giovedì 31 marzo 2016

PREVISIONI DI CRESCITA TUTTE SBAGLIATE. NON È ERRORE

Standard&Poor ha rivisto al ribasso le stime di crescita sia per l'Eurozona, sia per l'Italia. Il calo del PIL europeo è dall'1,8 all'1,5, per quello italiano si passa dall'1,3 all'1,1. Potrà sembrare poca cosa, ma se consideriamo che Renzi e Padoan nel DEF hanno previsto una crescita del PIL dell'1,6 per il 2016, siamo già sotto di mezzo punto rispetto alle indicazioni di bilancio. Il che vuol dire, applicando quei vincoli europei ai quali il nostro governo si attiene sempre al di là delle chiacchiere, che ci vorranno circa 8 miliardi di nuove tasse o tagli sociali per far quadrare i conti. Cifra ottimistica in realtà perché la Confindustria ha recentemente fatto sapere che senza regali, assai improbabili, da parte della UE, ci vorrà una manovra correttiva sul bilancio di 24 miliardi. Un massacro.

Tutta colpa di previsioni sbagliate per eccesso di ottimismo, previsioni che ora S&P smentisce clamorosamente?
Naturalmente questo istituto finanziario non è certo il Vangelo, le sue indicazioni, come quelle degli altri strumenti della speculazione internazionale, fanno parte del gioco e servono a far fare i soldi a chi ha i soldi. Così anche la revisione al ribasso delle precedenti previsioni sul PIL è diventata parte della normalità della giostra finanziaria, come avviene da quasi dieci anni .
Dall'avvio della grande crisi nel 2007/8 fino ad oggi tutte le previsioni degli istituti finanziari e dei governi sull'andamento dell'economia sono state puntualmente smentite in peggio. Così da noi è avvenuto con i governi Berlusconi, Monti, Letta, Renzi. Tutti hanno dovuto correggere al ribasso le previsioni di crescita inizialmente iscritte a bilancio. E questo scherzetto periodicamente ripetuto è costato una marea di sacrifici in più ai lavoratori, ai pensionati, ai disoccupati, ai poveri.
Dopo dieci anni di previsioni sbagliate sempre nello stesso senso si potrebbe pensare che l'opinione pubblica sia divenuta più cauta e vigile verso gli annunci di ripresa. Ma qui purtroppo entra in campo il ruolo nefasto dei mass media e degli intellettuali di regime. Che appena un governante annuncia un più si lanciano nella più esaltata propaganda sulla fine della crisi che ci aspetterebbe dietro l'angolo. Noi sorridiamo quando in un bar leggiamo il cartello: domani si fa credito. Eppure da dieci anni i governanti annunciano che domani inizierà la ripresa e vengono creduti.
Non è solo imperizia, è soprattutto malafede. Gli istituti finanziari prima fanno stime ottimistiche sulla crescita, poi le rivedono in peggio e in mezzo stanno i giuochi, gli investimenti e i profitti nella Borsa e nelle banche. I governi fanno la stessa cosa ed in mezzo ci collocano qualche guadagno elettorale o comunque di potere politico.
È una specie di aggiottaggio in grande stile quello che avviene da dieci anni sulle previsioni economiche. Il sistema delle previsioni false serve a svuotare le tasche e a rubare i voti a cittadini sempre più trattati come polli.
Nel frattempo l'economia reale non cambia, è da dieci anni che o ristagna o scivola verso il basso. Ma affermare questa semplice verità farebbe saltare il gioco delle previsioni e darebbe un duro colpo alla credibilità di tutto il sistema. Come si potrebbe continuare all'infinito con le politiche di austerità e rigore, se fosse chiaro a tutti che non producono nulla di ciò che promettono? Meglio allora continuare a produrre previsioni false, da smentire successivamente dando la colpa a qualche evento catastrofico, al terrorismo.

mercoledì 30 marzo 2016

La vecchia guerra al terrorismo “all’americana” non solo non ci ha reso più sicuri ma l’ha portata in casa nostra.

In un articolo pubblicato su Il Sole 24 ore, Alberto Negri spiega come "l’Isis, ora sotto pressione per l’avanzata di Assad sostenuto dall’aviazione russa, ha creato in Europa una rete in grado di sostenere una campagna prolungata di attentati: lo sostiene un rapporto dei servizi francesi pubblicato di recente dal New York Times. Il braccio armato del Califfato all’estero ha iniziato da tempo a infiltrare combattenti addestrati in Siria e capaci di organizzare le cellule operative. L’aspetto più interessante è che il network risale alla fine del 2013: ha preceduto quindi la proclamazione del Califfato nel giugno 2104 a Mosul.
Ma le “fabbriche della Jihad”, come le chiamava Wahid Mozdah, si sono insediate in Europa prima dell’ultima generazione jihadista utilizzando marchi diversi: il franchising di Al Qaeda è passato all’Isis.
Cinquemila sarebbero i foreign fighters partiti in questi anni per la Siria, un quarto provenienti dai Balcani: non potremo stupirci se ritroveremo qualche nome che abbiamo già visto in Bosnia, Kosovo o Macedonia negli anni ’90.
Questo è un conflitto decentralizzato e prolungato, che sopravvive ai suoi leader, all’illusione di effimere occupazioni territoriali come in Afghanistan o Iraq, ai bombardamenti con i droni: la vecchia guerra al terrorismo “all’americana” non solo non ci ha reso più sicuri ma l’ha portata in casa nostra"

martedì 29 marzo 2016

La crisi ha rivoluzionato i bilanci delle famiglie italiane

La crisi ha fatto fare agli italiani un passo indietro sull’alimentazione di qualità, la moda e perfino la formazione e l’istruzione.
Nonostante la lieve ripresa dei consumi registrata nel 2015, i bilanci e le spese degli italiani continuano ad essere distanti dai livelli pre-crisi: nell’anno appena concluso, infatti, la spesa media annuale delle famiglie si è attestata su 22.882 euro, ancora 856 euro in meno rispetto al 2007, mentre i risparmi familiari, nello stesso periodo, si sono contratti addirittura del 25%.
Crescono, invece, le spese fisse, che assorbono una quota sempre maggiore del budget familiare. Rispetto al 2007, i nuclei del nostro Paese spendono molto di più per le uscite legate alla casa, all’acqua, all’elettricità e ai combustibili per il riscaldamento (+536 euro), ma anche per le spese sanitarie e per la salute (+142 euro). L’aumento dei costi fissi ha portato le famiglie, nel tempo, a tagliare il budget riservato alla maggior parte delle voci di spesa, riorientando i propri acquisti su prodotti di minor valore o rinunciando a beni e servizi percepiti come non indispensabili.
Il fenomeno di orientamento verso il basso della spesa diventa più evidente se si esamina il dettaglio dei prodotti alimentari. Cresce infatti la spesa per frutta e ortaggi (+164 euro rispetto al 2007) e per zuccheri e dolciumi (+92 euro), ma diminuiscono le risorse destinate a tutti i prodotti di maggior costo e pregio. In primis la carne (-100 euro) e il pesce (-74 euro), ma alla revisione di spesa non sfuggono nemmeno pane e cereali (-68 euro), olio (-51 euro), latte, formaggi e uova (-48) e bevande (-6).
Tra i prodotti no food, invece, spicca il calo di abbigliamento e calzature (-512 euro rispetto al 2007), ma anche della spesa per mobili, articoli e servizi per la casa (-475 euro) e il crollo del budget allocato per alberghi e ristoranti (-304 euro). Praticamente dimezzato pure il budget riservato all’istruzione, che tra il 2007 ed il 2015 passa da 304 a 173 euro, con un calo del 43%. Un dato su cui pesa la rinuncia a libri, corsi privati e formazione, ma su cui incide anche il calo di iscrizioni di giovani alle università. Il calo maggiore, però, è registrato da trasporti e carburanti: nel 2015 le famiglie italiane hanno speso lo scorso anno per questa voce ben 1.290 euro in meno rispetto al 2007. Un taglio dovuto in parte dalla diminuzione dei prezzi dei carburanti avvenuta nell’ultimo anno, che ha permesso alle famiglie di risparmiare 212 euro l’anno; ma che è da accreditare per la maggior parte ad un minor consumo di carburanti e al mancato rinnovo del parco auto. Aumentano, invece, le spese per la cura della persona, i servizi di assistenza sociale e assicurazioni (+945 euro), quelle per spettacoli (+184) e comunicazioni (+149), voce che include smartphone e contratti di telefonia, nati proprio nel 2007 e ormai diventati un vero e proprio fenomeno culturale ed una necessità lavorativa.
“La ripresa dei consumi rilevata nel 2015 rispetto al 2014 è ancora troppo debole per permettere il recupero del crollo della spesa registrato nei tre anni precedenti”, spiega Massimo Vivoli, Presidente Confesercenti. “Bisogna inoltre ricordare che il ritorno in territorio positivo dei consumi avvenuto lo scorso anno ha riguardato soprattutto i beni durevoli, le cui vendite sono cresciute del 7% nel solo 2015, mentre il resto è rimasto al palo. Anzi: la diminuzione di vendite registrata in molti comparti suggerisce che la domanda dei consumatori sia in questa fase più debole di quanto previsto. In questo scenario, dobbiamo prepararci a correre ai ripari, anche perché uno stimolo importante alla crescita del Pil può provenire solo dai consumi, visto che gli investimenti hanno ancora bisogno di tempo per manifestarsi. C’è bisogno di un intervento coraggioso, che dia un po’ di ossigeno alle famiglie e aiuti la ripartenza della spesa”.

lunedì 28 marzo 2016

“Guerra al terrorismo”? La paura di nominare le monarchie del Golfo

Il sonno della ragione genera mostri e diabolici terroristi. Ma senza memoria la ragione funziona assai male. C’è una geopolitica e una storia del terrorismo islamico che ha due fronti, uno esterno e un altro interno. È sul fronte esterno che tutto comincia. L’errore è stato quello iniziale: dopo l’11 settembre del 2001 gli americani lanciarono una “guerra al terrore” che non solo non ha reso il mondo più sicuro ma l’ha portato nelle case degli europei. Il regime talebano-qaedista venne nominalmente abbattuto ma è in Pakistan che era nato ed lì che poi sono morti il capo di Al Qaeda Osama Bin Laden, nel blitz di Abbottabad, e il Mullah Omar, in un ospedale di Karachi: ma non si poteva certo colpire un Paese con l’atomica che con l’approvazione degli Usa e i finanziamenti dei sauditi aveva sostenuto dal 1979 la guerra dei mujaheddin contro l’Unione Sovietica e causato la sua sconfitta.
Un ufficiale dei servizi pakistani, sostenitore di Bin Laden, mi mostrò appena dopo l’11 settembre un pezzo del Muro di Berlino con una dedica della Cia: «È per questo che lei ha combattuto». Nacque così negli anni ’80 un legame tra Washington e il mondo sunnita più integralista quasi indissolubile: è sufficiente esaminare la relazione con Riad stipulata già nel 1945 con il famoso scambio tra Roosevelt e Ibn Saud “petrolio contro sicurezza”. L’Europa si è infilata in questo rapporto da “free rider” direbbe Obama, scroccando vantaggi politici ed economici. Ma chi semina grandine raccoglie tempesta. Con la guerra del 2003, con cui dei leader approssimativi volevano ridisegnare il Medio Oriente, gli Usa hanno scoperchiato il vaso di Pandora è non l’hanno più richiuso.
Al Qaeda, da cui in seguito è nato l’Isis, dall’Afghanistan si spostò in Mesopotamia. I gruppi jihadisti si sono moltiplicati e dopo il Califfato ci sarà qualche cosa d’altro, soprattutto se andremo a bombardare in Libia come nel 2011 senza sapere davvero cosa fare e con chi. La Tunisia sta già pagando l’instabilità nordafricana del post-Gheddafi che ha contagiato tutto il Sahel e le frontiere europee da un pezzo sono sprofondate di alcune migliaia di chilometri a Oriente e Occidente: l’Europa di Bruxelles è stata l’ultima ad accorgersene finendo con l’arrangiare un dubbio accordo sui profughi con la Turchia.
Il Califfato non aveva inizialmente come obiettivo l’Occidente ma in primo luogo il governo sciita di Baghdad e poi quello filo iraniano di Assad: lo scopo era la rivincita dei sunniti in Mesopotamia e nel Levante, un proposito condiviso dalla Turchia e dalle monarchie del Golfo, Arabia Saudita in testa. Con l’evidente menzogna di sostenere un’opposizione moderata quasi inesistente, gli Stati Uniti hanno dato via libera alla Turchia per aprire “l’autostrada della Jihad” con l’afflusso di migliaia di jihadisti da tutto il mondo musulmano, Europa compresa.
La risacca sanguinosa di un conflitto con 250mila morti e milioni di profughi da qualche tempo è tornata e vive accanto a noi. Il delirio terrorista del jihadismo ha una sua logica alla quale non siamo per niente estranei. Ma oggi versiamo lacrime, stringiamo i denti, paghiamo i nostri errori e magari anche qualche promessa mancata. Gli Stati Uniti e la Francia progettavano nel 2013 di bombardare il regime di Damasco e fino a ieri hanno continuato a proclamare che Assad doveva andarsene: quando non è avvenuto i jihadisti hanno deciso di vendicarsi. Nel 2014, prima che tagliassero la testa a un cittadino americano, gli Usa non avevano fatto una piega quando Mosul era caduta in mano all’Isis, assistendo alla rotta di Baghdad senza intervenire. Poi è iniziata una guerra al Califfato tra le più ambigue della storia militare recente. Lo stesso è accaduto con i militanti dell’Isis in Turchia. Ankara ne ha fatti passare migliaia, li ha anche usati contro i curdi siriani, poi con l’intervento della Russia a fianco di Assad ha dovuto rinunciare a entrare in Siria per pendersi Aleppo e Mosul in Iraq grazie agli accordi con l’Isis: anche qui i jihadisti si vendicano del loro sponsor Erdogan a colpi di attentati.
Sono oltre 35 anni che le potenze occidentali si appoggiano a quelle arabe del Golfo che utilizzano, armano e finanziano l’estremismo islamico – è avvenuto anche in Bosnia – per scaricarlo quando non serve più. Questo spiega pure quanto accade sul fronte interno europeo dove legioni di sociologi si affanneranno a spiegare come mai intere periferie sono diventate roccaforti del radicalismo. I jihadisti hanno portato la guerra del Siraq nelle nostre case, che poi sono anche le loro, perché i nostri alleati gli hanno fatto credere che l’avrebbero vinta.
Nella lotta al terrorismo si intersecano piani differenti ma non così incomprensibili. Per fare la lotta al terrore ci vuole una polizia informata, ad alta penetrazione sociale, come avrebbe detto un grande agente come Calipari, ma l’aspetto più controverso e decisivo è districare i nodi che tengono avviluppato l’Occidente ai complici del jihadismo, ai loro mandanti materiali e ideologici. Prima ancora del fallimento dell’intelligence c’è stato quello della politica.

venerdì 25 marzo 2016

L’Occidente dopo il tramonto

Politica internazionale, apparato mediatico, opinione pubblica: a loro converrà trincerarsi nell’imbarazzo del silenzio, che si connota anche come unico cordoglio. Perché non basteranno le farneticanti omelie dell’intellettualoide borghesia delle partigianerie di fraccomodo – inscenate dall’arrembaggio della indecenza del salvinismo, e della cecità del renzismo -, per filtrare la coscienza dell’Occidente nei depuratori dell’indifferenza. Da Charlie Hebdo a Zaventem, passando per il Bataclan e la metropolitana di Maelbeek, la diplomazia dell’ozio si è adagiata sui guanciali del conformismo, lasciando che la fatale emorragia del terrorismo venisse a malapena tamponata con l’opportunismo della solidarietà.
La viltà della “esportazione della democrazia” – prosecuzione dell’imperialismo coi mezzi del politicamente corretto – si manifesta nelle lagne a gettoni della Mogherini. La stessa che, nemmeno 9 mesi fa, ammiccava gioviale ai petrodollari dell’Arabia Saudita, e i cui sorrisi come scimitarra trafiggevano il cuore di un’Europa soggiogata dalla sua impotenza. La commozione ad orologeria della Lady PESC è la parafrasi dell’Occidente: sull’arroganza dell’educare alla “civiltà”, cala la rivolta dell’Oriente – violentemente a salvaguardia della sua integrità -. Bruxelles, ieri, velava le turpitudini omicide di Salah. Bruxelles, oggi, lacrima lo stesso sangue che gli adepti del magrebino rivendicano.
Ma l’ipocrisia della meschinità è sconfinata: l’ISIS non è un cancro, ma la metastasi di un carcinoma riprodotto dalle cellule malate del neocolonialismo di Washington e delle marchette dei filo-atlantisti. Prima che una “guerra santa”, la jihad è la risposta (netta e marcata) alla prepotenza della militarizzazione griffata NATO – e “made in USA” -, e alla propaganda della democratizzazione coercitiva. Assecondarla è un crimine, approfondirla è un’urgenza. Frattanto, l’avanspettacolo del ridicolo prosegue, e la profezia della contemporaneità respira nella metrica di Battiato: “[...] l’analista sa che la famiglia è in crisi, da più generazioni, per mancanza di padri”

giovedì 24 marzo 2016

Toh, il capo di Al-Jazeera è un jihadista reduce dalla Siria

E’ uno jihadista salafita, reduce dalla guerra terroristica in Siria, il nuovo Ceo di “Al-Jazeera”, potente network del Qatar che fa da punto di riferimento per i media occidentali nella narrazione dei disastri a catena in Medio Oriente. Lo rivela un articolo di “Tunisie Secret”, tradotto da “Aurora” e ripreso da “Coscienze in Rete”. «Chi è dunque Yasir Abu Hilala, Ceo di al-Jazeera, di cui i tunisini ignoravano anche il nome prima che due suoi dipendenti, Fatima Tariqi e Qadija Bengana pubblicassero su Facebook degli status offensivi nei suoi riguardi? Ciò che ci ha spinto a scavare nel passato sepolto di Yasir Abu Hilala è la lettera dell’egiziana Huwayda Taha, che per 19 anni ha prodotto documentari ad al-Jazeera». Il nuovo amministratore delegato della rete? Un fratello musulmano dal passato di jihadista salafita. Di origine giordana, Yasir Abu Hilala iniziò la carriera islamico-giornalistica all’inizio degli anni ‘90 per alcuni giornali giordani, tra cui “al-Ribat”, organo ufficiale dei Fratelli Musulmani ad Amman.
Yasir Abu Hilala, racconta il giornale tunisino, fu reclutato da “Al-Jazeera” nel 1999 e grazie ai suoi stretti rapporti con i fratelli musulmani Wadah Qanfar e Thamur Ben Hamad. Direttore dell’ufficio della capitale giordana, nel luglio 2014 fu nominato Yasir Abu Hilalaamministratore delegato in sostituzione di Wadah Qanfar, «smascherato da un cablo di Wikileaks del 20 ottobre 2005 che ne dimostrava i legami con la Cia». La carriera da fondamentalista di Yasir Abu Hilala iniziò molto presto nella gioventù dei Fratelli Musulmani di Giordania, continua “Tunisie Secret”. Lo ammisse lui stesso nel luglio 2012, sostenendo che fosse «assolutamente necessario» ribellarsi e «imporre lo Stato islamico». Nel gennaio 2013, Yasir Abu Hilala riconobbe le relazioni con i jihadisti salafiti siriani e con il capo del gruppo terroristico “Jabhat al-Nusra”, protagonista della guerra in Siria. Il giornalista siriano Nizar Nayuf lo ha definito «terrorista e criminale», accusandolo di esser stato «tra i primi, nella primavera del 2011, a trasportare nella regione di Daraa, nel sud della Siria, armi e dispositivi di comunicazione satellitare: lo fece con l’aiuto dell’intelligence giordana e dei Fratelli Musulmani giordani».
Molto prima della promozione a capo di “Al-Jazeera”, prosegue il giornale tunisino, Yasir Abu Hilala si distinse per i numerosi Abu Hilala oggiarticoli e interviste ai terroristi islamici più pericolosi al mondo. Il 25 aprile 2006, “Al-Jazeera” pubblicò un video di propaganda su Abu Musab al-Zarqawi, diretto e narrato dallo stesso “giornalista”. Proprio nella “primavera araba”, nel luglio 2011, Yasir Abu Hilala «volle incendiare la Giordania riprendendo il vecchio sogno di distruggere il “regime pre-islamico: ma, a differenza dei tunisini nel 2011, i giordani non ci cascarono e gliele suonarono». Abu Hilala è «così vicino al salafismo jihadista» che, appena un anno dopo la nomina al vertice del network televisivo, lanciò un sondaggio ampiamente manipolato, il 26 maggio 2015 chiedendo agli spettatori: “Sostenete le vittorie dello Stato Islamico in Medio Oriente?” Gli intervistati risposero “sì” in modo schiacciante, 81%. Immediata la protesta di Huwayda Taha, ex produttrice di “Al-Jazeera”, intervistata da Samira Handaui: «Mi rattrista che questo luogo sia divenuto filo-Isis. I finanziatori di al-Jazeera erano più intelligenti quando facevano del loro meglio per nascondere il loro vero volto».

mercoledì 23 marzo 2016

Adesso si comincerà a dire che l'Europa è in guerra. Ma le potenze europee sono già in guerra da anni

Lo “sciame” di attentati terroristici a Bruxelles è la dimostrazione del fallimento dell'intelligence del Belgio ma anche di quella dell'Europa, colpita e affondata nella capitale dell'Unione e sede della Nato. Era assai prevedibile che i jihadisti europei tentassero di vendicarsi e che altre cellule terroristiche fossero già pronte a entrare in azione. Dopo tanti vertici in cui è discusso di collaborazione tra i servizi europei la realtà tragicamente dimostra che neppure belgi e francesi riescono a cooperare tra di loro.
Lo dimostra l'emblematica vicenda di Salah Abdeslam, l'imprendibile terrorista e del suo gruppo di fuoco bloccati a due passi dalla strada dove già mesi fa erano stati compiuti arresti e perquisizioni: lui è sempre tornato, a Moleenbek, un quartiere che lo ha protetto come fosse un'impenetrabile roccaforte del jihadismo.
Salah è rimasto tra noi per mesi, attraversando indisturbato le frontiere. Il 9 settembre 2015 viene fermato insieme a Mohammed Belkaid, in arrivo dall'Ungheria, dai poliziotti austriaci, tetragoni architetti di barriere anti-migranti, ma incapaci di fare un accertamento come si deve: lo lasciando andare in compagnia di un altro candidato kamikaze.
L'Europa deve rendersi conto che i il terrorismo vive tra noi, che vittime e carnefici stanno gli uni accanto agli altri, che non si tratta di episodi isolati, che hanno radici profonde tra le guerre mediorientali e nei conflitti che percorrono lo stesso continente. Qui in Europa la guerra all'Isis si fa un po' a spanne, in ordine sparso, salvo poi comunicare di tanto in tanto che un drone o un raid aereo hanno ucciso un leader del terrorismo in Siria oppure in Libia per dare l'impressione confortante che la tecnologia occidentale è di una spietata precisione.
Niente di più falso. Cosa ci sia intorno, cosa si muova davvero tra Raqqa e Mosul, dentro al Medio e verso l'Europa rimane avvolto nel mistero e cogli impreparati gli apparati di sicurezza.
Adesso si comincerà a dire che l'Europa è in guerra. Ma le potenze europee sono già in guerra da anni, basti pensare a Afghanistan, Iraq, Libia: anzi proprio ora servirà una seria riflessione su questi conflitti e domandarsi se la famosa “guerra al terrorismo” lanciata dagli americani dopo l'attacco di Al Qaeda l'11 settembre 2001, ci abbia resi più o meno sicuri. La risposta è evidentemente negativa. Prima c'era Al Qaeda, poi è si è formato l'Isis, forse tra un po' di tempo avremo altre organizzazioni.
Ma l'anti-terrorismo, come hanno insegnato anche qui in Italia, comincia prima della fine tragica, dell'esplosione dei kamikaze, inizia con la prevenzione, con indagini discrete ma precise che a volte durano anni, con l'attenzione costante e la conoscenza dei luoghi di aggregazione, con gli informatori giusti, battendo le strade al confine tra il mondo come appare e quello sommerso. E' stato fatto questo? Sembra di no.
La ragione per cui il terrorismo è diventato tremendamente efficace anche in Europa è che si è guardato troppo al fronte esterno, illudendosi con i droni o i raid di sistemare la faccenda: una strada pericolosa che ha portato a trascurare quanto accadeva nella casa europea, nel complesso tessuto sociale delle nostre periferie, soprattutto del Nord. Sembra paradossale ma la guerra al terrorismo, quella intelligente, deve ancora cominciare davvero.

martedì 22 marzo 2016

La falsa solidarietà di Angela Merkel agli immigrati

Da una parte ci sono i paesi che vogliono chiudere le frontiere, rimandare a casa chiunque, buttare a calci in mare ogni essere umano che non abbia il pedigree giusto; dall’altra ci sono paesi come la Germania con a capo Angela Merkel che invece hanno una posizione di apertura e di apparente accoglienza.
Ma è davvero accoglienza o una scaltra politica di sfruttamento?
La Merkel vede più lontano degli altri leader europei e ha capito che gli immigrati sono una ricchezza. Nel sistema della crescita l’immigrato si inserisce perfettamente in popolazioni che avendo già comprato tutto il comprabile fanno fatica a stare dietro ai continui richiami e sollecitazioni di acquisti per fare crescere l’economia. Ecco che giunge come manna dal cielo una quantità di disperati pronti a fare qualsiasi cosa pur di entrare nell’eldorado, pur di fare parte del mondo dei ricchi occidentali.
La Cancelliera tedesca sa che le pensioni degli anziani tedeschi, per poter ancora esistere, dovranno essere pagate dai giovani immigrati, visto che nei nostri paesi viviamo così bene che non vogliamo nemmeno più fare figli! Quindi, senza immigrati saremmo a crescita di popolazione sotto zero. E chi le paga le pensioni se non c’è abbastanza forza lavoro giovane? E’ notizia di questi giorni che grazie agli immigrati sono state pagate pensioni a seicentomila italiani.
Inoltre, per il mercato del lavoro l’immigrato è ottimo, si può sfruttare; e così si possono ricattare anche i lavoratori nazionali in una lotta fratricida, per la gioia degli imprenditori e sfruttatori vari che si ritrovano una massa di persone alle quali dare paghe miserevoli. E si sa che per chi fugge da fame e guerre accettare condizioni difficili e di sfruttamento sarà sempre meglio che morire sotto le bombe.
Il paese beneficia paradossalmente anche delle eventuali attività illegali che alcuni immigrati emarginati dal mondo del lavoro dovessero intraprendere, dato che anche queste attività recentemente sono state calcolate nel computo della crescita del PIL.
Ma perché la Merkel è così sicura e temeraria tanto da non temere troppo scavalcamenti a destra? Il suo calcolo politico è chiaro. Con la sua finta solidarietà attrae anche consenso fra le persone progressiste e lei sa bene che un paese organizzato e larghe fasce della popolazione solidale possono assorbire il colpo e far giocare a proprio favore questa ondata di persone che potranno portare nuova energia, soldi e linfa vitale alla “Crande Cermania”.
Qualcuno si è mai chiesto perché gli Stati Uniti sono il paese più ricco economicamente? Un mix di razze e intelligenze al servizio del capitalismo è la migliore miscela per ottenere risultati e performance, milioni di persone che attratte dal successo si immolano all’altare del denaro pronte a qualsiasi sacrificio e lotta. Studiano, si ammazzano di lavoro e arrivano a risultati eccezionali per la gloria del capitalismo.
La Merkel sa che una delle forze propulsive è proprio poter attrarre persone di diversi paesi assetate di emergere.
Quando il muro di Berlino è crollato, l’intera Germania dell’est, con centinaia di migliaia di persone che si sono trasferite all’ovest, è stato assorbita in un amen. Il marco della Germania dell’est, dell’allora valore pari a zero, fu convertito nel marco dell’ovest alla pari. Erano sicuri che questo incredibile e impressionante sforzo e regalo economico alla lunga avrebbe pagato e così è stato.
L’economia tedesca è così forte e il paese così organizzato che potrebbe ospitare milioni di persone senza particolari problemi. Certo ci saranno tensioni, i partiti di destra avanzeranno ma alla lunga la politica della Merkel può risultare vincente, sempre per la gloria del dio denaro, non certo per motivi solidali.
La Germania campione del mondo di calcio era piena di ge

lunedì 21 marzo 2016

Se nell'anno va tutto bene, l'assicurazione P2P ti ridà parte del premio

IN GERMANIA l'assicurazione peer-to-peer ha già riscosso un notevole successo. E presto potrebbe sbarcare anche in Italia. Si, perché Friendsurance fa sapere di avere "ambizioni internazionali e che il modello P2P può essere applicato in ogni mercato. Attualmente stiamo valutando la possibilità di espansione in altri mercati", conferma a Tom's Hardware Eva Genzmer, portavoce della società assicurativa.
Ma cos'è esattamente un'assicurazione P2P? Un prodotto all'avanguardia che organizza gli assicurati in gruppi omologhi, magari per età, composizione famigliare e reddito, e riconosce a fine anno un parziale rimborso nel caso l'assicurazione non sia stata usata per far fronte a imprevisti. Ad esempio tra il 2013 e il 2014 più dell'80% dei clienti ha ricevuto in media il 33% dei premi. Nel 2014 a fronte di un esborso di 621,63 euro chi non ha avuto alcun tipo di incidente ha ottenuto un accredito a fine anno di 226,17 euro.
Al momento Friendsurance, che è presente sul mercato tedesco dal 2010, vanta 75mila clienti con una crescita costante di 200 al giorno. Il suo portfolio offre quattro tipi di prodotti assicurativi: hi-tech (smartphone, tablet, notebook e fotocamera), personale, casa e auto (senza rimborso annuale). "Ora abbiamo un numero di clienti paragonabile a una società assicurativa tedesca di medie dimensioni", ha dichiarato Sebastian Herfurth, co-fondatore di Friendsurance. "Facendo un paragone con le altre startup assicurative tecnologiche europee siamo molto più avanti nello sviluppo".
In effetti con la nascita di questa piccola società berlinese è nato il segmento P2P, che ormai consta di 15 realtà emergenti in 7 paesi. Il segreto di questo successo è legato a un modello di business basato su share-economy efficiente e sostenibile. Se il piccolo gruppo di assicurati non fa richieste riceve alla fine dell'anno una parte del premio. In caso di denunce questa cifra si abbassa progressivamente. Se i danni sono minimi viene sfruttato il premio pagato dal gruppo; per cifre superiori è l'assicurazione stessa ad aggiungere la differenza.

domenica 20 marzo 2016

Donne tra quote e soffitti di cristallo

Dei sessanta governi formati dopo il varo della Costituzione repubblicana, trentaquattro sono stati composti interamente da ministri (uomini). E sebbene quella Costituzione diede la possibilità alle donne di accedere a incarichi pubblici e di governo, ci sono voluti quasi trent’anni per avere almeno una donna all’esecutivo; si è dovuto attendere il 1993 per avere almeno un 10 per cento di deputate, il 2006 perché non si scendesse sotto questa soglia e l’insediamento del governo Renzi per festeggiare la parità di genere in parlamento.
E nonostante sia durata il tempo di uno scatto fotografico - visto che la presenza femminile è conteggiata sui soli ministri all’atto dell’insediamento e i calcoli non includono il presidente del Consiglio - bisogna ammettere che è quella con il più folto numero di donne, che arrivano a essere un terzo del totale.
Fino, però, a dimezzarsi in seguito alle successive nomine di viceministri e sottosegretari e ad arrivare, dopo il rimpasto del 28 gennaio di quest’anno, al 25,4 per cento. Eppure, secondo quanto si legge nel minidossier Trova l’intrusa, redatto da Openpolis, la corrente legislatura vanta il record storico di donne in parlamento.
Ma l’aumento percentuale della popolazione femminile alle Camere non è, di per sé, garanzia di parità di accesso alle massime cariche pubbliche. Tant’è che, a parte la terza carica dello Stato, la cabina di regia dell’attività legislativa, ossia la presidenza delle Commissioni permanenti, in entrambe le Camere, è appannaggio degli uomini in dodici casi su quattordici; nessun gruppo politico alla Camera è presieduto da una donna e solo da tre su venti al Senato; quattro su ventotto le donne che sono a capo di una commissione parlamentare; i tesorieri dei gruppi parlamentari sono tutti uomini. Dato che conferma la tendenza a escludere le donne da incarichi economici.
Un approccio che trova riscontro, anche, a livello regionale: scarseggiano negli assessorati che gestiscono corposi fondi e le deleghe al bilancio sono quelle meno affidate alle donne. Quella alla sanità, per esempio, che gestisce la grande maggioranza del bilancio, è guidata da una donna solo in una Regione su quattro. Gli incarichi più adeguati (?): istruzione e formazione professionale, assistenza sociale e cultura.
La carica in cui si nota una maggiore parità è quella di assessore, con una presenza del 35 per cento di donne, versus quella di presidente, due donne su dieci. Sono in minoranza nei consigli regionali, presenti al 18 per cento, e più visibili nelle giunte, con il 35 per cento. Maglia nera al Molise con zero donne in giunta e alla Basilicata con nessuna donna in consiglio. Parità in Emilia Romagna, Toscana e Marche. La più virtuosa, la Campania con i tre quarti di assessore (donne). Sullo scranno di governatore, solo due donne, In Friuli Venezia Giulia e in Umbria, mentre presidenti e vicepresidenti di consiglio regionale sono donne, rispettivamente, nel 14 e nel 13 per cento dei casi.
Ma la vera misura dell’accessibilità delle donne nelle istituzioni è data dalla loro presenza nella politica locale. Che svela: la loro difficoltà nel ricoprire ruoli apicali nelle amministrazioni comunali; la loro minore presenza nelle istituzioni di maggior prestigio; la più alta probabilità che accedano a incarichi politici tramite nomina del presidente o del sindaco piuttosto che attraverso il voto di preferenza; la loro presenza si riduce man mano che l’istituzione aumenta di importanza.
Quindi: i primi cittadini delle grandi città sono tutti uomini; nessun centro urbano con più di trecentomila abitanti è amministrata da un sindaco di sesso femminile, su centotto comuni capoluogo, quelli capeggiati da donne sono solo quattro - Alessandria, Ancona, Vercelli e Verbania -. Poi certo, maggiore è il comune, più grande è la quantità di assessore.
Bisognerà aspettare il 2017, quando tutti i consigli comunali si saranno rinnovati, per vedere se, con l’applicazione, estesa a tutti i comuni, della legge 215/2012, che ha introdotto la doppia preferenza di genere, la quota di donne nelle amministrazioni locali salirà.

venerdì 18 marzo 2016

Le misure di Draghi al massimo possono andar bene alla famiglia Boschi

L’annuncio della riduzione del tasso di interesse a zero da parte della Bce può giusto essere sorprendente per qualche titolista di giornale. Da quando Mario Draghi è presidente della Bce, Repubblica e il Corriere fanno a gara a vendere i suoi miracoli come immancabile preludio a una stagione di ripresa economica. Basta confrontare l’andamento del Pil europeo e nazionale in questi anni per farsi un’idea di quanto sia solido questo effetto annuncio. Comunque, già il rialzo dei tassi di interesse americani di dicembre ha alimentato grossi scossoni nelle borse globali di gennaio sconsigliando di continuare nella politica di aumento dei tassi, così come era stata presentata dalla Federal Reserve. Inoltre, l’intervento federale americano volto a calmierare il prezzo del dollaro, visto che molti paesi non potevano permettersi debiti in dollari troppo alti, imponeva misure che facessero ribassare l’euro pena ulteriore perdita competitività moneta continentale. Infine, il kamikaze delle politiche di lancio delle banconote dall’elicottero, il giapponese Haruiko Kuroda presidente della banca centrale del paese del Sol Levante, si era già addentrato nelle politiche di NIRP (Negative Rate Interest Policy). Se in Giappone il prestito avviene a tassi negativi -come dire ti presto cento mi rendi 99- era scontato che Draghi arrivasse almeno al tasso zero. Lo imponevano le esigenze dell’economia euro, causa moneta troppo alta, e quelle dei mercati finanziari sempre a caccia di moneta a tasso zero per investirla in qualche avventura speculativa e in qualche bolla finanziaria. Che poi i capitali a tasso zero siano munizioni gratis per le guerre finanziarie, pudicamente chiamate volatilità o correzione dei valori, è altra questione.
Certo, si può benissimo credere che tutta questa liquità immessa nel mercato possa alimentare quella che viene chiamata l’economia reale. A suo tempo anche la Roma acquistò Renato Portaluppi e Andrade credendo che fossero calciatori e non turisti in infradito provenienti dal Brasile. E la credulità popolare arrivò anche a pensare che Berija, successore alla guida dell’NKVD dopo Ezov, sarebbe stato un commissario del popolo meno inflessibile. Poi intervengono i fatti, e i grafici visto che qui si parla di economia e di finanza, e la realtà comincia a cantare in modo diverso da come raccontano l’immaginazione o la propaganda.
Certo, le misure di denaro a bassissimo costo da parte di Draghi, in un anno di Quantitative Easing (il complesso di politiche di immissione di liquidità nel sistema finanziario ed economico) fino ad ora non hanno funzionato. Per quanto la propaganda tricolore racconti quello che vuole, in dodici mesi di Quantitative Easing di Draghi l’indice Euro Stoxx 50, che calcola le cinquanta società più importanti collocate nelle borse del continente, ha perso il 17 per cento. Da questo grafico di Bloomberg possiamo capire molto dell’efficacia delle politiche di Draghi sui principali titoli europei, quelli che finiscono per determinare ciò che accade in economia
Come si vede le misure di Draghi, pallino rosso segna il via di queste politiche, sono andate bene all’inizio per poi non servire nè durante la crisi greca nè nei giorni caldi di quella cinese e tantomeno nei momenti più roventi della crisi bancaria di inizio anno. Per questi motivi, notissimi ai mercati quanto ignoti alle opinioni pubbliche, e per il comportamento delle altre banche centrali, prima accennato, Draghi doveva fare qualcosa. Vediamo in sintesi le misure annunciata da Draghi con la consueta conferenza di Francoforte e le prospettive che questa comporta. Prima di tutto le misure non sono certo piccole, non a caso le borse hanno tutte avuto un’impennata, in previsione di una significativa ondata di liquidità a loro beneficio. Grosso modo riguardano: 1) la fissazione del tasso di interesse a zero 2) l’aumento del costo del deposito del denaro presso la Bce per facilitare la circolazione esterna all’istituto 3) l’ampliamento dell’acquisto di asset da 60 a 80 miliardi di euro mensili da aprile 4) la possibilità di acquistare obbligazioni non bancarie 5) il rifinanziamento delle banche in 4 operazioni a lungo termine a partire dalla tarda primavera.
Roba, dal punto di vista finanziario, e degli istituti bancari, meglio del socialismo o della più sregolata economia del dono. Si presta denaro a costo zero, si vanno a comprare bond stampando moneta dal nulla, si estende questo programma al di fuori dei titoli finanziari, si prevede di rifinanziare le banche in programmi pluriennali. Il problema è che non funziona. O meglio, produce degli effetti per produrre delle crisi. Vediamo.
Ovviamente l’effetto immediato è stato ottenuto, quello di far calare spettacolarmente l’euro in modo da recuperare competitività col dollaro. Qui cambio Euro-Dollaro a pochi minuti da discorso Draghi.
L’immagine non ha bisogno di commenti, anche se lo stesso Draghi, in conferenza da Francoforte, ha detto letteralmente che non si aspetta una ripresa economica spettacolare. Eppure l’euro è calato lo stesso, segno che è sui mercati finanziari che si gioca la partita vera. Vediamo qui in che modo, tenendo come epicentro la terra che conta ovvero la Germania. Ecco come ha reagito il Dax, l’indice di Francoforte alla notizia del tasso zero di Draghi
Niente male come speeball per i titoli azionari, vera e propria cocaina finanziaria che serve per rianimare mercati un pò deboli. Quindi tutto bene? Beh, giusto se ancora uno è quel tipo di mohicano che legge l’Unità, è abbonato a Repubblica, e prende sul serio le trasmissioni di Concita De Gregorio. Perchè è da quest’altro grafico che si possono incominciare a vedere i problemi. Quelli che hanno come epicentro la Germania. Certo, la borsa di Milano è salita, nella struttura del Mibtel rispetto al passato hanno maggior peso i titoli bancari assicurativi e non a caso i bancari riprendono (in vista magari di acquisizioni), il bond italiano scende etc. ma andiamo dove è il problema. Sempre a Francoforte. Vediamo il rendimento dei bond tedeschi a dieci anni
grafico draghi 4L’annuncio di Draghi li porta verso un deciso ribasso. Si dirà, ma che problema è? Il denaro a costo zero, l’acquisto di bond da parte della Bce rendono normale un rendimento dei bund tedeschi così basso che non fa altro che assottigliare il debito pubblico della Germania. Si, ma andatelo a dire a Die Welt, influente quotidiano tedesco, che commenta così, parlando di Draghi “Il maestro dello spettacolo colpisce ancora”. Se proprio si fossero equivocate queste parole basta vedere il commento di Holger Zschäpitz, caporedattore economico di Die Welt: “lo spettacolo dei mercati non può proseguire se non peggiorando la situazione del risparmiatore”. Qui si intendono tre cose precise: la prima è la difficoltà a rastrellare fondi dai risparmiatori tedeschi con questi tassi di interesse, la seconda la crisi del modello della banche tedesche che, a tasso zero, non possono lucrare sui tassi, la terza il costo zero dei bond tedeschi, effetto delle politiche di Draghi, che impedisce di prosperare, regalando rendimenti sicuri, ai fondi pensione di quel paese. Per non dire che buona parte dell’establishment non vede di buon occhio il calo dell’euro nella prospettiva di una moneta rifugio. Insomma, la Germania è al cuore della contraddizione delle politiche di Draghi: a causa delle stesse misure da una parte il Dax di Francoforte ne beneficia, dall’altra il modello risparmio-banche-fondi pensione in Germania vede (e non da oggi) prospettive di crisi. In questo senso Draghi, che nutre le borse con una vera e propria economia del dono di denaro ai grandi player finanziari, è una conferma vivente di Marx dallo scranno più alto della banca centrale: risolve crisi preparando le condizioni per crisi ancora più forti. Magari all’interno del paese chiave dell’Europa. Crisi di quelle che finiscono addosso a tutti, nonostante la propaganda dell’improvviso di Rignano che fa da presidente del consiglio.Certo, il programma di aiuto alle banche europee è previsto già da oggi ma non sfugge a nessuno che il settore, a livello planetario, attraversi potenti pulsioni e trasformazioni. Le banche stanno infatti attraversando, sia a livello micro che macro, cambiamenti pari, se non superiori, a quanto avvenuto nella manifattura dopo l’immissione massiccia di tecnologie. E lo stesso Draghi ha fatto capire chiaramente, da Francoforte, che in uno scenario di tassi di interesse zero, o negativi, ci saranno banche in grado di sopravvivere ed altre no. Chissà i riflessi in Italia, e ci saranno, di tutto questo.
grafico draghi 5Il futuro ovviamente è già scritto. Si chiama Giappone, il paese che ha cominciato le politiche alla Draghi già alla esplosione della bolla immobiliare di inizio anni ’90. Ma che da qualche anno, con le Abenomics, ha radicalizzato queste politiche in modo da anticiparci quando accade in Europa. Guardiamo questo grafico da Zero Hedge
La scritta blu (Abenomics) significa l’inizio di politiche alla Draghi da parte del governo giapponese. Si guardi prima la freccia verde chiara (Boj Balance Sheet) riguarda il bilancio della banca centrale giapponese che si espande (stampando soldi). La si confronti con la traiettoria della freccia rossa (Japan GDP) e di quella verde scura (Nikkei 225). Così vediamo che di fronte ad una spettacolare espansione del volume di soldi stampati dalla banca centrale giapponese il Pil di quel paese è aumentato di poco. Mentre, in compenso, è schizzata la borsa. Tutte condizioni per l’esplosione di una bella bolla finanziaria quando un Pil così basso, nonostante le iniezioni di denaro, non ce la farà a giustificare dei valori azionari così alti. Anche perchè il debito giapponese, nel frattempo, è salito.
grafico draghi 6L’unica cosa che è discesa, in verità, non sono i profitti ma i salari. Qualcuno, col proprio lavoro, dovrà pure pagare tutta questa immissione di denaro dal nulla. Il modello Draghi non è dissimile, come abbiamo visto nasce come risposta alle misure giapponesi sullo stesso terreno: abbassare tassi interesse e rianimare il mercato azionario. In compenso c’è chi ha già fissato la lista per la spesa per Mario Draghi, ovvero la stima dei titoli possibili da comprare, operazione possibile dal 16 marzo con le nuove misure. Visto che fino ad oggi non si potevano comprare titoli non finanziari con i soldi dalla Bce da ora è possibile. Dando finalmente una mano all’Euro Stoxx 50 dopo questo maledetto 17 per cento perso lo scorso anno. La lista della spesa che vediamo, come si ntta in piccolo è stata compilata da Goldman Sachs Global Investment Research. Vedi mai che Mario Draghi, che ha lavorato a Goldman, darà una mano a qualche vecchio amico.
grafico draghi 7Con una lista della spesa del genere qualche azione importante non può che salire e, in generale, il costo del lavoro e la spesa pubblica non possono che scendere per sostenere questo gigantesco sforzo di evoluzione del valore. Non a caso un costo del lavoro basso e una spesa “sostenibile” sono sempre l’ABC di ogni raccomandazione all’economia che si rispetti. Come si vede, nel capitalismo, anche stampare denaro, un universo di denaro, non è una operazione neutrale. Va sottomesso il lavoro: il capitale riesce a regalare solo a sé stesso. E poi alla prossima crisi si vedrà. Certo, in Italia sono misure buone per la Boschi Family magari tengono in piedi le banche più furbe, sono utili per le aziende degli amici e tengono in vita, con bilanci zombie, i governi Renzi finchè riescono a reggere. La famiglia Boschi, che tiene banca e governo, dovrebbe essere felice. Rimane da dire che giusto nelle scuole di formazione renziane si può parlare di mercato. Qui siamo di fronte ad un capitalismo che per mantenere sé stesso deve stampare quantità impressionanti di denaro. Riuscendo, viene da dire, persino a riprodurre enormi diseguaglianze e spettacolari crisi anche quando stampa soldi dal nulla.

giovedì 17 marzo 2016

Guerra in Libia, non sarà certo l’Italia a decidere il da farsi

Stupidamente in questi giorni ci chiediamo se, quando e come l’Italia debba andare a combattere in Libia. Stupidamente, perché, in forza dei trattati di pace con gli Usa e del fatto che i banchieri yankee controllano il sistema bancario italiano, sarà Washington (con al più Londra e Parigi) a decidere che cosa farà l’Italia, anche questa volta, come già ha fatto con Kuwait, Jugoslavia, Iraq, Afghanistan, Gheddafi. E lo deciderà senza riguardo agli interessi italiani e alla vita degli Italiani. La storica stabilità della politica estera italiana malgrado la storica mutevolezza dei suoi governi, dipende dal semplice fatto che, a seguito della resa incondizionata agli angloamericani l’8 settembre 1943, sono stati imposti protocolli che stabiliscono che l’Italia obbedisca agli Usa in materia di politica estera (e in altre materie, comprese quella finanziaria), al disopra delle norme costituzionali che proibiscono che l’Italia faccia guerre. Quando personaggi istituzionali italiani e non, preposti alla sicurezza e alla difesa, dicono che si cerca di evitare la guerra e che il problema è in mano all’intelligence, intendono che i servizi segreti militari di paesi Nato, tra cui l’Italia, stanno eseguendo serie di uccisioni mirate di capi “nemici” mediante droni armati, mediante tiratori scelti trasportati con velivoli silenziati o stealth, mediante commandos di Legione Straniera o di corpi simili dei paesi Nato e di Israele.
In questi giorni Renzi ha firmato e subito segretato un decreto che estende ai corpi speciali dell’esercito le coperture riservate ai servizi segreti. Il che vuol dire, esplicitamente, che manda le forze armate italiane a uccidere, cioè a fare la guerra, in Libia. Se Renzi e Obamaqualcuno di quei militari sarà catturato dall’Isis, probabilmente sarà torturato e ucciso, oppure scambiato con armi o prigionieri, ma la sua cattura e uccisione (così come lo scambio) sarà tenuta segreta anche ai suoi familiari, non solo alla stampa. Il decreto in questione, essendo in contrasto con l’art. 11 della Costituzione, è illegittimo. La guerra è già in corso, in segreto, non dibattuta, non dichiarata, non autorizzata dal Parlamento, decisa da Washington. E così andava anche con le altre guerre in cui l’Italia ha partecipato: anche i nostri governi mandavano militari sotto copertura a uccidere i capi dei gruppi considerati nemici da Washington. Ma queste pratiche segrete sono da sempre la norma nella politica estera di tutti i paesi. E’ soltanto l’opinione pubblica ignorante, sistematicamente educata dai media a una visione cosmetica della realtà, che si stupisce e scandalizza.
Tornando alla Libia, che si dovrebbe fare per stabilizzarla? Il paese chiamato “Libia” comprende 3 regioni storicamente differenti: Fezzan, Tripolitania, Cirenaica, abitate da molte tribù da secoli in competizione o guerra tra loro. Un paese con una popolazione tribale, senza senso civico e democratico, più abituata a combattere che a lavorare, e con un’enorme ricchezza petrolifera che attira gli appetiti armati di potenze occidentali, le quali ricorrono alla guerra per assicurarsi pozzi e porti, e per toglierli agli altri (all’Eni, in particolare – vedi l’assassinio di Mattei). Come stabilizzare un siffatto paese e un siffatto popolo? E’ ovvio: bisogna che Washington, Londra e Parigi si accordino per spartirsi quelle risorse, che distruggano le forze in campo (usando l’Onu e lo pseudo-governo di Tobruk per deresponsabilizzarsi e dando il comando militare alla serva Italia), che mettano al potere un dittatore armato e finanziato da loro, col duplice incarico di reprimere ogni opposizione o disordine col terrore, e di consentire lo sfruttamento delle risorse petrolifere. Mutatis mutandis, è quello che stanno realizzando in Italia mediante Renzi e le sue riforme elettorale e costituzionale, che concentrano nel premier i tre poteri dello Stato, limitano la rappresentatività del Parlamento e neutralizzano la funzione dell’opposizione.

mercoledì 16 marzo 2016

I tre Länder al voto bocciano la politica della Merkel

Il voto di domenica 13 marzo in Germania per il rinnovo dei parlamenti regionali ha sentenziato la sconfitta della Coalizione di Governo e in particolare della Cancelliera Angela Merkel, in riferimento soprattutto alla politica immigratoria.
Nel Baden-Wuerttemberg, dove quattro anni fa la CDU aveva ottenuto il 39% dei consensi, vincono i Verdi di Winfried Kretschmann con il 30,3%. La CDU si ferma invece al 27%, seguita da l’AfD con il 15,1%, SPD con il 12,7%, i Liberali con l’8,3%. La sinistra della Linke resta fuori dal parlamento regionale con il 2,9%.
In Renania-Palatinato vince l’SPD guidato da Malu Dreyer con il 36,2%. Seconda arriva la CDU con il 31,8%, seguita da AfD con il 12,6%, Liberali col 6,2% dei consensi, Verdi con il 5,3%. La Linke resta anche qui fuori con il 2,8%.
In Sassonia-Anhalt vince invece la CDU di Reiner Haseloff con il 29,8% dei voti. AfD arriva seconda con il 24,2%, poi Linke con il 16,3%, SPD con il 10,6% e Verdi con il 5,2%. Restano fuori dal Parlamento i Liberali con il 4,9%.
Le urne offrono risultati molto incerti e nessuno dei partiti può cantare davvero vittoria. Tutti tranne uno: l’unico partito a festeggiare, attestandosi come terza forza nazionale, è Alternative für Deutschland, partito fondato nel 2013 e guidato oggi da Frauke Petry. Forza politica fortemente euroscettica, anti-euro e anti-immigrazione, in Sassonia AfD è riuscito ad ottenere il 24% strappando consensi alla sinistra (SPD+Linke) che nelle elezioni di quattro anni prima avevano ottenuto il 17% in più del risultato odierno. Sono proprio i ceti popolari, i cui voti sono sempre stati canalizzati dell’orbita della sinistra, a soffrire maggiormente i problemi legati all’economia e dell’immigrazione.
Dal punto di vista economico, seppur la Germania ha visto un periodo favorevole di crescita economica, è pur vero che essa è stata fatta sulle spalle dei lavoratori tedeschi stessi, i quali a partire dalla riforma Hartz del 2002 non vedono crescere i loro salari. L’elettorato medio di AfD è composto dai giovani al di sotto dei 30 anni, cioè coloro che più di tutti, attraverso l’esperienza dei minijobs, vivono sulla propria pelle le difficoltà del precariato tedesco.
Alle stesse ragioni economiche si ricollega il problema immigratorio. Fu la stessa Angela Merkel ad invitare in Germania i profughi siriani, cioè coloro che tra tutti i “migranti” erano i più istruiti e i meglio qualificati, per usarli poi nelle industrie tedesche come “esercito industriale di riserva” per mantenere bassi i salari dei tedeschi. Ma la situazione è poi sfuggita di mano, il numero dei profughi partiti dal Medioriente è cresciuto enormemente e né la Germania, né l’Europa hanno saputo trovare delle soluzioni efficaci per contrastare il fenomeno, né dal punto di vista dell’accoglienza interna, fissando delle regole certe, e né dal punto di vista della politica estera, risolvendo la crisi siriana, concludendo il conflitto e facendo tornare i profughi alle loro case. Invece, la Germania di Angela Merkel non è riuscita a far altro che sottomettersi al volere e alle condizioni del novello Sultano turco, Erdogan, il quale può usare come pedine i profughi siriani bloccando e riaprendo a piacimento i flussi immigratori, a seconda dei suoi scopi. Dal punto di vista della sicurezza poi, l’unica reazione ai fatti di Colonia è stato un libretto d’istruzioni per sesso sicuro tra migranti e autoctoni, segno evidente che l’attuale amministrazione in Germania è praticamente fuori dalla realtà. In questo contesto, avanzano partiti alternativi come l’AfD. Voi, se volete continuare a non capirci niente, continuate pure a chiamarli “populisti”, loro comunque avanzano in tutta Europa.

martedì 15 marzo 2016

L'Europa non crede più all'Unione Europea

L'italiana "Demos e pi" ha reso noto che sondaggi effettuati in sei Paesi dell'Unione Europea (UE) evidenziano una caduta verticale dei consensi e della fiducia verso l'entità diretta da Bruxelles.
Nel gennaio del 2015, 1000 persone rappresentative selezionate in ognuno dei sei Paesi hanno fornito il loro punto di vista sull'UE. Spiegel online ha diffuso i risultati sorprendenti di questi sondaggi: solamente in Germania il 53% della
popolazione ha una valutazione positiva.
In Francia, Spagna e Polonia appena il 40% degli intervistati ha un'idea positiva riguardo all'Europa incarnata dall'UE. In gran Bretagna scende al 28% e in Italia solo il 27% della gente approva l'UE.
La rivista Spiegel online arriva a questa conclusione: "l'Europa non crede più all'Unione Europea". La classe dirigente politica apprenderà la dura lezione dei fatti? Sembra di no. Tant'e vero che continua a sopportare e difendere il tal Jean-Claude Juncker, l'uomo che ha permesso a 350 multinazionali di non pagare le tasse nei territori da dove hanno estratto fortune colossali.
Juncker è stato premiato con la presidenza della "Commissione europea" per aver stornato ingenti gettiti fiscali a favore del suo Lussemburgo. Per aver impoverito le nazioni europee a vantaggio del suo Granducato, ora più che mai un paradiso fiscale nel cuore del vecchio continente.
Gli europei non credono più all'Europa plasmata dai Juncker,
Schäuble et Dijsselbloem, dalle Merkell, dai luterani menagers politici del nord. Dai cooptati del tribalismo finanziario o designati come ministri finanziari o primi ministri da Goldman Sachs, Wall street, City, pronti a castigare la Grecia ma a finanziare generosamente la Giunta neonazi che affligge l'Ucraina.
I sondaggi sono peggiori quando valutano l'adesione all'euro come moneta unica. Solo il 23% dei Francesi pensano che l’Euro sia una buona cosa. Solo il 13% dei tedeschi e l'11% degli Italiani.

lunedì 14 marzo 2016

L’INTERVENTO ITALIANO IN LIBIA LO DECIDERANNO GLI USA

In base alle notizie di stampa, pare che un vincitore sul campo in Libia vi sia. Il capo delle forze armate del governo di Tobruk, il generale Haftar, avrebbe posto sotto assedio Bengasi e messo alle strette le milizie islamiche che i nostri media presentano tout court come ISIS. L’iniziativa militare del pur ambiguo Haftar starebbe quindi scongiurando il pericolo di una dissoluzione della Libia.
Se la notizia è attendibile, molte delle motivazioni, sia ufficiali che mediatiche, addotte a favore dell’intervento italiano in Libia risulterebbero superate dai fatti. O no? In realtà la vera motivazione di un massiccio intervento occidentale potrebbe essere proprio quella opposta, cioè prevenire ed impedire una stabilizzazione della Libia.
Sempre in base a notizie di stampa, Haftar, oltre ad aver incassato il sostegno dell’Egitto, e quindi indirettamente della Russia, avrebbe ottenuto il favore del governo francese, che addirittura sosterrebbe le operazioni militari dello stesso Haftar con azioni di commando. Ma sarà vero? Non è che il governo francese sta salendo sul carro del probabile vincitore solo per pugnalarlo più agevolmente alla schiena?
Oltre che reparti francesi, agiscono in Libia anche formazioni statunitensi e britanniche, ed anche quelle in presunta funzione anti-ISIS. Gli Stati Uniti avrebbero effettuato anche i soliti bombardamenti contro “postazioni dello Stato Islamico”.
Da parte degli Stati Uniti provengono anche le più pressanti richieste al governo italiano di inviare un corpo di spedizione in Libia, qualcosa come tremila o cinquemila uomini, ovviamente tanto per cominciare. Quel che è certo è che, a differenza del 2011, in Italia tendono a crescere le posizioni contrarie alla guerra, con interventi anche ad alto livello. Dopo l’articolata posizione contraria di Romano Prodi, alla quale anche altri politici si sono accodati, anche il quotidiano confindustriale “Il Sole-24 ore” ha dato spazio lunedì scorso ad un articolo non solo fortemente critico nei confronti di ogni ipotesi di intervento militare italiano, ma anche propenso a toccare il vero nodo della questione, cioè le mire di spartizione della Libia.
D’altra parte, anche l’intervento di Prodi, apparentemente così deciso, non risulta del tutto esente da ambiguità, poiché rivolge la propria critica esclusivamente verso la Francia ed il Regno Unito, lasciando fuori dalla polemica proprio chi vorrebbe “invitarci” a rientrare nel pantano libico, cioè gli USA.
Se oggi l’establishment italiano dà ampio spazio a posizioni contrarie alla guerra, martedì scorso sul “Corriere della Sera” il commentatore ultra-ufficiale Angelo Panebianco ha rivolto un’esortazione agli Europei a guardare con apprensione alle elezioni presidenziali negli Stati Uniti, auspicando che non risulti vincitore un altro candidato “isolazionista” come Obama. Panebianco rivolge le sue speranze ad una vittoria di Hillary Clinton, la più adatta, secondo lui, a scongiurare la prospettiva di un’Europa lasciata in balia di Putin. Ovviamente il possibile risorgere dell’isolazionismo americano è una fiaba; non solo l’isolazionismo statunitense costituisce un mito storiografico senza pezze d’appoggio, ma le ingerenze di Kerry in questi anni sono state addirittura plateali, dalla questione ucraina a quella greca. Persino l’euro dal 2012 sopravvive soltanto in funzione degli interessi della NATO, cioè di Washington, che non vuole che un allentamento della disciplina europea possa mettere in forse le sanzioni alla Russia; sanzioni che provocano effetti depressivi non solo sull’economia russa, ma soprattutto sull’economia europea. Ma è chiaro che Panebianco con questi richiami fiabeschi al “pericolo” di un isolazionismo americano vuol solo richiamare tutti all’obbedienza nei confronti del grande ed insostituibile “alleato”- padrone.
Il punto è che ogni discussione concreta e puntuale sull’eventuale intervento italiano in Libia può essere spiazzata da un momento all’altro da qualche offensiva mediatica che ci ponga davanti a qualche “emergenza umanitaria” a cui far fronte. Il copione ormai lo conosciamo, ma il guaio è che funziona sempre. Alcuni commentatori si sorprendono del fatto che in questo momento sia assente il movimento pacifista, ma forse il pacifismo era assente anche quando sembrava esserci. Non ha senso infatti opporsi ad una guerra senza demistificare di volta in volta le false emergenze che la giustificano.
A differenza dei toni trionfali di Renzi del febbraio dello scorso anno, che avrebbero dovuto anticipare un apposito decreto da varare a marzo, ma mai apparso, ora il Presidente del Consiglio appare smarrito e chiuso in un imbarazzato mutismo, e se la va a prendere proprio con quei media che pure non fanno altro che battere la grancassa per lui.
Qualcuno ha notato che i due ostaggi in Libia sono stati uccisi quando l’intervento italiano si presentava come imminente, mentre gli altri due sono stati liberati allorché l’ipotesi di intervento sembrava essere stata messa da parte. Dopo i roboanti ultimatum lanciati da Renzi durante l’ultimo incontro bilaterale con Hollande, altri avvisi di quel genere potrebbero arrivargli. Evidentemente Renzi si trova schiacciato dagli opposti timori di un’avventura militare che si annuncia militarmente e finanziariamente disastrosa, e la prospettiva che arrivi un ordine di intervento da parte degli USA, al quale non avrebbe il coraggio, né la forza, per opporsi.

domenica 13 marzo 2016

L’ultimo canto della Grecia

La Grecia è la culla d’Europa”, così almeno ci viene insegnato sin dai primi giorni di scuola. Questo perché si deve proprio ai greci lo sviluppo di arti e studi nell’astronomia, nella storiografia, nella matematica; e ancora nella filosofia, nel teatro, nell’oratoria; nell’architettura e nella medicina e, sopratutto, nella democrazia. Una sorte avversa tuttavia ha voluto che proprio i padri di quel “giusto” governo non ne abbiano potuto mai effettivamente beneficiare, giacché ben presto caddero sotto il giogo romano, quindi bizantino e poi ottomano; dopodiché, e siamo ormai nel XIX secolo, è cominciata una fase ancor più confusa, tra rimpasti di governo, giunte militari. Da ultimo, l’Ellade è sotto il giogo del tiranno più temibile: l’Unione Europea.
John Adams, ex Presidente degli Stati uniti, già nell’Ottocento andava sottolineando come “ci siano due modi per conquistare e sottomettere una nazione ed il suo popolo. Uno è con la spada, l’altro è con il suo debito”. Un concetto che John Perkins, autore dell’autobiografia “Confessioni di un sicario dell’economia”, conosce e spiega bene. Il Processo avvenuto in Grecia è infatti esattamente lo stesso già sperimentato nei Paesi sudamericani prima, e nei Paesi Arabi poi, come l’Iraq, il Nord Africa e più recentemente la Siria. Prima di tutto si va in uno Stato dove una compagnia multinazionale ritiene vi siano interessanti risorse, e si prova a corromperlo con grossi finanziamenti. Se l’offerta non dovesse essere accettata si seguirebbe la strategia golpista, per rovesciare il governo in carica (le riuscite primavere arabe, e il fallimento con Assad); nei casi peggiori si assassina il Capo di Stato (Gheddafi o Saddam, per fare un esempio). Quando invece il governo si lascia corrompere, ecco che giungono gli enormi finanziamenti utili alla costruzione di enormi infrastrutture, che saranno di solo interesse ed utilizzo di pochi magnati locali e delle società appaltatrici, ma non certo della popolazione locale.
La Grecia, si diceva, ha seguito esattamente questo percorso. Dopo la sua entrata “a spinta” nella Ue, e sopratutto nell’euro, sono arrivati denari a pioggia; soldi non utilizzati per la popolazione ma per la costruzione di aereoporti, porti, strade e molto altro appaltati rigorosamente a ditte straniere, nonché per l’acquisto ingente di armamenti tedeschi e francesi. Poi la crisi del 2009, dopo la quale i creditori son arrivati a batter cassa, tramite ultimatum, richieste di riforme, ossia di tagli, privatizzazioni e quindi austerità. Nel frattempo hanno chiuso imprese, università ed ospedali; le medicine hanno raggiunto prezzi proibitivi, ed i conti nelle banche si sono prosciugati, quando non razziati (prelievo forzoso). Allo stesso tempo, altri prestiti sono giunti agli istituti di credito, altro debito dunque, che è servito solamente a rimpinzare le tasche dei creditori, ossia ancora una volta tedeschi e francesi. Contemporaneamente, tramite le già viste privatizzazioni, sono stati svenduti per due spicci il porto del Pireo, aereoporti, autostrade (già, le stesse prima costruire proprio da ditte straniere), e ancora imprese, riserve valutarie, finanche intere isole.
A ciò si aggiunga l’enorme problema migranti, che stanno affollando le coste ed invadendo la terra di una nazione al collasso. In questa situazione la Grecia si trova di fronte a una duplice intimidazione, da un lato l’Unione Europea che ipotizza di escluderla da Schengen e dall’altro i turchi che premono sull’Europa; questi ultimi in particolare minacciano di voler far entrare, proprio attraverso la Grecia, gli immigrati che sono presso di loro, se non gli verranno versati altri miliardi dai fondi -eh già- siglati Ue. Gli stessi turchi che pretendono anche di varcare la nostra soglia senza bisogno di alcun visto né controllo, manco fossero “europei di fatto”.
Non è stato assassinato Tsipras, né il suo governo è stato rovesciato, essendosi piegato ai voleri dei più grandi poteri finanziari. Questi ultimi infatti hanno costretto il governo ateniese ad approvare un nuovo, terrificante decreto, che prevede ulteriori tasse sulla proprietà insieme a nuove penalizzazioni sulle pensioni. In cambio? Una nuova tranche di “aiuti”, dunque sempre debito -altrettanto inestinguibile- per due miliardi. Ma i Greci, al contrario di chi li rappresenta, resistono ancora. Resistono i fieri agricoltori, che protestando hanno intasato le autostrade coi loro trattori per settimane. Resistono i coraggiosi che stanno inaugurando “the human bank”, la prima banca etica che sostiene le imprese agricole e del terzo settore; che offre mutui senza ipoteche; che assume per primi disabili e cittadini che cercano il primo impiego; che gestisce supermercati con prezzi equi. C’è una Grecia che resiste, vera culla d’Europa, e suo ultimo canto.

venerdì 11 marzo 2016

La risorsa immigrati 600mila italiani ricevono la pensione grazie ai loro contributi

«Seicentomila italiani ricevono la pensione ogni anno grazie ai contributi versati dagli extracomunitari». A scriverlo non è un fan degli immigrati, ma Roberto Garofoli, oggi capo di gabinetto del Ministero dell’Economia, protagonista delle battaglie sulla legge anti-corruzione e sulle misure antimafia. I dati relativi alle pensioni, agli stranieri in arrivo (153.842 a fine 2015), agli oneri conseguenti per sostenerne l’ingresso (ben 3,3 miliardi di euro nel 2015), ai benefici derivanti dalla loro presenza in Italia - come risulta dalle cifre del Mef - sono contenuti nella relazione che terrà domani All’Accademia dei Lincei dove sarà presentato il “Libro dell’anno del diritto” edito dalla Treccani e di cui Garofoli, con Tiziano Treu, dirige la sezione giuridica.
GLI INGRESSI IN ITALIA
Il ragionamento sugli immigrati non può che partire da un dato obiettivo, gli ingressi in Italia nel 2014 e nel 2015. Erano 170mila le persone approdate ai nostri confini due anni fa, «più del triplo rispetto al 2013, superando addirittura i valori del 2011 dovuti alla cosiddetta emergenza umanitaria in Nord Africa». A fine 2015 i dati confermano il trend in progressione degli ultimi anni. I migranti arrivati via mare sono stati 153.842. Tutto ciò attesta che «le migrazioni sono un tema epocale, da affrontare anche in una dimensione sovranazionale ed europea, contemperando diverse esigenze, da quelle irrinunciabili umanitarie e di solidarietà alla domanda di controlli e tutela della sicurezza, senza cedere a paure e passi indietro nell’integrazione, ma piuttosto ripartendo in modo più equo gli oneri tra i Paesi».
LA COLLOCAZIONE
I numeri dicono che 77mila migranti risultano ospitati nelle strutture di accoglienza governative e nelle oltre 1.800 strutture temporanee, quasi il doppio delle presenze registrare a fine 2014 e oltre dieci volte il dato medio del periodo 2011-2012. Ancora, il sistema di protezione ha coperto 26mila persone tra richiedenti asilo e rifugiati, con un costante incremento nel corso del tempo.
IL DRAMMA DEI BAMBINI
Il nudo numero delle statistiche ci dice che ben 11.921 minori sono arrivati in Italia, senza un padre, una madre, un parente più o meno stretto che li accompagnasse. Minori soli, che «hanno posto un’enorme sfida in termini di adeguatezza degli alloggi, della supervisione e dell’introduzione scolastica».
I COSTI DEI MIGRANTI
La cifra fornita – frutto di una stima del Mef – rivela che per il 2015 l’Italia ha speso 3,3 miliardi di euro per affrontare il capitolo dell’emergenza immigrazione, di cui 3 miliardi per spese di natura corrente. Un confronto con i due anni precedenti rivela che le spese sono più che raddoppiate nel 2014 e addirittura sono triplicate nel 2015. L’aumento tiene anche esaminando la spesa al netto dei contributi della Ue.
L’EUROPA “COLORITA” DI ECO
Ha scritto Umberto Eco: «In un periodo abbastanza breve l’Europa sarà un continente multirazziale o, se preferite, colorito. Se vi piace, sarà così, e se non vi piace sarà così lo stesso». Chiosa Garofoli: «Un dato di fatto da cui partire nella definizione delle politiche da elaborare non necessariamente guardando al modello assimilazionista alla francese o a quello multiculturalista all’inglese, ma pragmaticamente tenendo conto anche del rapporto costi-benefici».
LE PENSIONI DEGLI ITALIANI
Nel 2014 i lavoratori extracomunitari hanno versato all’Inps contributi per circa 8 miliardi di euro, a fronte di prestazioni pensionistiche pari a circa 642 milioni di euro e non pensionistiche pari invece a 2.420 milioni. Il saldo positivo risulta essere poco meno di 5.000 milioni. Calcoli ulteriori dimostrano che i contributi versati dagli immigrati servono a pagare la pensione di oltre 600mila italiani ogni anno, contribuendo così alla tenuta del sistema previdenziale.
L’IRPEF E L’IVA
Ulteriori interessanti considerazioni si possono trarre dai dati fiscali. Nel 2014 i contribuenti stranieri hanno dichiarato redditi per 45,6 miliardi di euro, versando quindi 6,8 miliardi di Irpef. Sul fronte dell’Iva, invece, le partite aperte nel 2015 risultano essere 58.407 e si riferiscono a soggetti nati in Africa, America, Asia, Oceania. Nel dettaglio risulta che il 40% riguarda il commercio, il 13,5% le costruzioni e il noleggio, il 10,5% le agenzie di viaggio e i servizi di supporto alle imprese. Come scrive Garofoli il dato è rilevante se raffrontato con quello delle partite Iva aperte da soggetti nati in Paesi Ue, e cioè 13.259, e quelle aperte invece dagli italiani, e cioè 297.649.

giovedì 10 marzo 2016

Bruxelles tira il guinzaglio sulla legge di stabilità

Alla fine Renzi non ha passato l'esame della Commissione europea. La legge di stabilità approvata a Natale resta infatti sub judice, sia pure nella forma diplomatica del “monito”, senza minacce di aprire una ben più seria “procedura d'infrazione”.
La lettera con cui il vice presidente della Commissione europea, Valdis Dombrovskis, e il commissario agli affari monetari, Pierre Moscovici, avvertono il ministro Pier Carlo Padoan è morbida nei toni, ma implacabile nel ricordare sia le “criticità” che la tempistica per porvi rimedio.
In sintesi, vista la situazione della finanza pubblica italiana, vengono evidenziati i rischi di violanzione degli obiettivi previsti dal Fiscal Compact, entrato ormai in vigore. In teoria, il debito pubblico nazionale andrebbe ridotto di un ventesimo ogni anno (circa 100 miliardi, un sogno o più probabilmene un incubo).
Al contrario, il governo italiano ha gonfiato la legge di stabilità con tutte le eccezioni di “flessibilità” previste dai trattati, in modo da potersi permettere alcune spese (soprattutto a fini elettorali). Bruxelles, per non mettere in difficoltà un governo considerato tutto sommato obbediente, non chiede una manovra correttiva, ma si aspetta da Roma - entro il 15 aprile - “dettagliate misure di risanamento”. In ogni caso, il giudizio definitivo arriverà a maggio. Una riscrittura della legge di stabilità non sarebbe comunque possibile, dunque la scappatoia che viene concessa al governo Renzi è indicata dalla data.
“Alla luce di questo quadro – si legge nella lettera – sarà importante per l'Italia assicurare che le misure necessarie per rispettare il percorso di aggiustamento raccomandato per raggiungere l'obiettivo di medio termine (il pareggio di bilancio, ndr) vengano annunciate e dettagliate in modo credibile entro il 15 aprile”.
Entro il 15 aprile deve infatti essere presentato alla Commissione il nuovo piano di stabilità e il nuovo programma nazionale di riforme, all'interno del Documento economico e finanziario (Def).
“Ciò permetterà di tenere in conto queste misure nelle previsioni di primavera, che saranno alla base della valutazione (…) del rispetto italiano dei suoi obblighi secondo le norme del Patto di Stabilità e di Crescita”.
In quella sede, insomma, dovranno essere indicate le misure che ristabiliranno il “percorso virtuoso” affidato, a questo punto, alla legge di stabilità per il 2017. In pratica, i tagli e i “sacrifici” parzialmente evitati per quest'anno sono rinviati – con gli interessi – all'anno prossimo.
Il Renzi che “batte i pugni sul tavolo” a Bruxelles è quello che deve nascondere l'obbedienza totale all'Unione Europea sotto il tappeto di una legge di stabilità pienamente controllata dalla Commissione. Guinzaglio leggermente allentato per non farlo strozzare (sarebbe a rischio la vittoria nel referendum costituzionale di ottobre, con possibili crisi di governo), ma con mano fermissima.

mercoledì 9 marzo 2016

Gli USA avviano la costruzione della loro seconda base aerea in Siria

I rappresentanti delle autorità degli Stati Uniti hanno confermato il dispiegamento delle loro forze speciali nella regione.
Gli Stati Uniti dopo aver quasi completato la costruzione della prima base aerea nella zona controllata dai curdi nella zona nord della Siria, avrebbero dato inizio alla costruzione di una seconda base nella stessa regione, riporta BasNews, agenzia di stampa curda che fa riferimento al rappresentante dell'Alleanza chiamata Forze democratiche curde in Siria.
La base si trova in una zona sotto il controllo dei curdi siriani. I rappresentanti delle autorità degli Stati Uniti hanno confermato il dispiegamento di forze speciali nella zona.
In precedenza è stato riferito che, alcune settimane fa, le forze speciali degli Stati Uniti avevano preso il controllo della base aerea di Rmeilán Basha, nel governatorato di Al Hasaka, una regione siriana amministrata ad interim dai curdi in Siria.


È probabile che gli Stati Uniti utilizzino la base per la fornitura di munizioni e armi a varie ai gruppi di opposizione che combattono lo Stato islamico e le Forze Armate di Damasco, guidate dal presidente Bashar al Assad. La base potrebbe anche fungere da piattaforma per le forze speciali che potrebbero essere inviate nella zona in un prossimo futuro, oltre ai 50 soldati per le operazioni speciali dispiegati nella regione lo scorso novembre.
Gli esperti dicono che le forze Usa che operano in Rmelián potrebbero includere unità tattiche delle forze aeree, i controllori di combattimento, paracadutisti, meteorologi e ingegneri specializzati nella esplorazione e costruzione di campi d'aviazione dietro le linee nemiche.

martedì 8 marzo 2016

La vera rivoluzione del voto alle donne

La conquista del diritto di voto è stata per le donne di gran lunga più difficile che per ogni altra fetta di popolazione, non solo in Italia. Come Natalia Aspesi ha scritto su Repubblica introducendo il film Suffragette, la lotta per il suffragio è stata lunga e dura, in tutti i paesi, anche quelli di storia liberale come l’Inghilterra, o quelli che nacquero sul consenso elettorale e l’eguaglianza, come gli Stati Uniti. È quindi giusto dire che il decreto legislativo più rivoluzionario che ha avuto l’Italia fu quello a firma De Gasperi- Togliatti che in data 31 gennaio 1945 riconobbe il diritto delle donne al voto, anche se non all’eleggibilità, una discriminazione che sarebbe caduta di lì a poco: ventuno furono le donne elette il 2 giugno 1946 all’Assemblea costituente.
Quello suffragista fu il primo movimento globale, la prima forma di mobilitazione rappresentativa che conquistò legittimità mediante l’opinione e grazie a celebrità intellettuali che associarono il loro nome alla causa. Harriet Taylor e il marito, John Stuart Mill, furono tra i primi europei a collaborare al movimento, raccogliendo finanziamenti e scrivendo proclami. Chi come Mill o il nostro Salvatore Morelli provarono ad avanzare proposte di legge in tal senso trovò in parlamento un muro: la proposta di Mill ottenne una settantina di voti, quella di Morelli non venne neppure discussa.
Certo, vi erano state, anche in Italia, proposte per concedere alle donne il diritto di voto amministrativo: ci provò Minghetti appena dopo l’unità, e poi il sindaco di Firenze, Peruzzi, la cui moglie aveva anche organizzato un salotto di discussione per preparare l’opinione suffragista. Tra gli invitati vi era il giovane Vilfredo Pareto, allora un sostenitore radicale del suffragio femminile (e della rappresentanza proporzionale!) e ammiratore del Subjection of Women (La servitù delle donne) di Mill che Annamaria Mozzoni tradusse in italiano nel 1870. Ma seppure moderata (e reiterata altre volte fino all’avvento del fascismo), la proposta del voto amministrativo non decollò.
Quale la ragione di tanta ostilità? L’argomento più usato, un pregiudizio radicato da secoli, era quello dell’impossibilità della donna di sviluppare ragionamenti di giustizia perché incapace di giudizi di imparzialità. Destinata dalla natura a procreare e prendersi cura della specie, l’intelletto femminile era portato a comprendere l’utile vicino e l’interesse parziale della sua famiglia, non quello lontano e generale. La donna era votata all’economia domestica quindi; quella politica era privilegio dei figli, dei mariti e dei padri.
Quando questa idea così radicata nella cultura occidentale entrò in crisi? Questa domanda consente di mettere a fuoco la portata rivoluzionaria del suffragismo. Fu la trasformazione del voto da funzione (in difesa di interessi) a diritto della persona la chiave di volta. Infatti, se la rappresentanza deve essere espressione degli interessi che gli eletti svolgono con libero mandato e competenza, perché il suffragio universale? James Mill, il teorico del governo rappresentativo, scrisse negli anni Trenta dell’Ottocento che siccome ogni interesse riflette quello degli altri, sembra ragionevole che il voto del capofamiglia porterà in Parlamento anche le esigenze dei componenti della famiglia, per cui non serve che i giovani maschi e le donne votino. Fino a quando il voto fu inteso come funzione e non come diritto di sovranità, l’esclusione delle donne fu ritenuta funzionale alla loro vocazione di cura e giustificata con l’argomento della rappresentanza surrogata.
Il Settecento radicale - l’illuminismo francese - fu lo spartiacque. Quando il voto, a partire da Rousseau, divenne la “volontà” del sovrano come libertà di darsi leggi, allora il non voto parve subito segno di assoggettamento. Mary Wollstonecraft volse questo argomento contro Rousseau stesso, il quale aveva escluso le donne dalla città mostrando quanto il pregiudizio potesse contro la logica. Ma con la Rivoluzione francese, il mutamento del paradigma della legittimità politica fu radicale. Di qui si fece strada l’idea che il governo fondato sul consenso elettorale non era semplicemente rappresentativo degli interessi, ma costituzione di libertà. E nel 1792 Olympe de Gouges presentò al governo rivoluzionario una Déclaration des droits de la femme nella quale venivano richiesti per le donne tutti i diritti civili e politici.
Siccome il voto è potere, non potersi difendere da esso godendo di un potere eguale si traduce nel sottostare a un potere arbitrario. In questa nuova concezione del voto è radicata l’idea della designazione elettorale diretta da parte dei singoli, in quanto non parte di gruppi, ceti o classi; non perché portatori di specifici interessi da difendere: ecco l’argomento rivoluzionario dell’idea del suffragio come diritto individuale nel quale si inserisce il suffragismo. Un movimento che cominciò proprio insieme all’idea del cittadino come parte uguale della nazione, sede del popolo sovrano. Ecco perché la decisione che la Consulta prese nel 1945 approvando l’estensione del diritto di voto ai cittadini e alle cittadine, “senza distinzione”, fu rivoluzionaria e coerentemente democratica

lunedì 7 marzo 2016

Mutui, dal leasing immobiliare al vitalizio ipotecario

Ad oggi le proteste sulle mosse del governo Renzi a favore delle banche in merito ai mutui hanno generato un polverone in parte utile anche all’esecutivo. Se non altro ne uscirà come un esecutivo buono, concedendo qualche briciola in più ad una trattativa che lo vedrà attento a suo dire “alle parti in causa”.
Le opposizioni all’interno del parlamento tentano quantomeno di cavalcare il problema, fuori anche il Codacons si muove per protestare con un esposto alla Procura della repubblica di Roma. Tutto questo era un effetto del tutto previsto da parte del governo Renzi, il suo viceministro all’Economia Enrico Zanetti ribadisce che “il governo è disponibilissimo a modificare il testo presentato”. Gli fa eco il presidente dell’Associazione bancari italiani presidente Antonio Patuelli che dichiara: “Non riguarda fatti del passato, ma la possibilità e l’eventualità per il futuro, lasciata alla libera contrattazione tra famiglie e istituti bancari. Sono logiche europee, ce ne sono anche altre, comunque noi non ce ne siamo interessati”.
Aldilà delle parole spese da questa o da quella parte la realtà continua ad essere la stessa.
La volontà delle banche di ripianare i propri conti è forte, il debito di quelle italiane è di almeno 200 miliardi di euro, dei quali solo il 30% a causa dei semplici cittadini che hanno contratto finanziamenti o mutui. Su questi ultimi bisogna agire ed in questo caso si vuole dare un colpo di spugna all’intromissione di un tribunale, come oggi avviene prima della vendita all’asta dell’immobile. Questo passaggio quantomeno garantiva al debitore il trascorrere di 7/8 anni nel quale il cittadino poteva rientrare di una parte del debito e comunque non correre il rischio di finire dall’oggi al domani in mezzo ad una strada. Da questo punto di vista le banche potranno fare il prezzo e saranno indubbiamente interessate a rientrare del proprio debito e basta, per di più saranno loro stesse a ricomprarle tramite agenzie immobiliari satelliti quando non palesemente col proprio nome. Gli atti del governo da tempo rispondono alle banche, in questo caso il vitalizio ipotecario e il leasing immobiliare sono stati passaggi che indubbiamente li hanno visti andare a braccetto nel ridurre maggiori strati del paese ad essere “debitori cronici” a vita.
A questo serve il vitalizio immobiliare, riservato a chi ha compiuto 60 anni di età, particolarmente in difficoltà, ad esempio per via dei costi della casa del quale si è proprietari, perché anziani bisognosi di cure, o per dover mantenere i propri familiari. Del resto il bacino di bisognosi è in aumento, un’esigenza di liquidità che porta a monetizzare quello che è rimasto ancora da monetizzare, in questo caso le banche concedono un prestito mettendo un'ipoteca sulla casa di proprietà. Insomma un finanziamento strutturato appositamente per le esigenze finanziarie della popolazione di età avanzata: all'anziano viene concesso un finanziamento a fronte dell'iscrizione di un'ipoteca sulla casa di proprietà (che dunque l'anziano non è costretto a vendere) mentre la restituzione del capitale e degli interessi fa carico, in tutto o in parte, agli eredi posteriormente al decesso del mutuatario.
L’aggravante maggiore di questa operazione pone come vincolo da contratto che il vitalizio ipotecario passi agli eredi e ove costoro si rifiutino di provvedere a questo pagamento, la banca può vendere l'immobile e soddisfarsi con il ricavato (restituendo agli eredi l'eventuale eccedenza). L'entità della somma concedibile a mutuo varia sia in funzione del valore della casa concessa in ipoteca sia dell'età del mutuatario: l'importo è tanto più elevato quanto più la casa vale e quanto più è avanzata l'età del mutuatario. Un peso che graverà sulle spalle del debitore e dei suoi eredi è rappresentato dall'esponenziale crescita del debito (dovuta alla capitalizzazione annuale degli interessi sulla somma erogata), soprattutto dove vi sia una lunga aspettativa di vita: questo meccanismo è in grado di “mangiare” in poco tempo l'intero valore dell'immobile offerto in garanzia. Altro aspetto di perplessità deriva dalla considerazione che la casa oggetto di ipoteca non è vendibile, non è ulteriormente ipotecabile e nemmeno è possibile concederla in locazione a terzi: infatti in questi casi, la legge sancisce la cosiddetta “decadenza dal beneficio del termine” e cioè la banca può dichiarare il contratto risolto e pretendere la restituzione immediata di capitale e interessi.
Nella visione del debitore cronico vi sono le così dette giovani coppie che decidono di comprare casa. Il metodo è come quello delle auto comprate con il leasing, in questo caso il leasing immobiliare consente alle giovani coppie attraverso un indebitamento di avere una casa utilizzando un finanziamento con maxi rata finale. A fronte della precarietà lavorativa e del potere di acquisto sempre più in calo dei salari italiani, non vi sarà che la continuazione dell’indebitamento da parte di chi ha contratto questo tipo di leasing.
Bisogna tener conto innanzitutto la durata, generalmente più breve, dei mutui in quanto con una durata troppo lunga si andrebbe incontro ad un canone eccessivamente alto in proporzione e, quindi, non conveniente. La locazione finanziaria non supera i 20 anni, ma generalmente si attesta tra i 12 e i 15 anni. Questo significa pagamenti (mensili, ma più spesso bimestrali o trimestrali) più elevati. In quanto saranno la maggioranza a dover chiedere di finanziare la maxi rata a causa pagando quindi per la vita.
Ritornando sul vespaio più in generale dovuto alla notizia di qualche giorno fa il governo Renzi ora parla di modifiche, come ad esempio la sostituzione delle 7 rate con le attuali 18 rate non pagate, grosso modo un anno e mezzo di insolvenza, briciole di fronte alla portata della cosa o meglio della casa. Oppure del diritto ad avere un perito nominato dal tribunale per stabilire il valore della casa per la successiva vendita.
Anche in questo caso le rassicurazioni che parlano di regole applicate ai nuovi mutui e del fatto che si vuole far credere che il debitore ed il creditore possano avere lo stesso peso nella trattativa, offendono l’intelligenza di chi oggi vive nella realtà italiana. Eterni debitori è quello che il governo e le banche vorrebbero avere dalle attuali m

sabato 5 marzo 2016

Cinguettii o starnazzamenti non fanno crescere l’occupazione

A guardare la realtà cosi come si nasconde dietro le fumisterie propagandistiche del Twittatore c'è molto poco da ridere. Huffington post, online. 4 marzo 2016
I messaggi via twitter li chiamano “cinguettii”. Ma a volte, per la loro grevità, andrebbero catalogati come starnazzamenti. E’ di questo ultimo tipo l’ultima intemerata contro i “gufi” che Matteo Renzi ha deciso di lanciare via twitter dopo la pubblicazione da parte dell’Istat delle ultime rilevazioni sull’andamento del mercato del lavoro. Risulterebbero nel mese di gennaio 71mila posti di lavoro permanente in più rispetto al dicembre del 2015. Il premier grida vittoria perché in questo modo si sarebbe arrestato il calo della occupazione dipendente per la prima volta dall’ottobre 2013. E questo sarebbe sufficiente per tessere le lodi della nuova legislazione sul lavoro.
Ma è proprio così? Ad un esame più attento non sembrerebbe. Leggendo con più attenzione i dati Istat ed anche la stampa, sia quella generalista che quella specializzata, emerge un quadro assai più torbido. Per comodità prendo ad esempio l’editoriale del Sole24Ore di mercoledì 2 marzo. In esso Luca Ricolfi, pur sotto un titolo redazionale compiacente, offre un panorama assai meno sgargiante. Nel quale emerge con forza un’ipotesi più che probabile. Al di là della disputa sui numeri, che dipendono ovviamente dai punti e dai parametri di riferimento, l’incremento dei posti di lavoro non è che l’esito di un’onda lunga dovuta a tre cause: il contratto a tutele crescenti (jobs act), la generosissima decontribuzione, la liberalizzazione dei contratti a termine dovuta al decreto Poletti del marzo del 2014. Il mercato del lavoro si è servito prevalentemente di questi ultimi, generando precarietà. Per poi orientarsi sul contratto a tutele crescenti grazie alla decontribuzione ad esso collegata (più di 8mila euro per assunto). Questa scelta si è venuta intensificando in prossimità dell’abbattimento previsto della contribuzione medesima.
A questo punto serietà vorrebbe che ci si interrogasse se questa trasformazione del tempo determinato in tempo indeterminato – si fa per dire, perché priva della protezione contro i licenziamenti ingiusti che era prevista dall’articolo 18 dello statuto dei diritti dei lavoratori – ha possibilità di segnare una reale inversione di tendenza consolidandosi nel tempo. E qui i facili entusiasmi scemano rapidamente. Nel complesso l’economia mondiale, già dentro una crisi epocale - Larry Summers parla di “stagnazione secolare” - sta per entrare in una congiuntura ancora più sfavorevole. Difficile che un paese come il nostro, che ha già perso il 25% della propria potenzialità produttiva, possa risollevarsi solo con misure che agiscono solo dal lato dell’offerta di lavoro. Se si guarda all’insieme del mondo del lavoro, quindi anche al mondo del lavoro autonomo o presunto tale, si scopre che l’occupazione totale – fatti salvi i travasamenti dal lavoro autonomo al lavoro dipendente in virtù delle decontribuzioni e delle altre norme favorevoli - è rimasta negli ultimi sei mesi pressoché invariata.
Ma soprattutto bisognerebbe capovolgere l’angolo di visuale. Guardare cioè non solo al tasso di disoccupazione ma a quello di occupazione. Ovvero al peso dei lavoratori sul totale della popolazione in età da lavoro. L’Italia, per diventare un paese normale, per dirla alla D’Alema, dovrebbe aumentare di sette milioni i suoi posti di lavoro. Nei primi nove mesi del 2015 il tasso di occupazione è sì tornato sopra il 56%, ma siamo lontani da quello francese (64%) o da quello tedesco (74%). Da noi il tasso di occupazione tra i più giovani è sceso al 15%, ovvero 10 punti in meno rispetto all’inizio della crisi. Contemporaneamente è salito quello tra gli anziani, a seguito dell’allungamento dell’età pensionabile. In Italia le persone che non studiano e non lavorano sono ormai 14 milioni, di questi 4,4 hanno meno di 24 anni. Una generazione perduta per lo studio e il lavoro, le cui conseguenze si faranno sentire nel tempo sia in termini economici che civili.
Per tutte queste ragioni non c’è davvero nulla per esultare. Tanto più che politiche di interventi strutturali nella nostra economia per favorire il rilancio di investimenti pubblici e privati in settori innovativi capaci di impiegare lavoro e conoscenze non se ne vedono. Il Governo prepara invece un Documento di economia e finanza per aprile – in vista delle prossima legge di stabilità - il cui cuore sembrano essere ritocchi all’Ires in favore delle imprese e forse qualche anticipazione sull’Irpef, cioè l’imposta sulle persone fisiche. Ma in questo caso si vorrebbe ridurre da cinque a tre gli scaglioni, con aliquote pari al 23%, 27% e 43%. A beneficiarne sarebbero particolarmente i redditi medio-alti, con un risparmio di circa 2430 euro l’anno per chi ne guadagna 50mila e di 3.500 euro l’anno per chi sta sui 60mila. Come si vede Renzi sente approssimarsi il periodo elettorale.

venerdì 4 marzo 2016

Contro le trivelle. Il 17 aprile tanti SI!

Le trivellazioni sono una pratica barbara e arcaica di ricerca e produzione di fonti energetiche, che violenta il territorio e deturpa il paesaggio, che sottrae sovranità alle comunità locali e le sacrifica alle multinazionali, che impoverisce ulteriormente la Terra, piegandola a un modello di sviluppo non più compatibile con la sopravvivenza del Pianeta e del genere umano.
Il cosiddetto decreto “sblocca trivelle” del governo Renzi rende questa pratica più agile, più snella e accentra nelle mani del governo nazionale la valutazione d’impatto ambientale sulle perforazioni.
In tutta Italia e in tutto il mondo esistono comitati, movimenti, studi scientifici che – oltre a battersi contro le trivellazioni – dimostrano la possibilità e l’utilità di investire su una produzione energetica rinnovabile e pulita, non più fondata su idrocarburi e risorse naturali non rinnovabili.
È il principio di una necessaria e irrinviabile rivoluzione verde, che restituisca centralità all’ambiente e ai diritti degli uomini e delle donne, che coniughi lavoro buono e ecologia.
Il referendum del 17 aprile è importante: sul piano simbolico, culturale e politico.
Ed il fatto che sia oggetto di uno scandaloso oscuramento mediatico è una testimonianza di quanto se ne avverta il pericolo nelle sedi governative e nelle sedi delle multinazionali.
Sinistra italiana voterà SI per bloccare le trivelle e rivendicare la conversione ecologica dell’economia. Facciamolo tutti insieme e avremo vinto la battaglia giusta di una guerra giusta.

giovedì 3 marzo 2016

Altro favore alla banche: casa all'asta dopo sette mesi di arretrato

Il governo delle banche. Questa definizione sintetica del governo Renzi contiene molte verità. Si potrebbero esaminare da vicino molti dei provvedimenti e dei decreti emanati da questa congrega di prestanome e si troverebbe quasi sempre la prova. Certo, nella testa di tutti rimane stampato il “decreto salvabanche”, quello che ha fissato il criterio del bail in anche per i correntisti che erano stati truffati e convinti (costretti, spesso) a sottoscrivere “obbligazioni subordinate” di alcuni istituti, in cima a tutti quella Banca Etruria che aveva il padre del ministro Boschi come vicepresidente.
Ma c'è un altro decreto legislativo, ancora in discussione nelle Commissioni parlamentari, che concede un nuovo, irresistibile potere die sproprioo in mano alle banche. Si tratta della modifica al Testo Unico Bancario che deve recepire – in teoria - “la direttiva 2014/17/Ue sui contratti di credito a consumatori relativi a immobili residenziali”. In pratica, ne norme reativi ai mutui immobiliari.
L'articolo incriminato non consente interpretazioni benevole:
«le parti del contratto di credito possano convenire espressamente, al momento della conclusione del contratto di credito o successivamente, che in caso di inadempimento del consumatore, la restituzione o il trasferimento del bene immobile oggetto di garanzia reale o dei proventi della vendita del medesimo bene comporta l’estinzione del debito, fermo restando il diritto del consumatore all’eccedenza»
Lo scandalo è scoppiato quando, leggendo e traducendo la neolingua legislativa, qualcuno si è reso conto che questa “modifica” consente alla banca di mettere all'asta un immobile il cui proprietario sia indietro con i pagamenti. Appena sette mensilità, anche non continuative, e via, si va all'asta senza più passare per la lunga procedura processuale (in alcuni casi può durare anni, vista la lentezza della giustizia civile italiana) e tu sei messo fuori da casa tua in pochi mesi.
È noto che i contratti bancari, e soprattutto quelli di mutuo, sono stapaffiate chilometriche dense di commi, codicilli e note esplicative (in corpo 4, ossia illeggibili) che nella maggior parte il cliente non legge neppure, preso com'è dal concludere “l'affare”. Quindi il soggetto motore del contratto è per forza di cose la banca. Senza più neanche essere costretta a chiedere un parere al cliente.
Che le cose stiano così, non c'è dubbio. Al punto che gli stessi parlamentari del Pd presenti nelle due Commissioni sono stati costretti a presentare emendamenti di “riparazione”. Almeno in apparenza.
I due presenti in Commissione alla Camera, per esempio, propongono che «la norma non sia retroattiva, e non riguardi quindi i contratti già esistenti», secondo quella logica che imperversa da quasi vent'anni: creare due schieramenti con interessi teoricamente simili ma in contrasto sui dettagli (i “garantiti”, che conservano la vecchia legislazione, e i “non garantiti” che cadono sotto le nuove regole). Come per l'art. 18 e le pensioni, insomma, e per un po' di tempo. Fino a quando un altro decreto ristabilisce “l'equità” togliendo anche ai “garantiti” ogni tutela.
Ma il punto essenziale del decreto è un altro, lo sanno anche loro. Quindi sono obbligati a chiedere che il governo cambi la regola sul “trasferimento dell’immobile in garanzia”, concedendo al debitore e non alla banca il diritto di decidere di avviare la procedura. E infine di chiarire meglio «le condizioni che determinano l’inadempimento, distinguendolo dal ritardato pagamento»
Anche perché, ricordano a questo punto alcuni parlamentari spaventati dalle possibili reazioni al momento delle elezioni, esistono anche le norma presenti nel «Fondo mutui» del ministero del Tesoro, che prevede – e tutela – il creditore in difficoltà consentendo la sospensione fino a 18 mesi del pagamento della rata del mutuo.
Ma non si intende tornare indietro. Al massimo, ipotizzano alcuni membri delle due Commissioni parlamentari, si potrebbe prevedere un diritto del creditore ad ottenere almeno "l'eccedenza". Tradotto: se hai chiesto 100.000 euro di mutuo, ma la tua cas viene venduta all'asta per 150.000, forse non è bello che la banca si tenga proprio tutto. QUalcosa, di quei 50.000 in più, dovrebbe pur lasciarlo al neo-sfrattato...
C'è comunque da restare in allarme e “vigilanti”, perché questo governo è completamente privo di scrupoli. E quel che oggi sembra un'enormità che non può essere approvata, nel giro di pochi mesi diventerà il “danno minore” per evitare uno schema anche più infame.
E stiamo parlando della casa di proprietà, ossia di un pilastro dell'ideologia “proprietaria” che tanti consensi ha sottratto alle culture critiche del capitalismo... Figuriamoci sul resto, cosa possono combinare.