giovedì 31 maggio 2018

Deputato tedesco: “Troika dovrebbe invadere Roma”

Dopo le parole del commissario europeo per il bilancio e le risorse umane, Gunther Oettinger che aveva sentenziato su come i mercati insegneranno agli italiani a votare, un altro tedesco spara a zero sulla situazione italiana.
“Lo scenario peggiore sarebbe quello dell’insolvenza dell’Italia. Poi la troika dovrebbe invadere Roma e prendere in mano il ministero delle Finanze”.
A dirlo il deputato europeo della Csu tedesca, Markus Ferber, parlando alla Tv tedesca Zdf evocando la possibilità che la Troika arrivi a Roma per attuare il salvataggio finanziario. Ferber è sembrato escludere che il fondo salva-Stati ESM (European Stability Mechanism) abbia risorse sufficienti per salvare l’Italia.
“Il debito italiano è aldilà delle nostre capacità europee“.
Qualche giorno fa anche la cancelliera Angela Merkel era intervenuta fornendo la sua visione sul caos politico venutosi a creare nel nostro paese paragonando in un certo senso l’Italia alla Grecia.
“Ci saranno dei problemi, anche all’epoca, con la Grecia di Tsipras, ci furono problemi, e poi ci siamo accordati. Lavorammo per molte, molte notti fino ad arrivare ad un accordo. Ne vale la pena”.
Dal canto suo anche il governo greco ha espresso timori per i problemi italiani che potrebbero ricadere proprio su Atene.
“Ci preoccupiamo quando è instabile (l’Italia) e ci sarà un impatto sulla nostra posizione finanziaria che, forse, potrebbe creare ulteriori problemi”.
Così ha dichiarato il ministro degli Esteri greco Nikos Kotzias martedì a Berlino, dopo un incontro con il suo omologo tedesco, il socialdemocratico Heiko Maas. Intanto ieri anche Washington ha manifestato  segnali di attenzione per l’Italia con il segretario al Tesoro Usa Steven Mnuchin che si augura che l’Italia resti in Europa.
“Sarebbe meglio se l’Italia e gli altri paesi dell’area euro risolvessero le cose all’interno di Eurolandia senza grandi cambiamenti. Sicuramente l’Italia ha l’occasione per farlo”.

mercoledì 30 maggio 2018

Chi tocca (anche per finta) l’Europa muore: la lezione di Mattarella

Nel suo romanzo Saggio sulla lucidità, Saramago racconta la storia di una città nella quale si svolgono le elezioni politiche. Il risultato è sorprendente: ben il 73% dei votanti ha imbucato una scheda bianca. Le elezioni si ripetono: le schede bianche aumentano ancora. In un crescendo di repressione e intimidazione, le istituzioni provano a convincere gli elettori della città a scendere a più miti consigli. Un romanzo, dicevamo; frutto della fantasia dello scrittore portoghese. Eppure, quel che sta avvenendo in queste ore in Italia non è molto diverso.
Sia chiaro: in tempi normali, dovremmo essere tutti contenti di aver evitato un governo di razzisti e finti anti-europeisti. Eppure quel che è accaduto nel tardo pomeriggio al Quirinale è profondamente inquietante. Allo stesso tempo, i fatti che si sono svolti oggi aiutano a mettere in evidenza la natura fortemente antidemocratica e antipopolare che si nasconde dietro la retorica dell’integrazione europea.
Un breve riassunto della serata: Giuseppe Conte, indicato da Lega e Movimento 5 Stelle come Presidente del Consiglio, è salito al Quirinale per conferire col Presidente della Repubblica, per comunicargli l’esito delle consultazioni e per presentargli la lista dei ministri. Già da diversi giorni si rincorrevano voci riguardanti la casella fondamentale di tale lista, quella legata al Ministro dell’Economia. Il Movimento 5 Stelle e la Lega avevano indicato Paolo Savona, già Ministro dell’industria durante il Governo Ciampi (1993-94). Le voci, dicevamo: dalle stanze del Quirinale era trapelato lo scontento del Presidente della Repubblica sul nome di Savona, considerato eccessivamente euroscettico. Un nome del genere, si argomentava, non sarebbe stato gradito né alle principali cancellerie europee, né ai famigerati mercati.
Poco prima dello scoccare delle 20, si sono aperte le porte della Sala della Vetrata, luogo nel quale avvengono le consultazioni. Ne è uscito il segretario generale della Presidenza della Repubblica, per leggere uno stringato comunicato che confermava le voci che si rincorrevano già da alcune ore: Giuseppe Conte ha rimesso il mandato nelle mani del Presidente. In altri termini, ha rinunciato a formare un governo. Dopo un breve e alquanto insignificante intervento dello stesso ex Presidente del Consiglio incaricato, è stata la volta di Mattarella.
In un discorso breve, ma molto denso, il Capo dello Stato ha spiegato le ragioni per le quali non si era giunti a una soluzione della più lunga crisi di governo della Storia repubblicana. Conviene riportare qui le parole di Mattarella.
Ho chiesto per il ministero dell’Economia l’indicazione di un autorevole esponente politico della maggioranza, coerente con il programma, che non sia visto come sostenitore di una linea più volte manifestata che potrebbe provocare l’uscita dell’Italia dall’euro.
La designazione del Ministro dell’Economia costituisce sempre un messaggio immediato per gli operatori economici e finanziari. Ho chiesto per quel ministero l’indicazione di un autorevole esponente politico della maggioranza, che al di là della stima e della considerazione della persona non sia visto come sostenitore di linee che potrebbe provocare la fuoriuscita dell’Italia dall’euro, cosa differente dal cambiare l’UE in meglio dal punto di vista italiano. A fronte di questa mia sollecitazione ho constatato con rammarico indisponibilità a ogni altra soluzione, e il presidente del consiglio incaricato ha rimesso il mandato”.
Proviamo a tradurre in italiano il linguaggio istituzionale di Mattarella. I partiti che insieme detengono la maggioranza assoluta delle Camere gli hanno sottoposto il nome di Paolo Savona. Il nome è sgradito ai mercati e ai rappresentanti delle istituzioni europee, quindi non ha firmato il decreto di nomina e ha proposto loro un nome più moderato e digeribile, ben consapevole che non avrebbero accettato. Ricevuto l’atteso rifiuto, ha ritenuto impossibile formare un governo.
Da queste parole dovrebbe derivare una sana inquietudine. Quel che è accaduto stasera conferma, laddove ve ne fosse ancora bisogno, alcuni fatti difficilmente contestabili. Sono cose che erano già lampanti, ma che mai erano state espresse in maniera così esplicite dalla prima carica dello Stato. Ecco cosa emerge dal discorso di Mattarella.
  • Nell’Unione Europea, la tanto decantata sovranità popolare è fortemente limitata. Se un governo, pur sostenuto dalla maggioranza assoluta del Parlamento, non è gradito all’Unione Europea, alla Germania e ai mercati, il voto popolare non conta nulla. O si fa il governo che dicono questi ultimi, o si torna al voto (“e stavolta cercate di votare come diciamo noi, tanto è inutile”).
  • Le ingerenze europee vanno ben oltre quanto previsto dai Trattati e passano per canali leggermente diversi rispetto a quelli previsti dalla Costituzione: l’intimidazione, la speculazione, le pressioni informali.
  • Di uscire dall’Euro non se ne parla, in senso letterale. Chi ne parla, chi anche accenna alla possibilità di farlo, addirittura chi lo dice e poi se ne pente (vedi Savona) perde qualsiasi dignità istituzionale. E il Presidente della Repubblica può tenerlo lontano dal governo, con ogni mezzo necessario.
Ma qual è la scusa per un comportamento così spregiudicato? Quella ufficiale è la seguente: Mattarella ha posto il veto nei confronti di Savona per salvaguardare i risparmi degli italiani. Peccato che, soprattutto a partire dal 2010 in poi, i risparmi degli italiani si siano considerevolmente ridotti e che questo sia avvenuto, guarda caso, proprio in concomitanza con il periodo in cui l’austerità è stata messa in atto con maggior forza. Per difendere i risparmi e la ricchezza degli italiani, dunque, si accontentano quelle forze della disciplina di bilancio che hanno contribuito a falcidiare il risparmio italiano.
Ma sarebbe troppo semplicistico prendersela soltanto con Mattarella. È evidente che c’è, anche nel panorama politico italiano, chi ha qualcosa da guadagnare da questa impasse. La Lega, ad esempio, potrà presentarsi alle prossime elezioni come il partito vittima principale dei veti europei e raccogliere i dividendi elettorali di questi eventi. Questo spiegherebbe la scelta di impuntarsi su un nome, quello di Savona, che il Quirinale aveva già fatto sapere essere sgradito e ostativo alla formazione del governo giallo-verde.
Nubi oscure si addensano all’orizzonte. Nell’attesa di avere ulteriori elementi, utili a capire come vadano distribuite le responsabilità tra i vari guardiani dell’austerità (ne capiremo di più molto presto, quando si andrà alla conta per il prossimo governo), bisogna prendere atto del fatto che le istituzioni europee e quelle italiane che ne rappresentano la diretta emanazione hanno definitivamente gettato la maschera. Possiamo votare chi ci pare, ci mancherebbe. Ma il governo che verrà dovrà essere gradito in primo luogo ai mercati, alla Commissione europea e ai governi degli Stati che decidono, di fatto, i destini dell’Unione Europea. Abbiamo iniziato con Saramago, chiudiamo con Kafka. Austerità, disoccupazione e precarietà sono nuovi principi costituzionali, che prevalgono su tutto. Il guardiano di questo principio è ancora il Presidente della Repubblica, ma questo è soltanto il meno potente dei guardiani. Dietro di lui, ve ne sono altri ancora più forti: i mercati.
È un giorno nero, certo, ma gli eventi di oggi possono essere l’inizio di un nuovo percorso, segnato da una maggiore consapevolezza di quelli che sono i meccanismi che si nascondono (o, per meglio dire, si nascondevano: ora sono in piena luce) dietro la retorica europeistica. Il bivio che ci si para davanti è chiaro: possiamo scegliere di sottostare ai diktat e di arrenderci al fatto che non vi siano alternative, oppure possiamo continuare a denunciare le storture e i veri obiettivi del progetto europeo, forti del fatto che soltanto chi non vuol aprire gli occhi, ora, non ne vede la natura.

martedì 29 maggio 2018

Il Partito democratico è un impero in rovina

Sollazzando un interesse deperito e sconfortato tra le pagine di giornali ormai in continuo deterioramento intellettuale, rigorosamente pronti ad affrancarsi su ogni carcassa che viene gettata loro in vesti più o meno grottesche, è possibile imbattersi nelle parole del deputato PD Matteo Orfini che, durante la trasmissione Cartabianca, ha voluto dire la sua sull’operato del ministro dell’Interno ancora in carica Marco Minniti:
«Alcune scelte di governo hanno favorito sfondamento a destra. Se andiamo in tv a dire che immigrazione è un pericolo si fa assist a Salvini. Lettura su immigrazione data da nostro governo ha sdoganato lettura di destra del fenomeno.»
Tralasciando il vulnus di una litania piddina in piena décadence, sia strutturale che di credibilità, tanto da riconsiderare le politiche sull’immigrazione di un ministro dell’Interno difeso a spada tratta fino a pochi mesi addietro, è possibile delineare la scarna e deprimente retorica politica di un partito ormai interessato a parlare di tutto tranne che della propria, inevitabile ed evidente, scomparsa. Oltretutto, le parole usate da Matteo Orfini si inseriscono in un contesto di partito eufemisticamente destabilizzato, increspato dalle rotture delle diverse correnti interne che hanno smesso da tempo di costruire una sinistra sana e competitiva a livello nazionale, per lasciare spazio ad un costrutto macchinico deciso, almeno in questo, a ghigliottinare definitivamente ogni speranza di vedere rinascere una sinistra, se non unita, quantomeno efficace sia sulle proposte che sulle politiche sociali. Perché, infatti, come si può definire un partito di sinistra che in un momento storico chiave nella politica italiana non ragiona per il futuro del popolo ma per quello della propria immagine?
Le parole di Matteo Orfini, d’altronde, non possono che lasciare sconfortati gli occhi del lettore, che si vede rifilare una spiegazione futile e deficitaria riguardo ad una comprovata sconfitta elettorale a vantaggio dei partiti di “destra”: definire la classe politica destrorsa come rafforzata e rincuorata dalle apparizioni televisive di Marco Minniti non è solamente un affronto al lavoro di un ministro che seriamente e con idee chiare ha cercato di migliorare la situazione irrisoria di un partito di governo che ha destabilizzato la situazione immigrazione in Italia; ma soprattutto pone un quesito su quanto il deputato del Partito Democratico riesca a comprendere che la “destra”, così definita, è una forza politica come le altre, che ha fatto la sua campagna elettorale ed è riuscita dove il suo partito ha fallito miseramente: proporre agli italiani un’alternativa che potesse essere ritenuta valida.
Tuttavia, non è nemmeno questo che risuona con maggiore veemenza nello scuotersi dello scudiscio impugnato da Matteo Orfini pochi giorni orsono. Con le sue parole, difatti, il deputato è riuscito a confermare l’atteggiamento comune alla sinistra odierna, la quale si è creduta così moralmente superiore, così comodamente adagiata nel suo salotto da seconda Repubblica, conseguentemente incapace di riconoscere le proprie sconfitte con la coscienza e responsabilità che deficitano nell’ampollosità scolaresca e dozzinale ripetuta giorno dopo giorno su qualsiasi rete o carta stampata esistente in questo paese. Se non esiste un vaccino a questo populismo rovesciato, almeno non tra la classe politica di sinistra attuale, bisognerà invece ricominciare a dire di no, a rendersi conto delle persone che ci rappresentano e che ci hanno rappresentato: all’atavica distrazione di un partito sarà necessario far corrispondere la presa di coscienza di un popolo a cui è stato lasciato un osso troppo rinsecchito per essere condiviso ed a cui è stata raccontata una favola troppo vecchia per meritarsi di essere ancora raccontata.

lunedì 28 maggio 2018

Il regno del Quirinale

Il Quirinale al primo re d’Italia, il verace e pecoreccio Vittorio Emanuele, non piaceva affatto. Schietto e brutale come certi vini del suo Piemonte, il paffuto e baffuto Savoia riteneva l’ex residenza pontificia un “palazzo di preti”, irto di anatemi e macumbe lanciate da quei neri uomini in sottana contro uno dei protagonisti del blasfemo Risorgimento italiano. Fatto sta che il superbo edificio non portò poi tanta fortuna alla dinastia, entrata in pompa magna nel 1870 e fuggita in gramaglie e vergogna nemmeno settant’anni dopo. Da allora il Colle è stato per i rimpianti anni della Repubblica (la Prima, ché il resto è silenzio) un orpello, un gioiello prezioso ma un po’ datato, da mostrare in occasioni speciali per omaggio al protocollo e alla tradizione.
Cene di gala, giuramenti solenni, ricevimenti diplomatici, feste civili e scolaresche vocianti. Questo era il perimetro della Presidenza della Repubblica, e così doveva essere secondo il disegno glorioso dell’assemblea costituente: è il Popolo il vero sovrano dell’Italia repubblicana, rappresentato nel processo decisionale dal Parlamento. In questo scenario l’inquilino del colle diveniva una sorta di bonario notaio, pendant di rappresentanza e buon retiro: da Gronchi a Pertini, passando per Segni e l’orrido Einaudi, il Quirinale in sostanza non faceva che prendere atto e ratificare, passacarte di una dialettica politica che si svolgeva altrove e che non doveva né poteva interessarlo.
Schiacciato dalla forza dei partiti, qualunque sconfinamento dal ristretto perimetro costituzionale sarebbe costato caro: giocare a fare il reuccio contro uomini reduci da galere e tempeste d’acciaio non era consigliabile né saggio. Mariolino Segni ci lasciò sostanzialmente la vita, nella calda estate del 1964, aggredito dalla furia e dallo sdegno di un galantuomo come Peppino Saragat. Altri tempi!
Crollati i partiti di massa, distrutte la struttura e la cultura politica che avevano reso l’Italia benestante e civile, il Quirinale ha pian piano mangiucchiato spazio e potere, approfittando della totale mediocrità dei politicanti degli ultimi venticinque anni. L’esempio di king Napolitano basta e avanza per mostrare la dis-evoluzione della figura, non più garante della sovranità democratica e della Costituzione ma centrale di connivenze e obbedienze alle oligarchie finanziarie e ai potentati capitalisti. Suprema garanzia della stabilità (per i plutocrati) e della schiavitù appartenenza all’Ue, la attuale presidenza della repubblica- invero all’inizio partita con la sordina ben inserita- ha dal 4 marzo iniziato un formidabile processo di superamento delle già notevoli perfomance di re Giorgio I.
Prima con i richiami allo spettro di Einaudi- citare un liberale acclamante il fascismo trionfante non è forse il massimo per il custode della Costituzione nata dalla Resistenza…- poi con un lavorio sempre più insistente contro la prospettiva di un governo 5s-Lega, l’inquilino del colle ha fatto di tutto per impedire che le forze vincitrici delle ultime elezioni politiche riuscissero a formare un esecutivo. Il motivo? Chiaro e semplice: l’euro.
La moneta è sempre espressione di rapporti sociali, quindi di forza, tra classi come tra stati. La possibilità che forze “sovraniste” (in realtà quasi esclusivamente la Lega, grazie al contributo ormai storico di Alberto Bagnai e Claudio Borghi) possano quantomeno mettere in discussione i vincoli derivanti dai trattati europei, tentando di ottenere quelle condizioni minime per poter gestire come da Costituzione le leve finanziarie nazionali, ai padroni d’Italia fa accapponare la pelle. Se ad alti livelli un simile scenario suscita apprensione, figurarsi i sentimenti di malessere animanti la bassa forza: il complesso dell’informazione (sic) è semplicemente andato in tilt, essendo il primo bastione a cadere stante la fideistica e totale adesione dimostrata in quarant’anni al vincolo esterno. In nuove lire la trimurti Repubblica-Corsera-Stampa difficilmente troverà finanziamenti generosi come gli attuali…
In tutto questo il presidente della repubblica tenta in tutti i modi di porre il veto a Paolo Savona, designato ministro dell’economia e delle finanze nel nascente governo Conte. Un ottantaduenne che certo non si può definire estremista, già ministro al tempo di Ciampi e ben inserito nei circuiti del capitalismo europeo. Sua pecca, massima in questi tempi, risulta essere pensare criticamente: da europeista è divenuto critico della moneta unica, e senza dubbio il suo mandato ministeriale rappresenterebbe una potente cesura con le politiche economiche dell’ultimo ventennio.
Su questo snodo si consuma in questi giorni lo scontro tra quirinale e Lega-5s, plastica sintesi dell’immenso cozzo in atto tra masse e élite cascanti, classi subalterne e padroni. Ci dispiace constatare che il colle pieghi la carta fondamentale della repubblica agli interessi stranieri e antidemocratici della finanza quando in altri frangenti s’è sempre dimostrato assai efficiente verso provvedimenti che intendevano svuotare completamente di senso il lavoro di Basso, Calamandrei, Mortati e tanti altri. La china presa, infatti, conduce inevitabilmente al di là del dettato costituzionale, certificando lo stato permanente d’eccezione che attanaglia il paese e uccide gli italiani per placare gli istinti immondi de “i Mercati, l’Europa, l’Occidente”. Tra il capitale cosmopolita e il popolo italiano, la cupidigia di quattro aguzzini finanziari e le aspirazioni sacrosante di sessanta milioni di esseri umani, la posizione del presidente della repubblica dovrebbe essere indiscutibilmente chiara, ma la notte forse è ancora lunga…

giovedì 24 maggio 2018

#Stragedicapaci ultimo viaggio*

Il Falcon 50 noleggiato dal Sisde per Giovanni Falcone e Francesca Morvillo atterra sulla pista di Punta Raisi alle 17.43 di sabato 23 maggio 1992. Antonio Montinaro, caposcorta del giudice, si avvicina al velivolo. Gli altri agenti di scorta della polizia di Stato sono pronti davanti alle tre auto blindate. Falcone e sua moglie scendono dalla scaletta. Giuseppe Costanza apre il cofano e sistema i bagagli. Poi prende posto sul sedile posteriore. Falcone ha deciso di guidare.
Accanto a lui la moglie. Ad aprire il corteo la Fiat Croma marrone guidata da Vito Schifani. Insieme a lui Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. In mezzo, la Croma bianca guidata da Falcone. A seguire la Croma azzurra guidata da Gaspare Cervello, con lui gli agenti Paolo Capuzza e Angelo Corbo. Sono passati solo dieci minuti dall’atterraggio. Le tre auto sfrecciano ad alta velocità sull’autostrada che porta a Palermo. Nessuno dei sette uomini di scorta immagina che le sentinelle di Cosa nostra hanno seguito passo dopo passo i movimenti di Falcone e di sua moglie: dal momento del decollo dall’aeroporto di Ciampino, fino all’arrivo a Punta Raisi. Da quell’istante le vedette continuano a scambiarsi messaggi in codice. Nella seconda auto Giuseppe Costanza chiede a Falcone quando dovrà andare a riprenderlo una volta lasciato a casa. "Lunedì mattina" risponde il magistrato. "Allora, arrivati a casa, cortesemente mi dà le chiavi in modo che posso poi prendere la macchina". Ed è in quell’istante che Falcone sovrappensiero sfila le chiavi dal quadro e le porge all’autista. "Cosa fa? Così ci andiamo ad ammazzare!" replica di scatto Costanza. "Scusi, scusi". Sono le ultime parole di Giovanni Falcone mentre infila di nuovo le chiavi nel quadro.
Mancano cinque chilometri per arrivare a Palermo. Siamo in prossimità dell’uscita di Capaci. Dalla collinetta di fronte all’autostrada, a una distanza di circa cinquecento metri, Antonino Gioè, uomo d’onore della famiglia mafiosa di Altofonte, segue con un potente binocolo le tre auto. È arrivato il momento. "Vai!" grida Gioè a Giovanni Brusca, capo mandamento di San Giuseppe Jato, che regge in mano il telecomando collegato alla carica di esplosivo collocata nel canale di scolo sotto il manto stradale. Cinquecento chili di tritolo collocati in alcuni fusti. Ma nella frazione di secondo in cui Falcone sfila le chiavi dal quadro l’auto rallenta. Giovanni Brusca ha un attimo di disorientamento. "La macchina scese a ottanta-novanta chilometri. Io vedevo, a occhio, che la Croma perdeva velocità. Gioè insisteva con il "vai!", ma io rallentavo, frenavo. Ero come imbalsamato. Al terzo "vai!", azionai il telecomando e successe quello che doveva succedere. Non è che l’esplosione fece “bum”. Avvenne a ripetizione, perché i fustini esplodevano uno dietro l’altro. Sentii “tututum”, “tututum”, “tututum” Onestamente sono rimasto scioccato anch’io". Sono le ore 17.56. L’attacco frontale allo Stato ha inizio. Lo scoppio della bomba colpisce in pieno la prima auto. Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro saltano in aria. I loro resti massacrati restano intrappolati nelle lamiere a cento metri di distanza. La Croma di Falcone si scontra invece contro un muro di terra e di asfalto che si solleva con l’esplosione. L’impatto è violentissimo. Sulla terza Croma Gaspare Cervello vede la morte in faccia. È scioccato. "Dopo la grande esplosione cominciai a vagare accanto al cratere, in autostrada. Impugnai l’arma. Venne un collega, gli intimai: “Fermati o sparo”. E lui: “Sono un collega”. E io: “Fermati o sparo”. La macchina, un ammasso, un impasto. E in quel nulla c’erano gli occhi del giudice. Me ne sono fregato di chiamarlo dottore. Ho mormorato “Giovanni, Giovanni…”. E lui mi guardava. I suoi occhi me li porto dietro di notte e di giorno. Mi seguono, mi accompagnano, sono parte di me". E sono quegli occhi che Gaspare Cervello continua a ricordare mentre la sua voce si incrina. "Lui si è voltato, ma aveva uno sguardo ormai chiuso, abbandonato. Tutto il blocco motore lo aveva addosso. Solo la testa era libera. La dottoressa Morvillo stava chinata in avanti, così come Giuseppe Costanza. C’era un principio di incendio. Lo abbiamo spento. Della macchina dei colleghi non sapevo nulla. Speravo si fossero salvati". L’agente Cervello e i colleghi che viaggiavano con lui sono miracolosamente salvi. Tutto intorno c’è l’inferno. Nonostante la potenza dell’esplosione, Falcone, sua moglie e Giuseppe Costanza sono ancora vivi. Francesca Morvillo ha perso conoscenza, mentre Giovanni Falcone mostra di rispondere con gli occhi agli stimoli del suo agente di scorta. Con l’aiuto dei primi soccorritori li estraggono dall’auto. Per Giovanni Falcone però bisogna attendere l’intervento dei vigili del fuoco, perché è rimasto incastrato fra le lamiere dell’auto. Lo scoppio dei cinquecento chili di tritolo ha formato un cratere di circa quattordici metri di diametro e tre metri e mezzo di profondità. Le altre auto che transitavano in quel momento sono capovolte. I feriti invocano aiuto. Un girone dantesco si presenta davanti agli occhi degli ausiliari medici. Le ambulanze si precipitano verso gli ospedali più vicini.

Il vuoto addosso
Paolo Borsellino è dal suo barbiere in via Riccardo Zandonai. Squilla il cellulare. È Franco Lo Voi, un collega più giovane della Procura. Borsellino ha uno scatto improvviso, ferma il barbiere. "Un attentato a Giovanni, a Giovanni Falcone? Quando, dove, come?" Il giudice corre a piedi verso casa. Sente il mondo crollargli addosso. Ha bisogno di vedere l’amico e fratello. Non ha con sé le chiavi del portone. Suona il campanello. Passa davanti al figlio Manfredi senza dirgli una parola. In casa le altre due figlie Lucia e Fiammetta si rendono immediatamente conto che è successo qualcosa di gravissimo. La moglie Agnese non c’è, è uscita con un’amica. Borsellino si attacca al telefono ma non parla, probabilmente il numero è occupato. Aun certo punto esplode tutta la rabbia. Incontenibile. Si toglie la cinta dai pantaloni, la impugna all’estremità, la sbatte contro un muro e grida disperato, rabbioso: "Un attentato… Giovanni, Giovanni… È ferito, è all’ospedale Civico…". Questione di pochi minuti e Borsellino si fa accompagnare all’ospedale. Lucia lo raggiunge poco dopo. Fiammetta esce a cercare la madre e Manfredi resta a casa per assicurare i contatti tra tutti. Al nosocomio arriva anche Antonio Ingroia, giovane sostituto procuratore, legato a Paolo Borsellino da una profonda amicizia e da un rapporto professionale fin dai tempi della Procura di Marsala. Nella sua mente resta indelebile il ricordo del suo incontro con l’amico e collega. "Lo trovai all’ospedale, appoggiato contro il muro. Il capo chino, il volto stanco. Senza lacrime. Era come… svuotato". Borsellino è appena uscito da una porta a vetri. È come se fosse invecchiato tutto in una volta. Ha raccolto l’ultimo respiro di Giovanni Falcone. La sua voce rivela il vuoto assoluto nel quale è appena precipitato. "È morto così, tra le mie braccia". Lucia scoppia in un pianto a dirotto. Il padre la riprende dicendole di non dare spettacolo. Ma pochi istanti dopo anche lui crolla nello stesso pianto abbracciandosi alla figlia. Dietro di loro arriva il magistrato Alfredo Morvillo, fratello di Francesca. Con Borsellino si conoscono da molti anni. La notizia che anche la moglie di Falcone non ce l’ha fatta arriverà più tardi ma sarà ugualmente straziante. Antonino Caponnetto, il padre del pool antimafia, chiama al telefono Borsellino. Vuole sapere. Si trova ancora a Firenze e si sta preparando per venire a Palermo. "Paolo, come sta Giovanni?" Dall’altro capo del filo Borsellino piange. "Paolo, mi vuoi rispondere? Come sta Giovanni?" "È morto un minuto fa tra le mie braccia". Sono le 19.07. A Caponnetto cade il telefono dalle mani. Ha perso uno dei suoi figli più amati. Nel frattempo l’ospedale è un crocevia di familiari, amici e conoscenti delle vittime e dei feriti. Arrivano anche altri colleghi che si stringono attorno a Paolo Borsellino. Che senza la protezione di Giovanni Falcone diviene inevitabilmente il prossimo obiettivo. Il giudice ne è cosciente e lo sarà sempre di più in quegli ultimi cinquantasette giorni di vita che gli rimarranno. Borsellino è solo. In tarda serata è Antonio Ingroia a riaccompagnarlo a casa. "Raccogliendo financo fra le mie braccia gli ultimi respiri di Giovanni Falcone» dirà successivamente Borsellino «pensai che si trattava di un appuntamento rinviato…". Inizia così il conto alla rovescia.

La percezione della fine
Dal 23 maggio in poi si susseguono una serie di segnali inequivocabili attorno alla figura del giudice. Paolo Borsellino comincia a essere perfettamente consapevole della particolare sovraesposizione in cui si trova. La sua forte apprensione nei confronti dei colleghi si consolida giorno dopo giorno. "Giovanni Falcone era il mio scudo dietro il quale potevo proteggermi. Morto lui, mi sento esposto e adesso sono io che devo fare da scudo nei vostri confronti". Parole che riportano le lancette dell’orologio indietro nel tempo. Il conto alla rovescia è appena iniziato.

La corsa contro il tempo
Così come ai tempi del maxiprocesso, sotto casa di Borsellino torna la ronda dei carabinieri e la zona rimozione. In Prefettura studiano gli appuntamenti fissi del magistrato durante la settimana: Palazzo di Giustizia, la chiesa di Santa Luisa di Marillac e la visita alla madre in via Mariano D’Amelio. Gli agenti addetti alla sicurezza sollecitano invano l’istituzione di una zona rimozione in quella stessa via. Non verrà mai attuata. Negli anni successivi Caponnetto domanderà a gran voce se il responsabile della sicurezza di Borsellino avesse mai subito sanzioni disciplinari per una simile omissione. Ma la sua domanda rimane a tutt’oggi sospesa. Anche Rita Borsellino ricorderà la sua preoccupazione dopo la strage di Capaci. In quei giorni sarà lei stessa ad avvertire le forze dell’ordine della presenza in via D’Amelio di una macchina abbandonata con i finestrini abbassati. Ma sarà costretta a chiamare tre volte prima che un carro attrezzi porti via la carcassa. La sorella del giudice rammenterà la sua ansia per un cassonetto dell’immondizia lasciato incautamente in via Cilea, in prossimità della casa del fratello. Ma soprattutto ricorderà la risposta severa del giudice ai suoi timori. "Non sono io che devo pensare alla mia sicurezza, c’è chi è addetto a questo compito". Su Paolo Borsellino si viene a formare una pressione imponente. Da una parte la richiesta di giustizia dell’opinione pubblica che ripone in lui una spasmodica aspettativa. Contemporaneamente aumenta la sua sovraesposizione perpetrata dal fronte politico-istituzionale. Borsellino si getta subito a capofitto sulle inchieste che possono avere un collegamento con la strage di Capaci. Riprende in mano la documentazione su alcuni omicidi eccellenti, tra cui il dossier sull’omicidio di Salvo Lima. Rilegge il rapporto del Ros Mafia e appalti. E chiede anche di ripescare dagli archivi i vecchi rapporti sulla Duomo Connection, l’operazione che solo tre anni prima aveva svelato le collusioni tra la mafia corleonese e la politica in Lombardia. Ma non farà in tempo a leggerli. Come sua abitudine, ogni mattina Paolo Borsellino si alza prestissimo. Per tutta la giornata non si stacca un attimo dalle sue carte. Tra una sigaretta e l’altra legge, prende appunti, cerca i collegamenti. E soprattutto ripensa alle conversazioni avute con Falcone, alle sue intuizioni, alle sue confidenze. Che alla luce degli eventi acquisiscono nuovi significati. Ma sente sempre di più che il tempo gli sfugge dalle mani.

mercoledì 23 maggio 2018

Italia vecchia e in bilico, si salva grazie alle relazioni

Una rete ci salverà. Ebbene sì adesso è anche la statistica che, oltre a registrare timidi segnali di ripresa per l'economia e l'occupazione e a ricordare le molte diseguaglianze dell'Italia, conferma come siano le reti informali e sociali a risolvere i problemi di una popolazione sempre più vecchia e sola.
Due caratteristiche legate anche alla longevità della nostro Paese, che si affiancano al calo per nove anni consecutivi delle nascite e al triplicarsi del giovani che vanno all'estero in cerca di lavoro. Insomma «l'appartenenza a un sistema di reti e di relazioni sociali, lavorative, culturali può dare prospettive innovative e positive alla società italiana e scongiurare il rischio di un isolamento degli individui, specialmente anziani». È questa in sintesi la chiave di lettura scelta dal presidente dell'Istat Giorgio Alleva nel presentare il Rapporto annuale 2018 sulla situazione del Paese a Montecitorio, a cui partecipa il presidente della Camera Roberto Fico.

Il lavoro e l'economia
Nel 2017 continua la crescita del numero degli occupati (265 mila, pari a +1,2%) in tutte le aree del Paese, ma il Mezzogiorno rimane con un saldo occupazionale negativo rispetto al 2008 (-310 mila unità, -4,8%). Ma, secondo il rapporto annuale 2018, il riavvicinamento del numero di occupati ai livelli pre-crisi si deve esclusivamente alla componente femminile (404 mila unità in più, ma comunque sotto la media europea) mentre gli uomini fanno tuttora registrare un deficit di 471 mila unità. Il tasso di occupazione è in crescita e si attesta al 58%, ancora 0,7 punti percentuali sotto il livello del 2008 e lontano dalla media Ue.

Il numero di disoccupati diminuisce del 3,5% (-105 mila) e il tasso di disoccupazione passa dall'11,7% del 2016 all'11,2%. Gli inattivi tra i 15 e i 64 anni si riducono per il quarto anno consecutivo e sono sotto i 13,4 milioni. Il calo è stato meno intenso rispetto al 2016 ma comunque rilevante (-242 mila unità, -1,8%); rispetto al 2008 se ne contano quasi un milione in meno. I giovani Neet (non occupati e non in formazione) scendono sotto i 2,2 milioni, con un calo dell'1,1% più debole di quello registrato nel 2016.

Sul fronte della crescita gli indicatori disponibili per i primi mesi del 2018 segnalano la prosecuzione del recupero dell'economia italiana, pur se a ritmi moderati. Nel primo trimestre dell'anno il Pil è cresciuto dello 0,3% su base congiunturale; nello stesso periodo inoltre la fiducia delle famiglie è aumentata, mentre quella delle imprese è diminuita, mantenendosi però su livelli elevati. Nel 2017 il prodotto è cresciuto dell'1,5% contro il +0,9% del 2016, sostenuto soprattutto dagli investimenti fissi lordi. Positivo anche il contributo della domanda estera. L'espansione dell'attività ha interessato tutti i settori produttivi a eccezione dell'agricoltura: l'aumento più marcato è quello dell'industria in senso stretto (+2,1%), mentre i servizi si sono fermati all'1,5% e le costruzioni allo 0,8%.

Indice di Benessere e diseguaglianze
«Nel 2017 il benessere degli italiani misurato nel Def mostra un deciso miglioramento in cinque dei dodici indicatori considerati e un arretramento nei rimanenti sette», scrive l'Istat nel rapporto, mettendo «in positivo» la riduzione della criminalità predatoria (scippi e rapine), il miglioramento della partecipazione al mercato del lavoro e la diminuzione della durata delle cause civili. Invece, risultano «in negativo» l'aumento delle disuguaglianze e della povertà assoluta, che, come rivelato già in audizione sul Def, nel 2017 secondo le stime preliminari interesserebbe l'8,3% dei residenti (circa 5 milioni) contro il 7,9% nel 2016. Inoltre, fa presente l'Istat, «gli indicatori disponibili per i primi mesi del 2018 segnalano la prosecuzione del recupero della crescita dell'economia italiana, pur se a ritmi moderati».

Nonostante la ripresa però aumentano diseguaglianza e povertà assoluta. Quest'ultima, secondo le stime preliminari, nel 2017 interesserebbe l'8,3% dei residenti contro il 7,9% del 2016. La diseguaglianza economica - misurata dal rapporto fra il totale del reddito equivalente ricevuto dal 20% della popolazione con i redditi più alti e dal 20% della popolazione con quelli più bassi - raggiunge un livello di 6,4 (6,3 nel 2016). La povertà assoluta riguarda poco meno di 1,8 milioni di famiglie e circa 5 milioni di individui. Complessivamente si tratta di 154.000 famiglie e 261.000 persone in più rispetto all'anno prima. la ripresa dell'inflazione spiega circa la metà dell'incremento dell'incidenza della povertà assoluta; l'altra metà va ascritta invece al peggioramento della capacità di spesa delle famiglie scese sotto la soglia di povertà. A livello territoriale, la povertà assoluta aumenta nel Mezzogiorno e nel Nord, mentre scende al Centro.

Il ruolo delle reti
Il 78,7% delle persone di 18 anni e più dichiara di poter fare affidamento almeno su un parente, un amico o un vicino. È questa la forza delle reti informali e sociali che il rapporto Istat considera uno dei paracadute principali del nostro Paese. Tra le persone che rappresentano un sostegno, sono gli amici la categoria più indicata (62,2% dei casi) seguita dai vicini (51,4%) e dai parenti (45,8%). Con un sostegno che è anche di tipo economico. «Il 44,7% degli individui - riferisce il report - dichiara di avere almeno una persona non coabitante su cui contare in caso di bisogno urgente di denaro (800 euro)».

All'aumentare dell'età sono sempre meno le persone che dichiarano di poter contare su una rete variegata (parenti, amici e vicini): la quota tra i più anziani (25,6% delle persone di 75 anni e oltre) è meno della metà di quella dei più giovani (57,8% delle persone tra i 18 e i 24 anni). Al crescere dell'età, invece, prevalgono le reti esclusive, in particolare quelle costituite solo da parenti o solo da vicini. La rete informale di aiuto e sostegno sociale si attiva in funzione di una serie di bisogni connessi con diversi eventi, dalla nascita dei figli alle difficoltà economiche: oltre un terzo delle famiglie sostenute informalmente ha ricevuto aiuto per attività domestiche (34,5%). Più di una famiglia su quattro per compagnia, accompagnamento, ospitalità ed espletamento pratiche burocratiche.

Il mondo del volontariato
Le istituzioni non-profit attive in Italia nel 2015 sono oltre 330 mila, l'11,6% in più rispetto al 2011, e impiegano complessivamente 788 mila dipendenti e 5,5 milioni di volontari. Rispetto al 2011 sono in aumento sia il numero di volontari (del 16,2%), sia il numero dei lavoratori dipendenti (del 15,8%). La fotografia del settore scattata dal Rapporto annuale 2018 dell'Istat perciò evidenzia come il numero di istituzioni non-profit cresca in tutte le regioni italiane, a eccezione del Molise (-2%).

Aumenti particolarmente sostenuti si registrano in Campania (+33%), nel Lazio (+29,5%) e, in misura più contenuta, in Lombardia (+14,1 %) e in Sardegna (+12,2%). Considerando la popolazione presente sul territorio, il Nord-Est presenta la più alta incidenza di istituzioni non-profit, in particolare nelle province di Gorizia (9,7 istituzioni per mille abitanti), Belluno, Trieste, Udine e Pordenone. All'interno del Nord-Ovest, l'area con più incidenza parte da Aosta e si estende tra il Piemonte e la Liguria. Nel Centro, l'area di maggiore diffusione rispetto alla popolazione residente si trova tra le province di Siena (8,2, nona provincia italiana per presenza di istituzioni), Grosseto, Pisa, Lucca, Perugia e buona parte delle Marche. Nel Mezzogiorno, invece, si distingue la Sardegna, dove tutte le province presentano valori superiori alla media nazionale (con il dato più elevato nella provincia di Oristano).

Considerandola diffusione del settore in base al numero di dipendenti impiegati in rapporto alla popolazione residente, la provincia autonoma di Trento presenta il valore più elevato (230 dipendenti per 10 mila abitanti, rispetto a una media nazionale di 130), seguita da Lombardia (180), Lazio (173) ed Emilia-Romagna (161). La presenza dei volontari è superiore al dato nazionale (911 volontari per 10 mila abitanti) poi nelle province autonome di Trento e Bolzano (rispettivamente 3.004 e 2.200) e in Valle d'Ao sta (2.037).

Popolazione e migrazioni
Italiani più vecchi e soli. La popolazione totale infatti diminuisce per il terzo anno consecutivo di quasi 100mila persone rispetto al precedente: al 1° gennaio 2018 si stima che la popolazione ammonti a 60,5 milioni, con 5,6 milioni di stranieri (8,4%). E così l'Italia si conferma essere il secondo paese più vecchio del mondo: 168,7 anziani ogni 100 giovani. Il Paese appare anche più fragile rispetto all'Ue: il 17,2% si sente privo o quasi di sostegno sociale.

Gli anziani che vivono soli passano oltre 10 ore senza interazioni con altri. Parallelamente continuano a calare le nascite per il nono anno consecutivo: nel 2017 ne sono state stimate 464 mila, il 2% in meno sul 2016 e nuovo minimo storico. E pur mantenendosi su livelli decisamente più elevati di quelli delle cittadine italiane, cala anche il numero medio dei figli di cittadine straniere. Inoltre si diventa genitori sempre più tardi: l'età media delle donne alla nascita del primo figlio è 31 anni nel 2016, mentre nel 1980 era 25 anni.

È in crescita il numero di cittadini stranieri che diventano italiani. Nel 2016 sono oltre 201 mila le acquisizioni di cittadinanza e si stima che nel 2017 superino le 224 mila. Questa quota riguarda perlopiù cittadini non comunitari: il 18,3% dei naturalizzati nel 2016 ha come cittadinanza di origine quella albanese e il 17,5% quella marocchina nella sezione dedicata alle traiettorie migratorie. Nel 2016, inoltre, sono stati rilasciati quasi 227 mila nuovi permessi di soggiorno. Di questi il 5,7% riguarda le migrazioni per lavoro dei non comunitari (che toccano un nuovo minimo storico), il 34,3% è per asilo politico e motivi umanitari e il 45,1% per ricongiungimento familiare.

Aumenta anche il numero dei "nuovi italiani" che lasciano l'Italia: tra il 2012 e il 2016 circa 25 mila naturalizzati si sono trasferiti altrove, nella maggior parte dei casi in Paesi Ue (quasi 19 mila, pari al 75,6% degli emigrati naturalizzati). Ma nel complesso il saldo migratorio, positivo da oltre vent'anni, si contrae ma è in lieve ripresa negli ultimi due anni (stimato in 184 mila unità nel 2017): le immigrazioni dall'estero si sono ridotte da 527 mila iscritti in anagrafe nel 2007 a 337 mila stimati nel 2017. Le emigrazioni per l'estero invece sono triplicate, passando da 51 mila a 153 mila.

Istruzione e cultura
Per una quota consistente di italiani arte, patrimonio e, in generale, cultura sono poco attraenti: si tratta di attività che si praticano soprattutto quando si va a scuola o all'università, ma che non attecchiscono e che si abbandonano a mano a mano che avanza l'età. Nel 2016, il 66,3 per cento della popolazione di 6 anni e più ha dedicato il proprio tempo, almeno una volta nei 12 mesi
precedenti, a intrattenimenti e spettacoli fuori casa; il 40,5 per cento si è dedicato alla lettura di libri (per motivi non strettamente scolastici o professionali) e il 43,9 per cento ha letto quotidiani almeno una volta alla settimana.

La quota di cittadini che, nello stesso periodo, non ha svolto alcuna attività culturale, neppure semplice e occasionale, è del 18,6 per cento. La quota di non partecipazione delle donne è più alta di quella degli uomini (21,5 contro 15,5 per cento). Il fenomeno è molto legato all'età: l'inattività culturale totale, minima tra i giovani, è considerevolmente più frequente tra gli adulti, già a partire dai 25 anni, anche se il crollo della partecipazione avviene dopo i 75 anni, quando tocca il 43,5 per cento, in misura molto più elevata per le donne (49,7 per cento) che per gli uomini (34,0 per cento).

L'esclusione culturale colpisce soprattutto le famiglie a basso reddito con stranieri e quelle degli operai in pensione, tra le quali più della metà delle persone non svolge nessuna forma di attività culturale, per quanto limitata e occasionale. Altri gruppi sociali dove questi comportamenti sono pervasivi sono quelli in cui sono più presenti gli esclusi dal lavoro: anziane sole e giovani disoccupati e le famiglie a basso reddito di soli italiani.

A non aiutare l'accesso alla cultura anche una rete di luoghi culturali certo capillare, ma non a sistema soprattutto sul fronte musei. Le biblioteche e i musei italiani, infatti, costituiscono secondo l'Istat «reti di servizi diffusi capillarmente; se la prime hanno una rete altamente strutturata, quella dei musei non presenta ancora caratteristiche di sistema». Il panorama dei frequentatori delle biblioteche in Italia non è consolante: l'ente di statistica rileva infatti che sono frequentate di più dai giovani mentre casalinghe e ritirati dal lavoro rappresentano il "non pubblico" di questo servizio culturale. Alla fine del 2016 sono attive circa 14 mila biblioteche, pubbliche per oltre l'81%.

Rispetto al numero di abitanti, i valori più alti sono in Valle d'Aosta (42 biblioteche ogni centomila abitanti), Trentino-Alto Adige, Sardegna e Molise (dove si superano le 37 unità per centomila residenti). In Puglia e Campania non si arriva a 20 biblioteche ogni centomila abitanti. «Nel 2015 - rileva ancora l'Istat - il 15,1% degli italiani è stato in biblioteca almeno una volta in 12 mesi. I servizi bibliotecari sono utilizzati in misura prevalente da bambini, adolescenti e giovani (la percentuale si mantiene ben al di sopra del 30% fino ai 24 anni)».

Servizi di trasporto pubblico
In Italia il trasporto pubblico locale appare sottoutilizzato: gli utenti abituali di autobus, filobus e tram sono l'11 dei residenti dai 14 anni in su. Nel 2016, infatti, quasi quattro italiani su cinque si sostano giornalmente utilizzando mezzi propri per un tasso di motorizzazione di 625 auto ogni 1.000 abitanti. Un dato largamente superiore a quello registrato nei maggiori Paesi europei (555 in Germania, 492 in Spagna, 479 in Francia, 469 nel Regno Unito).

Nel biennio 2015-16 l'offerta del trasporto pubblico locale ha recuperato una parte della flessione registrata nel quadriennio precedente, ma è ancora inferiore del 2,2% rispetto a quella del 2011. Tra il 2011 e il 2016 si poi modificata anche la ripartizione dell'offerta. Nei capoluoghi o città metropolitane l'offerta di autobus e filobus è diminuita del 12,6%, quella del tram è aumentata del 3,7%, così come quella della metropolitana (+18,1%).

L'Istat inoltre analizza la diseguaglianza sociale delle tre più grandi città italiane (Milano, Roma e Napoli) che viene rappresentata in forma cartografica e tramite i tracciati delle linee metropolitane che aiutano a percorrere idealmente le città. La metodologia usata è un indice sintetico di vulnerabilità sociale e materiale e un indicatore di valore immobiliare delle città con cui è possibile mettere in luce le differenze tra le diverse zone urbane. E così si vede che Milano ha una struttura radiale, che procede per espansioni a partire dal centro storico per cerchi concentrici che si sono via via definiti nel tempo.

Le aree più benestanti coincidono con quelle con i più alti valori immobiliari e si addensano soprattutto nel centro geografico della città mentre le zone con più alta vulnerabilità sociale e materiale si trovano tutte al di fuori del nucleo centrale della città.

martedì 22 maggio 2018

Capitalismo senza Famiglia

E’ un dato di fatto che, con la caduta dei Fascismi e più in generale con il crollo dell’idea dell’uomo nuovo da costruire mattone dopo mattone nei laboratori ideologici di regime, sia esso l’uomo del Fascismo o l’Homo Sovieticus, si è andata progressivamente affermando, di pari passo con l’avvento del capitalismo consumistico (siamo negli anni ’50), quella che oggi possiamo candidamente definire ideologia liberal, riferendoci ad una sua deformazione, ma che altro non si presentò con l’idea che spetti all’individuo decidere di se stesso e del suo rapporto con gli altri. Nulla di più semplice, ed il lettore leggendo queste parole avrà istintivamente annuito, come se in tale concezione non vi fosse nulla di ideologico bensì di integralmente naturale. La contemporaneità altro non vive che un’esacerbazione del suddetto concetto. Il nemico naturale di tale impostazione è, naturalmente, il nucleo familiare.
Andiamo nel dettaglio. L’ideologia liberal prospera nel sotteso che l’arbitrio individuale sul sé e sui rapporti prossimi che il sé intrattiene sia qualcosa di naturale e che, a ben vedere, anche il capitalismo lo sia, in quanto l’individuo, al di la da sé, non potrà che instaurare rapporti puramente economicistici. L’ideologia liberal non contempla l’altro, se non come limite al proprio arbitrio. Not In My Backyard, come dicono gli americani. Fai quello che vuoi, purché non infastidisci il mio arbitrio su di me o sulle cose di cui ho diritto. La Famiglia, intesa come istituzione esulante dal do ut des e scevra da rapporti interni di carattere economico non può coesistere con tale ideologia. In Famiglia non vi sono diritti se non quelli del sangue, e ciò ha tanto dato da scrivere (anche a ragione) sulla figura dispotica del Padre, anche in ambito Marxista, dove alcuni autori vedevano replicati nella relazione genitori-figli i medesimi meccanismi capitalistici del rapporto tra proprietari dei mezzi di produzione e lavoratori salariati.

Non è oggi il momento di ignorare la letteratura sul tema ma di costruire nuovamente la Famiglia, ripartendo con orgoglio dalle sue fondamenta antieconomiche, approntando alla gerarchia dei componenti il rigetto della violenza fisica, l’eliminazione di qualunque forma di distacco affettivo, di freddezza emotiva dei genitori nei confronti dei figli, e financo una tolleranza conscia di una pedagogia senza prevaricazione al di fuori del proprio ruolo di educatore. Non dobbiamo pensare di arrenderci all’idea di una Famiglia non migliorabile, consci che il modello familiare Novecentesco pre-consumista non è attuabile né desiderabile. Non abbiamo da desiderare l’abrogazione della legge del divorzio, ma la ricostruzione di una Comunità, che non può che partire dalle prime figure di convivenza disinteressata con le quali inizia la nostra vita. Oggi è forse la Post-Modernità a darci la possibilità di riflettere da una prospettiva disincantata, facendoci riscoprire la Famiglia come l’unico meccanismo comunitario sopravvissuto (e morente) della contemporaneità, unico baluardo rimasto a parlarci dell’altro da noi, di una convivenza come compromesso, di limitazione dell’arbitrio, di un “fuori” dalla logica spietata del Mercato. Una volta che verrà meno quest’ultimo simulacro, rimarremo completamente soli. Sarà finalmente compiuta la palingenesi trionfale dell’ultimo prototipo di uomo nuovo, probabilmente il più riuscito. E quando, pienamente atomi, ci renderemo e chiederemo conto della nostra solitudine, quelli con più stomaco si consoleranno dei propri diritti.

lunedì 21 maggio 2018

Contratto. Il terremoto dimenticato

Nell’ultima versione del contratto di governo tra Lega e Movimento Cinque Stelle (quella che, almeno secondo l’Ansa, sarebbe definitiva), a pagina 12 appaiono 100 parole (702 battute, spazi inclusi) sul terremoto.
Non ci sono cifre, non si sa quanti soldi hanno intenzione di impegnare sul tema, né si va troppo nel dettaglio.
Per punti, questo è il pensiero di Di Maio e Salvini sul tema:
– «Chiudere la fase dell’emergenza», che finirà ad agosto, come deciso dal governo Gentiloni
– «Creare le condizioni per un rilancio economico delle aree colpite». Come? Non si sa. In teoria lo stavano facendo anche quelli di prima, con l’apertura di centri commerciali. La speranza è che questi qua abbiano idee diverse, ma onestamente non oso immaginare.

– «Semplificazione delle procedure, sia per le opere pubbliche che per la ricostruzione privata». E ci sta. D’altra parte è la stessa idea che ebbe Berlusconi a L’Aquila, con tutti i processi su criminalità e appalti che ne conseguirono.
– «Certezza nella disciplina generale contenuta nei decreti e nelle ordinanze». Che pure ci sta, come Monsieur Jacques de La Palice, che cinque minuti prima di morire era ancora vivo.
– «Modifiche da apportare al decreto». Saremmo tipo al quarto decreto terremoto, ogni volta annunciato come definitivo e ogni volta cambiato.
– «Maggiore coinvolgimento dei comuni, mediante il conferimento di maggiori poteri ai sindaci». Gli stessi sindaci che per urbanizzare le aree per le casette provvisorie ci hanno messo tra i nove e i dodici mesi, quelli.
La verità è che per ricostruire le aree distrutte dal sisma, prima di tutto bisogna volerlo, cosa che il governo Renzi prima e il governo Gentiloni dopo non sono mai stati in grado di garantire davvero; poi servono i soldi. Senza di quelli non si va da nessuna parte. Ad esempio – seguitemi un attimo perché è complicato -, l’accordo fatto dalla Cassa depositi e prestiti con l’Associazione bancaria italiana il 7 novembre del 2016 prevede stanziamenti di 60 milioni di euro annui fino a un massimo di 1.5 miliardi. Una cifra che non basterà mai per coprire tutti i danni (stimati in 23.5 miliardi di euro, in totale). È uno degli effetti della Legge di stabilità del 2016.
Ecco, magari, se Movimento Cinque Stelle e Lega volessero davvero cambiare le politiche di gestione del post-sisma (e ce ne sarebbe un gran bisogno) farebbero bene a partire da qui, non da dieci righe scarse di proclami senza l’ombra di una cifra, di un conto economico, un’idea della spesa e dell’impegno che questo comporterebbe.
Nella discussione che ha portato al famigerato contratto di governo, con ogni probabilità, tutti quanti si erano scordati che sull’Appennino un paio d’anni fa c’è stato un brutto terremoto che ha distrutto tutto. Quando se ne sono accorti, Di Maio e Salvini in fretta e furia hanno buttato giù cento parole per mettere a tacere noi biechi radical chic, rosiconi e produttori seriali di fake news.
E va bene, anche se poi alla fine è sempre il solito discorso: non parlare del terremoto è una tragedia, parlarne così è una farsa.

venerdì 18 maggio 2018

Le acque italiane contaminate da 259 pesticidi

Nelle acque superficiali, il glifosato, insieme al suo metabolita AMPA, è l’erbicida che presenta il maggior numero di superamenti. Purtroppo solo in 5 regioni si cercano glifosato e AMPA nei campioni di acque prelevati (nel biennio precedente erano monitorati solo in Lombardia). Eppure nel 2016 entrambe le sostanze risultano oltre le soglie rispettivamente nel 24,5% e nel 47,8% dei siti monitorati per le acque superficiali.
Non mancano anche altri erbicidi, come il metolaclor, che supera i limiti nel 7,7% dei punti di monitoraggio e del suo metabolita metolaclor-esa, che tuttavia è ricercato solo in Friuli Venezia Giulia e che supera i limiti nel 16% dei siti, nonché del quinclorac, superiore ai limiti nel 10,2% dei casi. È chiaro che occorre estendere e uniformare le analisi.
Nel complesso, salgono a quasi 400 le sostanze ricercate in Italia. La situazione è differente tra regione e regione. In generale, sono stati 35.353 i campioni di acque superficiali e sotterranee analizzate in Italia nel biennio 2015-2016, per un totale di quasi 2 milioni di misure analitiche e 259 sostanze rilevate (erano 224 nel 2014). Nel 2016, in particolare, sono stati trovati pesticidi nel 67% dei 1.554 punti di monitoraggio delle acque superficiali e nel 33,5% dei 3.129 punti delle acque sotterranee, con  valori superiori agli SQA nel 23,9% delle acque superficiali e nel 8,3% delle acque sotterranee. Gli erbicidi, in particolare, rimangono le sostanze riscontrate con maggiore frequenza principalmente per le modalità ed il periodo di utilizzo che ne facilita la migrazione nei corpi idrici, ma aumenta significativamente anche la presenza di fungicidi e insetticidi.
Tutti quest dati sono contenuti nell’ultimo Rapporto Ispra  “Pesticidi nelle Acque”, che in questa edizione presenta i risultati relativi al biennio 2015-2016  sulla base dei dati provenienti dalle Regioni e dalle Agenzie regionali per la protezione dell’ambiente.
Nelle acque sotterranee, 260 punti (l’8,3% del totale) hanno concentrazioni superiori ai limiti. Anche in questo caso le sostanze che maggiormente hanno superato il limite sono gli erbicidi atrazina desetil desisopropil, glifosato e AMPA, bentazone e 2,6-diclorobenzammide, l’insetticida imidacloprid, i fungicidi triadimenol, oxadixil e metalaxil.
La maggior presenza di pesticidi si riscontra nella pianura padano-veneta, dove le indagini sono generalmente più approfondite (in termini di numerosità dei campioni e di sostanze ricercate); nelle regioni del nord, infatti, si concentra più del 50% dei punti di monitoraggio della rete nazionale. Nel resto del paese la situazione resta ancora abbastanza disomogenea: non sono pervenute, infatti, informazioni dalla Calabria e in altre Regioni la copertura territoriale è limitata, così come resta limitato, nonostante l’aumento, il numero delle sostanze ricercate.
Sempre a livello regionale, la presenza dei pesticidi interessa oltre il 90% dei punti delle acque superficiali in Friuli Venezia Giulia, provincia di Bolzano, Piemonte e Veneto, e più dell’80% dei punti in Emilia Romagna e Toscana. Supera il 70% in Lombardia e provincia di Trento. Nelle acque sotterrane è particolarmente elevata in Friuli 81%, in Piemonte 66% e in Sicilia 60%. Si precisa che dove il dato è superiore alla media, c’è stata un’ottimizzazione del monitoraggio in termini di punti di prelievo, che si concentrano in modo particolare nelle aree dove vi è più presenza di pesticidi, nonché in termini di numero di sostanze analizzate oltre che di miglioramento delle prestazioni analitiche.
Si segnala, dopo oltre dieci anni di diminuzione, un’inversione di tendenza nelle vendite di prodotti fitosanitari, che nel 2015 sono state pari a 136.055 tonnellate, anche se inferiori alle 150.000 del 2002 (anno in cui si è avuto il massimo). La media nazionale delle vendite riferite alla Superficie Agricola Utilizzata (SAU) è pari a 4,6 kg/ha. Si collocano al di sopra: Veneto con oltre 10 kg/ha, Provincia di Trento, Campania ed Emilia Romagna che superano gli 8 kg/ha e Friuli-Venezia Giulia 7,6 kg/ha.
Nel periodo 2003-2016, oltre al numero delle sostanza trovate, sono aumentati anche i punti interessati dalla presenza di pesticidi che sono cresciuti di circa il 20% nelle acque superficiali e del 10%  in quelle sotterranee. La ragione va cercata nel’aumento dello sforzo di monitoraggio e della sua efficacia, ma anche nella persistenza delle sostanze e nella risposta complessivamente molto lenta dell’ambiente, in particolare nelle acque sotterranee.
Infine, i piani di monitoraggio vengono redatti sulla base dell’analisi delle pressioni: di conseguenza, i fitosanitari vengono ricercati e molto spesso trovati prevalentemente in corpi idrici a rischio per le diffuse pressioni agricole.

giovedì 17 maggio 2018

Le acque italiane contaminate da 259 pesticidi

Nelle acque superficiali, il glifosato, insieme al suo metabolita AMPA, è l’erbicida che presenta il maggior numero di superamenti. Purtroppo solo in 5 regioni si cercano glifosato e AMPA nei campioni di acque prelevati (nel biennio precedente erano monitorati solo in Lombardia). Eppure nel 2016 entrambe le sostanze risultano oltre le soglie rispettivamente nel 24,5% e nel 47,8% dei siti monitorati per le acque superficiali.
Non mancano anche altri erbicidi, come il metolaclor, che supera i limiti nel 7,7% dei punti di monitoraggio e del suo metabolita metolaclor-esa, che tuttavia è ricercato solo in Friuli Venezia Giulia e che supera i limiti nel 16% dei siti, nonché del quinclorac, superiore ai limiti nel 10,2% dei casi. È chiaro che occorre estendere e uniformare le analisi.
Nel complesso, salgono a quasi 400 le sostanze ricercate in Italia. La situazione è differente tra regione e regione. In generale, sono stati 35.353 i campioni di acque superficiali e sotterranee analizzate in Italia nel biennio 2015-2016, per un totale di quasi 2 milioni di misure analitiche e 259 sostanze rilevate (erano 224 nel 2014). Nel 2016, in particolare, sono stati trovati pesticidi nel 67% dei 1.554 punti di monitoraggio delle acque superficiali e nel 33,5% dei 3.129 punti delle acque sotterranee, con  valori superiori agli SQA nel 23,9% delle acque superficiali e nel 8,3% delle acque sotterranee. Gli erbicidi, in particolare, rimangono le sostanze riscontrate con maggiore frequenza principalmente per le modalità ed il periodo di utilizzo che ne facilita la migrazione nei corpi idrici, ma aumenta significativamente anche la presenza di fungicidi e insetticidi.
Tutti quest dati sono contenuti nell’ultimo Rapporto Ispra  “Pesticidi nelle Acque”, che in questa edizione presenta i risultati relativi al biennio 2015-2016  sulla base dei dati provenienti dalle Regioni e dalle Agenzie regionali per la protezione dell’ambiente.
Nelle acque sotterranee, 260 punti (l’8,3% del totale) hanno concentrazioni superiori ai limiti. Anche in questo caso le sostanze che maggiormente hanno superato il limite sono gli erbicidi atrazina desetil desisopropil, glifosato e AMPA, bentazone e 2,6-diclorobenzammide, l’insetticida imidacloprid, i fungicidi triadimenol, oxadixil e metalaxil.
La maggior presenza di pesticidi si riscontra nella pianura padano-veneta, dove le indagini sono generalmente più approfondite (in termini di numerosità dei campioni e di sostanze ricercate); nelle regioni del nord, infatti, si concentra più del 50% dei punti di monitoraggio della rete nazionale. Nel resto del paese la situazione resta ancora abbastanza disomogenea: non sono pervenute, infatti, informazioni dalla Calabria e in altre Regioni la copertura territoriale è limitata, così come resta limitato, nonostante l’aumento, il numero delle sostanze ricercate.
Sempre a livello regionale, la presenza dei pesticidi interessa oltre il 90% dei punti delle acque superficiali in Friuli Venezia Giulia, provincia di Bolzano, Piemonte e Veneto, e più dell’80% dei punti in Emilia Romagna e Toscana. Supera il 70% in Lombardia e provincia di Trento. Nelle acque sotterrane è particolarmente elevata in Friuli 81%, in Piemonte 66% e in Sicilia 60%. Si precisa che dove il dato è superiore alla media, c’è stata un’ottimizzazione del monitoraggio in termini di punti di prelievo, che si concentrano in modo particolare nelle aree dove vi è più presenza di pesticidi, nonché in termini di numero di sostanze analizzate oltre che di miglioramento delle prestazioni analitiche.
Si segnala, dopo oltre dieci anni di diminuzione, un’inversione di tendenza nelle vendite di prodotti fitosanitari, che nel 2015 sono state pari a 136.055 tonnellate, anche se inferiori alle 150.000 del 2002 (anno in cui si è avuto il massimo). La media nazionale delle vendite riferite alla Superficie Agricola Utilizzata (SAU) è pari a 4,6 kg/ha. Si collocano al di sopra: Veneto con oltre 10 kg/ha, Provincia di Trento, Campania ed Emilia Romagna che superano gli 8 kg/ha e Friuli-Venezia Giulia 7,6 kg/ha.
Nel periodo 2003-2016, oltre al numero delle sostanza trovate, sono aumentati anche i punti interessati dalla presenza di pesticidi che sono cresciuti di circa il 20% nelle acque superficiali e del 10%  in quelle sotterranee. La ragione va cercata nel’aumento dello sforzo di monitoraggio e della sua efficacia, ma anche nella persistenza delle sostanze e nella risposta complessivamente molto lenta dell’ambiente, in particolare nelle acque sotterranee.
Infine, i piani di monitoraggio vengono redatti sulla base dell’analisi delle pressioni: di conseguenza, i fitosanitari vengono ricercati e molto spesso trovati prevalentemente in corpi idrici a rischio per le diffuse pressioni agricole.

mercoledì 16 maggio 2018

La Mcmondializzazione

L’antropologo francese Marc Augé analizza le storture della società contemporanea che esalta la bellezza delle modelle filiformi e condanna una parte della sua gioventù all’obesità grazie al cibo spazzatura del Fast food. L’opportunità di consumare alimenti sani, scegliendo tra un ventaglio di proposte gastronomiche praticamente illimitato, è un lusso che possono permettersi solo i paesi più ricchi, a discapito di quelli più poveri per cui il mangiare continua a essere un bisogno primario.
“Mai il mondo è stato più ineguale. Esistono grandi differenze tra le diverse regioni del pianeta, ma gli scarti di reddito sono enormi anche all’interno di ciascuna di esse, all’interno dei paesi emergenti e dei paesi sviluppati.
Assistiamo all’affermazione di una società divisa in tre classi:
  • i possidenti,
  • i consumatori,
  • gli esclusi.
Nel campo dell’alimentazione la traduzione di questo fenomeno è sbalorditiva. Da una parte si assiste alla moltiplicazione delle forme di assistenza internazionale ai più poveri, a coloro che la guerra, la siccità o le epidemie minacciano di morte; si assiste nei Paesi più sviluppati a un ritorno delle attività caritative, la grande povertà ritorna a farsi vedere; disoccupati o precari non riescono più a sfamarsi o a sfamare le proprie famiglie.
Incrociamo nelle strade delle Capitali europee mendicanti che portano un cartello sul quale è scritto “Ho fame”. Dall’altra parte, l’agricoltura si trasforma per soddisfare i bisogni di un numero sempre più grande di persone. Molti specialisti stimano oggi che solo produzioni locali sufficienti potrebbero risolvere in modo durevole il problema della fame nel mondo.
La grande distribuzione delle catene alimentari riguarda una clientela che dispone di scarse risorse e propone un’alimentazione non equilibrata.
L’obesità si sviluppa in Europa, in provenienza dagli Stati Uniti. Oggi un adulto su otto è obeso. Contrasto sbalorditivo: si tratta della stessa società che esalta la bellezza delle modelle filiformi, incoraggia diverse forme di rimodellamento del corpo e condanna una parte della sua gioventù all’obesità grazie ai Fast food.
Il diffondersi del Fast food, come McDonald’s, Burger King, Quick, ecc… rappresenta l’opposto del ristorante tradizionale: parlare dei loro menu, come fa la pubblicità, è una battuta di cattivo gusto. Non si servono alcolici, ma bibite gassate e bevande zuccherine. Solo la scelta del posto dove sedere caratterizza la libertà del cliente. Tutti uguali, questi distributori di cibo rapido si situano per definizione fuori da qualsiasi colore e contesto locale.

Ho assistito nel lontano 1990 a Mosca, in piazza Puškin, qualche mese dopo la caduta del Muro di Berlino, all’inaugurazione del primo McDonald’s in URSS. Le autorità erano presenti e, nelle ore successive, chilometri di coda si formarono in piazza. All’ora di sera erano stati forniti 30.000 pasti.
La perestoijka aveva l’odore di hamburger e di patatine fritte. Il 30 gennaio un reportage di Antenne 2 celebrava con entusiasmo l’avvenimento: anche i russi finalmente potevano mangiare come gli altri! Era un entusiasmo rivelatore. Si potevano in fondo comprendere i moscoviti. Avevano l’abitudine di fare la coda e di mangiare male.
Ma cosa dire del fatto che Parigi e la Francia si mostrassero altrettanto vulnerabili agli assalti della Mcmondializzazione? A Parigi ci sono più di 60 McDonald’s. La Francia è il secondo mercato al mondo di McDonald’s dopo gli Stati Uniti! McDonald’s acquista francese in Francia come tedesco in Germania, è un buono sbocco per la produzione locale, e fornisce posti di lavoro a gioventù poco qualificata. Tutto questo val bene qualche obeso in più.
L’Europa e la Francia avevano inventato i loro ristoranti, i loro caffè, i loro bistrot, un modello culturale oggi minacciato dall’esterno e dall’interno. Cosa ci porta il Fast food? Nessun prodotto, nessuna professionalità particolare, ma uno stile di vita, precisamente, ciò che, oltre a qualche vino e qualche ricetta, un certo numero di paesi europei aveva la pretesa di proporre al resto del mondo.
Di converso, di fronte alla carestia e alla malnutrizione, noi vediamo comparire sugli schermi televisivi e sulla stampa la moda della gastronomia. Una gastronomia elaborata che promuove un’alimentazione sana. E raffinata. Un’alimentazione che si trova nei ristoranti di lusso. La sua affermazione dipende da quella che gli etnologi hanno chiamato “rituali d’inversione”. I costumi popolari di ieri divengono le raffinatezze di oggi.
Non è certo perché si può morire di fame nel nostro mondo che bisogna condannare l’umanità a mangiare qualunque cosa (tre milioni di italiani comprano solo cibo in scadenza). Le iniziative locali (penso a Slow Food in Italia) devono essere incoraggiate.
Non bisogna ignorare, da una parte, che la questione dell’alimentazione (della sua produzione, della sua distribuzione e del suo consumo) è al cuore della questione sociale. Le considerazioni tecniche sulla produttività, sui modi di conservazione, di distribuzione, sono importanti ma non porteranno a risultati che il giorno in cui delle soluzioni politiche avranno aperto la porta alla democrazia globale.

martedì 15 maggio 2018

Münchau sul Financial Times – L’Italia cerca la sua via d’uscita dall’eurozona

I Cinque Stelle e la Lega vogliono mantenere le loro promesse elettorali rimanendo all’interno delle regole fiscali della UE, per ora.

La coalizione di governo in Italia tra il Movimento Cinque Stelle e la Lega si sta definendo. Fino a non molto tempo fa, entrambi i partiti erano profondamente euroscettici, se non antieuropei. Tra i due, la Lega è il più estremista. C’è da preoccuparsi?

La risposta è sì, ma non per le ragioni avanzate solitamente. I nuovi leader italiani hanno studiato con attenzione lo scontro tra la Grecia e il resto dell’eurozona avvenuto tre anni fa. Non inizieranno il loro mandato infrangendo le regole fiscali dell’UE. Non minacceranno di uscire dall’euro. Ma dovremmo considerare questo atteggiamento come una ritirata tattica. Nessuno dei problemi dell’Italia nell’eurozona è stato risolto. Non ci saranno né grandi riforme strutturali né riforme sostanziali nella governance dell’eurozona.

I due partiti hanno condotto una campagna per l’attuazione di cambiamenti radicali delle politiche economiche e sociali italiane e in materia di immigrazione. La Lega vuole una flat tax sul reddito. I 5 Stelle hanno fatto una campagna per un reddito di cittadinanza universale. Entrambi i partiti vogliono cancellare la riforma delle pensioni del 2011. La Lega vuole uno studio di fattibilità per un “mini-BOT”, uno strumento di debito garantito dalle entrate fiscali future che dovrebbe essere accettabile come mezzo di pagamento – in altre parole, una valuta parallela. La si può vedere come un modo per uscire dalla zona euro senza uscire dalla zona euro.

Queste promesse, se attuate in toto, non sono coerenti con lo spirito o le regole dell’UE. Secondo le ultime previsioni della Commissione europea, sotto l’amministrazione corrente il disavanzo corretto per il ciclo economico dell’Italia sarebbe già in aumento, dall’1,7% dello scorso anno al 2% nel 2019. Il nuovo governo subirà le stesse pressioni del precedente per tagliare il deficit. E Luigi Di Maio, il leader dei Cinque Stelle, ha dichiarato che rimarrà all’interno delle regole fiscali dell’UE.

Ci sono due modi per il nuovo governo di raggiungere gli obiettivi. Il primo è di annacquare le promesse elettorali, il secondo di implementarle in seguito. Il primo rischierebbe una rottura con gli elettori, il secondo una battaglia con l’UE. La coalizione dovrebbe fare entrambe le cose.

Ho sentito voci sulla trasformazione dell’impegno sul reddito di cittadinanza in una politica attiva del mercato del lavoro. Questa, in linea di principio, è una buona idea, perché l’Italia non ha le infrastrutture politiche del mercato del lavoro che ci sono negli altri paesi della UE. Ma potrebbe non funzionare politicamente. Non si può promettere agli elettori un assegno di assistenza sociale e poi offrire al suo posto una formazione professionale.

È possibile annacquare una flat tax e introdurre invece due o tre aliquote fiscali – una tassa ondulata invece che piatta. L’elettorato potrebbe passarci sopra se l’economia si riprende. Ma non vedo come questo possa accadere in un contesto in cui la crescita dell’eurozona si sta indebolendo e la politica fiscale si sta irrigidendo. Se non riuscissero a consegnare le loro promesse agli elettori, i Cinque Stelle e la Lega si autodistruggerebbero. L’evoluzione politica più probabile di questa amministrazione sarebbe, quindi, un periodo di riluttanza ad applicare le norme dell’UE, seguito da tre conflitti.

Il primo riguarderà la politica fiscale. Matteo Salvini, leader della Lega, ha dichiarato nel corso del fine settimana che l’Italia “soffocherà” se non ci sarà un cambiamento nelle regole fiscali. L’Italia chiederà un cambiamento nei trattati europei. Sono certo che l’UE respingerebbe la richiesta. Dovremmo forse smettere di essere ossessionati dal dubbio se Emmanuel Macron e Angela Merkel riusciranno a mettersi d’accordo sulle riforme della zona euro: probabilmente lo faranno. Ma dubito che possano cooptare il nuovo primo ministro italiano dentro un accordo se rifiutano la richiesta dell’Italia di allentare le regole fiscali.

Il secondo è il cosiddetto mini-BOT. Il Movimento Cinque Stelle è particolarmente cauto in proposito, ma la Lega lo considera un modo utile per eludere le regole fiscali. In Grecia l’idea è fallita  per mancanza di preparazione. Ma se fosse tecnicamente fattibile, la provocazione politica in questo caso sarebbe travolgente. Finché l’Italia si asterrà dal definirla una moneta parallela, non vedo cosa potrebbe fare l’UE per bloccarla.

E infine, la nuova amministrazione sarebbe ostile all’immigrazione. La Lega vuole espellere immediatamente gli immigrati clandestini e chiudere i campi rom. Quel poco che è rimasto dell’idea di una politica comune europea in materia di immigrazione non sarà coerente con la politica italiana.

La notizia che Silvio Berlusconi è ora autorizzato a candidarsi per una carica elettiva ha suscitato un certo entusiasmo, ma non avrà grande importanza per il futuro della politica italiana. Anche se Berlusconi rientra in parlamento, il suo tempo è ormai passato. La nuova maggioranza Cinque Stelle-Lega determinerà la politica italiana, probabilmente per l’intera legislatura.

Sarebbe ingenuo pensare che l’elezione di due partiti anti-establishment nella terza economia della zona euro sia irrilevante. Dopotutto, l’Italia non è la Grecia. E la Lega e i Cinque Stelle costituiscono una sfida molto più grande per il consenso della UE rispetto a Syriza.

lunedì 14 maggio 2018

Redditi e bonus statali. Il flop finlandese impone una riflessione: ridurre fisco e burocrazia, come Cina e USA

fine aprile, il governo di Helsinki ha dichiarato conclusa la sperimentazione del reddito di cittadinanza introdotta l’anno scorso. Il progetto-pilota, che ha coinvolto 2.000 finlandesi disoccupati appositamente selezionati, non ha fornito i risultati sperati e per tanto terminerà nel 2019. Sebbene il piano finlandese prevedesse il pagamento di un mensile pari a 560 dollari senza alcun vincolo, a fallire è stata, più in generale, l’idea che elargire denaro pubblico a chi è disoccupato possa stimolarlo a cercare più convintamente un impiego.

Si tratta evidentemente di un pregiudizio antropologico, prima che economico, fondato sul presupposto ottimistico che ogni essere umano senta, di per sé, il bisogno di costruirsi un futuro più prospero, puntando a migliorare la propria condizione sociale di base. Questo solitamente avviene soltanto quando è la necessità a spingerlo, cioè quando ha poco o nulla da perdere. Vedersi garantito dallo Stato un assegno mensile con cui poter pagare le spese di base e togliersi anche qualche sfizio, può convincere tante persone a smettere di cercare un lavoro. In altri casi, non quantificabili ma ampiamente prevedibili, potrebbe addirittura stimolare il lavoro in nero, consentendo così di avere due mensilità con un solo impiego.

Il welfare è certamente una delle basi fondanti dello Stato di diritto e deve poter intervenire laddove alcune categorie di persone, per ragioni oggettive (crisi aziendali, infortuni, disabilità ecc. …), giacciano in condizioni di evidente difficoltà. Eppure, il welfare si sostiene attraverso le entrate dello Stato che, in un Paese importatore di materie prime come il nostro, sono per larga parte (86,4% circa) composte dal gettito fiscale. Dunque, semplificando al massimo, ad ogni misura sociale in favore di un cittadino in difficoltà deve corrispondere una “contribuzione” fiscale da parte di un altro che lavora. Il reddito di cittadinanza, perciò, non potrà mai essere davvero universale. Anzi, quanto più lo Stato dovrà versare ai disoccupati, tanto più dovrà estendere la base imponibile agli occupati, aggravando il divario sociale e/o territoriale tra aree produttive ed aree arretrate della popolazione e del Paese.

È proprio quest’ultimo passaggio, sondaggi alla mano, ad aver convinto il 65% dei finlandesi, già tassati oltre misura, ad abbandonare l’esperimento. In un Paese ad altissima pressione fiscale su famiglie e imprese come l’Italia, l’introduzione di una misura analoga sarebbe dunque altrettanto fallimentare. Ad aver inseguito il consenso popolare con iniziative di spesa pubblica “facile”, non è stato solo il Movimento Cinque Stelle con la sua proposta di garantire a 9 milioni di persone un mensile pari a 1.300-1.400 euro netti, ma anche il Partito Democratico, che agli 80 euro di aumento in busta paga per i lavoratori dipendenti ha poi aggiunto il bonus cultura, che dal 3 novembre 2016 prevede l’erogazione di una carta da 500 euro a tutti i neo-diciottenni, ed il reddito di inclusione (REI), entrato in vigore il primo gennaio scorso.

Il REI prevede due ordini di requisiti, familiari ed economici, per accedervi, ma dal primo luglio prossimo quelli familiari spariranno e resteranno soltanto quelli economici, allargando così la quota dei potenziali beneficiari che, a seconda del numero dei componenti il nucleo familiare, potranno percepire da un minimo di 187,50 ad un massimo di 539,82 euro al mese. Per quanto riguarda il bonus cultura, invece, oltre all’acquisto di libri e altri prodotti culturali, l’elenco delle modalità di utilizzo è stato esteso anche ai concerti e alle feste scolastiche in discoteca, come documentato da un servizio de Le Iene andato in onda nella puntata del 15 aprile scorso.

Al di là delle buone intenzioni, si tratta in ogni caso di denaro pubblico messo a rischio di improduttività, se non direttamente gettato al vento. Un errore nato da una concezione assistenzialistica della politica, che l’Italia non può più permettersi. Lo Stato deve anzitutto creare le condizioni affinché le imprese possano lavorare nel miglior clima possibile, investendo sulle infrastrutture e sulla logistica, migliorando i sistemi di formazione ed aggiornandoli all’Industria 4.0, garantendo stabilità e sicurezza pubblica, riducendo la pressione fiscale, semplificando oneri e procedure, monitorando i livelli di inquinamento ed attivandosi per ridurli. Gli interventi di “riparazione” dovrebbero arrivare soltanto a posteriori, per venire incontro a chi, pur avendo mostrato buona volontà, è rimasto suo malgrado indietro nel regime di libera concorrenza.

Stati Uniti e Cina, pur partendo da condizioni e posizioni politiche, sociali, economiche, ideologiche e culturali molto diverse tra loro, hanno inconsapevolmente raggiunto un’identità di vedute sull’importanza di ridurre le tasse e semplificare la macchina statale per stimolare l’innovazione e rilanciare impresa e lavoro. Ha cominciato Pechino tre anni fa introducendo la riforma strutturale dell’offerta, leit-motiv interno della presidenza Xi Jinping. Gli ha fatto eco Washington con il varo del Tax Cuts and Jobs Act da parte di Donald Trump. Se le prime due economie mondiali vanno in questa direzione, forse sarà il caso di darci un’occhiata.

venerdì 11 maggio 2018

Trump pone fine all’accordo nucleare con l’Iran; quali prospettive?

Con un discorso belluino, Trump esce dell’accordo nucleare con l’Iran, anche mentendovi. Non è una sorpresa. Gli Stati Uniti rispettano gli accordi solo finché gli è di breve vantaggio, basta chiedere ai nativi americani. Non si può mai contare sugli Stati Uniti. Trump reimpone le sanzioni all’Iran perché:
L’accordo nucleare è stato negoziato dall’amministrazione Obama e quindi dev’essere pessimo;
Israele vuole mantenere l’Iran come babau;
Sionisti e destra degli Stati Uniti vogliono attaccare l’Iran;
Trump ha bisogno dell’Iran come nemico degli Stati del Golfo per vendergli armi statunitensi.
Tre Paesi europei, Gran Bretagna, Francia e Germania, erano abbastanza ingenui da pensare di poterlo evitare. L’EU3 offriva agli Stati Uniti ulteriori sanzioni all’Iran per altre scuse, missili balistici e presenza iraniana in Siria. Ero disgustato quando lessi del piano. Era ovvio sin dall’inizio che avrebbe solo screditato tali Paesi, fallendo. Fortunatamente Italia e alcuni Paesi dell’Europa orientale ridussero tali sforzi europei. Non erano disposti a sacrificarvi credibilità. L’accordo nucleare è stato firmato e va seguito da tutti, sottolineando che non c’era alcuna garanzia che qualsiasi altro sforzo europeo cambiasse il punto di vista di Trump. Nelle ultime settimane vi furono dei tentativi dell’EU3 d’influenzare Trump, invano: “Pompeo organizzava una teleconferenza con le controparti europee. Fonti informate mi hanno detto che Pompeo ringraziava l’EU3 per gli sforzi compiuti da gennaio per trovare una formula che convincesse Trump a non ritirarsi dall’accordo nucleare, ma chiariva che il Presidente vuole prendere un direzione diversa… Dopo la dichiarazione di Trump, le potenze europee vogliono rilasciare una dichiarazione congiunta che chiarirà che rispetteranno l’accordo tentando d’impedirne il collasso”.
Le sanzioni che Trump reintrodurrà non solo limiteranno i rapporti degli Stati Uniti con l’Iran, ma penalizzeranno anche altri Paesi. Ciò comporterà una serie di misure protettive, dato che almeno alcuni Paesi limiteranno l’esposizione alle sanzioni statunitensi persino introducendo contromisure: “Lavoriamo su piani per proteggere gli interessi delle aziende europee“, dichiarava a Bruxelles Maja Kocijancic, portavoce dell’UE per gli affari esteri. L’Iran aderirà all’accordo sul nucleare se l’UE lo difenderà efficacemente e non ostacolerà i rapporti con le compagnie europee. Se l’UE non lo farà, l’accordo nucleare sarà nullo. L’Iran ne uscirà e il governo neoliberista di Rouhani che l’ha accettato cadrà e i conservatori torneranno a difendere la sovranità dell’Iran a tutti i costi. Gli Stati Uniti sembrano credere di poter tornare alla stessa posizione che aveva Obama prima dell’accordo nucleare. L’Iran era sotto sanzioni delle Nazioni Unite e tutti i Paesi, anche Cina e Russia, le sostenevano. L’economia iraniana era in crisi e doveva negoziare una via d’uscita. Tale situazione non si ripeterà. La credibilità degli Stati Uniti è seriamente danneggiata. Il suo soft power è finito, e il suo hard power si è dimostrato inefficace in Afghanistan, Iraq e Siria. Cina e Russia stringono accordi enormi con l’Iran e ne sono i protettori. Se non hanno un’ideologia comune, i tre s’oppongono al mondo globalizzato dettato da sole regole “occidentali”. Hanno potenza economica, popolazione e risorse per farlo. Stati Uniti ed Europa non lo capiscono. L’Iran ha non solo nuovi alleati ma avanza in Medio Oriente per la stupidità di Stati Uniti, Israele e Arabia Saudita. Le guerre a Iraq, Siria, Libano e Yemen ne hanno rafforzato la posizione, pur tenendosi sostanzialmente fuori. Le elezioni in Libano sono andate bene per la “resistenza”. In Libano, Hezbollah non può più essere sfidato. Le prossime elezioni in Iraq si tradurranno in un altro governo amico dell’Iran. L’Esercito arabo siriano vince la guerra condotta contro il Paese. La posizione degli Stati Uniti in Afghanistan è senza speranza. L’Arabia Saudita lotta contro gli Emirati Arabi Uniti nella guerra allo Yemen. La cacciata dal GCC del Qatar permane. Se Israele vuole mantenere l’Iran da uomo nero per distogliere l’attenzione dal genocidio dei palestinesi, non vuole la guerra. Hezbollah in Libano ha abbastanza missili per rendere insostenibile la vita in Israele. Una guerra all’Iran potrebbe facilmente finire con Tel Aviv in fiamme. Ci sono alcuni nell’amministrazione Trump che vorrebbero dichiarare guerra all’Iran. Anche l’amministrazione Bush aveva piani simili. Ma qualsiasi manovra contro l’Iran era finita male per Stati Uniti ed alleati. I Paesi del Golfo erano estremamente vulnerabili. La loro produzione petrolifera sarebbe stata chiusa in pochi giorni. La situazione non è cambiata. Gli Stati Uniti sono ora in una posizione strategica peggiore di quella dopo l’invasione dell’Iraq. Fintantoché ci saranno persone serie al Pentagono, la Casa Bianca sarà esortata a non compiere un simile tentativo. Il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare è un grave errore. Il segretario alla Difesa Mattis era contrario. Trump farà un errore ancora peggiore nonostante l’opinione dei consiglieri militari? Andrà in guerra con l’Iran?L’Europa non può salvare l’accordo nucleare iraniano

Muhamad Ali Jafari, comandante in capo dell’IRGC, dichiarava che l’accordo nucleare iraniano finirà, ritenendo che le parti europee non prenderenno le distanze dagli Stati Uniti sostenendo l’Iran. Il Generale Jafari dichiarava di essere contento che gli Stati Uniti abbiano abbandonato l’accordo, poiché era già stato violato da Washington e l’Iran non ne traeva benefici. “Era chiaro che gli statunitensi sono inaffidabili e l’uscita degli Stati Uniti dimostra ancora una volta che di Washington non ci si può fidare”, dichiarava. Il comandante dell’IRGC affermava che l’uscita degli Stati Uniti dal patto nucleare non produrrà effetti marcati sugli interessi nazionali dell’Iran. Jafari affermava che l’Iran ha compiuto enormi progressi quando fu sottoposto a pesanti sanzioni e può ulteriormente svilupparsi utilizzando la vaste capacità interne. Il comandante aveva detto che l’uscita degli Stati Uniti dimostra che il programma nucleare iraniano era solo un pretesto per fare pressioni sull’Iran, e che la vera preoccupazione degli USA è la potenza militare e l’influenza regionale dell’Iran.

giovedì 10 maggio 2018

Il falso ambientalismo dei colossi dell'energia

L’energia è una delle fonti di guadagno maggiori a livello mondiale. Gli interessi in gioco sono enormi, vengono combattute guerre e si fa qualsiasi atto più o meno violento per accaparrarsi le risorse energetiche. Nell’era dei combustibili fossili, arma a doppio taglio che da una parte hanno dato impulso al progresso in maniera velocissima, dall’altro in maniera altrettanto veloce ci stanno portando all’estinzione, sono nati dei colossi dell’energia che hanno costruito un potere vasto e ramificato che controlla governi, banche, istituzioni varie e mezzi di informazione. Il loro influsso è così grande che nonostante siano tra gli imputati principali del rischio dell’estinzione umana possono ancora tranquillamente operare sul mercato invece di essere giudicati per i gravissimi crimini contro l’umanità e l’ambiente di cui sono responsabili. Recente è la notizia di un nuovo record delle emissioni di CO2 che hanno superato le 411 parti per milione.
La potenza economica dei colossi dell’energia fa sì che possano dire tutto e il contrario di tutto e dipingersi pure come difensori dell’ambiente per cui fanno campagne ad hoc, finanziano iniziative sociali o ambientali ma soprattutto entrano prepotentemente nel settore delle energie rinnovabili che hanno sempre osteggiato in tutti i modi possibili e immaginabili. Investono nelle rinnovabili per due motivi, il primo perché sanno perfettamente anche loro che è il mercato del futuro e secondo per dare una riverniciatina alla loro immagine ormai largamente compromessa. Multinazionali che hanno il loro core business nelle fonti fossili e nel nucleare, a cui mai nulla è interessato di ambiente e persone e infatti laddove hanno giacimenti, centrali, impianti o esplorazioni non esitano ad allearsi con governi più o meno dittatoriali per massacrare popolazioni indigene e eliminare i difensori dell’ambiente.  Un ambientalismo il loro, che ad oggi ha ucciso e devastato come pochi nella storia dell’umanità e adesso improvvisamente parlano di sostenibilità, di protezione ambientale, di rinnovabili e con rara ipocrisia vengono a proporci anche l’opzione green della loro offerta come fornitrici di elettricità.  E’ chiaro che è solo un tragico bluff, finché potranno succhieranno fino all’ultima goccia di petrolio, sfrutteranno fino all’ultimo giacimento di gas e carbone, installeranno centrali atomiche. Essendo tossici di combustibili fossili e nucleare di morte, sono incapaci di recedere dall’unica e sola ragione di vita: il profitto a qualsiasi costo. Il tipico caso del lupo che perde il pelo ma non il vizio. E’ chiaro che di questi soggetti non ci si può e non ci si deve fidare. Fortunatamente nel mercato dell’energia stanno nascendo cooperative energetiche, iniziative di cittadini e persone consapevoli che sono la reale e possibile gestione democratica, trasparente e ambientalmente compatibile dell’energia.
Per approfondire questi aspetti, sono utili le iniziative dell'associazione Paea e quelle di E’ nostra, fornitore di energia elettrica che nasce dalle esperienze di base e che propone trasparenza ed energie rinnovabili al 100% senza compromessi o furberie assortite.  Queste due realtà propongono momenti di formazione e informazione che favoriscono senza dubbio il cambiamento concreto.