lunedì 30 novembre 2015

Siria: E se fosse stato quel gasdotto che non s’ha da fare?

Nel 2009, dal Qatar sarebbe iniziato il progetto di un gasdotto che passa sul suolo del suo alleato saudita, poi in Giordania per poi transitare dal suo altro alleato turco, membro della NATO, per il rifornimento di gas in Europa.
Una bella squadra di alleati, Qatar, Arabia Saudita, Kuwait, Giordania e la Turchia, tutti grandi amici dello Zio Sam.
Però questo gasdotto, si vocifera che avrebbe urtato uno scoglio. Proprio per arrivare in Turchia, che rappresenta il ponte tra il Medio Oriente e l'Europa, deve inevitabilmente passare per la Siria. E qui casca l'asino, il presidente Assad che non svende la sovranità del suo Stato, principale attività dei politici europeisti e quindi si rifiuta di concedere il suo territorio per il transito del gasdotto citato prima, che avrebbe magari anche portato soldi alle casse di Damasco. Perchè?
Assad, forte della sua lunga amicizia con la Russia, non vuole danneggiare Mosca per la fornitura di gas in l'Europa se passasse sul suo territorio il gasdotto qatariota-saudita in concorrenza con quello russo. In sostanza il presidente siriano NON si è venduto per mantenere salda la sua alleanza con Putin.
Il progetto degli alleati del Golfo, rischia di andare in fumo, siamo già al 2011 e quindi, la primavera araba per "magia" si sposta anche in Siria. Tutto ad un tratto Assad diventa l'Hitler del Medio Oriente, colui che che usa i gas velenosi sulla sua popolazione. Notizia tra l'altro smentita quest'anno, ma all'epoca dei fatti servì per il Casus Belli americano contro il governo siriano.
Pertanto bisogna esportare la democrazia, ma invadere la Siria come è accaduto con l'Iraq, non va più di moda, almeno per il momento, ma ecco che dal nulla, come i funghi, un'organizzazione terroristica inizia una guerra "santa" prima in Iraq, che anche in questo caso si vocifera era nel progetto del gasdotto e poi in Siria. Che coincidenza!
Usa, gli aiuti a favore dei cosiddetti ribelli moderati continuano a cambiare strada
Ma ci sono anche i ribelli "moderati" (con l'ammissione che questi sono stati addestrati dagli americani), i quali diventano i papabili come soluzione alla Pax Siriana.
Perfetto, ora l'Occidente può fare la sua crociata per spodestare il legittimo ma cattivo presidente siriano, tralasciando le violenze inaudite perpetuate dai terroristi.
Ma questi, una volta rimosso Assad ed instaurato un governo magari amico o meglio voce del padrone occidentale, i vari ribelli-terroristi sarebbero scomparsi dal nulla, tramite un tasto di telecomando premuto dall'Occidente che avrebbe anche incassato anche questo secondo merito. Quindi aver cacciato via il terribile Assad, esportando la democrazia a suon di bombe come accaduto in Libia e poi magari convertire i terroristi in moderati per la "ricostruzione" del Paese. Fantastico!
Siria, Putin e Obama sono d’accordo: devono decidere i siriani
Ma le cose non vanno così, i siriani resistono, sono legati ad Assad che non lascia il suo popolo, riconoscente nei riguardi della Russia, che non è stata tradita ed ora direttamente in campo contro quei terroristi venuti alla ribalta dopo il fallimento del progetto di gasdotto, incredibile coincidenza astrale.
Ma l'Occidente non ci sta e quindi anche la Russia che sta rovinando il giocattolo atlantico, entra nel club dei cattivi, accusata di non bombardare i terroristi, bensì i "moderati" addestrati proprio dagli esportatori della "democrazia" come è stato ammesso da quest'ultimi.
Con la vittoria russo siriana e dei suoi alleati, l'Occidente ha perso la sua credibilità per una tubatura di gas come si vocifera e non solo…

domenica 29 novembre 2015

Quattro domande sulla privatizzazione di Fs

È lungo appena due righe il comunicato stampa con cui l'intero consiglio d'amministrazione delle Ferrovie dello Stato ha rimesso il proprio mandato. Due righe che non spiegano i motivi del gesto, che sono però forse da ricercare nella decisione del governo di procedere alla privatizzazione del 40% delle azioni della società (presa il 23 novembre scorso, durante il Consiglio dei ministri).
Restano così sul piatto alcune opzioni e possibili analisi della scelta del management.
La prima è che il gesto abbia voluto esprimere la contrarietà rispetto alla decisione dell'esecutivo, ma è probabilmente la meno "praticabile", perché le Fs si stanno preparando da mesi -se non da anni- a questo momento. Basti pensare, ad esempio, alla privatizzazione in corso del 100% di Grandi stazioni Retail, la società che gestisce gli spazi commerciali delle 13 maggiori stazioni italiane, o alla cessione a Terna della rete elettrica Fs, per un controvalore stimato di oltre mezzo miliardo di euro. Ha più senso perciò pensare che presidente, amministratore delegato e membri del CDA di Ferrovie abbiano voluto esprimere un segnale di dissenso al governo sui tempi e sui modi di questa comunicazione. Non è chiaro, e non lo è nemmeno leggendo il comunicato stampa del governo, "che cosa verrà privatizzato". Non si capisce, ad esempio, se si intende vendere anche l'infrastruttura, i binari, che oggi sono gestiti dalla controllata RFI, Rete ferroviaria italiana. Non è questione di poco conto: intanto, "l'infrastruttura" comprende tutta la linea per l'alta velocità (AV), sul quale lo Stato ha investito negli ultimi 25 anni oltre trenta miliardi di euro. Quanto verrebbe valorizzata?
Inoltre, solo nei prossimi anni sono sul piatto almeno altri 9 miliardi di euro di investimenti pubblici per lo sviluppo della rete, secondo quanto descritto nel più recente Contratto di programma tra Stato (azionista unico) e RFI: il Paese, cioè, continuerà ad investire a fondo perduto per la realizzazione della rete ferroviaria. Ma incassi, utili e dividendi verranno condivisi con un socio privato al 40%: il governo è sicuro che l'operazione sarà davvero remunerativa per lo Stato?
Per chi guarda all'operazione "dal basso", pensando ai milioni di utenti che ogni giorno affollano i treni italiani -in particolare quelli pendolari- resta in sospeso anche un'altra domanda: se, e in che modo, lo Stato confermerà il proprio ruolo come finanziatore del trasporto ferroviario regionale?
Resta poi aperta un'ulteriore questione: quando le Fs divennero una spa, negli anni Novanta, lo Stato conferì all'azienda immense proprietà immobiliari. Qualche anno fa Fs "contò" ben 5 milioni di metri quadrati di aree dismesse, ex scali merci da "valorizzare". Molti sono localizzate in aree centrali o semi-centrali delle maggiori città italiane. Erano parte del demanio pubblico, oggi la loro trasformazione è diventata un affare privato. Sarà possibile evitare possibili conflitti d'interesse, qualora gruppi immobiliari o bancari attivi nel settore dello sviluppo immobiliare diventeranno azionisti di minoranza delle ormai ex Ferrovie dello Stato?

venerdì 27 novembre 2015

Le "ragioni politiche" della Turchia dietro la decisione di abbattere un aereo russo

L'abbattimento del caccia russo, che non rappresentava alcuna minaccia per la Turchia, dimostra la "disperazione assoluta" che attualmente prevale tra gli attori che promuovono un cambio di regime in Siria e dietro questa mossa potrebbe nascondersi una manovra diversiva, sostiene Ranj Alaaldin, analista dell'Independent ed esperto sul Medio Oriente.
Da Sputniknews
In un articolo per l'Indipendent, l'esperto sul Medio Oriente, Ranj Alaaldin, analizza le possibili "ragioni politiche" dell'incidente avvenuto al confine turco-siriano ed esorta a "prestare attenzione" sulle vere motivazioni di Ankara.
Secondo Alaaldin, Erdogan è in preda alla disperazione: la politica del suo partito nei confronti della Siria negli ultimi quattro anni si è mostrata essere sbagliata.
Quando è iniziato il conflitto siriano, Ankara aveva sottovalutato la forza del regime di Bashar Assad ed aveva sostenuto i gruppi radicali islamici che volevano rovesciarlo. Allo stesso tempo la Turchia si è allontanata dall'Iran, osserva l'analista.
Quattro anni dopo è diventato chiaro che Assad è saldamente al potere in Siria e il suo regime avrà un ruolo chiave nella risoluzione del conflitto siriano.
Secondo l'analista, Assad e i suoi alleati godono ora non solo del sostegno della Russia, ma in aggiunta la comunità internazionale non richiede più lo scioglimento del regime siriano, ma si è ora focalizzata sulla lotta contro i gruppi radicali, come lo "Stato Islamico". L'Iran è diventato un giocatore chiave nella regione, che l'Occidente oramai non può più ignorare.
Per Erdogan questo riposizionamento dell'Occidente è un ostacolo importante, osserva l'analista: il lungo sostegno ai gruppi islamici radicali come il "Fronte Al-Nusra" e "Ahrar al-Sham" diverrebbe uno spreco di tempo e risorse.
Allo stesso tempo, secondo l'autore, Ankara conduce una violenta campagna per eliminare i curdi. Recentemente hanno dimostrato di essere un alleato affidabile dell'Occidente in Siria ed hanno istituito una regione autonoma, che ha contribuito a far rinascere il nazionalismo curdo in Turchia a dispetto di Ankara.
"La Turchia non è interessata ad una soluzione pacifica del conflitto siriano, che attualmente stanno discutendo le superpotenze mondiali. In preda alla disperazione, cerca di nuovo di concentrarsi sul regime di Assad, cercando in questo modo di compensare i suoi danni in Siria e i fallimenti geopolitici," — evidenzia Alaaldin.
Proprio per questo la decisione di abbattere un aereo russo potrebbe contenere "ragioni politiche", dice l'esperto, mettendo in risalto che il bombardiere russo Su-24 non rappresentava alcuna minaccia per la Turchia.
Per Erdogan potrebbe essere "un utile diversivo" che in particolare lo aiuterebbe a rafforzare la sua campagna militare contro i curdi. L'analista nota che questa tattica di Ankara nel lungo termine mina le possibilità di pace in Siria ed influisce negativamente sui tentativi dell'Occidente di sconfiggere ISIS.
"La Turchia ha per molti anni permesso ai jihadisti di prosperare: quindi attenzione alle vere ragioni per cui l'aereo russo è stato abbattuto," — sottolinea l'analista.
Una tesi simile è sostenuta dall'analista politico Dan Glazebrook nel suo nuovo articolo per RT.
Secondo l'analista, per spiegare "questa provocazione, apparentemente senza senso, è necessario passare attraverso più livelli di offuscamento che circonda i racconti occidentali sui Siria e i combattenti dello Stato Islamico".
Glazebrook sostiene che la crisi politica in Siria non è cambiata molto dall'inizio del conflitto nel 2011, "l'Occidente, la Turchia e le monarchie del Golfo stanno sponsorizzando una serie di squadroni della morte che sono determinati a rovesciare il governo siriano, mentre Russia, Iran, Iraq, Siria (ovviamente) e Hezbollah si opponfono a questo progetto. "
"L'ascesa dello Stato islamico non ha sostanzialmente cambiato le dinamiche di fondo", scrive l'autore. Glazebrook aggiunge che "nelle guerre civili, ci sono due fronti e in Siria la NATO rimane sullo stesso lato dello Stato Islamico".
A suo parere, l'inizio delle operazioni russe in Siria ha scatenato allarmismi "nel campo del cambiamento di regime".
"Stati Uniti e Regno Unito erano seriamente preoccupati che la Russia avrebbe effettivamente condotto una lotta efficace contro il gruppo e ristabilito l'autorità del governo".
"Fin dall'inizio, la chiave del successo dello Stato islamico è stato, prima, il poroso confine tra la Siria e la Turchia, attraverso il quale la Turchia ha permesso il libero flusso di combattenti e di armi, in entrambe le direzioni, nel corso degli ultimi quattro anni e in secondo luogo, gli enormi introiti che lo Stato Islamico ricava sia dalle vendite di petrolio che dai suoi donatori ", spiega Glazebrook.
"Nelle ultime settimane, questo è stato minacciato dall' alleanza guidata da Russia (e la Francia è sempre più disposta a farme parte)", aggiunge.
La scorsa settimana, prosegue l'esperto, è stata caratterizzata da «una grande offensiva terresstre siriana, sostenuta dalla copertura aerea russa, precisamente nella regione della frontiera siro-turca, che è la linfa vitale degli" squadroni della morte " .
Allo stesso tempo, la Russia ha lanciato una grande campagna contro la "flotta di navi cisterna" dello Stato islamico, che è "fondamentale per il successo finanziario" del gruppo terroristico.
"La frantumazione dell'industria petrolifera dello Stato Islamico non solo sarà un duro colpo per l'intero progetto di squadroni della morte, ma influenzerà direttamente la Turchia, che, è opinione diffusa, è coinvolta nel trasporto di petrolio estratto dai territori controllati dallo Sato Islamico e anche la famiglia stessa Erdogan, e il sospetto che la società gestita da suo figlio Bilal conduca questo commercio illegale ", ha detto Glazebrook.
Infine, l'autore ricorda "loffensiva contro i finanzieri dello Stato islamico" annunciata dalla Francia, che ha chiesto che gli altri paesi facciano lo stesso.
Secondo l'analista, questa misura "riguarderebbe non solo la Turchia e l'Arabia Saudita, ma anche la città di Londra, tenendo conto dei legami di Al Qaeda con HSBC".
"E oltre a tutto questo, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, infine, ha approvato una risoluzione che autorizza l'uso" di tutte le misure necessarie" contro lo Stato islamico, Al Qaeda e altri gruppi terroristici in Siria"-

giovedì 26 novembre 2015

Disuguaglianze economiche, Italia seconda peggiore al mondo

Quando si tratta di valutare le disuguaglianze economiche nei mercati industrializzati l’Italia e’ seconda al mondo. Peggio di noi fa solo Portogallo.
Lo indica l’ultima ricerca condotta sull’argomento dalla banca d’affari Morgan Stanley che ha passato in rassegna le principali economie industrializzate, esaminando indicatori tra cui il divario retributivo tra uomini e donne, lavoro part time non voluto e accesso a Internet.
Sulla base di questi parametri, come si evince dalla tabella sotto, a dominare la classifica ci sono i paesi del Sud Europa, che svettano nei primi posti, seguiti a ruota dagli Stati Uniti. In cima alla classifica dell’iniquità si posiziona il Portogallo, segue al secondo l’Italia, poi la Grecia, la Spagna e quindi gli Stati Uniti.
Secondo la banca d’affari americana, la crescita di economie come Cina e India hanno spinto in basso le diseguaglianze a livello mondiale tra i paesi ma non all’interno dei singoli paesi dove le disparità di reddito negli ultimi anni, complica anche la crisi economica, si sono accentuate.
Più basso il numero, più iniquo l'indice.
Analizzando la situazione nei paesi più avanzati, da metà degli anni Ottanta la forbice tra ricchi e poveri si è allargata soprattutto in Svezia anche se, insieme agli altri paesi della Scandinavia, il paese nordeuropeo si piazza ai livelli più bassi nella “classifica della vergogna”.

mercoledì 25 novembre 2015

“L’Isis ha la protezione armata di interi stati ai quali vende petrolio”.

«Se l'Isis ha questi soldi, che ammontano a decine, centinaia di milioni, forse miliardi di dollari, grazie alla vendita del petrolio, e per di più ha la protezione armata di interi stati allora è chiaro perché si comportano in maniera così arrogante e prepotente». E’ un Vladimir Putin furente quello che si è presentato oggi davanti ai giornalisti a Sochi, dove è impegnato in un bilaterale con il re di Giordania, Abdullah II. In mattina il suo portavoce, Dmitri Peskov, aveva annunciato un commento del presidente russo circa l’abbattimento del jet russo da parte delle forze aeree turche al confine con la
Siria.
Secondo la ricostruzione fornita dal Cremlino e dallo stesso Putin in persona, il caccia SU-24 non minacciava in alcun modo Ankara e non aveva affatto violato lo spazio aereo turco. «L’abbattimento del nostro jet è una pugnalata alla schiena condotta dai complici dei terroristi, non posso definirlo in altro modo», ha tuonato. «Noi – ha proseguito – faremo di tutto per indagare sulla vicenda, che avrà tragiche conseguenze nei rapporti tra Russia e Turchia». Il velivolo
delle forze armate russe è stato abbattuto 4 km dentro il confine siriano da missili aria-aria sparati da un F16 turco, mentre stava conducendo operazione contro le postazioni Isis a nord di Latakia. I due piloti del bombardiere russo sono riusciti ad eiettarsi in territorio siriano prima dello schianto del velivolo, ma uno dei due sarebbe morto, ucciso, secondo diverse fonti, dai ribelli che hanno diffuso le immagini del cadavere via Twitter. Elicotteri russi si sono levati in volo per salvare il pilota superstite.
Nei giorni scorsi la Komsomolskaya Pravda, uno dei maggiori quotidiani russi, aveva avvertito circa la possibilità di una risposta simile da parte di Erdogan allo strapotere di Mosca in Siria. Intanto Ankara ha convocato l'incaricato d'affari russo e ha ottenuto la convocazione d'urgenza del Consiglio Nato per questo pomeriggio, mentre Mosca ha risposto convocando l'attaché militare turco di stanza in Russia per alcuni chiarimenti. Per domani era in programma una visita distensiva a Istanbul del ministro degli Esteri russo, Serghei Lavrov, che però adesso rischia seriamente di saltare.
A far andare su tutte le furie Putin è stato il comportamento della diplomazia turca subito dopo l’abbattimento del jet. Gli uomini di Erdogan, come denunciato dallo stesso presidente russo, non si sono messi in contatto con le autorità russe, ma si «sono rivolti immediatamente ai partner della Nato per discutere dell’incidente. Si sono comportati come se noi avessimo abbattuto un loro aereo e non loro uno nostro». Il capo del Cremlino ha lanciato accuse pesanti nei confronti di Ankara, parlando di una vera e propria alleanza tra la Turchia e i tagliagole dello stato islamico. «Capisco che ogni Stato ha i propri interessi regionali e noi li rispetteremo sempre, ma non possiamo tollerare crimini come quello di oggi. Non riusciamo a capire se la Turchia voglia mettere la Nato al servizio dell’Isis. Hanno colpito i nostri aerei nonostante gli accordi firmati da Russia e Usa per evitare questo tipo di incidenti. Loro hanno una grande quantità di petrolio proveniente dai territori occupati dai terroristi»

martedì 24 novembre 2015

Francia dopo la paura: Stato di emergenza o emergenza di Stato?

Una settimana dopo gli eventi che il 13 novembre scorso hanno scosso la capitale francese e il mondo intero, la popolazione parigina cerca timidamente di ritornare alla normalità. Ma a ricordare l’eccezionalità della situazione che vive la Francia in questo momento, un’enorme operazione militare scatta mercoledì 16 novembre nelle prime ore del giorno, nel pieno centro di Saint Denis. Questa cittadina della prima periferia industriale alle porte di Parigi spesso accostata al termine dispregiativo di “banlieue”, ospita tra le altre cose lo Stade de France, obiettivo di alcuni degli attacchi suicidi della scorsa settimana.
Un’azione di polizia, definita di “rara violenza” da Le Figaro, è intervenuta per disintegrare una cellula jihadista che sarebbe al centro dell’organizzazione degli attentati di Parigi reclamati dall’ISIS. Come confermato dal procuratore di Parigi François Molins questo “assalto di estrema difficoltà”, coordinato dalla sotto direzione antiterrorismo della polizia giudiziaria, è cominciato alle ore 4.20 e continuato per più di sette ore durante le quali oltre cinquemila colpi sono stati sparati dalle forze dell’ordine. Quest’azione di “guerra urbana”, che ha portato all’uccisione di tre terroristi, tra i quali l’ideatore degli attentati del 13 novembre Abdelhamid Abaadou, ha scatenato il panico tra gli abitanti di Saint Denis, svegliati in piena notte da esplosioni, raffiche di armi da fuoco, e dalle sirene dei mezzi di polizia. L’idea che comincia a circolare nelle lunghe ore della notte di mercoledì è quella di un nuovo attacco terroristico, notizia immediatamente smentita dalle fonti ufficiali che annunciano inoltre sette domande di custodia cautelare e numerosi indagati.
Il livello di tensione e di sconforto resta molto alto tra la popolazione di Saint Denis. La presenza di una cellula terrorista pronta a pianificare un nuovo attacco ha sconvolto gli abitanti di questa città vivace e cosmopolita, dove differenti comunità convivono da sempre. La condanna unanime a questo nuovo tipo di radicalizzazione lascia trasparire una punta di timore. Alcune delle testimonianze raccolte comparano la paura generata da questi eventi con la stagione del terrorismo islamista in Algeria negli anni ’90, vissuta da molti degli abitanti di Saint Denis poi venuti a rifugiarsi in quello che oggi è diventato il loro “nuovo” paese. Una situazione che colpisce in maniera trasversale e indiscriminata tutta la società, francesi e stranieri, cristiani, ebrei o musulmani: tutti sono potenziali vittime di questa nuova minaccia terrorista contro la quale la Francia è in guerra.
Il termine guerra è sempre più adatto a descrivere la situazione politica che caratterizza la Francia in questa settimana post attentati. La decretazione dello stato d’emergenza durante il Consiglio dei Ministri immediatamente successivo agli eventi del 13 novembre ha esteso ampiamente i poteri dell’apparato di sicurezza su tutto il territorio nazionale. Dall’entrata in vigore dello stato d’emergenza, dichiara il ministro dell’interno Bernard Cazeneuve, le forze di sicurezza hanno potuto procedere a oltre 793 perquisizioni domiciliari che hanno portato al sequestro di 174 armi di cui 18 armi da guerra. Oltre 90 sospetti sono stati messi in custodia cautelare nel corso di un’enorme inchiesta che conferma la tendenza della modalità d’azione vista a nell’incursione di Saint Denis. La “guerra al terrorismo” dichiarata da Hollande si apre quindi su più fronti, mettendo il presidente al centro del dibattito sia in Francia che all’estero. Sul fronte interno, la chiusura delle frontiere e l’estensione per via legislativa dello stato d’emergenza sono misure che mettono in evidenza la volontà del governo di dialogare con le opposizioni parlamentari nella gestione della crisi. Il richiamo di Hollande all’unità nazionale, espresso a suon di marsigliese al parlamento riunito in seduta comune nella sala del Congresso a Versailles, dimostra la volontà del presidente di ricostruire intorno a sé un’ampia base a sostegno del suo mandato.
Il presidente ha in questo senso incaricato il primo ministro Manuel Valls di proporre un progetto di riforma costituzionale dello stato d’emergenza da approvare con il ricorso alla maggioranza qualificata di tre quinti, ciò che impone la ricerca del più ampio sostegno nell’emiciclo. Una sorta di “compromesso storico”, quello cercato da Hollande, che non corrisponde ai progetti politici di Sarkozy e Marine Le Pen, aspiranti presidenti della République alle prossime elezioni del 2017.
Nel corso della settimana, il clima d’intesa raggiunto tra le maggiori forze politiche sul prolungamento dello stato d’urgenza, permette una rapida navette tra Assemblea Nazionale e Senato, con l’approvazione di un testo di legge, che prevede tra l’altro delle misure temporanee sul controllo delle frontiere e sul porto d’armi degli agenti di pubblica sicurezza quando non in servizio. Ma la scadenza delle elezioni regionali, previste in Francia i primi giorni di dicembre interviene pesantemente in un dibattito che mantiene forti toni da campagna elettorale. Il leitmotiv dell’opposizione, riproposto della destra neogollista di Sarkozy, è quello del fallimento della politica della presidenza di Hollande in materia di sicurezza del paese e di lotta anche internazionale al terrorismo di matrice ISIS.
Già ideologo della soluzione militare in Libia nel 2011, Nicolas Sarkozy sostiene da qualche tempo la necessità di riaprire il canale diplomatico con Mosca, al fine di costituire una coalizione internazionale per intervenire nel conflitto siriano. La decisione di Hollande di rafforzare il dispositivo militare francese in Siria e di rilanciare il dialogo internazionale sulla questione, può essere considerata come una reazione che si avvicina profondamente alle posizioni della destra di Sarkozy e dei suoi elettori. Il presidente ha rafforzato i
bombardamenti dell’aviazione francese su obiettivi strategici situati nella zona Raqqa, capitale dell’ISIS in territorio siriano. Inoltre, Il prossimo arrivo al largo delle coste siriane della portaerei Charles De Gaulle permetterà alla Francia di triplicare la capacità di fuoco nel quadrante sud est del mediterraneo, confermando la determinazione francese nella sua azione di “guerra”.
Ma nella guerra al terrorismo già dichiarata dal presidente Hollande in Sahel e in Siria, il fronte “interno” rappresenta una dimensione inedita. Una questione da porsi è quella del costo, non solo politico ma anche economico di questa guerra, considerando come anche la Francia sia alle prese con una difficile ripresa e conti che non tornano. Il Ministro delle Finanze Michel Sapin annuncia in previsione un incremento della spesa per la difesa e la sicurezza nazionale per un totale di 1,2 miliardi di euro considerando i costi determinati dall’aumento delle operazioni militari dell’esercito francese in Siria. Un’ora di volo di un caccia Rafale è stata stimata in circa 40 mila euro e un’azione tipo di bombardamento come quello svolto a Raqqa all’indomani degli attentati può costare al contribuente francese più di 2,4 milioni di euro. In questi termini, il Front National di Marine Le Pen che esulta alla decisione della chiusura delle frontiere francesi, si oppone all’intervento in Siria chiamandosi fuori da una guerra che “Sarkozy voleva e che Hollande farà” e
contraria agli interessi dei francesi.
Lo scenario politico che si è aperto all’indomani degli attentati di Parigi lascia parecchi dubbi sulla modalità di coordinamento dell’intervento internazionale in territorio siriano nel prossimo periodo. Nel versante della politica interna è certo che il tema politico della guerra al terrorismo rappresenterà un elemento importante della prossima campagna presidenziale. Il destino politico di Hollande è legato ormai alla sua capacità di gestire la situazione di crisi e di raggiungere il suo obiettivo dichiarato: distruggere l’ISIS.

lunedì 23 novembre 2015

Sanità pubblica tra liste d’attesa e ticket

Chi l’ha detto che la salute non ha prezzo? Liste d’attesa lunghissime, ticket eccessivamente gravosi, assistenza territoriale in affanno, malpractice e servizi per la salute mentale fuori uso: a fare le spese per le inefficienze di un Sistema Sanitario Nazionale sempre meno accessibile, i cittadini. Con la soluzione di rivolgersi progressivamente alle prestazioni sanitarie private.
Stando a quanto riporta il XVIII Rapporto PiT Salute 2015 Sanità pubblica, accesso privato, redatto da Cittadinanzattiva, al primo posto della classifica delle difficoltà segnalate, ci sono i tempi di attesa.
Esami diagnostici, interventi chirurgici e visite specialistiche possono attendere: mediamente, per una risonanza magnetica tredici mesi, per un’ecografia nove, per una mammografia dodici, per una colonscopia otto e per un elettrocardiogramma sette.
Esami (in generale) per i quali si registra anche un aumento del ticket. Altra frizione, l’esenzione del pagamento non solo troppo elevato, ma, relativamente al quale, spesso, le informazioni complete e corrette scarseggiano finanche alla mancata applicazione per imperizia del medico prescrivente o per mancata indicazione dei pazienti.
Numerose le prestazioni a costo pieno. Oltre che per l’acquisto dei farmaci, il peso del ticket sulla diagnostica e la specialistica sta diventando sempre più oneroso, così come i costi per le prestazioni in intramoenia, da dover sostenere per affrontare tempestivamente il bisogno di cura negato dalla sanità pubblica.
Un servizio, pure quello, di malpractice, al secondo posto nella graduatoria delle preoccupazioni dei cittadini: errori terapeutici - in ortopedia, chirurgia generale e oculistica e diagnostici in oncologia, ortopedia, ginecologia e ostetricia -; condizioni inaccettabili delle strutture, disattenzione del personale sanitario, infezioni nosocomiali e da sangue infetto.
Negate le visite a domicilio o il rilascio di una prescrizione da parte del medico di famiglia che originano lamentele sull’assistenza sanitaria di base. Voce, al terzo posto della lista, che turba il 30,1 per cento dei cittadini. Compresa la riabilitazione, carente o di scarsa qualità nei servizi ospedalieri e raramente attivabile a domicilio. In difficoltà anche la ASL che risentono della mancanza di fondi pure per il rinnovo o l’acquisto di apparecchiature.
In ultimo, ma fondamentali, i servizi per la salute mentale. Problema ormai cronico e ingravescente per l’assenza di risorse e di personale, le criticità più segnalate sono il ricovero in strutture inadeguate, la difficoltà di accesso alle cure pubbliche - per una visita psichiatrica, l’attesa è di tredici mesi - e le pratiche relative alle procedure di Trattamento Sanitario Obbligatorio.
Il 75,4 per cento reclama inefficienze relative ai servizi ricevuti in ospedale, soprattutto nella rete emergenza-urgenza: l’attesa per l’accesso al pronto soccorso rappresenta il più rilevante dei problemi. Seguito da quello della mobilità sanitaria. Sani a tutti i costi, certo. E a caro prezzo.

domenica 22 novembre 2015

Mali: interessi occidentali e malavita locale dietro la strage di Bamako

Almeno 27 morti è il bilancio provvisorio di un attacco terroristico a Bamako, capitale del Mali: intorno alle 7 del mattino un gruppo, stimato al momento in 13 uomini, è penetrato nell’Hotel Radisson Blue prendendo in ostaggio circa 170 persone. L’albergo, il più elegante della città, è frequentato da occidentali, personale di volo delle linee aeree straniere, uomini d’affari e di Governo.
Nel pomeriggio è scattato un blitz in due tempi: il primo per liberare gli ostaggi, il secondo per setacciare le 190 stanze ed eliminare i terroristi asserragliati per ore nella struttura. All’attacco avrebbero partecipato Forze Speciali francesi giunte nel pomeriggio ed elementi di quelle americane, per supportare gli impreparati reparti locali.
Secondo una dichiarazione resa da un Ministro maliano, al termine dell’operazione, dichiarata conclusa intorno alle 19, tutti gli ostaggi superstiti sarebbero stati liberati ed i terroristi uccisi.
L’azione, la cui dinamica nel tardo pomeriggio non è del tutto chiara, ha controverse paternità: secondo Al-Jazeera i terroristi apparterrebbero ad Ansar al-Dine, secondo ambienti della sicurezza del Mali sarebbero miliziani di Al-Mourabitoun, il gruppo guidato da Moktar Belmoktar, con connotazioni apertamente banditesche e criminali, che avrebbe già rivendicato il massacro.
Sia come sia, malgrado l’immediato clamore dei media e i sermoni dei sedicenti esperti, l’attacco ha finalità e scopi totalmente slegati dalla partita aperta in Medio Oriente, ed è collegato strettamente ad interessi economico-politici locali.
Legionari francesi in azione di pattuglia in Mali
Legionari francesi in azione di pattuglia in Mali
Come abbiamo più volte ribadito, il Sahel è una costellazione di Stati semifalliti sull’orlo dell’implosione, dove bande criminali assumono etichette per coprire traffici puramente delinquenziali.
Il Mali era stato quasi travolto nel 2012-13, salvato solo dall’intervento di Parigi che nell’area ha interessi enormi; paras e legionari hanno stabilizzato la situazione permettendo a Boubakar Keita di vincere le elezioni e insediare un Governo basato sulle solite promesse di un radicale cambiamento. Da allora corruzione e malgoverno hanno continuato a dilagare peggio di prima, sotto lo sguardo complice della comunità internazionale che vi mantiene una massiccia quanto inconcludente missione Onu, la Minusma, che impiega 12mila uomini solo per puntellare un regime corrotto quanto inetto.
Nel giugno scorso, a Parigi sono stati siglati degli accordi di pace che tutti sapevano essere di facciata, perché non solo hanno lasciato volutamente fuori gruppi come Ansar Al-Dine e Al-Mourabitoun (come se gli altri collegati strettamente ad Al-Qaeda fossero boy scout) ma, per non scontentare nessuno, non hanno toccato i problemi di fondo del Paese.
In buona sostanza s’è trattato d’un accordo con un gruppo di capicosca, che la diplomazia, sotto la spinta di Governi e multinazionali, voleva raggiungere ad ogni costo per “pacificare” il Paese e permettere che lo sfruttamento dell’area (e i traffici che l’attraversano) continuasse. Il risultato è stato un nord del Paese rimasto fuori controllo malgrado la presenza del contingente Onu, e la minaccia solo rinviata.
L’attacco di venerdì, che tutti gli esperti veri s’aspettavano, ha un duplice scopo: da un canto destabilizzare un Governo tale solo di nome, delegittimandolo dinanzi alla comunità internazionale da cui dipende; dall’altro dare un brusco segnale ai Paesi ed alle multinazionali che hanno voluto gli accordi di Algeri, dimostrando che senza gli autori dell’azione sono lettera morta.
Un avvertimento mafioso in piena regola da parte di chi conosce bene gli immensi interessi che sono in ballo.
Il controllo del Sahel e delle sue carovaniere, permette traffici enormi di cocaina dal Sud America ed hashish dal Marocco diretti in Europa, oltre a quelli sempre più redditizi di esseri umani, e poi di armi, di sigarette, alcolici e così via. Inoltre, a parte i taglieggiamenti delle Major che sfruttano i campi di petrolio e gas più a nord, nel Sahara, ci sono le altre ricchezze minerarie del Sahel; soprattutto quell’uranio, vitale per la Francia, gestito dal colosso minerario Areva.
Dalle miniere di Arlit e Akokan in Niger e delle altre in Centrafrica, Parigi tira fuori a prezzi stracciati il fabbisogno per le sue centrali e il suo arsenale militare; per questo è così attiva nell’area e nell’agosto del 2014 ha lanciato l’Operazione Barkhane, che unifica (potenziandole) tutte le sue missioni precedenti. Una forza di almeno 4mila uomini fra paras, forze speciali, reparti scelti e legionari (che Hollande ha deciso a ottobre di portare a 6mila) suddivisa fra Niger, Ciad e Mali, organizzata fra basi operative e basi avanzate che coprono non solo gli accessi alle zone minerarie ma anche gli snodi carovanieri, per avere il controllo di un territorio giudicato strategico.
L’attacco di Bamako è un brutale avvertimento a fare i conti con chi di quel territorio si sente padrone, e Belmokhtar, autore della più accreditata rivendicazione, è abituato a simili intimidazioni, come ha già fatto nel 2013 con l’attacco alla raffineria di In Imenas in Algeria.
Con buona pace dei tanti commentatori e media che continuano a prefigurare apocalittici scontri di civiltà o a mettere l’Islam di mezzo, è stato un raid di stampo delinquenziale, a tutela dei propri traffici ed a rivendicazione di un controllo criminale.

sabato 21 novembre 2015

Autocensura: morti per le guerre 180 mila l’anno, per l’inquinamento 3,7 milioni

A proposito del silenzio dei media su alcune questioni che riguardano l’ecologia e tutto il resto.
Come mai si parla così poco del dramma dell’inquinamento? C’è una serie di argomenti che è buona educazione non affrontare… Cose che non è il caso di dire sull’ecologia, su Berlusconi, su Renzi, sulla guerra e sul sesso. L’inquinamento delle metropoli è un dramma che uccide ogni anno 20 volte di più di tutte le guerre e gli attentati terroristici messi assieme.
Questa guerra ai polmoni della gente colpisce l’Italia più degli altri paesi europei: la pianura Padana è un disastro nonostante recentemente ci sia stato un lieve miglioramento, ogni anno muoiono prematuramente più di 30 mila persone. Il che vuol dire che il numero dei morti inquinati è addirittura 60 volte quello di tutti gli omicidi perpetrati in Italia, da mafiosi, pazzi e criminali comuni (nel 2014 gli omicidi sono stati 468). Ma lo spazio che i media dedicano ai morti per inquinamento è 6 mila volte meno rispetto a quello dedicato agli omicidi.
Che i media ne parlino poco si può capire, che ne parlino poco gli ecologisti invece appare assurdo. Perché il numero dei morti per inquinamento non è tra i temi preferiti degli ecologisti? Perché è un tema fastidioso. Si incazzano i sindaci e si incazzano pure gli inquinati… Ma io credo che il dovere degli intellettuali sia anche quello di raccontare cose scomode.
Ci sono intellettuali che leccano tutti i culi possibili e intellettuali che adorano raccontare la verità. Ma esiste anche una terza categoria di intellettuali, estremamente numerosa: i bene educati. Essi non mentono, semplicemente non la dicono tutta.
Bruno Vespa sicuramente guadagna potere e soldi osannando i presidenti di turno ed esercitando l’antica arte del voltagabbana.
Ma lui almeno lo fa a viso aperto. E se vogliamo fornisce un servizio culturale: ascolti cosa dice e sai esattamente cosa il potente di turno vuole farti credere.
Trovo molto più spregevoli e oserei dire anche un po’ disgustosi, quelli che si dichiarano acerrimi paladini dell’ambiente, nemici di B., Renzi e le lobby criminali e paracriminali e ovviamente anche pacifisti, femministi, antirazzisti… Ma mai, in nessun caso, commettono l’errore di dire qualche cosa che per i potenti è intollerabile.
Così si prendono gli applausi dei progressisti, a volte riescono perfino a passare per eroi dell’informazione indipendente ma non perdono mai il contratto Rai, la promozione sui giornali che contano, la collaborazione con case editrici importanti e rinomate università. Potere e soldi.
Nella mia lunga e fortunata vita mi sono concesso il lusso di scoreggiare in faccia ai potenti. Non credo sia stato eroismo, essendo figlio di papà e di cotanta mamma me lo sono potuto permettere. Comunque ho sperimentato la rapidità e la ferocia della reazione del sistema agli atti di insubordinazione culturale. E credo sia utile raccontarti che cosa ho imparato a proposito della sottile linea rossa che separa un oppositore ben educato da uno che va punito. Ecco quindi una breve sintesi su cosa si può dire e cosa non si può dire nel meraviglioso mondo dei culi molli.
Restando nel campo dell’ecologia puoi parlare quanto vuoi del cambiamento climatico, perché i colpevoli non si capisce bene chi sono… le lobby… i politici… Inoltre oggi, dopo che il bubbone è scoppiato, si può imprecare contro l’orrore di Taranto. Ma non devi per nessun motivo parlare di Aversa, e se dici che c’è il doppio della diossina che c’era a Seveso e quindi tutta l’area va evacuata sei un maleducato e ti tolgono l’audio al microfono e poi non ti fanno più recensioni.
E qual è il punto sotto la cintura di B. che non devi colpire mai? Riflettete su quante terribili accuse sono state mosse all’ex Cavaliere. Ma c’è una cosa che avete sentito solo raramente sussurrare. Eppure avrebbe fatto inorridire i suoi elettori benpensanti, avrebbe fatto insorgere i vescovi, avrebbe scatenato crisi isteriche nelle persone per bene: Mediaset vende pornografia sulle sue reti a pagamento: sodomia, omosessualità, stupri. Ma quale leader politico di destra potrebbe sopravvivere a questa infamante verità?
E perché così pochi si sono ricordati di dire che la Mondandori ha quote rilevanti di un casinò on-line? Pornografia e gioco d’azzardo arricchiscono il grazioso mondo di B. parlarne è proprio da maleducati.
Ok, lo spazio è finito, di quel che non si può dire su Renzi, sulla guerra e sul sesso te ne parlo nel prossimo articolo. Dal titolo: Sesso e politica: 5 cose da non dire se vuoi essere simpatico al potere. E scriverò di sesso. Poco Renzi e molto sesso.

venerdì 20 novembre 2015

G. W. HOLLANDE

"Siamo una nazione pacifica. Ma, come abbiamo imparato, così improvvisamente e così tragicamente, non ci può essere pace in un mondo di improvviso terrore. Di fronte a questa nuova minaccia di oggi, la sola via di perseguire la pace è di perseguire coloro che la minacciano. Non abbiamo cercato questa missione, ma ci impegneremo in pieno in essa.
Il nome dell'operazione militare di oggi è Libertà duratura. Noi difendiamo non solo la nostra preziosa libertà, ma anche la libertà di tutti gli altri popoli a vivere e crescere i loro bambini liberi dalla paura. Dall'11 settembre, un'intera generazione di giovani americani ha raggiunto una nuova comprensione del valore di libertà, dei suoi costi, della missione e del suo sacrificio. La battaglia è ora ingaggiata su molti fronti. Non tergiverseremo, non ci stancheremo, non vacilleremo e non falliremo. La pace e la libertà avranno la meglio. Grazie. Che Dio benedica l'America".
George W. Bush 7 ottobre 2001

"La Francia è in guerra: ci attaccano perché siamo il paese della libertà e la patria dei diritti dell’uomo. Non siamo in una guerra di civiltà, perché questi assassini non ne rappresentano certo una. Siamo in una guerra contro il terrorismo jihadista che minaccia il modo intero. Invito tutti i francesi a dare nuovamente prova delle loro virtù: la perseveranza, l’unità e il sangue freddo. Pensiamo a quelle centinaia di giovani, di persone che sono state toccate, ferite e traumatizzate da questo terribile attacco. La magistratura deve poter usare tutti i mezzi permessi dalle nuove tecnologie per condurre le proprie indagini. Distruggeremo il terrorismo. I terroristi non distruggeranno la Repubblica perché è la Repubblica che distruggerà loro"
François Hollande, 16 novembre 2015
129 persone sono state uccise nella capitale francese, Parigi, in una serie di attacchi coordinati.
Alcuni analisti e media hanno soprannominato gli attacchi "l’11 settembre della Francia" in riferimento agli attacchi dell’11 settembre del 2001 negli Stati Uniti.
Nel 2001, il presidente Usa George W. Bush rispose agli attacchi lanciando la sua "guerra al terrore" e invadendo l'Afghanistan nel giro di un mese per dare la caccia a Osama bin Laden e colpire Al Qaeda, che gli Stati Uniti hanno accusato degli attacchi.
Il presidente francese François Hollande ha risposto agli attentati a Parigi annunciando lo stato di emergenza, chiudendo i confini del paese e mobilitando l'esercito. Meno di 48 ore dopo la strage, le Forze Aeree francesi hanno sganciato 20 bombe sulla capitale dell’Isis in Siria, Raqqa.
"Questi omicidi di massa avevano lo scopo di terrorizzare la nazione gettandoci nel caos e facendoci battere in ritirata. Ma hanno fallito. Il nostro paese è forte. Un grande popolo è stato mobilitato per difendere una grande nazione. Gli attacchi terroristici possono scuotere le fondamenta dei nostri più grandi palazzi, ma non possono intaccare le fondamenta dell’America. Queste azioni mandano in frantumi l’acciaio, ma non possono intaccare la determinazione d’acciaio dell’America. L’America è stata l’obiettivo di questi attacchi perché siamo il faro più luminoso per libertà e opportunità in tutto il mondo", furono le prime parole di Bush dopo gli attacchi.
"È un atto di guerra commesso da un esercito di terroristi, l’ISIS. Di fronte al terrore, la Francia deve essere forte, deve essere grande e le autorità dello Stato devono essere ferme. Lo saremo", ha detto Hollande nel suo discorso al popolo francese a seguito degli attentati di venerdì.
Questo inasprimento della politica estera francese e la dimostrazione che “siamo in guerra” serve per giustificare nuove misure di sicurezza, tra cui la proroga di tre mesi dello stato di emergenza, a discapito dei diritti della popolazione.
Parlando di un "atto di guerra" pianificato in Siria, organizzato in Belgio con la collaborazione di complici in Francia, e commesso da "un esercito terrorista", e sostenendo che "tutti vogliono attaccare la Francia perché siamo il paese della libertà e la patria dei diritti dell’uomo”, Hollande sembra ripercorrere le fallimentari politiche dell’amministrazione Bush e la sua" guerra al terrorismo" dopo gli attacchi sul suolo americano dell’11 settembre 2001.
In questo contesto, l'Eliseo vuole modificare la legge dell 1955 sullo stato di emergenza, in particolare in relazione al "perimetro" e alla "durata", attualmente limitata a 12 giorni senza un voto del Parlamento. Hollande ha anche detto che la Costituzione francese deve essere modificata per adattarsi meglio alla guerra contro il terrorismo. E che la magistratura deve poter “usare tutti i mezzi permessi dalle nuove tecnologie” per condurre le proprie indagini. E, infine, la prosecuzione dell'intervento in Siria sarà discussa e votata all’Assemblea Nazionale il 25 novembre, sebbene Hollande abbia già annunciato che le operazioni militari francesi in Siria proseguiranno nelle prossime settimane.
Cos’è successo dopo l’11 settembre? Le politiche dell’amministrazione Bush si sono rivelate controproducenti, nessuno degli obiettivi strategici degli Stati Uniti è stato raggiunto, e il "Nuovo Medio Oriente", a cui l'amministrazione Usa ambiva così disperatamente, è diventato un terreno fertile per lo stesso "terrorismo" che gli americani dovevano combattere.
Cosa è successo in America dopo l’11 settembre? Dopo l’11 settembre fu varato il Patriot Act, una legge liberticida che ha aumentato enormemente il potere delle agenzie di intelligence degli Stati Uniti, e ha, tra le altre cose, permesso ai servizi segreti di sorvegliare, senza mandato della magistratura, i cittadini americani e non solo.
Cos'è successo in Francia pochi giorni dopo gli attacchi contro la sede di Charlie Hebdo e il supermercato kosher di Vincennes? il governo francese ha annunciato nuove misure per controllare meglio Internet. Lo scorso giugno la camera bassa del Parlamento francese, l'Assemblea nazionale, ha approvato una legge sulla sorveglianza. La legge autorizza le agenzie di intelligence del paese ad espandere le loro attività di sorveglianza.
La storia si ripete. Nonostante quattordici anni di guerra al terrorismo, il terrore sembra essere con noi più che mai, forse anche di più. E' tempo di ripensare quello che abbiamo fatto e stiamo facendo.
Da quel giorno, nel 2001, i governi hanno spiato i propri cittadini, ma questo non ha fermato gli attacchi di Parigi. Le persone hanno rinunciato a molte delle loro libertà, ma questo non ha fermato gli attacchi di Parigi. Dal 2001 ci sono state guerre in Iraq, Afghanistan, Libia, Siria; queste guerre non hanno sconfitto il “terrore” ma hanno creato stati falliti che sono diventati dei rifugi per i terroristi che volevamo combattere; il solo decennio seguito all’11 Settembre è costato la vita a circa 2 milioni di musulmani in Iraq, Afghanistan e Pakistan. Migliaia di persone sono state uccise dagli attacchi dei droni dalle Filippine al Pakistan, all’Africa. Altre sono state torturate a morte. Le vittime del terrorismo sono quintuplicate dagli attacchi dell’11 settembre 2001 ad oggi. La “guerra al terrore” lanciata dagli Usa è costata 4.400 miliardi di dollari, spesi nelle guerre in Iraq, Afghanistan e in operazioni antiterrorismo in giro per il mondo. Nel 2014, le forze delle operazioni speciali (SOF) statunitensi erano presenti in 133 paesi e le forze d’élite americane in 150.

giovedì 19 novembre 2015

Dietro alla furia iconoclasta dell'Isis un business da milioni di dollari

Poche settimane fa Paolo Gentiloni e Dario Franceschini, rispettivamente ministri degli Esteri e dei Beni e delle attività culturali e del Turismo, celebravano il "successo" per il "sì" del Consiglio esecutivo dell'Unesco alla proposta italiana di istituire meccanismi per l'uso dei "caschi blu della cultura".
Una task force internazionale dunque che dovrà intervenire laddove il patrimonio dell'umanità viene messo a rischio da catastrofi naturali o da attacchi terroristici. La decisione è infatti arrivata dopo i video pubblicati dallo Stato Islamico sulla distruzione dei siti archeologici (Nimrud, Hatra, Khorsabad, Palmira) in Iraq e in Siria da parte dei suoi miliziani. Peccato però che gli indignati non fanno altro che rinsaldare la strategia mediatica e le casse del Califfato invece che impedire questo scempio. In realtà dietro alla furia iconoclasta si nasconde un business da milioni di dollari.
A rivelarlo è stata l'archeologa francolibanese Joanne Farchakh intervistata dal giornalista Robert Fisk per l'Independent. "L'Isis prima vende le statue, i reperti, qualunque cosa richiesta dai compratori sul mercato internazionale - racconta al quotidiano inglese - prende il denaro e poi fa saltare in aria il tempio da cui queste cose provenivano così da distruggere tutte le prove". Da un lato dunque le riprese possono essere vere e proprie messe in scena per nascondere questo commercio di statue, ceramiche, mosaici, bassi rilievi, monete, frontoni di pietra e affreschi; dall'altro può accadere che la demolizione avviene solo parzialmente così da non far sapere quali pezzi sono stati venduti dopo il saccheggio. La scoperta di questo traffico occulto che coinvolge Stato Islamico, compratori privati delle capitali del mondo dell'arte e gruppi organizzati della criminalità turca, i quali permetterebbero il transito verso l'Europa e gli Stati Uniti, è stato ampiamente documentato da diversi esperti.
Tra questi Mark Altaweel, archeologo americano di origini irachene nonché docente all'Università College di Londra, il quale in un'intervista rilasciata all'emittente televisiva Russia Today ha mostrato i siti di antiquariato inglesi che vendono a prezzi stratosferici resti artistici provenienti da Siria e Iraq.
Altaweel è una figura molto autorevole tanto che il quotidiano The Guardian si era fatto portare quest'estate a spasso nella regione per svolgere un'inchiesta volta a scoprire il luogo di provenienza di molti oggetti sparsi nel mercato occidentale dell'antiquariato.
Le sue conclusioni vanno nella stessa direzione di quelle di Joanne Farchakh che nell'intervista ha spiegato come "l'Isis ha saputo imparare dai suoi errori, quando iniziò a distruggere i siti in Siria e in Iraq, arrivarono con i martelli, gli autocarri, distrussero ogni cosa più velocemente possibile e ne fecero un filmato brevissimo. Nimrud venne fatta saltare in aria in un giorno, ma il filmato che ne uscì fu di soli 20 secondi. Non so quanta sia l'attenzione che si può catturare con un video così breve". Ora però che ci sono i compratori è cambiata la strategia. L'arte è un business raffinato quanto quello del petrolio e delle armi.
Adesso infatti - spiega l'archeologia franco libanese - "l'evento viene annunciato da una grande esplosione, poi arrivano, frammentate, le sequenze dettagliate di quello che è avvenuto. Come con la distruzione di Palmira dove sono state documentate prima le esecuzioni dei soldati siriani nel tempio romano, poi sono stati mostrati gli esplosivi legati attorno alle antiche colonne, ancora la decapitazione del coraggioso custode in pensione del tempio e soltanto alla fine la distruzione del sito. Un evento costruito ad arte sia per i media, che ormai si erano rifiutati di mandare in onda altro sangue, sia per i mercanti d'arte, perché "più a lungo dura la devastazione, più salgono i prezzi dei reperti rubati". Insomma i "caschi blu della cultura" più che recarsi nelle aree minacciate dallo Stato Islamico dovrebbero seguire il traffico occulto che conduce nelle principali capitali occidentali.

mercoledì 18 novembre 2015

I GUANTI DI PUTIN

Putin si leva i guanti e parla di relazioni finanziarie tra paesi del G20 e ISIS
Al summit del G20 summit, Putin denuncia gli stati membri di sostenere il terrorismo
Come a volte succede al cinema, durante il summit G20 di Antalya, Putin, il Presidente russo, ha portato le prove che gli stati del G20 forniscono appoggi finanziari all' ISIS… Poi parlando con i giornalisti, dopo il summit, Putin ha detto:
Ho presentato esempi con dati sul finanziamento fornito alle unità dello Stato islamico da parte di persone fisiche di diversi paesi. Il finanziamento proviene da 40 paesi, come abbiamo stabilito, tra cui alcuni sono anche membri del ‪#‎G20‬.
Putin ha presentato anche delle immagini satellitari che mostrano come si svolgono le redditizie attività di contrabbando petrolifero nello Stato islamico.
Ho dimostrato ai nostri colleghi, con chiare immagini dallo spazio, la vera dimensione del commercio illegale di petrolio e del mercato dei prodotti petroliferi. Convogli di auto, che si allungano per decine di chilometri, arrivano fin dopo l'orizzonte se si osservano da un'altezza di quattro-cinque mila metri.

È interessante notare che, subito dopo il vertice, gli Stati Uniti hanno annunciato che i loro aerei avevano iniziato a bombardare i convogli dell'ISIS ed i camion usati per "contrabbandare il petrolio greggio che si produce in Siria".
Che strana coincidenza. E 'come se gli Stati Uniti avessero già saputo esattamente dove passavano quei convogli, ma che non si sentissero ancora obbligati a distruggerli fino a quel momento. Il mondo è pieno di misteri!
Ma la vera storia è che ‪#‎Putin‬ in realtà si è alzato in piedi di fronte alle grandi potenze economiche del mondo e ha detto, guardandole in faccia, che la Russia sa esattamente che cosa stanno facendo

martedì 17 novembre 2015

Parigi brucia come Beirut, Damasco, Baghdad, Tripoli, San’a, e la Palestina. Bassem Saleh

Parigi brucia come Beirut, Damasco, Baghdad, Tripoli, San’a, e la Palestina. Il terrorismo mondiale non ha più colore né razza né religione è semplicemente terrorismo figlio legittimo, di chi l’ha fabbricato, e ora lo disconosce o almeno tenta di farlo. Lo sdegno e la condanna non bastano più, e non fanno ritornare i morti, ma devono farci riflettere.
Appena qualche giorno fa a Beirut, in un povero quartiere a maggioranza sciita, a una strada dal campo profughi palestinese di Burj Elbarajneh, per colpire il partito di Hezbollah che appoggia il governo siriano, due Kamikaze hanno fatto una strage di innocenti libanesi e palestinesi.
A Parigi un gruppo di banditi armati fa un'altra strage di innocenti.
È la stessa malefica mente che pianifica, finanzia, arma e compie questi barbari attentati in giro per il mondo.
Daesh o Isis, il cosiddetto stato islamico, proclamato due anni fa al confine tra Iraq e Siria, voluto e sostenuto dalle potenze occidentali, in funzione anti governo legittimo siriano. L’Isis rivendica le due strage, mentre certi paesi occidentale e europei continuano a comprare il petrolio da chi fa le stragi! E ad avere solide relazioni politiche e commerciali con i paesi che finanziano i criminali dell’Isis, Qatar e Arabia saudita sostenuti e appoggiati dagli Usa.
La fabbrica del terrorismo mondiale ha perso la capacità di controllo sui mostri che ha creato, e questi, ora, vagano per le strade delle nostre città, con armi prodotte nei vari paesi occidentale e europei, vendute ai paesi alleati e date a questi criminali dell’Isis.
La lotta al terrorismo mondiale, dovrebbe iniziare là dove è stato creato il mostro, cioè in Occidente. Prosciugare i finanziamenti e le casse dell’Isis, e bloccare le le vendite di armi a paesi che non rispettano i diritti umani e poco democratici, come Turchia, Arabia saudita, Qatar e Israele. In contemporanea iniziare un cambio di rotta culturale, basato sui diritti universale, di libertà, uguaglianza e fraternità.

lunedì 16 novembre 2015

L’Italia deculturizzata?

Secondo l’Istat il 72% degli italiani non è mai entrato in un museo
o ha visitato una mostra nell’ultimo anno, il 2014.
Se il 58% di “non-visitatori annuali” del 2012 era già un dato preoccupante, l’aggiornamento al 72% (su media nazionale) del 2014 fotografa un trend allarmante.
Lo denuncia Wired.it che fa pure un’analisi su questo trend poco simpatico per l’Itralia culla d’arte e di cultura.
Tra le pieghe di questi numeri, però, si sviluppano anche altri dati,
anch’essi sconfortanti: è nuovamente l’Istat a dirci che, negli ultimi dieci anni, il pubblico dei musei italiani under 25 si è praticamente dimezzato, attestandosi su meno del 25% degli ingressi totali registrati e il numero di interessati ai musei, quindi dei potenziali visitatori, fra i 15 e i 24 anni, è spaventosamente basso.
In pratica sempre più giovani italiani crescono e si formano, tra scuola, famiglia e tempo libero, senza sviluppareconoscenza e sensibilità del nostro patrimonio culturale.
E nonostante nel primo trimestre 2015, dopo anni di segno meno, si sia rilevato un +2% nell’aumento quantitativo nei “Consumi Culturali” degli italiani il che prova che un’Italia “culturale” esiste, su scala europea il Bel Paese resta ancora ancorato alle ultime posizioni.
Ad incidere sul genere di consumi, specifica Wired, sarebbe il livello d’istruzione (l’85% dei consumi culturali odierni proviene dai laureati) ed in questo senso, il fatto che nel
decennio 2005-2015 sia stata registrata un’emorragia nelle università italiane di oltre 66mila iscritti, il -25%, è un indice da allarme rosso per il futuro.
Sostanzialmente questi dati impressionanti confermano come in Italia, purtroppo, nonostante alcuni recenti tentativi di invertire la tendenza (come la domenica al museo ad ingresso gratuito), la troppa e reiterata de-valorizzazione e de-legittimazione istituzionale della cultura, unita a endemiche difficoltà comunicative del settore, abbiano condotto in questi anni ad una sempre più scarsa “attrattività percepita” e, conseguentemente, ad una ancor più scarsa “attrattività applicata”, soprattutto interna.
Se è vero che c’è molto da fare per invertire questo andamento verso la deculturalizzazione del nostro paese, è anche vero che il nostro patrimonio esiste ancora.
E proprio da qui bisogna ripartire: dal nostro patrimonio. Dall’offrirne una nuova percezione di giudizio, all’implementarne e farne evolvere la natura educativa attraverso scuola e famiglie; dal tornare a sentirlo parte del “fa bisogno quotidiano” con partecipazione, valorizzazione, didattica, promozione e sviluppo, tutela, analisi dei flussi, accessibilità, digitalizzazione; dall’abbattimento di vecchi preconcetti di una
cultura improduttiva, accessoria e superflua.
E questo lo si può ottenere solo riavviando un meccanismo inceppatosi tempo fa: quello di una “Cultura della Cultura”. Ed anche se la missione resta difficile, non è del tutto impossibile.

venerdì 13 novembre 2015

Renzi e lo stretto di Messina: perseverare è diabolico

Il premier Matteo Renzi torna sul ‪#‎ponte‬, nel senso che, con una mossa da prestigiatore, torna ad estrarre dal cilindro la sorpresa: in Sicilia c’è bisogno del ponte sullo ‪#‎stretto‬ di Messina e si farà, “state certi che si farà”. Lo ha detto nel corso di una intervista rilasciata a Bruno Vespa (!?) per il nuovo libro del conduttore che, non si dimentichi, ha fatto firmare in tv a suo tempo a Berlusconi il patto con gli italiani. E, siccome a Messina manca l’acqua, si è premurato di premettere che... prima del ponte si porterà l’acqua alla città. Ora...di fronte a tutto ciò si può, è legittimo, gridare a squarciagola l’indignazione che monta. Sì, si può. Perchè se c’era ancora un limite, questo è stata abbondantemente oltrepassato. «Non bastavano i regali alle lobby delle fonti fossili e degli inceneritori, ora rassicuriamo anche chi vorrebbe guadagnare dalla realizzazione di un’opera tanto faraonica (soprattutto nei costi) quanto inutile» ha detto il presidente di Legambiente, Vittorio Cogliati Dezza. «Il Premier sa bene, e lo dice, che le emergenze italiane sono ben altre – ha continuato Cogliati Dezza - Perché allora continua a sostenere le lobby del ‘900 e le loro idee vecchie e superate? Che tipo di Paese ha in testa realmente? Le sfide del futuro richiedono ben altro approccio. Dall’impegno per una diffusa rigenerazione urbana al consolidamento delle rinnovabili, dalla mobilità sostenibile alla promozione della chimica verde e dell’agricoltura di qualità, dall’ottimizzazione della raccolta differenziata alla messa in sicurezza del patrimonio edilizio scolastico fino alle infrastrutture ferrioviarie e portuali necessarie. Non c’è bisogno di opere inutili per far crescere l’Italia».
«Tre anni fa il futuro premier bocciava il Ponte sullo Stretto, auspicando che quella montagna di denaro pubblico necessaria – 8 miliardi di euro - fosse indirizzata piuttosto a realizzare nuove scuole e a migliorare quelle esistenti. Erano parole sensate quelle di allora, ma oggi purtroppo Renzi ha fatto una spericolata inversione a U, e non possiamo che augurarci che sia la sua ennesima promessa non mantenuta». Lo dichiarano gli esponenti di Green Italia Fabio Granata, Anna Donati e Annalisa Corrado. «Gli italiani – continuano gli esponenti ecologisti - credevano che quello del Ponte fosse un capitolo chiuso, perché di fronte ad un Paese costantemente piegato dal dissesto idrogeologico, con infrastrutture che collassano per il maltempo e situazioni come quelle di Messina indegne di un paese civile, anche solo parlare di Ponte sullo Stretto è uno schiaffo alla realtà. La realtà è quella dei cittadini dell'Aquila ancora sfollati, quelli della Liguria che passano da un alluvione con smottamenti e morti a un piano casa tutto cemento, o il popolo inquinato di Taranto e di Crotone.
Dopo le trivelle, gli inceneritori, le autostrade, mancava solo il Ponte assurto a ‘nuovo simbolo per l’Italia’ per dimostrare che il premier crede che le ricette da boom economico degli anni 60 siano ancora attuali, mentre c’è un mondo che va in un’altra direzione».
«In un territorio devastato, caratterizzato da disastri ed emergenze di ogni tipo, in un Paese bloccato, incapace di affrontare con strumenti e risorse adeguate le vere sfide del futuro, torna in auge l’idea, il mito del ponte sullo Stretto. Cosa dire, cosa rispondere al premier Renzi? Nulla. Semplicemente ricordiamo un documento del 28 febbraio 2013, firmato dalle più importanti associazioni culturali e ambientaliste italiane». Sono le parole di Leandro Janni, presidente regionale di Italia Nostra Sicilia. «Di straordinario il ponte sullo Stretto di Messina ha solo il tempo e i soldi sprecati per un’opera insostenibile dal punto di vista tecnico, ambientale ed economico. Il progetto definitivo del ponte sullo Stretto di Messina è stato elaborato da Eurolink SpA e considerato talmente lacunoso dalla Commissione di Valutazione di Impatto Ambientale da far avanzare la richiesta, il 10 novembre 2011, di ben 223 integrazioni su tutti gli aspetti nodali (strutturali, trasportistici, economico-finanziari, geologici, idrogeologici, naturalistici, paesaggistici, relativi alle emissioni atmosferiche, ai rumori e alle vibrazioni), a cui Eurolink non è ancora riuscita rispondere esaurientemente. È bene ricordare questi aspetti, ma anche che qualcuno da oltre 10 anni pensa di costruire, in una delle aree a più alto elevato rischio sismico del Mediterraneo, un ponte sospeso, ad unica campata di 3,3 km di lunghezza, sorretto da torri di circa 400 metri di altezza, a doppio impalcato stradale e ferroviario (quando allo stato attuale delle conoscenze tecniche il ponte più lungo esistente al mondo con analoghe caratteristiche è quello del Minami Bisan-Seto in Giappone, di 1118 metri di lunghezza). Le associazioni ambientaliste sono convinte che il ponte sia tecnicamente irrealizzabile, ma a queste considerazioni si deve aggiungere che si tratta di un’opera che ad oggi verrebbe a costare da sola, a preventivo 8,5 miliardi di euro (pari ad oltre mezzo punto di PIL), che non è sostenuta da un Piano economico-finanziario che ne dimostri la redditività e l’utilità, mentre ben altri sono gli investimenti necessari e urgenti per lo sviluppo del Mezzogiorno. Le associazioni ambientaliste, grazie al lavoro volontario e gratuito di oltre 30 studiosi ed esperti, hanno a suo tempo presentato 138 pagine di Osservazioni rilevando che nel progetto definitivo presentato da Eurolink:
1. Viene garantita l’invulnerabilità del manufatto per azioni sismiche fino a 7,1 Richter escludendo in maniera ascientifica che ci possa essere un sisma di maggiore energia in una zona di rischio molto elevato, considerata tra le più in pericolo del Mediterraneo;
2. Nei calcolo dei materiali da scavo viene dimenticato il conteggio di 3,5 milioni di metri cubi di materiali scavati o movimentati;
3. Non è stata ancora elaborata una valutazione di incidenza credibile sulle 13 aree di pregio naturalistico tutelate dall’Europa;
4. Sono considerate “trascurabili” le modifiche apportate all’opera principale nel progetto definitivo, che vedono: a) un incremento dell’altezza delle torri di 17 m. (giunte a 400 m di altezza) per sollevare l’impalcato sino ad 80 metri sul livello del mare; b) lo spostamento della torre sul lato Calabria, c) la variazione del tipo d’acciaio e quindi il peso delle funi e delle strutture portanti d) il cambiamento dell’altezza dell’impalcato del viadotto Pantano lato Sicilia;
5. Sono state presentate analisi trasportistiche insufficienti ed elaborati progettuali incompleti da cui emerge che a 25 anni dalla realizzazione dell’opera ponte si registrerebbe un traffico pari a 11,6 milioni di auto all’anno per un’infrastruttura dimensionata per 105 milioni di auto l’anno, con un grado di utilizzo, quindi, dell’11% circa».

giovedì 12 novembre 2015

Volkswagen? Robetta: Gm fece sparire i tram dagli Usa

Emissioni truccate e airbag difettosi: negli ultimi 18 mesi, due dei più grandi produttori di auto al mondo sono stati giudicati responsabili di “complotti di morte”. «Le rivelazioni recenti, tuttavia, non possono competere con gli scandali industriali precedenti», avverte lo scrittore canadese Yves Engler, che punta il dito contro gli infiniti atti di pirateria industriale (e corruzione poltica) per soppiantare il trasporto sostenibile, elettrico, a favore del motore a scoppio. A tener banco, ovviamente, oggi è il caso Volkswagen: l’azienda tedesca è stata colta in flagrante per aver equipaggiato milioni di automobili con sistemi taroccati per la misurazione delle emissioni, “pulite” nel corso dei test ma, durante la guida, con un rilascio di ossido d’azoto 40 volte superiore al limite dichiarato. Così, «migliaia di persone saranno colpite da asma, malattie ai polmoni e altri disturbi». Lo scandalo Volkswagen ricorda quello della General Motors, impegnata a «nascondere i difetti nel meccanismo di accensione dell’airbag in milioni dei suoi veicoli». Gli interruttori difettosi fanno in modo che l’airbag si rompa in caso di incidente: «General Motors riconosce che almeno 124 persone sono morte in conseguenza di un’anomalia, della quale i dirigenti della compagnia erano a conoscenza da anni».
In uno scandalo di portata più grande, cinquant’anni fa, ricorda Engler in un post su “Counterpunch” tradotto da “Come Come Chisciotte”, erano emerse informazioni che «coinvolgevano le compagnie di automobili in un complotto, con lo scopo di San Franciscomantenere la popolazione sotto la coltre di una nebbia tossica». Il “complotto dello smog” è stato rivelato nel 1968, quando il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha archiviato un caso di antitrust contro le “tre grandi”, accusate di collusione nel celare l’installazione di marmitte catalitiche e altre tecnologie per ridurre l’inquinamento. A partire dal 1953, disse il Dipartimento di Giustizia, «i difensori e i co-cospiratori sono stati coinvolti in un accordo e complotto irragionevole per la limitazione della suddetta libera concorrenza e commercio nell’equipaggiamento di controllo delle emissioni inquinanti presente nel motore dei veicoli». Per acquietare le critiche montanti sull’inquinamento dell’aria generato dalle automobili, General Motors, Ford e Chrysler (insieme all’Ama, Automobile Manufacturers Association), trovarono un accordo proprio nel 1953 per la ricerca congiunta sulle tecnologie per ridurre le emissioni inquinanti. «I produttori di automobili hanno asserito che la loro alleanza era determinata dall’interesse per la salute pubblica. Non è stato così».
Col passare del tempo, continua Engler, è emersa l’evidenza che le Tre Grandi si erano in realtà unite per rinviare l’installazione dei costosi dispositivi anti-inquinamento. Nel libro “Taken for a Ride”, Jack Doyle scrive che «i produttori di automobili, tramite Ama, hanno complottato non per competere nella ricerca, sviluppo, produzione e installazione dei dispositivi» per il controllo dell’inquinamento. In realtà «hanno fatto, congiuntamente, tutto ciò che era in loro potere per ritardare tale ricerca, sviluppo, produzione e installazione», imbrogliando i consumatori. «Ma lo scandalo di portata ancora più grande, nell’ambito delle automobili, è stato di molto peggiore dell’alleanza dello smog», scrive Engler. «È stato un complotto che ha mutato l’aspetto dei paesaggi urbani in tutto il Nord America». Il capo di General Motors, Alfred Sloan, già nel 1922 aveva creato un gruppo di lavoro con l’incarico di «minare e sostituire il tram elettrico». La prima azione del gruppo fu il lancio di una linea di autobus che, a Los Angeles, arrivava un minuto prima della vettura elettrica. Risultato: la linea dei tram General Motorsè stata ben presto chiusa. «Al tempo vi erano centinaia di linee tramviarie a Los Angeles, così il caso della chiusura di una di esse non si è rivelato particolarmente degno di nota. Ma ciò è stato foriero di cose a venire».
All’inizio degli anni ’20 si assisteva al boom dell’industria tramviaria, ricorda lo scrittore canadese. C’erano 1.200 tra compagnie tramviarie e di treni interurbani, con 29.000 miglia di percorso. Negli anni migliori si superavano i 15 miliardi di passeggeri. Più di mille miglia di percorso per i tram si intersecavano nella sola area di Los Angeles, portando ogni giorno al lavoro la maggior parte delle persone. Ma la concorrenza motorizzata stava crescendo: il numero di auto su strada ha raggiuse quota 20 milioni negli anni ’20. In questo periodo così cruciale nella storia del traffico, «General Motors era intenta nell’eliminazione della concorrenza». Offrì ai politici municipali delle Cadillac gratis, «affinché votassero la condotta della compagnia». Fece pressioni anche sulle banche nelle piccole comunità, «in modo tale da mettere alla fame le compagnie locali che finanziavano i tram». E in seguito fu stato reso disponibile un credito agevolato per le compagnie tramviarie che sostituivano i loro percorsi con autobus di General Motors. Nel 1932, l’azienda fondò l’Ucmt, United Cities Motor Transportation, per l’acquisto di compagnie tramviarie in aree urbane e la loro conversione in linee per autobus. Percorsi rivoluzionati, cavi aerei rimossi. A conversione completata, «la Ucmt ha rivenduto le nuove reti di autobus, a condizione che non venissero riconvertite a tram».
Nel relativo anonimato di Galesburg nell’Illinois, continua Engler, la stessa Ucmt fece la sua prima acquisizione di controllo nel 1933. «Muovendosi rapidamente, aveva già smantellato le reti tramviarie in tre centri urbani, prima di ricevere il richiamo ufficiale dell’American Transit Association». Dopo il richiamo ufficiale nel 1935, General Motors sciolse la Ucmt. Ma «non ci è voluto molto prima che le sue attività anti-tram venissero ripristinate e raddoppiate». General Motors e soci «hanno sviluppato un network di organizzazioni per il contatto con la clientela». Nel ‘36, Gm si è unita a Greyhound per formare il gruppo National City Lines; nel 1938 ambedue collaborarono con la Standard Oil della California per creare la Pacific City Lines; nel 1939 altre due compagnie, Phillips Petroleum e Mack Truck, si unirono alla National City Lines. Infine, American City Lines è stata creata nel 1943 per focalizzarsi sulle città più grandi. Più difficile la penetrazione di Gm nelle grandi città: «Nelle aree Tram a Manhattanurbane più grandi le linee dei tram erano spesso di proprietà delle compagnie elettriche, le quali con i guadagni della vendita dell’energia elettrica, hanno potenziato le rotaie».
Le compagnie elettriche, spiega Engler, beneficiarono di un accantonamento fiscale che permise loro di assorbire i deficit dei tram, tramite tasse più basse. Ma la cosa non sfuggì agli strateghi di Gm, prontissimi come sempre a premere sui politici per promuovere i propri sacri interessi: «Bloccata da quest’accordo di proprietà dell’elettricità per i tram, all’inizio degli ’30 General Motors ha prodotto una quantità di dossier per il Congresso, sottolineando la mancanza di entrate erariali che ne è risultata». Come prevedibile, «la strategia di General Motors si è rivelata un successo». Il Public Utility Holding Company Act del 1935 «ha reso estremamente difficile per le compagnie energetiche possedere le linee dei tram», e così hanno iniziato a venderle. «Diciotto mesi dopo, General Motors ha fatto a pezzi 90 miglia di rete tramviaria a Manhattan. Dopo aver trasformato con successo il sistema tramviario di New York, General Motors e i suoi amici intimi si sono spostati a Tulsa, Philadelphia, Montgomery, Cedar Rapids, El Paso, Baltimora, Chicago e Los Angeles. Yves EnglerDetto fatto, un centinaio di reti elettriche di trasporto in 45 città sono state fatte a pezzi, convertite e rivendute». Verso la metà degli anni ’50, quasi il 90% della struttura elettrica dei tram negli Stati Uniti era stata liquidata.
«I difensori di General Motors negano che qualsiasi complotto abbia avuto luogo», scrive Engler. Tuttavia i fatti sono schiaccianti: come ha evidenzato Edwin Black nel libro “Internal Combustion”, General Motors fu condannata dal Dipartimento di Giustizia, dal Senato e dai tribunali «per pratiche anti-trust che erano parte di questo complotto internazionale». In una sezione dell’accusa del 1947 si legge che i difensori furono «coinvolti coscienziosamente e di continuo in un accordo sleale e illecito», nonché «in un complotto per l’acquisizione di un reale interesse finanziario in una parte effettiva delle compagnie che forniscono il servizio di trasporto locale in varie città», per «eliminare ed escludere la concorrenza nella vendita degli autobus, dei derivati del petrolio, dei pneumatici e delle camere d’aria alle compagnie locali di trasporto». Il verdetto fu di colpevolezza. «Tuttavia, la punizione per aver complottato per distruggere un modello di traffico di massa è ammontata a una multa di 5.000 dollari: non certo un deterrente, per una compagnia che vale miliardi di dollari»

mercoledì 11 novembre 2015

Gli Stati Uniti, un paese in guerra in 222 su 239 anni di storia

La maggior parte guerre di aggressioni o invasioni preparate dalla CIA: l'elenco della vergogna storica che vi preghiamo di condividere
A forza di esportare la pace, gli Stati Uniti si sono ritrovati in guerra in 222 dei 239 anni della sua storia recente. La maggior parte guerre di aggressioni o invasioni preparate dalla CIA. Questo articolo su Informareoverblog distrugge tutti i luoghicomuni che spesso ascoltiamo quando viene descritta la politica estera statunitense con un semplice elenco che vi preghiamo di condividere il più possibile.
di Gianfrasket su Informareoverblog
"Siamo un popolo di guerra. Noi amiamo la guerra perché siamo molto bravi a farla. In realtà, è l'unica cosa che possiamo fare in questo cazzo di paese: la guerra. Abbiamo avuto un sacco di tempo per fare pratica e anche perché è sicuro che non siamo in grado di costruire una lavatrice o una macchina che vale un coniglio da compagnia; per contro, se avete un sacco di abbronzati nel vostro paese, dite loro di stare attenti perché noi verremo a sbattere una bomba sul loro viso... ". (George Carlin)
Qui sotto è riportata una cronologia anno per anno delle guerre degli Stati Uniti, che rivela qualcosa di molto interessante: dal 1776 gli Stati Uniti sono stati in guerra il 93% del tempo, vale a dire 222 dei 239 anni della loro esistenza.
Gli anni di pace sono stati solo 21.
Per mettere questo in prospettiva:
* Nessun presidente degli Stati Uniti è mai stato un Presidente di pace. Tutti i presidenti degli che si sono succeduti sono stati tutti, in un modo o nell'altro, coinvolti almeno in una guerra.
* Gli Stati Uniti non hanno mai passato un intero decennio, senza fare una guerra.
* L'unica volta che gli Stati Uniti sono rimasti 5 anni senza guerra (1935-1940) è stato durante il periodo isolazionista della Grande Depressione.
Timeline per ogni anno delle grandi guerre in cui gli Stati Uniti sono stati coinvolti (1776-2015)
1776 - Guerra d'indipendenza americana, Chickamagua Guerre, Seconda Guerra Cherokee, Pennamite-
1777 - Guerra d'indipendenza americana, Chickamauga Guerre, Seconda Guerra Cherokee, Pennamite-
1778 - Guerra d'indipendenza americana, Chickamauga Guerre Pennamite-
1779 - Guerra d'indipendenza americana, Chickamauga Guerre Pennamite-
1780 - Guerra d'indipendenza americana, Chickamauga Guerre Pennamite-
1781 - Guerra d'indipendenza americana, Chickamauga Guerre Pennamite-
1782 - Guerra d'indipendenza americana, Chickamauga Guerre Pennamite-
1783 - Guerra d'indipendenza americana, Chickamauga Guerre Pennamite-
1784 - Chickamauga Guerra Guerre Pennamite, Guerra Oconee
1785 - Chickamauga Guerre, Northwest Guerra indiana
1786 - Chickamauga Guerre, Northwest Guerra indiana
1787 - Chickamauga Guerre, Northwest Guerra indiana
1788 - Chickamauga Guerre, Northwest Guerra indiana
1789 - Chickamauga Guerre, Northwest Guerra indiana
1790 - Chickamauga Guerre, Northwest Guerra indiana
1791 - Chickamauga Guerre, Northwest Guerra indiana
1792 - Chickamauga Guerre, Northwest Guerra indiana
1793 - Chickamauga Guerre, Northwest Guerra indiana
1794 - Chickamauga Guerre, Northwest Guerra indiana
1795 - Guerra indiana del Nord-Ovest
1796 - 1800 - Nessuna guerra
1801 - Prima guerra Barbary
1802 - Prima guerra Barbary
1803 - Prima guerra Barbary
1804 - Prima guerra Barbary
1805 - Prima guerra Barbary
1806 - Sabine Expedition
1807 - 1809 - Nessuna guerra
1810 - Stati Uniti occupano West Florida spagnola
1811 - La guerra di Tecumseh
1812 - La guerra di Tecumseh, Guerre Seminole, gli Stati Uniti occupano East Florida spagnola
1813 - La guerra di Tecumseh, Guerra Peoria, Creek War, gli Stati Uniti espandono territorio nel West Florida spagnola
1814 - Creek War, US espansione territorio in Florida, la guerra anti-pirateria
1815 - Guerra del 1812, seconda guerra Barbaresca, guerra anti-pirateria
1816 - Prima guerra Seminole, la guerra anti-pirateria
1817 - Prima guerra Seminole, la guerra anti-pirateria
1818 - Prima guerra Seminole, la guerra anti-pirateria
1819 - Yellowstone Expedition, la guerra anti-pirateria
1820 - Yellowstone Expedition, la guerra anti-pirateria
1821 - la guerra anti-pirateria
1822 - la guerra anti-pirateria
1823 - la guerra anti-pirateria, Guerra Arikara
1824 - la guerra anti-pirateria
1825 - Yellowstone Expedition, la guerra anti-pirateria
1826 - Nessuna guerra
1827 - Guerra Winnebago
1828 - 1830 - Nessuna guerra
1831 - Sac e Fox guerra indiana
1832 - Guerra di Falco Nero
1833 - Guerra indiana Cherokee
1834 - Guerra indiana Cherokee, Pawnee Campagna territorio indiano
1835 - Guerra indiana Cherokee, Guerre Seminole, Seconda Guerra Creek
1836 - Guerra indiana Cherokee, Guerre Seminole, Seconda Guerra Creek, Missouri-Iowa Border guerra
1837 - Guerra indiana Cherokee, Guerre Seminole, Seconda Guerra Creek, Osage Guerra indiana, Guerra Buckshot
1838 - Guerra indiana Cherokee, Guerre Seminole, Guerra Buckshot, Heatherly Guerra indiana
1839 - Guerra indiana Cherokee, Guerre Seminole
1840 - Guerre Seminole, Forze Navali USA invadono Isole Figi
1841 - Guerre Seminole, Forze Navali USA invadono McKean Island, Isole Gilbert, e Samoa
1842 - Guerre Seminole
1843 - Le forze americane si scontrano con la Cina, le truppe statunitensi invadono costa africana
1844 - Guerre indiane Texas-
1845 - Guerre indiane Texas-
1846 - Guerra messicano-statunitense, guerre Texas-indiane
1847 - Guerra messicano-statunitense, guerre Texas-indiane
1848 - Guerra messicano-statunitense, guerre Texas-indiane, Guerra Cayuse
1849 - Guerre Texas-indiane, Guerra Cayuse, indiano Guerre Southwest, Guerre Navajo
1850 - Guerre Texas-indiane, Guerra Cayuse, Southwest guerre indiane, guerre Navajo, Guerra Yuma,
1851 - Guerre Texas-indiane, Guerra Cayuse, Southwest guerre indiane, guerre Navajo, Guerre Apache, Guerra Yuma, indiano Guerre Utah, California Guerre indiane
1852 - Guerre Texas-indiane, Guerra Cayuse, Southwest guerre indiane, guerre Navajo, Guerra Yuma, indiano Guerre Utah, California Guerre indiane
1853 - Guerre Texas-indiane, Guerra Cayuse, Southwest guerre indiane, guerre Navajo, Guerra Yuma, indiano Guerre Utah, Guerra Walker, indiano Guerre California
1854 - Guerre Texas-indiane, Guerra Cayuse, Southwest guerre indiane, guerre Navajo, Guerre Apache, California guerre indiane Skirmish entre 1 ° Cavalleria e indiani
1855 - Seminole Guerre, guerre Texas-indiane, Guerra Cayuse, Southwest guerre indiane, guerre Navajo, Guerre Apache, California guerre indiane, Guerra Yakima, Winnas Expedition Guerra Klickitat, Puget War Sound, Rogue River guerre, le forze americane invadono Isole Figi e Uruguay
1856 - Guerre Seminole, Guerre Texas-indiane, Southwest guerre indiane, Guerre Navajo,
1857 - Guerre Seminole, Guerre Texas-indiane, Southwest guerre indiane, Guerre Navajo, Guerra Utah, Conflitto in Nicaragua
1858 - Guerre Seminole, Guerre Texas-indiane, Southwest guerre indiane, Guerre Navajo, Guerra Mohave, California guerre indiane, Spokane-Coeur d'Alene Guerra-Paloos, Guerra Utah, le forze americane invadono Isole Fiji e Uruguay
Guerre 1859 Texas-indiani, Southwest guerre indiane, Guerre Navajo, California guerre indiane, Pecos Expedition Antelope Hills Expedition, Bear River Expedition, incursione di John Brown, le forze americane lanciano attacchi contro il Paraguay e invadono Messico
1860 - Guerre Texas-indiane, Southwest guerre indiane, Guerre Navajo, Guerre Apache, California indiana Guerre Guerra Paiute, Kiowa-Comanche guerra
1861 - Guerra civile americana, Guerre Texas-indiane, Southwest guerre indiane, Guerre Navajo, Guerre Apache, California guerre indiane, Campagna Cheyenne
1862 - Guerra civile americana, Guerre Texas-indiane, Southwest guerre indiane, Guerre Navajo, Guerre Apache, California guerre indiane Campagna Cheyenne, Guerra Dakota del 1862
1863 - Guerra civile americana, Guerre Texas-indiane, Southwest guerre indiane, Guerre Navajo, Guerre Apache, California guerre indiane Campagna Cheyenne, Colorado Guerra, Guerra Goshute
1864 - Guerra civile americana, Guerre Texas-indiane, Guerre Navajo, Guerre Apache, California guerre indiane Campagna Cheyenne, Colorado Guerra, Guerra Snake
1865 - Guerra civile americana, Guerre Texas-indiane, Guerre Navajo, Guerre Apache, California guerre indiane, Guerra Colorado, Guerra Snake, Black War Hawk Utah
1866 - Guerre Texas-indiane, Guerre Navajo, Guerre Apache, California guerre indiane Skirmish entre 1 ° Cavalleria e indiani, Guerra Snake, Guerra Black Hawk di Utah, Guerra di Nuvola Rossa, Franklin County War, ci invade Messico conflitto con la Cina
1867 - Texas-Guerre Indiane, lunga passeggiata dei Navajo, Apache Guerra Skirmish , Guerra Snake, guerra Black Hawk di Utah, guerra di Nuvola Rossa, guerra Comanche , Franklin County War, le truppe statunitensi occupano il Nicaragua e attaccano Taiwan
1868 - Texas-Guerre Indiane, Long Walk dei Navajo, Apache Guerra Skirmish, Guerra Snake, guerra Black Hawk di Utah, guerra di Nuvola Rossa, guerra Comanche, Battaglia del Washita, Franklin County War
1869 - Guerre Texas-indiane, Guerre Apache, guerra Black Hawk di Utah, guerra Comanche , Franklin County War
1870 - Guerre Texas-indiane, Guerre Apache, guerra Black Hawk di Utah, Comanche Guerre, Franklin County War
1871 - Guerre Texas-indiane, Guerre Apache, guerra Black Hawk di Utah, Comanche Guerre, Franklin County War, Kingsley Cave strage, le forze americane invadono la Corea
1872 - Guerre Texas-indiane, Apache Wars, La guerra di Utah Black Hawk, Comanche Guerre Guerra Modoc, Franklin County War
1873 - Guerre Texas-indiane, Comanche Guerre Guerra Modoc, Guerre Apache, Cypress Hills Massacre, guerra col Messico
1874 - Guerre Texas-indiane, Guerre Guerra Comanche Red River, Mason County Guerra, le forze americane invadono Messico
1875 - Conflitto in Messico, Guerre Texas-indiane, Comanche Guerre, Nevada orientale, Mason County War, Colfax County War, le forze americane invadono Messico
1876 - Guerre indiane, Texas-nero Guerra Hills, Mason County Guerra, le forze americane invadono Messico
1877 - Guerre Texas-indiane, Nero Guerra Hills, Nez Perce Guerra, Guerra Mason County, Lincoln County War, San Elizario Salt guerra, le forze americane invadono Messico
1878 - Paiute conflitto indiano, Guerra Bannock, Guerra Cheyenne, Lincoln County War, le forze americane invadono Messico
1879 - Guerra Cheyenne, Sheepeater Guerra indiana, Bianco Guerra Fiume, le forze americane invadono Messico
1880 - Forze statunitensi invadono Messico
1881 - Forze statunitensi invadono Messico
1882 - Forze statunitensi invadono Messico
1883 - Forze statunitensi invadono Messico
1884 - Forze statunitensi invadono Messico
1885 - Guerre Apache, Orientale Nevada Expedition, Forze invadono Messico
1886 - Guerre Apache, Pleasant Valley Guerra, le forze americane invadono Messico
1887 - Forze statunitensi invadono Messico
1888 - US dimostrazione di forza contro Haiti, Forze invadono Messico
1889 - Forze statunitensi invadono Messico
1890 - Sioux Guerra indiana, Ghost Dance Guerra, Wounded Knee, Forze invadono Messico
1891 - Sioux Guerra indiana, Ghost Dance Guerra, le forze americane invadono Messico
1892 - Johnson County War, le forze americane invadono Messico
1893 - Stati Uniti invadono Messico e Hawaii
1894 - Forze statunitensi invadono Messico
1895 - Le forze americane invadono Messico
1896 - Forze statunitensi invadono Messico
1897 - Nessuna guerra
1898 - Guerra ispano-americana, Battaglia di Leech Lake Chippewa
1899 - Guerra filippino-americana, guerra delle banane
1900 - Guerra filippino-americana
1901 - Guerra filippino-americana
1902 - 1912 - Guerra filippino-americana, guerra delle banane
1913 - Guerra filippino-americana, guerra della banane, guerra Navajo
1914 - Guerra delle banane, Stati Uniti invadono Messico
1915 - Guerra delle banane, invasione del Messico Messico, guerra Paiute
1916 - Guerra delle banane, Stati Uniti invadno Messico
1917 - Guerre delle banane, prima guerra mondiale
1918 - Guerre della banana, la prima guerra mondiale
1919 - Guerra delle banane, Stati Uniti invadono il Messico
1920 - 1934 - Guerre delle banane
1935 - 1940 - Nessuna guerra
1941 - 1945 - Seconda guerra mondiale
1946 - USA occupano Filippine e Corea del Sud
1947 - le forze di terra americana in Grecia nella guerra civile
1948 - 1949 - Nessuna guerra
1950 - 1953 - Guerra di Corea
1954 - Guerra in Guatemala
1955 - 1958 - guerra del Vietnam
1959 - guerra del Vietnam: Conflitto in Haiti
1960 - guerra del Vietnam
1961 - 1964 - guerra del Vietnam
1965 - Guerra del Vietnam, occupazione americana della Repubblica Dominicana
1966 - Guerra del Vietnam, l'occupazione americana della Repubblica Dominicana
1967 - 1975 guerra del Vietnam
1976 - 1978 - nessuna guerra
1979 - Guerra Fredda (guerra per procura CIA in Afghanistan)
1980 - Guerra Fredda (guerra per procura CIA in Afghanistan)
1981 - Guerra Fredda (guerra per procura CIA in Afghanistan e Nicaragua), primo incidente del Golfo della Sirte
1982 - Guerra Fredda (guerra per procura CIA in Afghanistan e Nicaragua), Conflitto in Libano
1983 - Guerra Fredda (invasione di Grenada, guerra per procura CIA in Afghanistan e Nicaragua), Conflitto in Libano
1984 - Guerra Fredda (guerra per procura CIA in Afghanistan e Nicaragua), Conflitto in Golfo Persico
1985 - Guerra Fredda (guerra per procura CIA in Afghanistan e Nicaragua)
1986 - Guerra Fredda (guerra per procura CIA in Afghanistan e Nicaragua)
1987 - Conflitto in Golfo Persico
1988 - Conflitto in Golfo Persico, l'occupazione americana di Panama
1989 - Seconda Golfo della Sirte incidente, l'occupazione americana di Panama conflitto nelle Filippine
1990 - Prima guerra del Golfo, occupazione americana di Panama
1991 - Prima guerra del Golfo
1992 - Conflitto in Iraq
1993 - Conflitto in Iraq
1994 - Conflitto in Iraq, Stati Uniti invadono Haiti
1995 - Conflitto in Iraq, Haiti, bombardamenti NATO della Bosnia-Erzegovina
1996 - Conflitto in Iraq
1997 - Nessuna guerra
1998 - Bombardamento di Iraq, Afghanistan e missili contro il Sudan
1999 - Guerra del Kosovo
2000 - nessuna guerra
2001 - Guerra in Afghanistan
2002 - Guerra in Afghanistan e Yemen
2003 - Guerra in Afghanistan e in Iraq
2004 - 2006 - Guerra in Afghanistan, Iraq, Pakistan e Yemen
2007 - Guerra in Afghanistan, Iraq, Pakistan, Somalia e Yemen
2008 - 2010 - Guerra in Afghanistan, Iraq, Pakistan e Yemen
2011 - Guerra al Terrore in Afghanistan, Iraq, Pakistan, Somalia e Yemen; Conflitto in Libia (libica guerra civile)
2011 - 2015 - Guerra in Afghanistan, Iraq. Guerra civile in Ucraina e Siria
Nella maggior parte di queste guerre, gli Stati Uniti erano all'offensiva, in alcune sulla difensiva ma abbiamo tralasciato tutte le operazioni segrete della CIA con rivolte, ribaltamento di regimi e altri atti che potrebbero essere considerati atti di guerra.
Il 95% delle operazioni militari lanciate dalla fine della seconda guerra mondiale, sono state degli Stati Uniti, la cui spesa militare è maggiore di quella di tutte le altre nazioni del mondo messe insieme. Nessuna meraviglia quindi che il mondo pensi che gli Stati Uniti sono la prima minaccia del mondo per la pace.
Eppure ci sono ancora alcuni nord americani (più di quello che sembra) che fanno ancora la domanda: "Perché tutte queste persone nel mondo ci odiano?" E la risposta della propaganda USA è sempre, invariabilmente, la stessa "...perché sono gelosi di noi, della nostra libertà, della nostra grandezza. Gelosi della nostra cultura..."
Ecco, soprattutto della loro cultura e del loro squisito modo di rapportarsi col prossimo.

martedì 10 novembre 2015

Il capitalismo delle diseguaglianze e del debito

Due "fatti stilizzati" sono propri del capitalismo contemporaneo: le crescenti diseguaglianze distributive e l'esplosione del debito pubblico su scala globale[1]. Si tratta di fenomeni correlati, nel senso che, come si proverà a mostrare, è proprio la diseguaglianza a generare crescente indebitamento pubblico e, in più, è il crescente indebitamento pubblico a generare, attraverso misure di redistribuzione del carico fiscale, crescenti diseguaglianze distributive.
Sul piano empirico, l'OCSE rileva un significativo aumento dell'indice di Gini in tutti i Paesi industrializzati nel corso degli ultimi anni, in particolare a partire dal 2007. Al tempo stesso, come mostrato nell'immagine sottostante, si registra un continuo aumento del debito pubblico su scala globale.
L'aumento delle diseguaglianze distributive riduce il tasso di crescita fondamentalmente attraverso due canali, che operano rispettivamente sulla domanda aggregata e dal lato dell'offerta.
a) Dal lato della domanda. La riduzione della quota dei salari sul Pil determina una caduta dei consumi e, a parità di investimenti pubblici e privati, della domanda aggregata e del tasso di crescita. L'effetto è amplificato dal fatto che, di norma, le famiglie con più basso reddito esprimono una propensione al consumo maggiore di quelle con redditi più elevati. Vi è poi un nesso fra dinamica dei consumi e dinamica degli investimenti, dal momento che la compressione dei consumi, derivante dalla riduzione dei salari, tende a disincentivare gli investimenti privati, con effetti, anche in questo caso, di segno negativo sulla domanda aggregata.
b) Dal lato dell'offerta. La riduzione dei salari (e del costo di tutela dei diritti dei lavoratori da parte delle imprese) pone le imprese nella condizione di competere comprimendo i costi e, per questa via, disincentiva l'introduzione di innovazioni, con effetti di segno negativo sul tasso di crescita della produttività[3]. I seguenti ulteriori meccanismi amplificano questa dinamica.
Primo: la riduzione della domanda interna (imputabile, in primis, alla caduta dei salari e, dunque, dei consumi), in quanto riduce i mercati di sbocco, riduce i profitti monetari, a danno innanzitutto delle imprese che operano sul mercato interno[4], con conseguente compressione degli investimenti e del tasso di crescita della produttività del lavoro.
Secondo: la riduzione dei profitti monetari riduce le fonti di autofinanziamento delle imprese e ne accresce il grado di dipendenza dal settore bancario. La compressione dei margini di profitto, in quanto accresce il rischio di insolvenza, induce le banche a ridurre l'offerta di credito generando, anche per questa via, riduzione degli investimenti e della produttività.
Con ogni evidenza, la moderazione salariale in atto, mentre può generare crescita attraverso un aumento delle esportazioni per un singolo Paese, non può generare questo effetto su scala globale, essendo il commercio internazionale un gioco a somma zero[5].
Sono due i principali canali attraverso i quali la crescita delle diseguaglianze contribuisce a generare incrementi del debito:
i) in quanto la crescita delle diseguaglianze è anche associata ad aumenti del tasso di disoccupazione, ciò genera un aumento della spesa pubblica per i c.d. stabilizzatori automatici (in primis, i sussidi di disoccupazione)
ii) la crescita delle diseguaglianze è associata a un aumento del potere politico del capitale con conseguente riduzione dell'imposizione fiscale sui profitti[6].
Dunque, maggiori diseguaglianze distributive tendono ad associarsi a maggiori spese di 'legittimazione' del sistema (ovvero spese finalizzate a preservare la coesione sociale) e a minori entrate fiscali derivanti dal pagamento delle imposte da parte di famiglie con redditi elevati. E da ciò segue che la crescita delle diseguaglianze distributive, riducendo il tasso di crescita, contribuisce ad accrescere l'indebitamento pubblico[7].
Le misure di politica economica adottate per ridurre il debito (le c.d. politiche di austerità), in particolare nell'Unione Monetaria Europea, non hanno prodotto e non producono altri effetti se non generare esiti esattamente opposti a quello desiderati e soprattutto peggiorano ulteriormente la distribuzione del reddito, soprattutto nei Paesi periferici dell'Eurozona, per le seguenti ragioni:
1) La riduzione della spesa pubblica, in quanto contribuisce a ridurre la domanda interna, contribuisce ad accentuare la deflazione già in atto. E la deflazione comporta un aumento dell'onere reale del servizio sul debito, così che contrazioni di spesa generano aumenti del debito attraverso aumenti dell'onere degli interessi.
2) La riduzione della spesa pubblica, riducendo la domanda interna, contribuisce ad accrescere il tasso di disoccupazione, a ridurre conseguentemente il tasso di crescita e ad accrescere il rapporto debito pubblico/Pil.
Questa dinamica è accentuata dal fatto che i tagli di spesa si traducono in riduzione e peggioramento dei servizi di welfare, con effetti di segno negativo sul tasso di crescita della produttività del lavoro, a ragione del fatto alquanto ovvio che una forza-lavoro poco istruita e con difficile accesso a cure sanitarie è potenzialmente poco produttiva. E anche per questa via, minore spesa può implicare più debito[8].
A ragione di questi meccanismi, le politiche di austerità hanno di fatto contribuito a far aumentare il rapporto debito pubblico/Pil, rendendo necessario l'aumento della pressione fiscale.
Nell'impossibilità di "monetizzare" il debito, l'accresciuto onere del debito richiede incrementi di tassazione. La monetizzazione del debito, resa impossibile dai Trattati europei, consiste nell'acquisto diretto da parte della Banca Centrale di titoli di Stato, ovvero nello "stampare moneta". Occorre chiarire che la ripartizione dell'onere fiscale, così come la distribuzione dei tagli di spesa, risente del potere contrattuale dei lavoratori e delle imprese nella sfera politica e, in tal senso, non risponde a criteri di efficienza di sistema.
In una condizione di elevata disoccupazione, è dunque lecito aspettarsi che il maggior peso della tassazione (e dei minori trasferimenti pubblici) venga fatto gravare sul lavoro, accreditando la tesi di Marx secondo la quale "la causa del fatto che il patrimonio dello stato cade nelle mani dell'alta finanza [è] l'indebitamento continuamente crescente dello stato".
In altri termini, una condizione di basso potere contrattuale dei lavoratori nel mercato del lavoro genera una condizione di basso potere contrattuale dei lavoratori nell'arena politica e, dunque, la loro sostanziale impossibilità di modificare a loro vantaggio le scelte di politica economica[9].
In questo scenario, le diseguaglianze distributive tendono ad autoalimentarsi. Le misure di austerità, da un lato, accrescono il tasso di disoccupazione e, riducendo il potere contrattuale dei lavoratori, riducono la quota dei salari sul Pil; l'aumento del debito pubblico che ne consegue si traduce nella necessità di reperire risorse tramite tassazione, prevalentemente a danno del lavoro dipendente.
Da cui una seconda conclusione: le politiche finalizzate a ridurre il debito (in quanto si associano a un aumento della tassazione sui redditi più bassi e, dunque, a maggiore diseguaglianza distributiva) determinano un trasferimento netto di ricchezza alla rendita finanziaria.
Come scriveva Marx nel 18 Brumaio di Luigi Bonaparte:
"L'indebitamento dello stato è l'interesse diretto dell'aristocrazia finanziaria quando governa e legifera per mezzo delle Camere; il disavanzo dello stato è infatti il vero e proprio oggetto della sua speculazione e la fonte principale del suo arricchimento. Ogni anno un nuovo disavanzo. Dopo quattro o cinque anni un nuovo prestito offre all'aristocrazia finanziaria una nuova occasione di truffare lo stato che, mantenuto artificialmente sull'orlo della bancarotta, è costretto a contrattare coi banchieri alle condizioni più sfavorevoli".