venerdì 31 luglio 2015

Renzi va sotto sulla Rai. Ma la spartizione avanza

Il governo va sotto nonostante i “responsabili” di Denis Verdini. È accaduto al Senato e su un provvedimento importante – in chiave di controllo dei media – come il rinovo delle cariche del consiglio di amministrazionedella Rai.
L'emendamento su cui è avvenuto il “fattaccio” sembra secondario – la delega al governo per la riforma del canone – ma mette in discussione l'esistenza stessa di una maggioranza stabile. La Commissione di Vigilanza, con la blindatura offerta dai verdiniani, aveva approvato infatti il punto centrale del provvedimento: la nomina di sette dei nove consiglieri di amministrazione con le modalità previste dalla teoricamente aborrita “legge Gasparri” (un nome, una garanzia), compresi i nuovi poteri per l'amministratore delegato, ahinoi previsti da una che non è stata ancora approvata.
Procedura piuttosto originale, sul piano costituzionale, e che doverbbe trovare l'opposizione del presidente della Repubblica, se si sentisse investito – come dovrebbe essere – della funzione di “guardiano della Carta”.
È evidente che tanta fretta – quei poteri diventeranno effettivamente esercitabili solo quando quell'altra legge verrà approvata, se mai lo sarà – è giustificata da un'intento indicibile: la spartizione delle poltrone ai vertici della Rai tra Pd e Forza Italia, soprattutto per quanto riguarda la statutaria maggioranza dei due terzi necessaria ad eleggere l'a.d. Scopo esplicito: tener sotto controllo la principale fonte di informazione del paese in vista delle sempre più probabili elezioni politiche nel 2016.
L'”incidente” del finire in minoranza, sembra evidente, è merito della minoranza “dem”, che ha fatto blcco con Cinque Stelle, Sel e Lega contro il provvedimento. Ma quel "coraggio" non è stato sufficiente a mettere in discussione il punto centrale del provvedimento (nomine e poteri). Testo che oggi approda comunque in aula a palazzo Madama e che, se approvato in questa forma, dovrà necessariamente essere rivisto alla Camera per poi tentare, in un secondo e obbligatorio passaggio al Senato, l'ennesimo blitz con voto di fiducia.
Dalla prossima settimana i giochi si sposteranno tra Palazzo San Macuto e Palazzo Chigi. Il premier dovrebbe indicare nei prossimi giorni il nome del dg e del presidente. Secondo i rumors, non è escluso un tandem tutto al femminile. Per la guida aziendale circolano i nomi di Marinella Soldi di Discovery e Tinni Andreatta, attuale direttore della fiction della tv pubblica, ma sarebbero in corsa anche uomini di prodotto come Andrea Scrosati di Sky o Andrea Castellari di Viacom. Per la presidenza si fa il nome di Luisa Todini, imprenditrice che è stata anche parlamentare di Forza Italia (anche se la loro prima scelta è Antonio Pilati), ma pare più probabile che si opti per un volto noto della Rai (probabilmente un ex, come ad esempio il sempre disponibile Giovanni Minoli).
Quanto ai consiglieri, la maggioranza dovrebbe averne quattro, due il centrodestra. Circolano, tra gli altri, i nomi di Antonio Campo Dall'Orto, Ferruccio De Bortoli, Marcello Sorgi, Bianca Berlinguer. Al M5S, in questo schema, dovrebbe andare un solorappresentante: la figura in pole position è quello di Carlo Freccero. Prestigioso, competente (l'unico, nel mazzo di nomi che circola) e certamente indipendente. Ma solo

giovedì 30 luglio 2015

Pentole, tablet e nuove schiavitù

In generale sappiamo ben poco di che cosa sono fatti gli oggetti che usiamo continuamente; la pentola in cui cuociamo la pasta, l’automobile con cui ci muoviamo, il cellulare o il tablet con cui comunichiamo, eccetera, contengono materie plastiche e metalli, della cui provenienza sappiamo ancora meno. Vengono dal fabbricante di pentole e automobili e cellulari, ovviamente, ma il fabbricante li ha prodotti a sua volta da idrocarburi e minerali estratti in paesi anche lontanissimi, da persone che non conosceremo mai, forse liberi lavoratori con salari equi e adeguata sicurezza, forse miserabili schiavi costretti a lavori estenuanti, lontani dalle loro case.
Qualcosa su queste condizioni di sfruttamento umano fu denunciata dal film “Diamanti di sangue”, del 2006, con Leonardo DiCaprio, che descriveva l’estrazione di diamanti, insanguinati, appunto, da parte di migliaia di lavoratori schiavi, nella repubblica africana della Sierra Leone. Meno note, ma altrettanto dolorose, sono le condizioni di lavoro in altre zone dell’Africa, in cui milizie locali si guerreggiano con armi acquistate col ricavato dalla vendita dei minerali estratti col lavoro infernale di minatori schiavi. Senza contare che questi metodi violenti di estrazione clandestina si lasciano alle spalle montagne di scorie tossiche per l’ambiente e le popolazioni locali.
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A qualcuno, sia pure nel disinteresse generale, sta a cuore la diminuzione di tutta questa violenza umana e ambientale: il Palamento europeo, qualche settimana fa ha votato a maggioranza una risoluzione che impone agli industriali di denunciare se i metalli che usano provengono da minerali estratti in zone in guerra. È una iniziativa ispirata da una simile legge statunitense del 2010, e già alcune industrie, soprattutto nel settore dell’elettronica di consumo, dichiarano, come dimostrazione della loro correttezza e come occasione di pubblicità, che i loro prodotti non contengono “metalli insanguinati”. La risoluzione europea specifica che la denuncia riguarda gli importatori di stagno, tungsteno, tantalio e dei loro minerali, e di oro, provenienti da una zona dell’Africa equatoriale che comprende la parte orientale della Repubblica Popolare del Congo e i paesi limitrofi Burundi, Ruanda, Sud Sudan e l’Angola.
I minerali e i metalli specificati sono particolarmente importanti per i loro usi industriali e perché in parte provengono proprio dalla zona africana travagliata da conflitti locali. Il principale minerale di stagno è la cassiterite e lo stagno trova impiego nelle saldature e in molti prodotti chimici. Per la sua capacità di proteggere i metalli contro la corrosione, lo stagno è utilizzato per il rivestimento di sottili lamiere di acciaio: si ottiene così la banda stagnata, quella delle lattine per prodotti alimentari conservati; una lattina media di tonno in scatola o di conserva di pomodoro contiene da 100 a 200 milligrammi di stagno.
Il tantalio viene estratto dal minerale columbite-tantalite, il coltan, nel quale si trova insieme al niobio. Il tantalio è un metallo molto resistente alla corrosione, è buon conduttore del calore e dell’elettricità e viene usato nelle apparecchiature elettroniche come telefoni mobili, tablet, computers, e anche per la preparazione di speciali leghe per jets civili e militari.
Ancora più importante è il tungsteno che si trova in natura nei minerali wolframite, tungstato di manganese e ferro, e scheelite, tungstato di calcio; il suo principale uso è la preparazione del carburo di tungsteno, un materiale duro quasi come il diamante con cui si ottengono utensili da taglio per la lavorazione dei metalli, nelle escavazioni minerarie e per segare i blocchi di marmo. Leghe a base di tungsteno estremamente resistenti sono usate nella produzione di proiettili penetranti e delle corazze di navi e carri armati. Nel film Gilda (1946) il marito della bella Rita Hayworth era un avventuriero che, durante la II guerra mondiale, organizzava per i nazisti il contrabbando del tungsteno estratto dalle miniere sudamericane. Il tungsteno viene impiegato anche in leghe per le pale delle turbine degli aerei a reazione e delle centrali elettriche.
Infine l’oro, di cui esistono miniere ”insanguinate” nell’Africa centrale, serve per la fabbricazione di monete e di gioielli, ma soprattutto per le saldature nelle apparecchiature elettroniche. Ogni cellulare o tablet contiene circa 20-25 milligrammi di oro, una quantità che diventa grandissim se si pensa che la Unione Europea importa ogni anno 350 milioni di pezzi fra telefoni mobili e computers, e che in Italia si vendono circa 40 milioni di cellulari all’anno.
L’iniziativa del Parlamento europeo ha suscitato differenti reazioni: favorevoli da parte delle organizzazioni che si battono per i diritti umani e per la difesa dell’ambiente, le quali sperano che la diminuzione dei profitti delle bande in guerra contribuisca a ristabilire una qualche pace e a combattere la corruzione inevitabilmente associata al contrabbando delle preziose materie prime.
Contrarie, e non fa meraviglia, le imprese che temono che le norme contro i “metalli insanguinati” facciamo diminuire i loro profitti e che tirano fuori anche la commovente preoccupazione per i minatori africani che potrebbero perdere la loro, sia pure supersfruttata, occupazione. L’iniziativa europea potrebbe essere una occasione per una maggiore informazione dei consumatori sui materiali impiegati in quello che comprano, materiali che “costano” acqua, energia, risorse naturali e anche fatica e dolore e spesso violenza .C’è anche della violenza nelle merci.

mercoledì 29 luglio 2015

Gli Usa continuano a seminare morte in un Afghanistan senza pace

Elicotteri Usa hanno attaccato per errore un check-point dell’Esercito afghano nella provincia centrale di Logar, causando la morte di almeno 12 militari. Il capo del distretto di Baraki Barak, ove è avvenuto il fatto, ha dichiarato che l’attacco è durato per circa un’ora. È l’ennesimo “incidente” da “fuoco amico” americano.
I massacri causati dallo sconsiderato impiego dei velivoli statunitensi (e dal grilletto facile di troppi piloti) sono una costante ed hanno causato vittime civili (oltre che militari) a centinaia, in un crescendo che non conosce sosta.
Quella afghana è una guerra che non poteva e non può essere vinta, meno che mai con i metodi applicati da Washington che parlano solo di violenza e corruzione. Dopo la partenza della gran parte dei contingenti, il peso del conflitto è ricaduto sulle forze afghane, che stanno pagando un prezzo durissimo (oltre 5mila morti nel 2014, con un trend in netta crescita nel 2015), causato anche da croniche carenze di mezzi e di addestramento.
La consapevolezza d’essere carne da macello, mentre alti ufficiali, membri del Governo e dell’Amministrazione trescano con trafficanti di droga e signori della guerra in una corruzione senza limiti, fa si che le diserzioni aumentino, sgretolando effettivi ed affidabilità delle Forze di Sicurezza afghane.
Ashraf Ghani, il nuovo presidente, lo ha compreso e dal momento del suo insediamento tenta la via di una difficile trattativa con i gruppi Taliban. Sa che il tempo gioca contro di lui ed ha tentato la carta disperata di coinvolgere il Pakistan, da sempre pesantemente coinvolto nelle vicende afghane.
A complicare un groviglio che, fra ingerenze straniere, rivalità fra gruppi, trafficanti e signori della guerra è già inestricabile di suo, s’è aggiunto l’apparire dell’Isis, che ha creato nell’area fra Afghanistan e Pakistan la Wilayat Khorasan, a cui, attratti dal denaro e dalla notorietà del “brend”, stanno aderendo a migliaia.
Solo il tempo dirà se l’Afghanistan potrà conoscere la pace, resta il fatto che l’intervento Usa e la lunghissima guerra che ne è seguita continua a seminare morte (oltre 92mila vittime all’aprile 2015) e distruzioni, senza che se ne veda la fine, né, tantomeno, un accenno di ricostruzione.

martedì 28 luglio 2015

GB, la guerra illegale in Siria

Quando nell’estate del 2013 il Parlamento di Londra fu chiamato a esprimersi sulla richiesta del governo Cameron di autorizzare l’aggressione militare contro il regime di Bashar al-Assad in Siria, il voto si risolse in una clamorosa sconfitta per il gabinetto conservatore-liberaldemocratico. I deputati britannici, riflettendo il diffusissimo sentimento anti-bellico nel paese, contribuirono di fatto a impedire un nuovo conflitto in Medio Oriente.
Ma a distanza di due anni è emerso come il governo abbia deciso di agire in maniera illegale e nella quasi totale segretezza, autorizzando la partecipazione delle proprie forze aeree alla campagna di bombardamenti guidata dagli Stati Uniti in territorio siriano.
Com’è noto, meno di un anno dopo la marcia indietro di Obama sulla guerra in Siria, il cui lancio doveva basarsi su accuse infondate rivolte a Damasco di avere utilizzato armi chimiche contro i “ribelli”, Washington avrebbe ugualmente avviato la propria offensiva nel paese mediorientale. La giustificazione, in questo caso, era stata il dilagare dello Stato Islamico (ISIS).
Nel settembre del 2014, il Parlamento britannico avrebbe dato a sua volta il via libera alla partecipazione delle proprie forze armate alla guerra aerea, ma solo ed esclusivamente in territorio iracheno. Il provvedimento approvato a Londra affermava, in maniera difficilmente equivocabile, che non veniva concessa alcuna autorizzazione a bombardare la Siria ma, per fare ciò, il governo avrebbe dovuto passare attraverso “un voto separato del Parlamento”.
La rivelazione che un certo numero di piloti britannici sono stati e continuano a essere coinvolti nella campagna di bombardamenti in Siria è giunta in seguito all’accoglimento di un’istanza presentata dall’organizzazione umanitaria Reprieve in base alla legge sulla libertà di informazione. Il Ministero della Difesa di Londra ha dovuto così ammettere che i propri uomini fin dall’autunno dello scorso anno avevano iniziato a partecipare a missioni di guerra ufficialmente proibite per le forze britanniche.
Inizialmente, una portavoce del premier aveva cercato di minimizzare la vicenda, sostenendo che fin dagli anni Cinquanta è “pratica comune” per il personale militare britannico partecipare a operazioni di guerra con paesi alleati. Dopo queste dichiarazioni era giunta però la conferma che Cameron era a conoscenza del fatto che soldati del Regno erano impegnati segretamente in operazioni aeree in Siria.
Lunedì, poi, il ministro della Difesa conservatore, Michael Fallon, è apparso alla Camera dei Comuni per rispondere alle domande dell’opposizione sulla questione dell’impiego di militari britannici in Siria. Nonostante le azioni del governo siano state palesemente ingannevoli nei confronti del Parlamento e dei cittadini, non solo Fallon ha potuto chiudere il suo intervento senza troppe difficoltà, ma ha rilanciato le intenzioni del suo gabinetto di intensificare l’impegno in Siria.
Il ministro ha ammesso che cinque piloti britannici hanno partecipato ai bombardamenti aerei in Siria contro l’ISIS e altri 75 soldati hanno preso parte a diverse operazioni militari in questo paese assieme agli alleati.
Fallon ha assicurato che le operazioni erano state preventivamente approvate dal governo e che sono rimaste regrete per “ragioni di sicurezza”. Se, però, al governo fossero state chieste informazioni in proposito da parte dei membri del Parlamento, ha aggiunto Fallon, “ogni dettaglio sarebbe stato certamente fornito”.
Le ragioni suggerite dal ministro della Difesa per avere preso una decisione illegale di estrema gravità sono state molteplici nel corso del suo intervento di lunedì, anche se nessuna legittima. Ad esempio, Fallon ha sostenuto che il voto contrario al governo nell’agosto del 2013 si riferiva a operazioni belliche contro le forze di Assad e non contro l’ISIS.
La campagna contro quest’ultima organizzazione sarebbe inoltre un altro motivo dell’impiego segreto di piloti britannici in Siria, visto che la Gran Bretagna - in questo caso con un voto favorevole del Parlamento - è parte integrante della coalizione messa assieme dagli Stati Uniti per combattere un nemico che opera in buona parte in questo paese.
Inevitabile è stato anche il riferimento alla recente strage in una località turistica della Tunisia, commessa da seguaci dell’ISIS, nella quale sono stati uccisi una trentina di cittadini britannici. Il colpo di genio di Fallon e del governo Cameron, però, è stato la giustificazione che le operazioni aeree a cui hanno partecipato i propri piloti non erano di iniziativa britannica, bensì delle forze alleate americane o canadesi, e ciò non comportava quindi la necessità di un’autorizzazione parlamentare.
Nonostante il fatto di avere agito in contravvenzione di ben due risoluzioni del Parlamento, né Fallon né tantomeno Cameron sono stati sfiorati da ipotesi di dimissioni. Gli stessi membri dell’opposizione, pur avendo espresso critiche più o meno deboli nei confronti del governo, non hanno sostanzialmente messo in discussione la posizione del ministro della Difesa.
La docilità dell’opposizione ha così contribuito al contrattacco del governo, intenzionato a non fare nessuna marcia indietro. Quando lunedì alla Camera è stato chiesto ad esempio a Fallon se la Difesa intendeva sospendere la partecipazione dei piloti britannici alle operazioni militari in Siria finché il governo non avesse ottenuto un voto favorevole del Parlamento, il ministro ha escluso categoricamente questa possibilità.
Anzi, il governo appare “determinato a impiegare tutte le forze a disposizione per fare ancora di più per combattere l’ISIS” in Siria. Secondo i media britannici, Cameron e Fallon potrebbero chiedere al Parlamento già in autunno l’autorizzazione per condurre incursioni militari “dirette” – ovvero interamente sotto il comando di Londra – contro l’ISIS anche in Siria.
Il primo ministro, parlando domenica al network americano NBC, ha ribadito la necessità di “distruggere il Califfato” in Iraq e in Siria ma, per quanto riguarda le operazioni in quest’ultimo paese, con l’accordo del Parlamento.
Il gabinetto conservatore è ben consapevole di avere agito nella completa illegalità e, pur affrontando la vicenda con un mix di arroganza e ostentata sicurezza, intende ricomporre la relativa frattura creatasi con il Parlamento per timore che altre decisioni unilaterali nell’ambito della guerra in Medio Oriente alimentino ulteriori sentimenti anti-bellici nella popolazione.
Il vero obiettivo del governo Cameron, in ogni caso, coincide con quello degli alleati americani in Iraq e in Siria, vale a dire l’intensificazione dello sforzo militare per rovesciare il regime di Assad, anche se dietro il paravento della lotta all’ISIS.
La classe dirigente di Londra, così come quella di Washington, non intende perciò accettare vincoli legali né l’opinione della popolazione nell’avanzamento dei propri interessi, tanto che alcune voci all’interno dell’establishment della sicurezza in Gran Bretagna già prospettano un’ulteriore escalation del conflitto in atto.
L’ex comandante delle forze armate del Regno, Lord Richards, solo qualche giorno fa ha ad esempio affermato in un’intervista alla BBC che una strategia efficace per sconfiggere l’ISIS dovrà prima poi includere il dispiegamento di truppe di terra.

lunedì 27 luglio 2015

Lavoro autonomo, questo sconosciuto

Sicuramente apprezzabile il lavoro di Sbilanciamoci!, che ancora una volta smaschera la retorica autoritaria vestita malamente da innovazione portata avanti dalla “sinistra di governo”. Rimane però qualche perplessità su alcuni punti, a mio avviso non secondari: l’innovazione e il lavoro autonomo.
Esiste una parte del mondo del lavoro del nostro Paese che non vive di contratti di lavoro. Una parte sempre più ampia, che non è solo il frutto del capitalismo “on demand”, ma è una caratteristica peculiare del sistema produttivo italiano. Il lavoro autonomo rappresenta il 23% degli occupati in Italia, con una media europea del 14%. L’atteggiamento dei sindacati nei confronti di questo bel pezzo di Italia, è sempre stato lo “smascheramento”, cioè il tentativo di ricondurre forme di lavoro free lance a rapporti di lavoro subordinati. Forse solo in questo caso si potrebbero difendere i diritti di questi lavoratori da parte dei sindacati, viceversa, se pervicacemente non si accetta la subordinazione, si è sostanzialmente lasciati soli, alla faccia dei diritti di tutti i lavoratori. Con questo non si vuole dire che non esistano le finte partite IVA, o in taluni casi di monocommittenza sarebbero auspicabili rapporti di lavoro subordinati (quindi tutelati), ma la questione non cambia: il lavoro indipendente in quanto tale non è degno di alcuna politica o vertenzialità da parte dei sindacati (dei lavoratori? Non di tutti…).
Significativo dell’impostazione ideologica è il passo relativo al salario minimo, che si dice sarebbe efficace per il Quinto Stato, ma l’attenzione non è per questo, bensì per le conseguenze che potrebbe determinare nei confronti del lavoro subordinato, nell’efficacia dei Ccnl, nell’indebolimento del sindacato, che evidentemente non tutela affatto il Quinto Stato … Perché si parla solo di partite iva in monocommitenza e non anche di quelle in pluricommitenza? Forse avere più clienti è una ragione per non avere tutele (malattia, previdenza, disoccupazione…)?
Il lavoro autonomo, tradizionalmente composto da artigiani, commercianti, imprenditori, vede negli ultimi 10 anni una flessione di queste figure e un aumento del numero dei professionisti autonomi, in decisa controtendenza rispetto alle altre voci, compreso il lavoro dipendente.
Il lavoro professionale è sempre più composto non solo dalle cosiddette nuove professioni legate alla rete, ma anche dai professionisti della legge 4, e dagli ordinisti, esplosi come numero e sempre meno tutelati dal corporativismo elitario degli ordini professionali. Non so se siano un blocco sociale, una classe o un ceto, so di certo che si raggiunge un livello di tassazione che supera il 60%, a fronte di un reddito medio di 20mila euro per gli uomini e 15mila per le donne… Sicuramente parliamo di donne e uomini che ogni mese devono trovarsi più lavori, che il lavoro se lo inventano, che non hanno garanzie di essere pagati per le loro prestazioni, che non hanno alcuna protezione sociale…Capisco che lo schema capitalista/operaio è più semplice da interpretare, ma lo sforzo che fanno gli indipendenti per arrivare a fine mese credo meriterebbe un’analisi quantomeno più approfondita (e tralasciamo gli indipendenti con basse qualifiche professionali… sostanzialmente i nuovi schiavi).
Per quanto riguarda il Capitolo 5 “Un nuovo mondo di lavoratori usa e getta?”, direi che la sharing economy non può essere ridotta alle aziende trasnazionali che tramite piattaforma esplorano nuove frontiere di business “social”… forse sarebbe necessario approfondire l’argomento… per esempio andare a vedere la funzione sociale che esercitano le reti di coworking e fab lab, uniche “istituzioni di prossimità” autorganizzate per il lavoro autonomo e free lance. Perché non ho mai incontrato un sindacalista in un coworking? Evidentemente hanno cose più importanti da fare…
Per quanto riguarda i “piani per creare occupazione”, c’è una buona notizia: le “attività produttrici di valori socialmente utili” ci sono già, le fanno (autonomamente) i gruppi, più o meno formalizzati (imprese, associazioni, start up), che si occupano di sharing economy: dal basso, creando relazioni sociali, redditi, economie sostenibili. Per tutto il resto, complimenti!!!!

sabato 25 luglio 2015

KRUGMAN: GLI IRRITANTI DIFENSORI DELL’EURO

Il Nobel Paul Krugman scrive un articolo un po’ velenoso contro quelli che lo accusano di non capire, da economista, le motivazioni politiche dell’euro e la sua importanza per il “progetto europeo”. Krugman rifiuta di essere considerato così ingenuo, e mostra di capire benissimo queste motivazioni. Il problema è che un progetto (l’euro) che non solo non era fondato economicamente, ma era palesemente votato alla catastrofe, non poteva servire nessuno scopo politico positivo, e i fatti lo stanno dimostrando.
di Paul Krugman, 22 luglio 2015
C’è un qualsiasi buon argomento per non dire che la creazione dell’euro è stato un errore di dimensioni epiche? Forse. Ma gli argomenti che ho sentito finora sono alquanto pessimi. E sono anche decisamente irritanti.
Un argomento che continuo a sentire è che gli economisti critici, come me, non capiscono che l’euro è stato un progetto politico e strategico, anziché un mero fatto economico con dei costi e dei benefici. E certo, infatti io sono un ottuso e grezzo economista che non sa nulla dell’importanza della politica e delle strategie internazionali nelle decisioni politiche, uno che non ha mai sentito parlare di progetto europeo e del suo fondamento nel tentativo di lasciarsi dietro le spalle una storia di guerre, per non parlare del rafforzamento della democrazia durante la Guerra Fredda.
Certo, io non so nulla di tutto ciò. Il punto, però, è che mentre il progetto europeo, in ogni sua fase, ha combinato obiettivi economici con dei più ampi obiettivi politici – si parlava di pace e democrazia attraverso l’integrazione e la prosperità – non ci si può aspettare che l’intero progetto funzioni se le misure economiche che vengono decise non sono valide in sé e per sé, o quantomeno che non siano catastrofiche. Ciò che è successo durante la marcia verso l’euro è che le élite europee, per amore della moneta unica presa come un simbolo, hanno chiuso la mente ad ogni avvertimento sul fatto che un’unione monetaria – a differenza della semplice rimozione delle barriere al commercio – era quantomento ambigua nella logica economica, e nei fatti, per quanto si può dire e già era stato detto fin dall’inizio, una pessima idea.
Un altro argomento, che stiamo sentendo dalle economie europee depresse come la Finlandia, è che i costi a breve termine dell’inflessibilità sono più che compensati dai presunti enormi guadagni ottenuti da una maggiore integrazione. Ma dov’è l’evidenza di questi enormi guadagni? In un articolo si dice che siano dimostrati dalla forte crescita della Finlandia negli anni che hanno preceduto la crisi. Ma si può riconoscere il merito del boom della Nokia alla moneta unica?
Be’, il grafico qui sotto mostra un confronto che ho trovato interessante tra la Finlandia e la vicina Svezia, paese, quest’ultimo, che nel 2003 ha rifiutato l’appartenenza all’euro tramite referendum. (Mi ricordo quel voto: gli amici svedesi che condividevano con me le preoccupazioni sull’euro mi telefonarono nel cuore della notte per festeggiare.) Per entrambi i paesi considero il 1989 come punto di partenza. Si tratta dell’anno prima della grande recessione scandinava degli anni ’90, dovuta ad una corsa agli sportelli e ad una enorme bolla immobiliare.
Dopo quella recessione la Finlandia a conosciuto un lungo periodo di solida crescita economica. Ma anche la Svezia, e tra i due paesi è difficile scorgere una qualsiasi differenza nella loro buona performance economica. Di certo non c’è nulla che indichi che l’appartenenza all’euro [della Finlandia, ma non della Svezia, NdT], abbia avuto un qualche ruolo speciale nella crescita. Dal 2008, invece, la Svezia ha iniziato – nonostante una gestione incostante della politica monetaria – a fare molto meglio.
Come ho detto, forse esistono anche degli argomenti da opporre all’affermazione che l’euro è stato un errore, ma far notare che la politica è importante, e che le economie crescono, non funziona. Le scorciatoie che credete voi non ci sono.

giovedì 23 luglio 2015

100 miliardi di tasse per i prossimi 5 anni

Le balle di Renzi smentite dagli atti ufficiali di Palazzo Chigi: col Documento di Economia e Finanza già approvato dal governo è stata decisa una stangata da 100 miliardi per i prossimi 5 anni, come denuncia un comunicato stampa di Unimpresa.
“Con un po’ di stupore prendiamo atto della promessa di Renzi. Il presidente del consiglio parla di un taglio delle tasse da 45 miliardi di euro. Tuttavia, i numeri ufficiali dello stesso governo vanno nella direzione opposta. Col Documento di economia e finanza già approvato, è stato certificato l’aumento della pressione fiscale oltre il 44% e si va incontro a una stangata fiscale da oltre 100 miliardi. Ovviamente, saremmo lieti se si concretizzasse un clamoroso cambio di rotta e se le promesse diventassero realtà”.

Così il presidente di Unimpresa, Paolo Longobardi, in relazione all’annuncio del premier Matteo Renzi circa un piano di riduzione del fisco da 45 miliardi nei prossimi tre anni.
Secondo i calcoli del Centro studi di Unimpresa, dal 2015 al 2019 le entrate tributarie dello Stato cresceranno costantemente e arriveranno fino agli 881 miliardi del 2019. Complessivamente nel prossimo quinquennio i contribuenti italiani dovranno versare nelle casse pubbliche 104,1 miliardi in più rispetto allo scorso anno (+13%). Sulle imposte dirette e indirette – principalmente Irpef, Ires e Iva – ci sarà una stretta da quasi 80 miliardi. E la pressione fiscale salirà oltre il 44%. Il bilancio statale non sarà sforbiciato: le uscite cresceranno di quasi 38 miliardi (+4%) e sono stati sterilizzati gli investimenti pubblici, che resteranno stabili attorno ai 60 miliardi l’anno.
GIRO DI VITE SU IRPEF, IRES E IVA DI 79,4 MILIARDI
Secondo l’analisi dell’associazione, basata sul Documento di economia e finanza (Def) approvato il 10 aprile dal consiglio dei ministri, nel 2015 le entrate tributarie e previdenziali saliranno a quota 785,9 miliardi dai 777,2 miliardi del 2014; nel 2016 cresceranno ancora a 818,6 miliardi e poi a 840,8 miliardi nel 2017; nel 2018 e nel 2019 arriveranno rispettivamente a 863,2 miliardi e a 881,2 miliardi. Complessivamente, nel quinquennio si registrerà un incremento di 104,01 miliardi (+13,38%). Aumenteranno sia le entrate tributarie sia quelle derivante dai cosiddetti contributi sociali (previdenza e assistenza). Per quanto riguarda le entrate tributarie l’aumento interesserà sia le imposte dirette (come quelle sui redditi di persone e società, a esempio Irpef e Ires) sia le imposte indirette (tra cui l’Iva): le imposte dirette cresceranno in totale di 34,2 miliardi (+14,43%) mentre le indirette subiranno un incremento di 45,5 miliardi (+18,43%). Il sostanziale giro di vite su Irpef, Ires e Iva sarà pari a 79,4 miliardi (+16,36%). I versamenti relativi alla previdenza e all’assistenza cresceranno dal 2015 al 2019 di 22,02 miliardi (+10,18%).
PRESSIONE FISCALE STABILE SOPRA IL 44%, PIL TIMIDO
L’incremento delle entrate tributarie e di quelle contributive farà inevitabilmente salire la pressione fiscale. Nello stesso Def, il peso delle tasse rispetto al pil è infatti previsto in aumento: quest’anno si attesterà al 43,5% (stesso livello del 2014), nel 2016 e nel 2017 salirà al 44,1%, nel 2018 si fermerà al 44% per poi calare leggermente al 43,7% nel 2019. Nello stesso arco di tempo, la crescita economia, stando alle previsioni del governo, sarà timida: il pil non farà scatti in avanti significativi ed è infatti dato in aumento dello 0,7% nel 2015, dell’1,4% nel 2016, dell’1,5% nel 2017, dell’1,4% nel 2018 e dell’1,3% nel 2019.
BILANCIO STATALE SU DI 37 MILIARDI: BRUCIATO IL TESORETTO SPREAD DA 7,5 MILIARDI
Nessun intervento rigoroso sul bilancio statale: le uscite saliranno costantemente rispetto agli 826,2 miliardi del consuntivo 2014. Nel 2015 saliranno a 827,1 miliardi, nel 2016 a 842,1 miliardi, nel 2017 a 844,6 miliardi, nel 2018 a 854,4 miliardi e nel 2019 a 864,1 miliardi. Complessivamente, nel quinquennio si registrerà un incremento della spesa pubblica pari a 37,8 miliardi (+4,58%). L’incremento è legato esclusivamente alle uscite correnti (acquisti, appalti, stipendi) che, nel quinquennio, aumenteranno di 44,6 miliardi (+6,45%). In diminuzione, invece, la spesa per interessi sul servizio del debito che beneficerà verosimilmente della riduzione del divario di rendimento tra i titoli di Stato italiani e quelli tedeschi: il tesoretto legato allo spread sarà pari a 7,5 miliardi tra il 2015 e il 2019 (-10,03%), ma verrà di fatto bruciato dagli aumenti delle altre voci di spesa, piene di sprechi non toccati. Resta invariata, invece, la voce “uscite in conto capitale”, che corrisponde agli investimenti pubblici, stabile attorno a circa 60 miliardi l’anno: nel quinquennio si registrerà un lievissimo incremento pari a 724 milioni (+1,23%).

mercoledì 22 luglio 2015

Renzi, lo spazio sacro, il nemico

Dalla platea di Expò Renzi, sempre più imbrigliato da inceppi di varia natura che ne rallentano quella che sino a pochi mesi fa pareva essere una corsa inarrestabile, mette sul tavolo la mossa del suo rilancio. Laddove il primo maggio la tanto accuratamente preparata vetrina milanese non era stata a disposizione del premier, sabato un PD molto più debole si è trovato di fronte alla sterzata del fiorentino, che può essere letta su molteplici livelli.
I giornali parlano della "rivoluzione delle tasse", che dovrebbe trascinare Renzi a rivincere nel 2018, come di una mossa rispetto alle minoranze interne, relativa all'agganciamento della truppa dei verdiniani, per contendere a Grillo alcuni pezzetti di classe media, per prendere voti nel bacino elettorale del centrodestra e rilanciare così il progetto di partito della nazione ecc.. Tutto probabilmente vero, ma crediamo che ci siano almeno un paio di ragioni più profonde da considerare in questa ultima "svolta" renziana, che non attengono al marketing politico o alle tattiche partitico-istituzionali.
La prima riteniamo attenga al post caso greco, che ha messo in luce due elementi che possiamo riassumere molto seccamente: l'impossibilità sia soggettiva che oggettiva di un'opzione socialdemocratica su scala sia nazionale che continentale e, intimamente legato a ciò, la necessità per Renzi di muoversi in Italia all'interno degli stretti binari disposti dalla Troika e dall'Europa tedesca. Qualsiasi ipotesi di costruzione di, seppur labili, spazi di manovra sono evaporati. E Renzi allora presenta l'opzione-Italia all'insegna di un sistema capace di stabilità e affidabilità.
La seconda ragione è tuttavia più interessante per ciò che attiene ai nostri interessi immediati e alle nostre possibilità di incidere nel reale. Avanziamo infatti l'ipotesi che il discorso sulle tasse, a partire dall'eliminazione di quella sulla prima casa, sottenda una riflessione sul corpo politico di riferimento. Il costante calo della partecipazione elettorale è un dato col quale Renzi, al di là delle boutade mediatiche, deve aver fatto attentamente i conti. E probabilmente il discorso a Expò è la conseguenza politica che Renzi ha tratto: il dato elettorale rimarrà tale, ed è un bene che sia così.
Spieghiamoci meglio. Su qualunque manuale di scienza politica viene spiegato (avendo in mente il modello statunitense) come un sistema democratico "maturo" veda inevitabilmente un'affluenza elettorale ridotta. E i liberali si affannano a spiegare e legittimare come ciò non sia un problema di democrazia e libertà, perché in fondo tali sfere si giocano nel piano del privato. Ossia: una democrazia matura è quella che garantisce la libertà di impresa, di mercato, di ascesa sociale tramite il merito, del rispetto dei "diritti", vere sfere nelle quali è possibile misurare la libertà.
Anzi, è il non detto di tali riflessioni, l'esercizio della decisione politica è in fondo da sempre problematico se lasciato in mano a "tutti". Il popolo, i poveri, le classi sociali basse che dir si voglia, sono ignoranti, si fanno attrarre dalle sirene populiste, sono in preda a passioni irrazionali che possono produrre gravi problemi politici. In fondo è molto meglio che a garantire la stabilità di un sistema sia chi è in grado di conoscerlo e gestirlo ordinatamente. Questo è il discorso liberale classico, che ancora oggi mostra, seppur trasfigurate dal ricorso alla tecnica e da altre retoriche, le sue lunghe propaggini.
Renzi allora, dicevamo, all'interno di questo discorso pare dire: il voto (come dimostra la Grecia) è sempre più uno strumento destinato a perdere rilevanza e interesse per molti ceti sociali poveri o impoveriti, che molto materialisticamente non vedono in questa forma di partecipazione nessun loro interesse in gioco. La contesa allora, per Renzi, viene a darsi rispetto a quei settori sociali (bianchi e proprietari, si sarebbe detto una volta), che ancora nel voto vedono degli spazi di manovra e la possibilità che i loro interessi abbiano dei vantaggi.
Questa perimetrazione di uno spazio sacro della democrazia, delle classi dei solventi contrapposte a quelle insolventi, diviene allora lo spazio di riferimento per il Partito democratico. E non a caso di fronte alle timide critiche interne che provano a far notare come (dati alla mano), l'annullare la tassa sulla prima casa – a parte che non tocca minimamente chi una casa non la possiede, ovviamente – avrebbe un effetto davvero minimo sui "ceti bassi". Si parla di una dozzina di euro al mese di risparmio. Mentre i veri beneficiari sarebbero i ricchi. Emblematica la risposta di Guerini: "a noi interessa l'Italia". Che sempre più, entro uno strano effetto deja vù, pare assumere i connotati dell'idea ottocentesca di nazione per ciò che in questo paese ha significato.
A partire da queste abbozzate riflessioni c'è però un ulteriore aspetto da considerare, situato sull'altro versante del teatro politico. Se è vero che "la sinistra" istituzionale punta sempre più al ceto medio/medio-alto come suo settore di riferimento, ci troviamo di fronte a una destra che, nel lento disfacimento del berlusconismo, individua nei settori popolari ambiti di riferimento per il proprio discorso politico. Un progetto, quello a trazione salviniana, che all'attuale probabilmente non ha le carte per proporsi come ipotesi di governo, che tuttavia nel proprio seminare sempre più odio dal pulpito televisivo arriva a insinuarsi nelle pieghe dei quartieri popolari e di quelli che sono anche i nostri ambiti di riferimento.
Siamo di fronte a quello che a prima vista appare come un paradosso, o una tragica e beffarda ironia della storia. Ma c'è un altro elemento da sottolineare. Se infatti fino agli anni Settanta la dialettica/scontro tra partito comunista e movimenti e organizzazioni antagoniste si determinava su un terreno sociale comune, a qualche decennio di distanza la situazione è radicalmente mutata. E anche dentro "il movimento" le retoriche che paiono riproporre uno scontro col PD come se si rivivesse uno scontro anni Settanta con il Pci, farebbero bene a misurarsi su tali trasformazioni.
Da quando Asor Rosa scrisse contro il movimento del '77 il famoso articolo sulle "due società" (garantiti vs non garantiti, lavoratori vs disoccupati), l'evoluzione del ceto politico pcista ha percorso con chiarezza la strada della rappresentazione dei garantiti, arrivando oggi per l'appunto a riferirsi ai settori sociali di cui discutevamo sopra. Il problema allora, pur nell'ovvia necessità di attrezzarsi contro il partito di governo - magari a partire dal provare a fare male a Renzi nell'opposizione alla riforma scolastica, senza rimanere impiastricciati nella rincorsa che su tale settore giocherà la neo-costituentesi accozzaglia di sinistri parlamentari.. -, diviene quello di una presenza nei territori che si trova a scontrarsi con le retoriche del "prima agli italiani". Sia chiaro, gli eventi recenti di Roma, Treviso e Acerra sono spie di questa situazione, ma all'attuale non paiono prefigurare l'esplosione di un'emergenza neofascista. Ma non possono nemmeno essere sottovalutate. E vanno anzi duramente contrastate.
Queste considerazioni inducono a riflettere su quali forme organizzative e quali processi politici e sociali sia necessario oggi innestare. Se non ci basta ammaliarci di affascinazioni idealistiche o limitare il nostro agire alla semplice presenza/testimonianza, è imprescindibile che dalle effettive presenze di lotta e organizzazione nei territori emergano punti di vista e pratiche organizzative adeguata allo scenario nuovo che sta emergendo. Ciò significa elaborare strategie organizzative sempre situate agli effettivi movimenti delle frastagliate linee di classe. La capacità di porsi su un livello di egemonia in grado di ribaltare la retorica del "prima agli italiani" - con la consapevolezza che non è dalla più o meno lucida elaborazione del singolo collettivo o militante che verrà proposta la parola magica, ma dai reali processi di conflitto. E infine la possibilità di costruire un campo di battaglia che individui "il vero nemico".
E in quest'ottica, se è vero che ci troviamo di fronte ad una politica istituzionale e dei partiti che sempre meno interesserà i settori sociali più poveri, diviene importante porsi il problema di come far slittare i discorsi sulla casta da un terreno eminentemente partitico ad un piano sistemico più generale, che coinvolga tutti i livelli della rendita urbana, della speculazione finanziaria e delle svariate articolazioni del capitalista colletivo.

martedì 21 luglio 2015

Perché è sbagliato dare ai prefetti la tutela del nostro paesaggio

I soprintendenti non funzionano? Li si rimuova, con decisione e trasparenza. Ma con la confluenza nelle prefetture non si risolverà nessun problema, e di fatto le soprintendenze semplicemente spariranno». La Repubblica, 20 settembre 2015 (m.p.r.)
Il disegno di legge Madia sulla riorganizzazione dell’amministrazione dello Stato contiene un pericolo per la tutela del «paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione » (art. 9 Cost.) anche più grave del già grave silenzio-assenso. La legge decide (all’articolo 7) la trasformazione delle prefetture in «uffici territoriali dello Stato, quale punto di contatto unico tra amministrazione periferica dello Stato e cittadini» sotto la direzione del prefetto.
E quindi delega il governo a disporre la «confluenza nell’Ufficio territoriale dello Stato di tutti gli uffici periferici delle amministrazioni civili dello Stato». Tradotto in pratica, vuol dire che anche le soprintendenze confluiranno nelle prefetture, e che i soprintendenti saranno sottoposti ai prefetti, gerarchicamente superiori. Di fronte alla levata di scudi delle associazioni di tutela e dei sindacati, la Camera ha approvato un ordine del giorno che «impegna il Governo a prevedere che le funzioni dirette di tutela, conservazione, valorizzazione e fruizione dei beni culturali rimangano di competenza esclusiva ed autonoma dell’amministrazione preposta alla tutela dei beni culturali». E dunque cosa scriverà il Governo? Avremo la paradossale situazione di soprintendenze che confluiranno nelle prefetture (emendamenti ed ordini del giorno tesi ad impedirlo sono stati rigettati), ma conservando una competenza autonoma ed esclusiva?
Questa contraddizione è il frutto di uno scontro ideologico che meriterebbe di emergere alla luce del sole. La ratio del ddl Madia è ufficialmente quella di semplificare e accelerare le decisioni (per esempio sulle opere pubbliche) abbassando al livello territoriale delle prefetture la possibilità del governo (ora riservata alla Presidenza del Consiglio) di passare sopra i ‘no’ delle soprintendenze. Una simile svolta significa far saltare un altro contrappeso costituzionale al potere esecutivo, e dunque va letta nel quadro di quell’efficientismo che ispira il governo Renzi. Ora, il punto è: siamo disposti a sacrificare sull’altare dell’efficienza un bene insostituibile come la tutela del nostro territorio?
Nell’immaginario collettivo (anche per loro colpa) i soprintendenti sono percepiti come coloro che si occupano dei musei e delle mostre, o al massimo come coloro che rompono le scatole a chi decida di aprire una finestra sul tetto. Ma questa sorta di magistratura del paesaggio e del patrimonio culturale – che dovrebbe rispondere non al potere esecutivo, ma solo alla legge, alla scienza e alla coscienza – è il presidio fondamentale di beni che, come dice un proverbio dei nativi americani, non abbiamo ereditato dai nostri nonni, ma abbiamo in prestito dai nostri nipoti. E quel che c’è in gioco non è (solo) l’estetica delle città, delle coste o delle colline italiane: ma la tutela della stessa salute umana, così strettamente connessa alla salvaguardia del territorio.
Le soprintendenze non funzionano? Si finanzino adeguatamente (rimediando finalmente al gigantesco taglio inflitto da Berlusconi, Tremonti e Bondi nel 2008). I soprintendenti non funzionano? Li si rimuova, con decisione e trasparenza. Ma con la confluenza nelle prefetture non si risolverà nessun problema, e di fatto le soprintendenze semplicemente spariranno: il che rende legittimi i dubbi di chi pensa che il problema non sia l’inefficienza delle soprintendenze, ma anzi la residuale, e spesso eroica, forza con la quale, nonostante tutto, si oppongono alle speculazioni che continuano ad affogarci nel cemento.

lunedì 20 luglio 2015

Islanda: "E se si togliesse alle banche la possibilità di creare denaro?"

Un rapporto parlamentare islandese suggerisce di dare solo alla Banca Centrale il monopolio per la creazione della moneta. Una vera e propria rivoluzione, se l'idea venisse applicata ...
L'Islanda è decisamente il paese della creatività finanziaria. Dopo aver mostrato - nel 2009 - che esisteva un modo alternativo al trasferire il debito bancario al debito pubblico, l'isola nordica potrebbe essere pronta a realizzare un grande esperimento monetario. Lo scorso 31 marzo, infatti, il presidente della commissione per gli affari economici dell'Althingi, il parlamento nazionale islandese, Frosti Sigurdjonsson, ha presentato una relazione al Primo Ministro, Sigmundur Gunnlaugsson sulla riforma del sistema monetario islandese. Ed è una vera e propria rivoluzione quella che propone.
La mancanza di controllo della banca centrale sul sistema monetario
La relazione mira infatti a ridurre il rischio di bolle e di crisi nel paese. Nel 2009, l'Islanda ha sperimentato una crisi molto grave, a cui è seguita un'esplosione del credito alimentato da un sistema bancario diventato fin troppo generoso nei prestiti e troppo incosciente nella sua gestione del rischio.
Né lo Stato né la Banca centrale islandese (Sedlabanki) hanno potuto interrompere questa frenesia. "Tra il 2003 e il 2006, ricorda Frosti Sigurdjonsson la Sedlabanki ha aumentato i tassi di interesse e ha messo in guardia contro il surriscaldamento, cosa che non ha impedito alle banche di aumentare ulteriormente l'offerta di moneta".
Come funziona il sistema attuale
Nel sistema attuale, sono infatti le banche commerciali che creano la maggior parte della massa monetaria, fornendo prestiti a discrezione. La banca centrale può solo cercare di scoraggiare o incoraggiare, attraverso il movimento dei tassi o misure non convenzionali, questa creazione. Ma la trasmissione della politica monetaria alle banche non è mai una garanzia.
Nonostante l'aumento dei tassi della Sedlabanki, la fiducia e l'euforia che regnava in Islanda nei primi anni 2000 ha sostenuto il processo di creazione di moneta. In presenza di domanda, nulla può impedire alle banche di prestare. Quando scompare, niente può obbligarle a farlo. E spesso, questi movimenti sono eccessivi, creando squilibri e in seguito alle crisi, correzioni in cui lo Stato deve spesso venire in aiuto delle banche. E quando è necessario riavviare l'attività, le banche centrali spesso hanno difficoltà a farsi ascoltare.
Il caso della zona euro ne è una prova. E' stato necessario che la BCE utilizzasse misure enormi, l'annuncio di un QE di 1.140 miliardi, affinché il credito cominciasse a recuperare nella zona euro e ancora, molto limitatamente per ora.
Una vecchia idea
Da qui l'idea centrale della relazione Frosti Sigurdjonsson: togliere alle banche il potere di creare moneta. Come ha sottolineato l'ex presidente dell'autorità finanziaria britannica, Aldair Turner, nella sua prefazione del rapporto, "la creazione della moneta è una questione troppo importante per essere lasciata ai banchieri"
Questa idea è in realtà non è nuova. Dopo la crisi del 1929, degli economisti statunitensi avevano proposto nel 1933 il "Piano di Chicago", che ha proponeva di abolire la capacità delle banche di creare esse stesse moneta. Era stato un grande successo, ma nessuna vera attuazione concreta.
Nel 1939, l'economista Irving Fischer, uno di quelli che aveva esaminato più da vicino la crisi del 1929, aveva proposto di trasferire il monopolio della creazione della moneta alla banca centrale. Anche James Tobin, Milton Friedman ed altri hanno riflettuto su questo tema. Ma la proposta islandese, che Frosti Sigurdjonsson presenta come "una base di discussione" per il Paese, è la prima proposta di passaggio ad un altro sistema che chiama il "sistema monetario sovrano".
Decidere della creazione di moneta, nell'interesse dell'economia
Cos'è? La relazione afferma che l'Islanda "essendo uno Stato sovrano con una moneta indipendente è libero di riformare l'attuale sistema monetario, che è instabile e di sviluppare un migliore sistema monetario". In questo sistema, solo la Banca Centrale avrà il monopolio della creazione di moneta, nessuna corona potrà circolare se non è stata emessa dal Sedlabanki originariamente.
Quest'ultima farà quindi evolvere l'offerta di moneta in base ai propri obiettivi "nell'interesse dell'economia e dell'intera società". Frosti Sigurdjonsson propone che un "comitato indipendente del governo prenda decisioni in materia di politica monetaria in modo trasparente".
La Banca Centrale creerà denaro concedendo prestiti alle banche commerciali affinché queste concedano prestiti di importi equivalenti a imprese e individui, ma anche finanziando aumenti di spesa pubblica o esenzioni fiscali, o anche per il rimborso debito pubblico. Per evitare la creazione di moneta da parte del sistema bancario, verranno creati due tipi di conti presso la banca centrale.
Conto di transazione e investimenti
I primi saranno i "conti di transazioni". Tali conti rappresenteranno i depositi di privati e imprese. Le banche commerciali amministreranno questi conti, ma non potranno modificare gli importi. Il denaro depositato in questi conti non produrrà interessi, ma sarà interamente garantito dalla banca centrale.
Un secondo tipo di conti, i "conti di investimento" verrà creato in parallelo. Gli agenti economici possono trasferire dei fondi di conti di transazioni in conti di investimento. Il denaro messo sui conti sarà investito da parte delle banche e verrà bloccato per un determinato periodo.
Le banche potranno quindi offrire a coloro che hanno messo i loro soldi in questi fondi diversi tipi di prodotti, tra cui prodotti rischiosi ad alto rendimento. Si tratta in realtà di separare il più possibile il denaro dal credito. Il rischio legato al credito non scompare, ma è limitato dall'obbligo di prestare solo il denaro depositato sui conti di investimento.
Più corse agli sportelli
Per Frosti Sigurdjonsson, questo sistema permetterà una gestione più realistica della massa di denaro non più nell'interesse di operatori privati, ma in quello della comunità. La garanzia sui depositi eviterà la corsa agli sportelli (Bank Run) senza ridurre, però, la responsabilità di coloro che hanno investito in prodotti rischiosi. Con questo sistema, una separazione tra banche di investimento e banche di depositi non è necessaria, in quanto l'attività della banca depositaria sarà garantita dalla banca centrale. Del resto la garanzia implicita dello Stato di cui godono le grandi banche scomparirà da sola.
Gestire la transizione
Per il passaggio, Frosti Sigurdjonsson propone di trasferire i depositi presso banche commerciali verso i conti di transazioni. Questo trasferimento avverrà mediante l'emissione di un credito nei confronti delle banche che saranno di proprietà della Sedlabanki e che sarà pagato nell'arco di diversi anni da parte delle banche.
Questa "responsabilità di conversione" sarebbe pari a 450 miliardi di corone islandesi o 3,5 miliardi di €. Questo denaro dalle banche commerciali, sarà gradualmente sostituito dal denaro della banca centrale. In questa fase di transizione, le somme versate dalle banche potrebbero essere utilizzate o per ridurre il debito pubblico o per ridurre, se necessario, l'offerta di moneta, con la cancellazione di parte dei fondi versati.
I problemi sollevati
La presente proposta di certo non risolve tutti i problemi. Certo, i prestiti saranno senza dubbio meno importanti e la crescita dell'economia sarà senza dubbio meno forte. Ma il progetto è avere un'economia più stabile e, a lungo termine, altrettanto efficace. Piuttosto che vedere l'economia crescere del 5% l'anno, poi corretto al 3%; potremmo avere una crescita stabile del 2% l'anno senza problemi ...
L'indipendenza del comitato della Banca Centrale sarà molto ipotetico, in quanto lo Stato sarà una cintura naturale della creazione di moneta e un rischio di eccesso, qui non è da escludere, anche se lo lo Stato può, sia pretendere di rappresentare l'interesse pubblico che questo comitato indipendente.
Ma qui un'ambiguità può essere problematica. I collegamenti con altri sistemi monetari convenzionali per una piccola economia come l'Islanda sono ancora da esplorare. Matthew Klein, sul Financial Times, ha anche sottolineato che il nuovo sistema non riduce il rischio di finanziare investimenti a lungo termine con investimenti a breve termine che erano stati all'origine della crisi del 2007-2008.
Infine, si tratta solo di una proposta. Il primo ministro ha accolto con favore il rapporto. Ma lancerà un così grande sconvolgimento in scala? Gli islandesi saranno pronti per fare il grande passo? La discussione almeno, è iniziata.

domenica 19 luglio 2015

Italia: la crisi bancaria latente

Mentre tutto il mondo guarda alle drammatiche vicende greche in Italia si consuma – nel silenzio generale – un dramma economico altrettanto grave e che potrebbe avere ripercussioni sociali altrettanto drammatiche: la crisi del sistema bancario. Probabilmente fino ad ora questa crisi latente non è esplosa nella sua virulenza solo grazie al Quantitative Easing della BCE che concede alle banche notevole liquidità.
A leggere i rapporti dell’Associazione Bancaria Italiana però non vi è alcun dubbio: il sistema bancario italiano affonda in mare di crediti inesigibili. A leggere gli ultimi dati resi pubblici – risalenti a maggio 2015 – i crediti inesigibili ammontano alla cifra stratosferica di 194 miliardi e 700 milioni di euro con una crescita rispetto allo stesso mese del 2014 di oltre 25 miliardi di euro.
Come fa notare il sito di informazione finanziaria zerohedge se ai crediti in sofferenza venissero aggiunti anche i crediti incagliati, quelli con pagamenti in ritardo inferiori ai 90 giorni e quelli ristrutturati (cioè venduti a sconto a società specializzate nel recupero) è molto probabile che il famoso aggregato chiamato NPL (Non Performing Loans) dagli anglosassoni ha superato la stratosferica cifra di 300 miliardi di euro.
E’ evidente che di fronte a simili cifre – pari a quasi un quinto di tutto il Prodotto Interno Lordo italiano – il governo si stia muovendo con urgenza (ma anche con molta discrezione) per costituire la famosa Bad Bank dove smaltire questa valanga di crediti in sofferenza. A tale proposito il Sole24Ore ci informa che Padoan si è recato a Bruxellesper trattare con i commissari europei sulla costituzione di questo veicolo. Sempre il Sole informa che esso sarà a totale carico pubblico e quindi i rischi di perdite ricadranno sull’Erario già stressato da un debito pubblico in ascesa esponenziale (siamo ormai a 2218 miliardi di euro).
Per il momento zeroconsensus non si esprime sulla possibile soluzione ipotizzata che rappresenterebbe la più grande socializzazione delle perdite della storia d’Italia. Meglio attendere gli eventi e limitarsi a sottolineare la gravità della situazione.
Come se non bastasse la “linea della palma” dei fallimenti e semifallimenti bancari continua a spostarsi sempre di più verso nord.
Le ultime situazioni problematiche sono quelle relative a:
1) Banca Marche le cui condizioni sono talmente disperate che manco il commissariamento della Banca d’Italia sembra aver dato buoni frutti e ormai, per evitare la liquidazione coatta, si parla apertamente di un intervento del Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi.
2) La Cassa di Risparmio di Bolzano (Sparkasse) ha subito nel 2014 perdite per 200 milioni di euro (su 470 milioni di capitale) a causa dei crediti inesigibili. Per ripianare la precaria condizione gli azionisti vedranno tagliato il valore delle proprie azioni e saranno chiamati ad un corposo aumento di capitale: un vero e proprio Bail-In all’italiana ma con accento altoatesino.
La verità è che se il mare greco segna burrasca quello italiano non è meno pericoloso anche se tutti fanno finta di nulla.

venerdì 17 luglio 2015

Grecia, a pagare saranno i correntisti

La crisi del sistema bancario greco non è ancora risolta. L'accordo stretto a Bruxelles permette agli istituti di credito di rimanere in vita, forti dei fondi di emergenza della Bce, ma non mette al sicuro i detentori di obbligazioni bancarie.
L'ipotesi di un bail-in, anticipata da tempo da Wall Street Italia, si fa sempre più reale. Sarebbe un in incubo per i cittadini che non hanno già trasferito capitali all'estero.
I correntisti rischiano di accusare potenziali perdite, perché l'accordo richiede che il paese approvi delle pesanti riforme. I creditori internazionali, guidati dalla Germania, chiedono che la Grecia ratifichi le riforme previste nell'accordo entro il prossimo 22 luglio e adotti, tra le altre cose, la risoluzione della Banca Centrale europea e dell'Unione europea, nota come BRRD, acronimo di Bank Recovery and Resolution Directive.
La settimana scorsa l'istituto centrale di Francoforte ha aumentato l’haircut sui bond in garanzia obbligando le banche greche a fornire maggiore collaterale. Se le banche non possono più offrire il collaterale, indispensabile per avere accesso al canale di finanziamento di emergenza della Bce (ELA), faranno crac.
La risoluzione BRRD rende più facile far ripianare le perdite bancarie a creditori e depositanti, anche se il diritto fallimentare attualmente in vigore in Grecia esclude il vero e proprio bail-in del debito, come fa notare la società di rating Fitch.
Una ricapitalizzazione delle banche greche per 25 miliardi euro, dopo la chiusura di due settimane onde evitare il loro fallimento, potrebbe non essere sufficiente.
"Lo scenario sembra essere segnato per le banche greche, che necessitano di essere ristrutturate finanziariamente, per cui si andrà verso un potenziale bail-in del proprio debito", ha detto Michael Doran, partner dello studio legale White & Case a Londra, che ha consigliato le banche cipriote nella crisi del 2013.
"L'introduzione del BRRD in Grecia, avrà un forte impatto sulle posizioni degli obbligazionisti delle banche e non vedo come potranno uscire da questa pesante situazione".
In pratica la risoluzione BRRD, attua un cambiamento epocale sul modo di affrontare i dissesti del credito, trasferendo l'onere di un salvataggio bancario dal soggetto pubblico a quello privato. Insomma, sposta il costo delle crisi bancarie dalla finanza pubblica ai finanziatori delle banche, vale a dire gli azionisti e gli obbligazionisti.
La legge, voluta dall'Unione Europea, è attiva in molti stati dell'Unione, Italia compresa e segna il passaggio da un regime in cui le grandi banche venivano salvate con denaro pubblico (il bail out) a un meccanismo che coinvolge direttamente gli investitori nelle perdite di un istituto, (il bail in). Ciò vuol dire che ai creditori delle banche verrà chiesto o di svalutare o di convertire in azioni gli strumenti finanziari sottoscritti.
Logico pensare che tutte le obbligazioni bancarie in circolazione, incorporando questo nuovo rischio, subiranno un sensibile deprezzamento.

giovedì 16 luglio 2015

Dal golpe al nucleare: 60 anni di rapporti tra Iran e gli Stati Uniti

L’accordo tra l’Iran e il gruppo 5+1 (membri permanenti del Consiglio di Sicurezza più la Germania) sul controverso programma nucleare di Teheran può rappresentare anche un’opportunità storica di riavvicinamento tra la Repubblica Islamica e gli Stati Uniti, i cui rapporti hanno cominciato a farsi tesi nel 1953. 1953: Il golpe di quell’anno è per molti iraniani il peccato originale degli Stati Uniti, che insieme al Regno Unito sostennero un piano per destituire il primo ministro democraticamente eletto Mohammed Mossadegh e per instaurare la monarchia dello Scià. Mossadegh fu messo fuori gioco perché voleva nazionalizzare il petrolio iraniano, risorsa fino a quel momento imprescindibile per l’anglo-iraniana Oil Co., oggi BP.
1957: Gli Stati Uniti firmano un accordo di cooperazione con l’Iran per la cooperazione nel campo del nucleare civile. L’accordo getta le basi del programma nucleare iraniano, che prevede l’assistenza tecnica americana e la consegna a Teheran di uranio arricchito per i suoi impianti.
Nel 1975 una compagnia della Germania occidentale aiuta l’Iran a costruire il reattore di Bushehr e l’anno successivo l’amministrazione americana sigla un nuovo accordo per la realizzazione di 23 reattori in Iran.
1979: la rivoluzione avviata dalle forze di sinistra e presto fatta propria dagli islamici mette fine a febbraio al regime dello Scià, accusato di livelli altissimi di corruzione. Le nuove autorità iraniane stracciano l’accordo con gli Usa per la costruzione dei reattori. A novembre gli studenti iraniani occupano l’ambasciata degli Stati Uniti a Teheran e tengono in ostaggio per 444 giorni alcuni cittadini americani.
Nel 1980 i rapporti diplomatici tra i due paesi vengono ufficialmente interrotti e gli Usa sostengono l’Iraq di Saddam Hussein nella guerra di otto anni con l’Iran.
1983: Un attentato suicida contro una base dei Marine statunitensi a Beirut fa 241 vittime. L’attacco viene attribuito dalla Casa Bianca agli sciiti libanesi di Hezbollah, sostenuti dall’Iran. Un anno dopo, l’amministrazione Reagan include la Repubblica Islamica nella lista dei paesi sponsor del terrorismo.
1988: Una nave da guerra americana, la USS Vincennes, abbatte un aereo passeggeri iraniano, uccidendo 290 persone, dopo alcuni giorni di tensioni tra navi Usa e navi iraniane nel Golfo Persico. Per Washington si tratta di un errore, tesi mai accettata da Teheran.
1997: Con l’elezione del presidente riformista Mohammad Khatami, si presenta un’opportunità di dialogo con gli Usa. In un’intervista alla Cnn, Khatami invita Washington ad «abbattere il muro di diffidenza» tra i due paesi. Nel 2000 l’allora segretario di stato, Madeleine Albright riconosce il danno allo «sviluppo politico» dell’Iran prodotto dal golpe del 1953. Nel 2001 delegati dei due paesi lavorano fianco a fianco in Germania a una soluzione politica per l’Afghanistan post-Talebani. L’inviato iraniano è Mohammad Javad Zarif, attuale ministro degli Esteri.
2002: Un gruppo iraniano di opposizione all’estero rivela l’esistenza di due siti nucleari segreti in Iran. Khatami ammette la loro esistenza e invita gli ispettori Onu, ma questo non basta per rassicurare i paesi occidentali.
2003: Il presidente degli Stati Uniti George W. Bush annovera l’Iran tra i paesi dell’«Asse del male», insieme a Iraq e Corea del Nord. Collassa ogni tentativo di dialogo con Khatami. 2005: Il conservatore Mahmoud Ahmadinejad viene eletto presidente dell’Iran e segna il suo governo con una retorica fortemente anti-americana e anti-israeliana.
2013: Il moderato Hassan Rohani vince le elezioni e rimpiazza Ahmadinejad. Dà subito il segnale di voler riallacciare i rapporti con l’Occidente, anche per ridare respiro all’economia nazionale, soffocata dalle sanzioni che, nel corso degli anni, la comunità internazionale ha imposto al paese a causa del suo programma nucleare. Lo stesso anno c’è una storica telefonata tra Rohani e Obama, il contatto di più alto livello tra i due paesi dal 1979. Partono a Ginevra i colloqui internazionali per una soluzione alla questione del nucleare iraniano, conclusi oggi con la silga dell’accordo di Vienna.

mercoledì 15 luglio 2015

Fmi dichiara guerra alla Germania

Il Fondo Monetario Internazionale non può fornire prestiti a un paese il cui debito ritiene sia insostenibile.
Lo ha detto chiaramente lo stesso istituto in un report top secret, in cui precisa di essere pronto a collaborare con le autorità greche e in cui di fatto dichiara guerra alla Germania, che continua a opporsi a una svalutazione del passivo statale ellenico.
A meno che l'Europa non finisca per accettare la realtà e ridurre il debito da 320 miliardi di euro, che secondo l'Fmi è insostenibile, da Washington non ci sarà nessun aiuto finanziario.
Nel rapporto si avverte che il debito nazionale potrebbe presto raggiungere il 200% del Pil, raggiungendo livelli ancora più insostenibili.
Nel rapporto, che è stato consulato dall'agenzia Reuters, si dice che "il deterioramento drastico della sostebilità del debito indica il bisogno di una riduzione del debito che vada molto oltre quello che è stato preso in considerazione sinora e quello che propone il piano di salvataggio tramite l'ESM".
Al momento i paesi dell'area euro hanno parlato di un allungamento delle scadenze del debito e di un taglio degli interessi sui prestiti.
Ma l'Fmi chiede un periodo di grazia di 30 anni. Solo così il debito diventerebbe sostenbile.
In alternativa, l'area euro potrebbe attuare trasferimenti espliciti di denaro con cadenza annuale alla Grecia oppure accettare una svalutazione massiccia e diretta del debito.
Quel che è peggio in tutto questo è che i leader dei paesi Ue sapevano dell'ultima spietata analisi sul debito greco targata Fmi ben prima di accettare le condizioni del piano di salvataggio.

martedì 14 luglio 2015

La crisi greca è anche morale

Fiumi di inchiostro e di pixel neri sono stati versati attraverso articoli, dossier, libri e approfondimenti per parlare dell’attuale crisi greca. Non solo, è l’argomento più di moda ora, chiacchierato nelle palestre, nelle birrerie, nei pub o anche solo per strada con i propri conoscenti. Insomma, è sulla bocca di tutti, vuoi per il tam tam mediatico, vuoi per l’intrinseca serietà dell’evento, che ha raggiunto il suo apice durante i giorni del referendum che è stato posto ai cittadini greci per confermare o rifiutare le proposte fatte dai creditori all’ellade. Dunque, i problemi affrontati sono per la maggior parte di carattere economico e politico. Si parla di manovre, di austerità, di tagli, aumento delle pensioni o della capacità più o meno velata di Tsipras a reggere i fili dell’arte del (buon) governo. Ma uno dei problemi principali e che forse ha portato anche a questa crisi non è mai tenuto in considerazione, probabilmente per il fatto che tale questione sia ormai passata di moda, relegata a un passato “vecchio” e che sa di “stantio”: il problema morale. Infatti, l’origine e lo sviluppo della crisi greca va di pari passo con una morale non più prettamente umanistica, ma mercantilizzata.
Prima di affrontare quest’ultimo aspetto è opportuno premettere alcune cose. Innanzi tutto la Grecia ha truccato i suoi conti per entrare nell’Unione Europea e per invogliare i creditori a prestarle denaro rassicurandoli sulla sua stabilità. Come se non bastasse, lo scoppio di questa bolla ha allargato la già presente frattura fra Nord e Sud, fra il mondo freddo e razionale e quello più caldo e “sudato” – caliente rende meglio l’idea – che ha portato il primo a guardare dall’alto in basso il secondo, poiché – secondo il Nord – il meridione deve imputare solo a sé stesso e alla sua pigrizia e avarizia la propria condizione di malessere. Un certo humor anteguerra si è diffuso in alcuni canali mediatici che disegna la Grecia come corrotta, senza tenere conto del fatto che a dire che è corrotta è proprio il corruttore. Non a caso il più grande scandalo sulle tangenti degli ultimi tempi in Grecia è stato quello che ha coinvolto i tedeschi per la vendita di loro sottomarini alla marina ellenica. Comunque, è palese che l’errore sia di tutti: chi ha truccato i conti ha accettato denaro sapendo di non poterlo ripagare mentre chi ha prestato questo denaro sapeva che i conti erano falsificati e che quindi il debitore fosse praticamente insolvente.
Superate le premesse si può affrontare, ora, il problema morale principale: l’economia attuale non ha al centro l’essere umano ma il denaro. E’ il solito discorso di un mondo sbilanciato verso Mammona e non verso la società o l’individuo, così da provocare crisi che ricadono sulle persone anziché sugli strumenti, come la moneta, che vengono e andrebbero utilizzati per vivere meglio. A pagare le conseguenze dei veri e propri “inciafrugliamenti” (termine popolare italiano che ben rende l’idea di ciò che è accaduto) sarà la popolazione, soggetta ad ulteriori tagli, aumenti dell’età pensionabile, al rigore economico, come se fosse stata lei la diretta causa di ciò che ora sta vivendo. Il problema morale – e giuridico – è che la pena di un reato non ricade sull’esecutore ma sulla vittima stessa. Un rigiro dialettico – ma concreto – che provoca l’aumento del divario fra ricchi e poveri e un distacco sempre maggiore dell’economia reale da quella finanziaria delle banche, degli interessi, dell’andamento della moneta. Come se non bastasse, questo distacco non assicura indipendenza dell’una dall’altra, anzi. Entrambe continueranno sempre a influenzarsi ed è sotto gli occhi di tutti che a pagare sarà il cittadino. Se l’economia reale subisce una contrazione è ovvio che sia la gente reale a pagarne le conseguenze, mentre se è il mondo finanziario a collassare l’influenza che provoca sul concreto è tale che sempre la gente sarà colpita. Un bivio-non-bivio dell’amoralità, in cui non c’è scelta. Questo è il frutto del cosiddetto turbo-capitalismo, anche perché, immaginando un miglioramento dell’economia e della produzione sarà obbligatorio pensare anche a un’eventuale aumento del consumo delle risorse naturali, con conseguente impoverimento delle acque, dell’aria e del suolo che ricade, come sempre, su coloro che non potranno permettersi di acquistare una villa su di un’isola sperduta e al sicuro dal mondo esterno. Tutto questo ci fa capire come ciò che è individuato come causa dell’attuale condizione della Grecia è frutto di qualcos’altro che è sempre “prima”, e cioè il movente che giustifica l’agire umano e istituzionale. Finché questo movente sarà il profitto fine a sé stesso ci sarà sempre da aspettarsi crisi del genere e di malagestione. Il nucleo della crisi dell’Euro non è economico, politico o sociale. Non è meccanico, non è puramente mercantile, ma è morale.

lunedì 13 luglio 2015

Ridurre il debito? All'Austria si può...

Pecunia non olet, ma il debito puzza sempre. Però ci vuole fiuto per distinguere un debito dall'odore insopportabile e uno che vabbé, non è proprio Chanel numero 5 ma quasi...
Metafore? Mica tanto. Il giornale economico francese La Tribune rivela che lo "Stato federale della Carinzia" (regione austriaca nota anche per aver partorito uno dei primi populisti fascisti dell'ultimo ventennio, Jorg Heider) si ritrova con debito piuttosto serio nei confronti di un altro stato federale. Non austriaco, come si potrebbe pensare, ma tedesco. E non uno staterello federale minore, ma nientepopodimeno che la Baviera, governata da sempre dalla Csu, ovvero democristiani criptofascisti che sbarrano gli occhi per l'orrore quando sentono parlare di "piani di aiuto" verso la Grecia o altri paesi "meridionali".
La storia di questo debito è assolutamente identica a tante altre: una banca, una gestione clientelare orientata dalla "politica", molta corruzione, investimenti folli, socializzazione delle perdite a carico dello Stato, ecc; ed è stata così efficacemente riassunta dal giornale eunews.it/:
Protagonista della complicata vicenda è la banca Hypo Group Alpe Adria, una delle più attive dell’Austria a inizio anni 2000. Fino al 2007 le quote di maggioranza dell’istituto erano nelle mani del land austriaco della Carinzia, all’epoca guidato dall’astro nascente della politica di estrema destra Jörg Haider (morto nel 2008 in un incidente stradale). Nel marzo 2007 la Carinzia ha venduto le sue quote alla banca regionale pubblica bavarese Bayerische Landesbank (BayernLB). Lo scoppio della crisi finanziaria mondiale ha poi fatto il resto. La BayernLB si è presto trovata in difficoltà, mentre la Hypo Group Alpe Adria ha cominciato a essere sommersa dai debiti che non è più stata in grado di ripagare. Davanti a una situazione diventata ormai ingestibile, nel dicembre 2009 la Carinzia ha deciso di nazionalizzare la banca comprandola al prezzo simbolico di un euro.
Poco tempo dopo lo stato federale austriaco ha creato la “bad bank” Heta, per concentrare al suo interno tutti i risultati di una spregiudicata malagestione finanziaria della Hypo Group Alpe Adria durata quasi un decennio. Tutto sembrava avviarsi pian piano verso una soluzione quando, nel marzo scorso, è arrivata l’ennesima cattiva notizia: nei conti dell’Heta viene scovato un nuovo buco da 7,6 miliardi di euro, pari al 2,3% del Pil austriaco. A questo punto la Austrian Financial Market Authority (FMA) non ha potuto fare altro che sospendere qualsiasi pagamento ai creditori fino a marzo 2016, cercando nel frattempo di ottenere una ristrutturazione del debito cresciuto ormai a dismisura.
L’8 maggio l’ennesima tegola cade sulla testa dello Stato austriaco. La Corte regionale di Monaco ha condannato Vienna a pagare 2,75 miliardi di euro alla BayernLB, pari alla cifra (più interessi) che la banca bavarese aveva versato nelle casse della Hypo Group Alpe Adria nel 2009 per tentare di risollevarla dalla tremenda crisi nella quale era piombata. Soldi, ovviamente, mai restituiti. “Ora l’Austria deve assumersi le proprie responsabilità e ripagare i suoi debiti” ha dichiarato dopo la sentenza Johannes-Joerg Riegler, Chief Executive di BayernLB. I legali di Heta hanno subito presentato ricorso alla Corte Suprema e intanto l’Austria ha detto che non pagherà. “Il Governo non butterà un altro euro dei contribuenti nell’Heta” commentò il ministro delle Finanze autriaco, Jörg Schelling. Il rischio era quello di portare al fallimento lo Stato federale della Carinzia.
Ognuno ha le tasche che ha, e quindi la Carinzia ha chiesto alla Baviera di... ristrutturare il debito. Proprio come Atene con l'Unione Europea.
La cifra che si vorrebbe veder tagliata è certo più bassa (la Carinzia conta ancora meno della Grecia, quanto a percentuali del Pil europeo): appena un miliardo e mezzo, euro più euro meno.
La questione, pur riguardando uno stato federale (o una regione, nella nostra terminologia, anche se l'assetto istituzionale è molto diverso), è chiaramente di livello politico nazionale; quindi è stata portata all'attenzione di Angela Merkel e del terribile Wolfgang Schaeuble.
Come pensate che abbiano risposto? Che i debiti sono debiti e vanno ripagati per intero, spremendo la popolazione interna fino a costringerla a emigrare?
Nein. Un austriaco non è un greco, vale di più agli occhi di un tedesco (in fondo un anschluss glielo hanno già imposto una volta, nel 1938, ma quello era più terribile di Schaeuble, forse). Quindi, vabbè, non è proprio una procedura che ci piace, ma in fondo che c'è di male, tra noi che parliamo la stessa lingua?
Siccome al ridicolo dei "due pesi, due misure" non c'è limite, la Merkel ha trovato persino qualcuno "più a sinistra" di lei in questa faccenda. Gli stessi bavaresi che vorrebbero la Grecia appesa per i piedi fuori dalla porta della Ue, hanno immediatamente rilanciato: macché sconto sul debito, ai carinziani glielo abboniamo del tutto!

domenica 12 luglio 2015

Parlando di “Buona Scuola” e dintorni

Il governo Renzi è riuscito ad incastrare un altro tassello (probabilmente il più importante dal punto di vista ideologico) nel mostruoso mosaico atlantista – liberista che sta imponendo all’Italia.
C’è una ferrea coerenza, infatti, tra la “riforma costituzionale” del Senato, la nuova legge elettorale detta “Italicum”, il “Jobs Act” e la “riforma della scuola” approvata dal Parlamento. In particolare, ciò che colpisce è la evidente continuità tra le “riforme” attuate nel mondo del lavoro ed in quello della scuola e le proposte di “riforma” presentate negli stessi settori strategici ai tempi dei governi di Berlusconi dalle forze politiche del Centro-Destra, ormai sempre più indistinguibili nei contenuti dal Partito Democratico al di là di un contrasto di facciata tenuto in piedi per dare ancora senso all’ esistenza ventennale dei due storici schieramenti presunti “alternativi” (Ulivo-Unione/ Casa delle Libertà, PD/ PDL, ecc.).
La lotta contro la ennesima “riforma scolastica” è l’espressione della sacrosanta resistenza della stragrande maggioranza di chi la scuola la vive (studenti, insegnanti, famiglie), ossia di milioni e milioni di persone- come hanno dimostrato l’ imponente sciopero del 5 maggio, il rigetto degli indovinelli degli INVALSI e il blocco degli scrutini- contro l’ imposizione di un modello di educazione che trova nel liberismo la sua ideologia di riferimento ed ha i suoi esecutori in una cricca di politicanti che incarnano plasticamente il comitato d’ affari atlantista del padronato industriale, dei banchieri e degli speculatori finanziari dominante in Italia.
In un simile contesto la “riforma della buona scuola” rappresenta un passaggio d’epoca nella configurazione del sistema educativo italiano sia per i fondamenti su cui poggia sia per le finalità che esprime. Il lato più odioso è la conclamata assunzione di 100.000 e passa (?) “precari” (fra l’ altro per buona parte di essi se ne riparlerà dal 1° settembre 2016…) usata come arma di ricatto per far digerire tutto il resto. In effetti anche questo elemento conferma uno dei tratti tipici del governo Renzi, individuabile fin dalle sue prime battute, cioè la creazione di contrapposizioni tra presunti “privilegiati”- in realtà poveri disgraziati come tutti quelli travolti dall’offensiva liberista- (i pensionati, i docenti di ruolo, i cassaintegrati…) e altri disperati (i giovani disoccupati, i precari, gli “immigrati”, ecc.) per rendere più agevole l’imposizione dei provvedimenti funzionali all’imposizione dell’ ideologia liberista in ogni luogo della società.
E dunque, tornando alla “Buona Scuola”, l’ accentramento dei poteri nella figura del dirigente scolastico, il progressivo inaridimento degli organi collegiali, architrave dell’impianto democratico scaturito (pur con tanti limiti) dalle dure lotte degli anni Settanta, la compressione della libertà di insegnamento attraverso un sistema valutativo di tipo mercantile, sono alcuni degli elementi di una destrutturazione del sistema scolastico che troverà nelle leggi delega e nei decreti attuativi un ulteriore passaggio di consolidamento, i cui contorni precisi sono tuttora ignoti, ma dopo quanto accaduto per quelli relativi al Jobs Act è facile prevedere che essi renderanno la situazione ancor più drammatica.
Mercificazione ed omologazione del lavoro educativo sono le coordinate del dispositivo pedagogico liberista. Di qui la competizione generalizzata tra colleghi (da cui deriva il depotenziamento delle pratiche cooperative e collegiali, già ampiamente indebolite negli anni), veicolata dalla tecnologia valutativa che assume chiaramente il profilo di una modalità di controllo e ricatto. L’incorporazione della logica aziendale rende superflua, nella narrazione neoliberista, lo strumento del contratto di lavoro che si rivela residuale rispetto alla concorrenza tra insegnanti considerati “microimprese individuali”. L’approvazione del disegno di legge, si dice del resto esplicitamente nel testo, determinerà la disapplicazione delle prerogative contrattuali. Il dispositivo pedagogico liberista accentuerà così nel mondo della scuola le disparità che riproducono le diseguaglianze originarie; è un dispositivo darwinianamente selettivo. Esclude l’appropriazione consapevole di strumenti critici, catarsi che consente di scuotere il presente con lo sguardo dell’analisi e congela i flussi della conoscenza. L’ egemonia è sempre un conflitto di ideologie e di culture, allora non possono ancora sussistere dubbi sul fatto che quella in atto oggi sia la conclusione dell’ offensiva liberista e atlantista lanciata in Italia a partire dal 1994 contro l’idea stessa di istruzione universale pubblica.
In questo senso è indicativa la formula utilizzata dai portavoce democratici: “Non siamo mai andati a riunirci con la Confindustria prima di varare le leggi di riforma”. In effetti è vero. Non hanno bisogno di riunirsi con i rappresentanti del padronato, perché trascrivono semplicemente i documenti che il padronato stesso produce nei suoi centri studi (o meglio think-tank, per esprimerci in termini moderni). Ciò era emerso già clamorosamente con il Jobs Act e trova adesso un ulteriore conferma nella “Buona Scuola”, i cui punti nevralgici sono la precisa attuazione di quanto elaborato nel corso di un decennio dall’ Associazione Treelle (Life Long Learning), un thik-tank- appunto- bipartisan fondato da Fedele Confalonieri (braccio destro di Berlusconi), Marco Tronchetti – Provera, spregiudicato amministratore delegato del Gruppo Pirelli nonché tra i finanziatori della campagna elettorale di Mario Monti nella tornata del 2013, e Pietro Marzotto noto industriale del tessile veneto simpatizzante del PD. Nei documenti elaborati nel corso degli anni dal pensatoio dei padroni ritroviamo, guarda caso, tutte le indicazioni essenziali riportate quasi alla lettera o leggermente modificate nella legge imposta dalla banda dei manigoldi. Qui di seguito un breve elenco di espressioni estratte dai documenti Treelle:
– “Il dirigente sceglie e nomina i propri collaboratori” e “propone al Consiglio d’Istituto l’ assunzione di personale per tutte le funzioni necessarie”;
– “la facoltà di richiedere all’ utenza contributi in denaro”;
– “premiare quel 10-20 % di insegnanti su cui si regge la buona scuola”;
– “non nominare supplenti per assenze fino a dieci giorni”
Ma se è pur vero che, nella sua guerra totale per l’imposizione della dittatura atlantista liberista in Italia, Renzi ha vinto un’ altra battaglia, è altrettanto certo che la sua si rivelerà la classica vittoria di Pirro.
Non si può già adesso non rilevare l’ intreccio tra la grandiosa mobilitazione del popolo della scuola pubblica e i clamorosi e ripetuti tracolli elettorali del PD. La speranza che il popolo della scuola pubblica dimentichi il misfatto di questa legge è pura illusione: quei protagonisti dell’istruzione pubblica, collegati ad un vastissimo “indotto” sociale che ha sempre votato in larga maggioranza per il centrosinistra e che hanno già punito drasticamente il PD togliendogli un paio di milioni di voti nelle recenti elezioni amministrative, lo faranno ancora più nettamente nelle prossime, e nel frattempo provocheranno un ulteriore crollo dei consensi per il giovane spregiudicato ed il suo sempre più impresentabile partito.
I docenti, gli studenti, le loro famiglie non accetteranno mai l’ instaurazione in ogni istituto di un potere “alla Marchionne” (non a caso figura-mito del capo del governo) con la perdita della libertà di insegnamento, le assunzioni e i licenziamenti da parte di presidi-padroni che dovrebbero scegliere follemente il “personale” da Albi con migliaia di nominativi, le “premiazioni” e le “punizioni” decretate da un “Gran Giurì” composto dallo stesso “padrone”, da un paio di insegnanti collaboratori, più uno studente e un genitore (o due genitori) che nulla sanno per valutare, più un esperto catapultato dall’ Ufficio Scolastico Territoriale per garantire l’“imparzialità” (!) del giudizio.

venerdì 10 luglio 2015

Libri vietati a scuola. Qualcosa più di un indizio...

Vietare la lettura dei libri, mettendone una lista all'indice. E' il vecchio sogno ricorrente dei reazionari di ogni epoca, dai parabolani di Alessandria all'Inquisizione, fino ai roghi hitleriani. Applaudono con convinzione, in genere, gli spostati che non trovano nulla da eccepire sulla libera diffusione del Mein Kampf o dei Protocolli dei savi di Sion.
La lista del neo sindaco di Venezia - imprenditore "renziano" eletto dalla Lega e dalla destra - è leggermente più penosa di altre che l'hanno preceduta; roba da commedia, insomma, più che da tragedia. Qui l'intenzione è infatti di impedire che una serie di favole per bambini arrivino ai destinatari. Ben 49 libri sono stati considerati - da qualche oscuro funzionario con seri problemi culturali - "pericolosi" per l'integrità psicofisica degli under qualche anno. Capolavori del genere, come "Piccolo blu e piccolo giallo" di Leo Lionni, oppure "Piccolo uovo" di Altan; ma anche testi sull'adozione, su genitori in seconde nozze, o sul bullismo a scuola (come "Il segreto di Lu").
Difficile rintracciare un filo logico razionale, facile scovare l'integralista sotto il moralizzatore. L'intenzione dichiarata è quella di contrastare la diffusione della cosiddetta "cultura gender", qualunque cosa possa significare questa espressione nella testa degli stilatori di liste proibite. In teoria, comunque, vorrebbero contrastare la "diffusione dell'omosessualità" (come se fosse un "virus culturale"). Ma visto che 'erano, hanno infilato dentro anche altri temi (adozione, secondo matrimonio, antibullismo, ecc).
Così facendo è venuta fuori la costellazione ideologica - decisamente catto-fascista, in patente contrapposizione persino con i discorsi del papa attuale - che sovrintende a questa lista. Concretizzata nella circolare a scuole materne ed elementari di eliminare dalle biblioteche quei 49 "testi del demonio".
Scattano le polemiche, come si dice in questi casi, e il neosindaco si spaventa, ma non fa marcia indietro. Fa sapere infatti che medita di "smagrire" la lista, non di farla ingoiare a chi l'ha stilata.
Decisa e costante la reazione di genitori, insegnanti, editori, che hanno dato vita a petizioni (indirizzate al pessimo ministro Giannini, che pensa solo ad aziendalizzare la scuola), iniziative pubbliche di lettura dei libri proibiti, trasformando così la lista in "consigli alla lettura".
Tutte cose molto giuste e anche molto spiritose, divertenti, liberatorie, da appoggiare totalmente.
Basta ricordarsi sempre, però, che quando qualcuno osa stilare una lista di libri da vietiare siamo già oltre le colonne d'Ercole dell'unico scontro "di civiltà" che merita d'essere combattuto. Quello tra chi redige certe liste e chi distrugge i monumenti del passato ci sono solo due differenze: il nome del dio invocato e il passare dalle parole ai fatti. In genere, se si tollerano gli intolleranti, prima o poi si arriva ai fatti. E le liste servono a preparare i roghi.

giovedì 9 luglio 2015

Grecia, ecco come funziona il meccanismo della liquidità di emergenza deciso dalla Bce

A proposito della situazione greca, si parla insistentemente di “liquidità d’emergenza” per gli enti creditizi, ultimo rubinetto che la BCE manterrebbe aperto per evitare il collasso del sistema bancario ellenico. Più precisamente, ci si riferisce alla cosiddetta emergency liquidity assistance (ELA) , uno strumento a disposizione della banche centrali nazionali per assicurare liquidità agli istituti di credito in situazioni eccezionali, di emergenza appunto.
Com’è noto, lo scorso 4 febbraio, il Consiglio direttivo della BCE ha deciso di non accettare più i titoli di Stato ellenici quale garanzia per l’erogazione di liquidità alle banche. Di fatto, ha precluso alle banche greche la possibilità di approvvigionarsi a tasso agevolato (0,05%), per via ordinaria, al pari di tutti gli altri paesi europei. Una decisione che, sommata all’esclusione dei bond greci dal programma di quantitative easing, è stata letta da molti analisti come il tentativo da parte di Eurotower di esercitare una pressione indebita sul governo di Atene, al fine di ottenerne la capitolazione nel quadro delle trattative sulla questione del debito. Certo, queste mosse della BCE hanno ulteriormente aggravato la situazione finanziaria del paese, scaricando sul groppone della banca centrale nazionale il rischio di un’eventuale insolvenza degli istituti di credito. Perché? Presto detto.
L’ELA, diversamente da come viene spesso descritto dai media, non costituisce una linea di credito per le banche nazionali riconducibile alla “normale” attività di politica monetaria della BCE. In verità, consiste nell’erogazione da parte delle banche centrali nazionali (BCN) di «moneta di banca centrale» o di altre forme di assistenza che «possano determinare un incremento della moneta di banca centrale» a favore di istituzioni finanziarie o «gruppi di istituzioni finanziarie» che, in un certo momento, possono trovarsi ad affrontare problemi di liquidità.
La responsabilità di tali operazioni è tutta in capo alle banche centrali nazionali (BCN), che, in questo modo, accettano anche il rischio di insolvenza delle istituzione che ne beneficiano. In sostanza, con lo strumento della emergency liquidity assistance è riconosciuta alle banche centrali nazionali la facoltà di “stampare moneta” a favore delle banche, che, a loro volta, possono utilizzarla anche per finanziare il debito dello Stato. Si tratta, però, di operazioni che presentano, almeno, tre elementi di criticità. Primo: i beneficiari sono costretti a pagare il denaro ricevuto ad un prezzo trenta volte superiore a quello ordinario. Secondo: tutto il peso di un’eventuale insolvenza delle banche ricade sulle banche centrali nazionali. Terzo: il servizio del debito, nel caso di Stati costretti a finanziarsi presso gli istituti di credito garantiti dall’ELA, è di gran lunga più oneroso rispetto ai normali “prezzi di mercato”.
Qual è il ruolo della BCE in queste operazioni? Solo quello di «di limitare le operazioni di ELA qualora valuti che interferiscono con gli obiettivi e i compiti dell’Eurosistema». In pratica, entro certi limiti, le banche centrali nazionali sono solo tenute a comunicare alla BCE i dettagli delle operazione di ELA «al più tardi entro due giornate lavorative dopo lo svolgimento dell’operazione». Se l’operazione, invece, è di una certa consistenza (oltre i 2 miliardi), il Consiglio direttivo della BCE può valutare l’impatto che la stessa potrebbe avere sul sistema, fissando, eventualmente, dei tetti massimi, senza ulteriori interventi per le operazioni che si effettuano al di sotto di essi in un lasso di tempo «prestabilito di breve durata».
Ecco di cosa si parla a proposito dell’asticella degli 89 miliardi che la BCE ha fissato per Atene. Non di nuovi prestiti allo Stato ellenico (poiché la BCE ha imposto un limite all’emissione di titoli di Stato greci), né di finanziamenti diretti alle banche private al tasso ufficiale di sconto. Soltanto del limite entro il quale sono consentite operazioni di finanziamento degli istituti creditizi da parte della Banca di Grecia. Semplificando, è come se alla Grecia fosse stato detto: i rubinetti della BCE per voi sono chiusi, per quanto riguarda la liquidità delle banche accollatevi oneri e rischi, purché non interferiate con gli obiettivi generali del sistema.
Si badi che attraverso questo meccanismo la Grecia ha ripagato perfino alcune tranche di debito che aveva con la stessa BCE. Circostanza che la dice lunga sul “funzionamento” di questa Europa, dove ad uno stato membro è chiesta la vita dei suoi cittadini in cambio di aiuti finanziari, mentre per le esigenze delle banche è consentito perfino di stampare moneta “in casa”.

mercoledì 8 luglio 2015

Il NO greco inaugura un nuovo ruolo per Atene

Si continuano ancora ad ignorare le ragioni per cui i greci, domenica scorsa, avrebbero dovuto votare in massa per il SI al referendum sul piano d’austerità. E’ anzi già di per sé un successo, per i sostenitori del SI, che quest’ultimo abbia comunque raccolto un pur sempre dignitoso 30% e più. Il NO, ovviamente, l’ha fatta da padrone, superando il 60%.
Chi scrive quest’articolo era stato, almeno inizialmente, molto scettico circa la vittoria del NO. Tanti e tali erano stati i condizionamenti dall’esterno, soprattutto da parte di Bruxelles, che personalmente mi sarei aspettato che molti cittadini greci favorevoli al NO alla fine rinunciassero scegliendo, all’ultimo minuto, di votare per il SI.
Il ricatto di Schulz, della Merkel e di Junker, di continuare ad irrorare di liquidità le banche greche solo nel caso in cui avesse vinto il SI, rappresentava infatti una gravissima interferenza ed ingerenza negli affari interni greci. Un atteggiamento che, oltretutto, denota anche la mentalità politica e direi persino “coloniale” dei suoi responsabili, che davvero non vedono nulla di male nell’ingerire negli affari interni di un altro Stato pur di onorare le loro logiche tornacontiste.
Da questo punto di vista, è doveroso far notare come una certa sinistra (ma in parte anche una certa destra), che ha sempre qualcosa da ridire quando è il Papa ad ingerire su aborto, unioni civili, e così via, in questo caso abbia invece tranquillamente preferito soprassedere. Nessuno ha detto ai vertici europei e comunitari di starsene zitti, di non disturbare il popolo greco intento in un importante esercizio di democrazia diretta come il referendum. Semplice distrazione o mancanza di coerenza?
In ogni caso questo NO costituisce un bello schiaffo a tutti coloro che, in Europa, hanno sempre imposto alla Grecia i “viveri” (ma ovviamente in misura meno che minima) in cambio dell’austerità e di politiche e riforme pesantemente neoliberiste. Si recide il cordone ombelicale che teneva fino ad oggi la Grecia sotto il ricatto comunitario, ponendo così le condizioni affinché Atene possa, con questo risultato, non soltanto trattare da una maggior posizione di forza, ma anche sentirsi autorizzata a cercare il proprio futuro in altri lidi che non siano solo la Germania, la BCE o il Fondo Monetario Internazionale.
I BRICS sono all’orizzonte e, se avranno la volontà ed il coraggio di soccorrere Atene con le loro neonate istituzioni bancarie, potranno farlo. Di sicuro, prima che ad intervenire sia tutto il consesso degli Stati emergenti, a farsi avanti sarà uno dei suoi più solidi ed importanti rappresentanti, la Russia, che a guardar bene qualcosa in questo senso ha già fatto. Gli incontri fra Tsipras e Putin indicano un cambiamento degli equilibri nei Balcani a favore di Mosca, ed anche una possibile via per il futuro di Atene.
C’è poi anche un sostrato culturale, ascendente all’antichità bizantina, che lega Mosca ed Atene in una comune identità ortodossa. A molti ciò potrà apparire come un argomento piuttosto futile, ma è indubbio che proprio grazie a questa sua identità la Grecia potrebbe giocare, una volta liberatasi da certi lacci e lacciuoli, un importante ruolo di ponte e di cerniera fra Est ed Ovest, tra la Russia e l’Europa. E, ovviamente, pure la sua economia ne potrebbe trarre importanti benefici.
Ciò andrebbe oltretutto a favore della strategia cinese della Nuova Via e della Nuova Cintura della Seta, che è un percorso non soltanto di terra, attraverso l’Asia Centrale, ma anche marittimo, tramite l’Oceano Indiano verso il Mediterraneo. I porti greci, a cominciare dal Pireo, hanno per la Cina un altissimo valore strategico. E che Cina e Russia costituiscano oggi un potente sodalizio ormai non è più un mistero per nessuno.
La Grecia potrebbe quindi diventare il terminale mediterraneo dell’Oriente, sfruttando al contempo il suo tradizionale ruolo di culla e “primo miglio” dell’Occidente. Una cerniera, un ponte, come già dicevamo: e sicuramente questo NO di domenica sarà propedeutico al raggiungimento di tale status.

martedì 7 luglio 2015

Le contromisure della Troika e la connivenza italiana

E’ giunto il day after e dall’altra parte delle coste italiane, nessun greco ha ancora parlato di uscire dall’Euro, anzi Tsipras ha parlato di una riapertura delle trattative dando ragione a chi sosteneva che il giovane premier greco abbia voluto bluffare fin dall’inizio e usare l’esito del referendum come una minaccia all’Europa. Il giovane astro della snistra europea, per ora, è riuscito nel poco ambito intento di far imbestialire la Merkel che ha già dichiarato: “Tsipras vuole il muro contro muro”. Siamo proprio sicuri che l’astutissima Angela si lascerà stringere negli angoli del ring da uno sbarbatello greco? La risposta non può essere che un NO – OXI – deciso, anzi, a ben vedere la gentile signora teutonica aveva già imposto ai banchieri europei alcune precauzioni: stiamo parlando delle direttive europee sul “prelievo forzoso”.
La Camera dei Deputati ha già recepito le direttive UE approvando di fatto il bail in, ennesimo termine inglese sconosciuto ai più che gli italiani impareranno a conoscere molto bene, grazie ai voti della maggioranza. La nuova legge di delegazione europea prevede che, nel caso in cui alcune banche dovessero fallire, il governo potrà valutare “L’opportunità di stabilire modalità applicative del “bail in” coerenti con la forma societaria cooperativa”. Cosa vuol dire? Usando parole comprensibili si può dire che il governò potrà decidere di salvare una banca in grande difficoltà – com’era successo alla Montepaschi – andando a prelevare il famoso sei per mille dai conti correnti dei clienti della stessa banca. Questo nuovo sistema cambia l’ottica del salvataggio delle banche: fino ad oggi era previsto l’intervento dello Stato, che spesso richiedeva l’aiuto di banche più grosse, e a tirare fuori il grano per degli errori finanziari erano tutti i cittadini; dal 2016 si utilizzerà il metodo del salvataggio interno poiché non sarà più lo Stato a dover pagare, ma saranno per primi gli azionisti, a seguire gli obbligazionisti, i crediti non garantiti e, infine, i correntisti / depositanti aventi più di cento mila € sul conto corrente.
Agli italiani, insomma, verrebbero nuovamente proposti metodi ben poco democratici al solo fine di scansare una grave crisi finanziaria che potrebbe essere causata dal fallimento di un istituto creditizio. Unico precedente della storia tricolore è targato 1992 – un anno alquanto ricorrente quando si parla di atti poco democratici – quando il governo Amato impose un prelievo forzoso del 6/1000 sui conti correnti di tutti gli italiani aventi un conto corrente con più di dieci milioni sopra. Altro precedente, ben più grave, è accaduto a Cipro dove la grave crisi ha piegato il paese ed il governo cipriota ha ben deciso di prelevare il 30% sui conti correnti dei cittadini, ben altre cifre, ma il principio è lo stesso. Per evitare una crisi finanziaria, non basata sull’economia reale, causata dall’errore di un brooker impiastro, lo Stato, anziché salvaguardare i cittadini dalle sempre più torbide acque della finanza e della virtual economy, decide di salvare le banche facendo annegare il popolo.
A costo di far rivoltare nella tomba il compianto Saramago, bisognerebbe essere dei grandissimi amanti delle coincidenze per credere che l’Europa abbia emanato queste direttive per puro caso proprio pochi giorni prima del referendum greco, qui Angela ci cova.