarazioni di guerra. Il Congresso ha cercato di correggere alcune delle ambiguità con il War Powers Act del 1973 , che impone al presidente di "consultarsi" con il Congresso e dà al presidente la possibilità di usare la forza in caso di emergenza per un periodo da 60 a 90 giorni, trascorsi i quali delle rivolgersi al Congresso. Dal momento che il presidente ha annunciato l'uso della forza contro l'IS - 10 settembre 2014 - sono passati 154 giorni.

mercoledì 11 febbraio 2015

L’ATTUALE EUROZONA E’ ALLA FINE, SE VERRANNO RESPINTE LE PROPOSTE DELLA GRECIA

L’eurozona sta andando incontro ad un conflitto molto rischioso – ha dichiarato Horn al quotidiano Handelsblatt -. Se la Grecia dovesse tener fede alla sue minacce e mettere fine alla politica di austerita’ e al servizio del debito, il resto dell’eurozona dovrebbe mettere le carte in tavola. Se la Ue rimarra’ ferma nella sua attuale linea che prevede sostegno economico solo a fronte di una combinazione di austerita’, riforme strutturali a spese dei lavoratori, l’eurozona nella sua forma attuale rischia di essere alla fine”, ha avvertito Horn.
La posizione di Horn tuttavia è minoritaria, in Germania, dove un sondaggio ha espresso un’ampia maggioranza (oltre il 60%) di tedeschi contrari alle richieste del governo Tsipras, e del tutto avversata dall’attuale ministro dell’Economia e delle Finanze, Schaeuble, che ha ribadito senza mai cambiare posizione che la Grecia ha un unico “interlocutore” al quale deve assoggettarsi, ed è la troika formata da Bce, Fmi e Ue, rispettando gli accordi (capestro) presi a suo tempo dal precedente governo Samaras.
E’ una posizione così lontana dalle richieste della Grecia, che ben difficilmente si troverà una mediazione che possa soddisfare entrambe le parti. Gli esperti economici nominati dalla cancelliera Merkel, in ogni caso, a maggioranza sono schierati sulla posizione del governo di Berlino. Intransigente e per ciò stesso miope, non volendo considerare l’ipotesi che viceversa la Germania abbia già pronto – come da più parti si sostiene – un piano preciso per la fine dell’euro tra pochi mesi.

martedì 10 febbraio 2015

Londra studia l'uscita dalla Ue prima della Grecia

Quando si studia storia si rimane colpiti dal fatto che ad un certo punto gli eventi rilevanti, le crisi, le rotture, diventano sempre più vicine nel tempo. Ma ben pochi tra i protagonisti di quelle fibrillazioni appaiono consapevoli di trovarsi nel bel mezzo di una crisi epocale. Da cui non usciranno tutti vivi e men che mai "come prima".
Mentre in questi giorni tutti hanno gli occhi puntati su Atene e Berlino - si romperà o no il legame tra la Grecia e l'Unione Europea? - Londra si prepara a defilarsi velocemente dal calderone continentale. Anzi, più velocemente della Grecia, visto che non ha mai voluto assumersi il vincolo della moneta unica.
A Londra si parla dunque di Brexit, invece che di Grexit. L'allontanamento è sempre stato nell'aria possibilità, la "perfida Albione" non si è mai appassionata troppo per il tentativo di costruire un super-stato governato dal capitale multinazionale (per questioni di concorrenza: la Gran Bretagna è già da 30 anni uno Stato di questo genere, colonia consapevole e felice di Washington), euroscettico come sentiment nazionale, prima ancora che tensione populista.
Il premier conservatore Cameron, dopo l'expolit di Farage, aveva promesso un referendum sull'addio alla pur fragile unità con la Ue. Mettendo in ambasce i aprtner, già molto tesi per il montare del malcontento popolare in tutti i paesi contro le politiche di austerità. Ora David Cameron, asua volta, è spaventato dalle conseguenze potenziali di una "Grexit"; fondamentalmente sui mercati internazionali, che potrebbero metter fine ai guadagnai della City almeno per un bel pezzo.
Stamani ha perciò convocato una "riunione di emergenza" del Governo per praparare le mosse in vista di un collasso greco.
“Vogliamo essere vigili - ha dichiarato con intento tranquillizzante il portavoce di Cameron. – Già nel 2012 il Governo aveva fatto piani di emergenza ai tempi della crisi nell'eurozona a causa della Grecia. Ora che c'é un nuovo Governo ad Atene è il momento giusto per rivedere i nostri piani.” L'eurozona resta estremamente importante per la Gran Bretagna dato che è il nostro principale partner commerciale e quindi è logico che il primo ministro si prepari a una situazione in cui la crisi greca potrebbe peggiorare e un'uscita dall'euro non sarebbe più evitabile.”
Un segnale al giorno dovrebbe bastare per far capire che non viviamo più - e da tempo - in giorni "normali".

lunedì 9 febbraio 2015

"A Guantanamo tre casi di tortura fino alla morte".

Torturati a morte dalla Cia e non come dice la versione ufficiale, suicidati. Un ex sergente dei Marines di guardia a Guantanamo è uscito allo scoperto e ha denunciato che tre detenuti della base prigione per sospetti terroristi furono torturati a morte dalla Cia. Joseph Hickman, un veterano che dopo l'11 settembre si era riarruolato nella Guardia Nazionale, fa l'esplosiva denuncia nel suo libro "Assassinio a Camp Delta: un sergente che insegue la verita' su Guantanamo Bay".
La versione di Hickman contraddice quella ufficiale del Pentagono secondo cui i tre prigionieri - lo yemenita Yasser Talal al-Zahranie i sauditi Salah Ahmed al-Salami e Mani Shaman al-Utaybi - si sarebbero impiccati il 9 giugno 2006 in un patto suicida. All'epoca l'ammiraglio Harry Harris, il comandante della base prigione, aveva definito la morte dei tre uomini "un atto di guerra asimmetrico commesso contro di noi". I tre prigionieri facevano parte del gruppo che faceva lo sciopero della fame per protestare contro la detenzione. "Ero di servizio il 9 giugno 2006 e so che sono stati uccisi", scrive l'ex Marine nel libro, e spiega al Times che il suo obiettivo e' "ottenere una piena inchiesta da parte del Congresso", pur rendendosi conto delle difficolta' che cio' accada. Nel libro Hickman sostiene che i tre sono morti soffocati da stracci che erano stati infilati loro in gola sotto tortura e che gli infermieri della base non erano riusciti a estrarre. L'ex Marine descrive un sinistro "laboratorio di battaglia" per nuove, inventive tecniche sperimentali di tortura.

domenica 8 febbraio 2015

Isis, il Pentagono pensa di inviare truppe di terra

Contravvenendo alla dottrina “no boots on the ground” (nessun soldato sul terreno) finora propugnata da Barack Obama, i vertici del Pentagono stanno raccogliendo tutte le informazioni possibili sulle difese di Isis a Mosul. Questo per decidere se raccomandare al presidente l’invio di un contingente al fianco dell’esercito iracheno per riconquistare la seconda citta’ del Paese, la prima che i jihadisti conquistarono a giugno. Lo riferisce la Cnn, citando fonti del Centcom (il comando centrale Usa che cordina le azioni contro Isis in Iraq e Siria) secondo il quale la tempistica vedrebbe l’inizio dell’assalto ad aprile.
Intanto sono 26 in tutto i nuovi attacchi aerei sferrati dalla coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti contro le postazioni dello Stato Islamico tra Siria e Iraq nelle ultime 24 ore: lo ha reso noto il comando congiunto alleato di Washington, secondo cui quindici sono stati i raid in territorio iracheno, concentrati su Mosul, Kirkuk, Tal Afar, Qaim e Makhmour, mentre undici quelli sul nord siriano, e in particolare nove nei dintorni di Kobane, al confine con la Turchia.
isis-usa
soldati USA tra i jihadisti

Qualla di oggi e’ stata la terza giornata di raid aerei giordani contro obiettivi dello Stato islamico, in rappresaglia per l’esecuzione del pilota Muad Kasasbeh, arso vivo dai miliziani sunniti. La tv di Stato di Amman ha riferito che i caccia hanno colpito “basi del gruppo terroristico”, alcune delle quali nella citta’ siriana di Raqqa, roccaforte degli jihadisti.
Lo Stato islamico aveva annunciato ieri che in uno dei raid giordani a Raqqa era stato colpito l’edificio in cui era tenuta prigioniera la cooperante americana, Kayla Mueller, che sarebbe rimasta uccisa. La notizia non ha tuttavia trovato conferme e i miliziani non hanno fornito prove della morte dell’ostaggio.
Intanto gli Emirati Arabi Uniti hanno deciso d’inviare in Giordania un intero gruppo di volo costituito da un numero imprecisato di caccia-bombardieri F-16, che vi rimarranno di stanza per “assistere il Paese fratello” e contribuire cosi’ agli attacchi aerei di Amman contro le postazioni dello Stato Islamico in Siria e in Iraq: lo ha annunciato il principe Mohammed bin Zayed al-Nahayan, erede al trono di Abu Dhabi e numero due dello stato maggiore interforze federale, citato dall’agenzia di stampa ufficiale ‘Wam’.

venerdì 6 febbraio 2015

La Bce strozza il popolo greco

Bce dura con la Grecia, chiude i rubinetti del credito e si rimangia di fatto la decisione sul QE. C’è chi dice che l’Eurotower sta in realtà applicando le sue regole. In realtà a diversi commentatori l’azione di Draghi, che ieri, per parlare tecnicamente, “ha deciso di rimuovere la deroga sugli strumenti di debito quotati emessi o garantiti dalla Repubblica ellenica”, appare come un ritorno alla lettura monetarista della crisi. Senza la possibilità, quindi, di affrontare l’eccezionalità della situazione, ovvero crisi, mancata crescita e impossibilità a restituire il debito.
Con il nuovo esecutivo greco deciso a non rinnovare i suoi impegni con la troika e a portare avanti una ristrutturazione del debito, la Bce si muove con durezza estrema e, in una sorta di deja vu della crisi cipriota dove aveva egualmente stretto i rubinetti alle banche, invia un segnale preciso ad Atene: uno stop alle riforme e ai progressi fatti sul risanamento di bilancio sarà costosissimo a cominciare dal circuito creditizio e dei capitali. L'agenzia Bloomberg scrive che, se non rinnoverà il suo programma per una nuova linea di credito, la Grecia rischia di non poter far fronte ai suoi pagamenti il 25 marzo: sarebbe l'quivalente di un default. Questo vuol dire mettere fretta a Tsipras e Varoufakis e annullare di fatto la trattativa.
Carlo Bastasin sul Sole 24 ore di oggi se da una parte dice che Draghi è stato obbligato a prendere la decisione sui titoli greci per la pressione politica di tutti gli altri governi dall’altra mette in evidenza che sarebbe molto pericoloso tirare troppo la corda. Sempre sul Sole, secondo Donato Masciandaro, la Bce è come la tela di Penelope. “Cosa faceva Penelope? Tesseva la tela di giorno e la disfaceva di notte. Lo stesso rischia di fare la Banca centrale europea con la liquidità: la politica monetaria prova ad aggiustare il meccanismo che lega il credito alla crescita, la politica di vigilanza rischia di distruggerlo”. In altre parole la politica quantitativa di espansione monetaria (Qe) può essere vanificata da una cattiva politica di vigilanza.
L’istituto di emissione presta denaro alle banche dell’area euro solo in base a regole precise: in cambio di quei finanziamenti queste ultime devono portare in garanzia a Francoforte delle obbligazioni (di solito titoli di Stato) di qualità, almeno accettabile. Se i titoli sono però classificati come “spazzatura” perché sono emessi da governi in insolvenza o vicini ad essa, la Bce può accettarli solo a condizioni molto precise. In pratica sembra che il governo sia ora costretto in una sorta di imbuto. Avrà liquidità solo se accetta la troika, cosa che il governo greco non vuole fare. La situazione è dunque appesa ad un filo e il tempo che ci si dà per le decisioni finali è di una settimana. La deadline è fissata per mercoledì prossimo. Sempre secondo Fubini, il messaggio politico di Draghi è stato esplicito: la Grecia è un caso a sé e non può essere considerata come “un apripista di un confronto europeo fra Roma, Parigi o Berlino”.
Le quattro principali banche greche, di fronte alla fuga dai depositi innescata nelle settimane pre-elettorali, sono già appese alla liquidità d'emergenza fornita da Francoforte tramite l'ELA (emergency liquidity assistance), un meccanismo che va approvato a maggioranza di due terzi e rinnovato di volta in volta ogni due settimane. Il suo uso avrebbe gi… superato i 40 miliardi di euro e proprio oggi, fra i temi in discussione alla Bce, figurava la richiesta di National Bank di aumentare di ulteriori 10 miliardi l'utilizzo della facility d'emergenza. L'ELA, erogata dalla banca nazionale greca, va poi ratificata dai governatori di Francoforte. Proprio oggi Jens Weidmann, presidente della Bundesbank, metteva in dubbio sull'opportunità di continuare a sostenere le banche greche.
"La mossa della Bce di togliere liquidità al sistema bancario greco -commenta il segretario del Prc Paolo Ferrero - non è null'altro che un criminale ricatto nei confronti del governo e del popolo greco". "La Bce vuole proseguire le politiche di austerity volute dal governo tedesco - continua Ferrero - e, con la sua mossa, spalanca le porte agli speculatori, che utilizza come killer nei confronti del governo greco. La Bce, con la logica di punirne uno per educarne cento, si comporta in modo criminale e fa esattamente il contrario di cosa deve fare una Banca Centrale, fa il contrario di quanto hanno fatto le banche centrali di tutto il mondo a partire dalla Federal Reserve degli Stati Uniti". "Ma non ce la faranno perché i popoli europei non ne vogliono più sapere dell'austerità - conclude il segretario del Prc -. Contro la Bce stiamo preparando come Partito della Sinistra Europea una manifestazione europea, così come stiamo preparando una iniziativa immediata di mobilitazione nei confronti della Banca d'Italia che della Bce è azionista".

giovedì 5 febbraio 2015

Cancellare il debito? No: trasformarlo in debito sovrano

In regime di sovranità finanziaria, il debito pubblico non è che un “anticipo” che lo Stato versa ai cittadini, in termini di beni, servizi e infrastrutture, potendo ricorrere alla libera emissione di moneta: in questo caso il debito è ricchezza netta per famiglie e aziende, interamente garantita dal “prestatore di ultima istanza”, dotato di capacità di finanziamento teoricamente illimitate, anche se armonizzate con la capacità produttiva (Pil) e con la bilancia commerciale (import-export). Se invece il debito pubblico non è denominato in moneta di proprietà dello Stato, allora si trasforma in un incubo, esattamente come per i soggetti privati, famiglie e aziende. E’ esattamente la condizione dei paesi dell’Eurozona, che non dispongono più di denaro proprio: devono mettere all’asta titoli di Stato presso il sistema bancario, unico destinatario del denaro virtuale della Bce. Il “quantitative easing” non risolve nessun problema strutturale: se il debito europeo continuerà ad essere denominato in valuta estranea ai singoli Stati resterà in ogni caso fuori controllo, esponendo gli Stati stessi al ricatto perpetuo della speculazione finanziaria.
«Mettiamola in questi termini», riassume Marcello Foa: oggi la Bce «stampa più moneta per permettere alle banche centrali nazionali di comprare titoli di Stato, ovvero debito pubblico, con lo scopo dichiarato di rilanciare l’economia (crescita del Pil) e Eurolo scopo effettivo immediato di sgravare i bilanci delle banche private». Se il “quantitative easing” può essere considerata «un’aberrazione, in quanto viola le leggi di mercato basate sulla domanda e sull’offerta», lascia però intatta «la vera catena che imprigiona le asfittiche economie occidentali: quella del debito», scrive Foa nel suo blog sul “Giornale”, equiparando quindi paesi occidentali con debito sovrano – Usa e Gran Bretagna – a paesi con debito non più sovrano, cioè i membri dell’Eurozona. In realtà, spiega un economista come Nino Galloni, il debito pubblico italiano è diventato «una catena» soltanto a partire dal 1981, con la separazione fra Tesoro e Banca d’Italia: fino ad allora, infatti, il debito pubblico era stato ciò che dovrebbe essere, e che è tuttora nei paesi sovrani: la più importante leva strategica di sviluppo, attraverso la quale un paese produce investimenti (a deficit) destinati a far crescere l’economia in modo diffuso.
«Se la Ue e la Bce volessero davvero rilanciare l’economia – aggiunge Foa nel suo post – dovrebbero avere il coraggio di andare fino in fondo, ovvero non di stampare moneta per comprare debito ma di stampare moneta per cancellare il debito, accompagnando questo passo da misure altrettanto rivoluzionarie e benefiche come la simultanea riduzione delle imposte sia sulle imprese che sulle persone fisiche e magari varando investimenti infrastrutturali». Qui, ancora, Foa non spiega di che debito parla: se il debito è sovrano non può costituire un problema, come dimostra il debito del Giappone al 250% del Pil. Sarebbero certo “rivoluzionario” cancellare il debito non-sovrano, quello cioè accumulato da quando in paesi dell’Eurozona hanno cessato di indebitarsi in proprio, cioè “anticipando” denaro alle rispettive comunità nazionali, e preferendo acquistare denaro – ad alti tassi di interesse – presso il mercato finanziario privato internazionale. Quindi il problema non è il debito in sé, ma la fonte del debito: se lo Stato si è indebitato coi suoi cittadini (ha speso denaro per loro, in anticipo) il problema non esiste. Se invece i soldi li ha acquistati sui “mercati”, gli interessi sono da ripagare. Se poi lo Stato non ha più la possibilità di intervenire con emissione di valuta propria, allora il collasso è garantito. Di qui la stretta fiscale, per spremere denaro ai cittadini anziché anticiparglielo come avveniva un tempo.
«Oggi – riconosce Foa – l’Italia è già in avanzo primario, ovvero lo Stato spende meno di quanto incassa, ma il debito pubblico continua a salire perché la spesa pubblica è gravata dagli interessi sul debito». Interessi, appunto, contratti coi mercati finanziari internazionali: quelli verso cui, grazie a Ciampi e Andreatta, l’Italia si orientò improvvisamente nel 1981, disponendo che la banca centrale cessasse di finanziare il governo a costo zero, come aveva sempre fatto. Da allora, il debito pubblico è diventato un dramma, aggravato negli ultimi anni dalla catastrofe dell’euro, su cui la nazione non ha alcuna possibilità di governo. «L’Italia – conclude Foa – è in una spirale da cui difficilmente uscirà, per quanti sforzi faccia. Ma questo né la Ue, né la Bce, né il Fmi lo ammetteranno mai; anzi, continuano ad alimentare la retorica delle riforme, ovviamente Foastrutturali». Foa sogna un “giubileo del debito”, col taglio lineare di un terzo dell’attuale euro-debito di ogni paese e simultanea riduzione delle imposte per un periodo di almeno 5 anni.
«Basterebbe una semplice operazione contabile creando denaro dal nulla (ovvero con un semplice click, come peraltro si apprestano già a fare), per togliere definitivamente dal mercato una parte del debito pubblico», scrive Foa, secondo cui il risultato sarebbe «un boom economico paragonabile agli effetti di un nuovo Piano Marshall». Starebbero meglio tutti, dice Foa: «I consumatori che si troverebbero con più liquidità in tasca, le aziende che sarebbero fortemente incentivate a investire nella zona Ue, lo Stato che troverebbe le risorse sia per le grandi opere che per altre riforme. Le stesse banche private che non sarebbero più costrette a comprare titoli di Stato pubblici e vedrebbero diminuire drasticamente le sofferenze bancarie nel giro di pochi mesi proprio grazie alla ripresa dell’economia reale». La macchina, insomma, si rimetterebbe in moto. «A “rimetterci” sarebbero solo la Bce, la Commissione Europea e analoghe istituzioni transnazionali, il cui potere implicito di condizionamento si ridurrebbe drasticamente».
Questo è appunto il motivo per cui tutto ciò non avverrà, secondo l’analisi degli economisti non liberisti: perché quel “potere di condizionamento” è esattamente la ragione sociale dell’euro, piano strategico concepito per togliere allo Stato la facoltà sovrana di spesa pubblica, cioè di produrre debito pubblico strategico (deficit positivo) senza il quale, dall’avvento della moneta moderna, nessun paese al mondo può garantire benessere diffuso. La demonizzazione del debito è tipica del neoliberismo, che vuole spogliare lo Stato della sua sovranità e ridurlo in bolletta, come una qualsiasi azienda o famiglia, dipendente dal sistema finanziario privato. Il liberismo teme lo Stato, in quanto ingombrante concorrente economico: il debito pubblico “deve” quindi diventare un problema, in modo che lo Stato ceda i suoi asset strategici e si rassegni alla loro privatizzazione. La via d’uscita non è dunque la cancellazione del debito – gli investimenti di cui parla Foa si possono realizzare solo mediante deficit – ma l’eliminazione del debito non sovrano. Missione impossibile, se si resta nel lager monetario chiamato euro, appositamente progettato dall’élite finanziaria perché gli Stati permanessero all’infinito sotto il ricatto di un debito divenuto insostenibile, in quanto non garantibile con valuta propria.

mercoledì 4 febbraio 2015

Il crollo del settore energetico americano: fallimenti e licenziamenti di massa

La prima grande vittima della guerra dei prezzi del petrolio decisa dall'Arabia Saudita è l'industria americana dello shale
Il crollo del prezzo del petrolio degli ultimi sei mesi si sta traducendo in fallimenti e licenziamenti in America. Improvvisamente, proprio l'industria dello shale oil&gas che aveva contribuito a sostenere la ripresa economica degli Stati Uniti è divenunta economicamente insostenibile.
I tagli non si sono ancora riflessi in ampi dati sull'occupazione o la vendita di case ma la ricaduta sta cominciando a colpire le persone, a partire dalla manodopera dell'industria energetica.
E la situazione non sembra destinata a migliorare

Come scrive il WSJ, "I problemi sono iniziati quando il prezzo del greggio ha cominciato a scendere la scorsa estate, da oltre 100 dollari al barile a meno dei 50 di oggi. Ma solo ora gli effetti a lungo temuti stanno iniziando a propagarsi attraverso il complesso ecosistema dell'energia, interessando i dirigenti di Houston, i proprietari terrieri della California e i produttori dell'Oklahoma.
La Chevron non è la sola a essere costretta a licenziamenti di massa ...
Le società che hanno alimentato il boom dello shale sono, nella maggior parte dei casi, di piccole e medie dimensioni.
"Eric Herschap è l'amministratore della Exclusive Energy Services LLC, una società privata di Orange Grove, Texas, che offre servizi, incluso noleggio attrezzatura, alle società di esplorazione.
I clienti chiedono riduzioni di prezzo del 15% al 25%, e Exclusive offre ulteriori sconti oltre, spiega Herschap.
Così l'azienda ha licenziato 10 dei suoi 45 dipendenti e sta tagliando i bonus per chi resta.
Laredo, la società che ha chiuso il suo ufficio di Dallas, ha detto che stava licenziando 75 dipendenti, circa il 20% della forza lavoro presso la società, che ha un valore di borsa di circa 1,3 miliardi di dollari.
"Anche se è un passo necessario a causa del notevole calo dei prezzi delle materie prime e la conseguente riduzione delle attività di perforazione della società, non prendiamo tali azioni alla leggera".