martedì 23 novembre 2021

Se L’Unione Europea si fa superstato e manda in soffitta il “soft power”

 A che punto è il processo di centralizzazione dei poteri decisionali in Unione Europea? Le tendenze e le controtendenze che via via stanno agendo sulle resistenze degli stati nazionali, vedranno nascere un organismo complesso capace di competere a livello globale con gli altri giganti come Usa e Cina? E tale organismo potrà assumere le forme inedite di un superstato con caratteristiche imperialiste?

Su queste domande e su una decostruzione complessiva del Recovery Plan che intende conformare un gigantesco processo di ristrutturazione (e destrutturazione) a livello europeo, si è discusso sabato e domenica scorsi a Bologna nel forum organizzato dalla Rete dei Comunisti.

Più di 120 persone, in larghissima parte giovani, hanno seguito con una attenzione che indubbiamente colpisce, tutte e tre le sessioni dei lavori.

I lavori del Forum hanno visto alternarsi relazioni e contributi al dibattito seguendo la traccia indicata nella relazione introduttiva che ha ricalcato il documento di convocazione del forum.

Diverse relazioni hanno approfondito la decostruzione del Recovery Plan europeo e del Pnrr italiano (Della Porta, Pollio, Grasso, Cararo) analizzandone gli assi strategici e le conseguenze sul piano economico/sociale, ambientale, politico/militare. 

Altre relazioni hanno analizzato il “dispotismo europeo” che ormai pare ispirare il sistema decisionale costruito intorno agli apparati politici e finanziari (Russo) e il processo che ha portato all’esercito europeo (Russo Spena), un’altra ha ricostruito le dimensioni della competizione monetaria tra i grandi blocchi (Vasapollo), una relazione ha messo a fuoco la crisi di egemonia degli Usa e il tentativo della Ue di riempire il buco (Piccioni). 

Infine la relazione conclusiva ha attualizzato – alla luce dei nuovi scenari – la proposta di un’area euromediterranea(ispirata all’Alba latinoamericana) come alternativa alla gabbia dell’Unione Europea e momento di passaggio in un processo di transizione economico/sociale/monetario e di cooperazione internazionale, in antagonismo al colonialismo e alla Nato (Marchetti).

Diversi i contributi alla discussione: da Giorgio Cremaschi all’economista Ernesto Screpanti, da Matteo Giardiello dell’ex Opg a Max Gazzola di Spread.it agli studenti di Cambiare Rotta.

Gli spunti, le analisi ma anche le prime conclusioni, consentono di ricavare una visione organica del processo in corso nell’Unione Europea e delle sue ambizioni nella competizione inter-imperialista che si va ormai delineando chiaramente.

Le relazioni saranno ben presto a disposizione in un numero monografico di Contropiano rivista che diventerà l’occasione per nuovi incontri e approfondimenti.

mercoledì 10 novembre 2021

La destra europea e il “fascismo libertario”

 Il conglomerato transnazionale – in cui è raggruppato il complesso industriale, militare e digitale – non conosce differenze politiche quando si tratta di aumentare il proprio potere. Oggi parte dei suoi interessi sono racchiusi nel fascismo libertario. 

La sua ascesa si veste di un discorso nazionalista, omofobo, razzista, xenofobo e anti-islamista. È vero, non tutti condividono questa ideologia al cento per cento.

La Lega Nord, guidata da Matteo Salvini in Italia, o il Fronte Nazionale – ribattezzato Raggruppamento Nazionale – guidato da Marine Le Pen in Francia, marcano le distanze con la fuorilegge Alba Dorata in Grecia o con i suoi omologhi nell’ex Europa dell’Est. 

Tuttavia, la loro presenza non è più marginale. Oggi rappresentano un’alta percentuale di elettori. Sono diventati imprescindibili per formare i governi e sono presenti nei municipi, nei Parlamenti e nelle comunità autonome.

L’ideologia neofascista si ricompone sotto un discorso libertario. Tra i nuovi nomi possiamo citare Éric Zemmour in Francia o Giorgia Meloni in Italia. La destra si sta allineando verso posizioni totalitarie radicate in un individualismo esacerbato. Il suo obiettivo: mettere le libertà individuali in cima alle proprie rivendicazioni.

Tuttavia, non è nemmeno necessario creare nuove organizzazioni, il fascismo libertario si annida nella destra conservatrice e nei partiti liberali. I loro punti di unione rendono completamente sfumata la differenza tra fascismo di destra e libertario. 

Per verificarlo, prendiamo l’esempio della neopresidente della Comunità di Madrid, la “popolare” Isabel Díaz Ayuso. Tra le sue frasi, per non dimenticare la sua rivendicazione libertaria, possiamo citare: “né stati di allarme, né confinamenti“, “bisogna imparare a convivere con il virus“,  “se si spinge troppo su ristoranti e bar, alla fine il contagio va alle case“, “i cittadini, non potendo fumare, non comprendendo le regole, finiscono per recarsi nelle proprie abitazioni“, “è un crimine, in Catalogna, con il clima che hanno, tenere tutto chiuso, avere persone ferme nelle loro case“, “libertà o comunismo“.

Il fascismo libertario non ha bisogno di essere in maggioranza, e nemmeno di diventare un partito alla vecchia maniera hitleriana o fascista, la sua funzione è un’altra: far pendere l’ago della bilancia ed essere la chiave per le forze conservatrici per governare senza contrappeso, prestando il loro appoggio ai governi di minoranza. 

I casi più eclatanti: Estonia, Finlandia, Slovacchia, Slovenia, Austria, Romania, Moldavia o Lituania. In Spagna, Vox ha facilitato il ritorno al governo del Partito Popolare in due comunità autonome: Madrid e Andalusia. Il cosiddetto “cordone sanitario” è un eufemismo. Solo in Germania si mantiene e le ragioni sono ovvie.

Nel 2021, anno di pandemia, 15 partiti neofascisti di 14 paesi hanno firmato un patto in cui sottolineano la loro preoccupazione per la battuta d’arresto nella difesa dei “valori della famiglia” e dell'”identità nazionale”, l’adozione delle leggi Lgbt e, in particolare, della riduzione delle libertà individuali a causa del decalogo sanitario Covid-19. 

Tra i suoi firmatari Viktor Orban, Santiago Abascal, Giorgia Meloni, dei fascisti Fratelli d’Italia, Matteo Salvini, il polacco Jaroslav Kaczynski e Marine Le Pen. La sua forza risiede in un falso appello a tutela dei diritti politici presuntamente violati dopo l’applicazione dei protocolli Covid.

L’esempio più eclatante è l’assalto, lo scorso 9 ottobre, alla sede della Confederazione Generale Italiana del Lavoro, per protestare contro la richiesta del certificato di vaccinazione per partecipare a tutte le attività pubbliche.

Così, il fascismo libertario potenzia, crea o si incista nei movimenti negazionisti, antivaccini, antimaschera, contro il passaporto Covid, 5G, pro vita, antiaborto, antifemministi e così via. Cioè tutto ciò che è considerato riguardare ed essere di competenza dell’individuo e non dello Stato.

La libertà diventa un campo di battaglia da cui emerge un discorso che penetra nell’immaginario collettivo, al di là delle distinzioni di classe.

Le istruzioni sono semplici: “Nessuno deve dirmi cosa devo o non devo fare! Sono libero di andare ovunque! Non ho bisogno che qualcuno controlli la mia vita! I miei diritti non possono essere calpestati in nome dello Stato! Con la mia libertà non si negozia! Gli immigrati mi tolgono il lavoro!” 

In questo contesto si indicono manifestazioni e si organizzano eventi in cui si manifesta il desiderio di vivere senza legami.

I cosiddetti “botellones”, concentrazioni di centinaia o migliaia di persone che bevono in parchi pubblici, piazze o spiagge, all’insegna del motto “Viva la libertà!” sono generalizzati nei fine settimana. E sotto lo stesso enunciato aumentano le proteste dei negazionisti in Italia, Francia, Spagna, Gran Bretagna o Germania.

Un discorso semplice, ma persuasivo. Il fascismo libertario si espande e si pone al vertice del desiderio di soddisfazione personale, indipendentemente dal bene comune e dall’interesse generale.

La nascita e l’ascesa del fascismo libertario in tempi di crisi pandemica e di un capitalismo che si contorce per reinventarsi nella sua forma digitale, trova i suoi argomenti nel campo delle emozioni, dei sentimenti e della paura. 

La miscela esplosiva di questi fattori indica il pericolo che ci minaccia. La lotta contro il fascismo libertario presuppone l’unione delle forze per combattere il capitalismo e le sue maschere.

venerdì 5 novembre 2021

Draghi contro il reddito di cittadinanza e i più poveri

 Draghi attacca il Reddito di Cittadinanza, USB: la vergogna di chi vuole recuperare risorse colpendo i più poveri

La legge di Bilancio del 2022 contiene un pesante attacco al Reddito di Cittadinanza. L’operazione del governo Draghi ha due precisi obiettivi: ridurre le risorse destinate a questa misura, anche contenendo il numero dei beneficiari, e obbligare gli stessi ad accettare qualsiasi proposta di lavoro, anche se a diverse centinaia di chilometri da dove vivono.

Solo qualche mese fa, a luglio 2021, l’INPS aveva fornito i dati sull’efficacia della misura. Nel XX Rapporto Annuale dell’Istituto, il presidente Tridico aveva chiarito che almeno i due terzi della platea dei beneficiari è composta di persone lontane dal mondo del lavoro e quindi inoccupabili.

Si tratta di persone con difficoltà psichiche e fisiche (circa 450mila), oppure minori (1milione e 350mila), oppure anziani (200mila percepiscono la pensione di cittadinanza) e che quindi per tutti loro il RdC va considerato come un reddito minimo, utile a favorirne l’inclusione sociale, invece che una misura che serve a proiettarli nel mondo del lavoro.

Eppure tutta la retorica che accompagna le modifiche introdotte dalla legge di Bilancio si concentra proprio sulla presunta inefficacia che il RdC avrebbe dimostrato come misura di inserimento lavorativo.

Da qui la scelta odiosa di ridurre a due le proposte di lavoro che, se rifiutate, porterebbero alla decadenza del beneficio nonché la progressiva riduzione dal sesto mese in poi della somma percepita a fronte del rifiuto della prima proposta.

Invece di cogliere il dato macroscopico fornito dall’INPS, che ha segnalato come accanto al RdC sia stato fondamentale l’utilizzo di uno strumento aggiuntivo, il Reddito di Emergenza, introdotto con la pandemia, che è servito a coprire 1milione e 300mila persone in più (dati INPS di settembre 2021)  che non potevano accedere al RdC ma che erano comunque in condizioni di grandissima sofferenza e che scadrà a dicembre 2021, il governo Draghi si preoccupa di obbligare i percettori di RdC ad accettare lavori a basso reddito, anche part-time a tre mesi e a grande distanza dalla propria abitazione.

Nel caso della prima proposta fino a 100 chilometri e a 1ora e 40 minuti di distanza, nel caso della seconda in tutto il territorio nazionale.

C’è poi una crescente insistenza verso le amministrazioni locali affinché utilizzino a titolo gratuito, fino a 8 ore settimanali, i percettori di RdC. Nella manovra c’è un preciso riferimento al fatto che i Comuni sono obbligati ad utilizzare almeno un terzo dei percettori di reddito residenti nel proprio territorio, con la specifica che si tratta di un’attività che “non è assimilabile ad una prestazione di lavoro subordinato o parasubordinato e non comporta, comunque, l’instaurazione di un rapporto di pubblico impiego con le amministrazioni pubbliche”.

Qui c’è la diabolica persistenza di quanto già realizzato da decenni in tutto il paese: come già con gli LSU, come con gli APU campani, come con i tirocinanti calabresi e una infinita serie di forme di lavoro precario a salari da fame in tutta la penisola, si continua a sopperire ai buchi di organico nelle attività in capo alle amministrazioni pubbliche facendo ricorso al lavoro sottopagato (ora addirittura gratuito), con la clausola che questa persone mai potranno rivendicare un lavoro stabile.

C’è un mare di lavoro utile e stabile nella P.A. di cui ha bisogno il paese e che potrebbe dare una prospettiva dignitosa a chi vive di RdC ed è in condizione di lavorare. E invece si preferisce condannare alla precarietà cronica decine di migliaia di persone, privandole finanche del diritto ad essere considerati dei lavoratori.

Una vergogna che solo la lotta ha permesso di cancellare, come ci hanno dimostrato le migliaia di lavoratori LSU finalmente assunti dopo anni di durissime battaglie, e che ora anche i tirocinanti calabresi stanno conducendo con altrettanta efficacia.

La platea dei percettori di RdC, che il reddito di emergenza ha dimostrato essere fortemente sottodimensionata, verrà sottoposta ad un controllo minuzioso e invasivo: un autentico paradosso nel paese dell’evasione fiscale, dove sfuggono ad ogni controllo miliardi di introiti di aziende e società finanziarie.

Un accanimento contro i poveri che mira a colpevolizzare chi è in difficoltà e che si aggiunge alla vergogna della tessera attraverso la quale viene erogato il RdC, che vincola i beneficiari all’acquisto di generi specifici e che ha un forte senso stigmatizzante.

L’attacco al RdC è parte di una guerra che il governo Draghi conduce contro i poveri.

Nel paese con i salari più bassi, davanti ad un fortissimo aumento delle tariffe, in prossimità dello sblocco generale dei licenziamenti, una misura come quella del RdC andrebbe fortemente potenziata ed allargata e invece la si riduce. Per combattere le disuguaglianze forse il primo obiettivo è quello di liberarsi del governo Draghi.

mercoledì 3 novembre 2021

Il Commissario Quirinalizio

 I giochi politici in questo paese non contano più nulla. Con grande dispiacere dei giornalisti di punta, abituati da almeno 30 anni a vivere di pettegolezzi e “retroscena”. Però non sanno far altro, e quindi insistono nel praticare l’unico sport che conoscono.

Il “pezzo forte” della settimana sono le parole di Giancarlo Giorgetti, ministro dello sviluppo economico e testa pensate della Lega “di governo”. Presentando l’annuale “libro di Bruno Vespa”, ha fulminato i presenti prospettando una soluzione per il rebus-Quirinale di cui ben pochi osano parlare apertamente: Già nell’autunno del 2020 le dissi che la soluzione sarebbe stata confermare Mattarella ancora per un anno. Se questo non è possibile, va bene Draghi” che “potrebbe guidare il convoglio anche da fuori. Sarebbe un semipresidenzialismo de facto”. 

Lasciamo perdere le questioni personali, di cui nulla sappiamo, vista la nostra lontananza da certi giri. E vediamo cosa significherebbe istituzionalmente e soprattutto sul piano europeo e/o dei “mercati”.

Comunque la si giri, la formula di Giorgetti esplicita un bisogno della classe dominante (non solo italiana): non toccare nulla nell’attuale governance del Paese. Mattarella al Quirinale e Draghi a Palazzo Chigi garantiscono soprattutto l’Unione Europea e i mercati finanziari (hanno, come si dice, “grande credibilità internazionale”).

La Costituzione formale è un limite abbastanza superabile. Il “bis” temporaneo al Quirinale è già stato sperimentato con Giorgio Napolitano, per lo stesso motivo, dunque non sarebbe una forzatura istituzionale ma solo una scelta “poco opportuna”. E quindi chissenefrega…

Ma questa soluzione ha il difetto di valere soltanto per un anno, quello che separa l’elezione del nuovo Capo dello Stato dalle elezioni politiche del 2023.

Per “mettere in sicurezza” il Pnrr, e le “riforme strutturali” imposte dall’Unione Europea come condizione vincolante per l’erogazione delle successive rate del Recovery Fund, serve sicuramente più tempo, visto che il relativo cronoprogramma arriva al 2026.

La classe dirigente non può insomma rischiare che tra un anno e mezzo ci sia un Parlamento inattendibile quanto quello attuale, senza alcun personaggio di statura internazionale, magari con una maggioranza – come quattro anni fa – poco in linea con gli standard richiesti dai “mercati”.

C’è da dire che neanche i cosiddetti “partiti” presenti nell’attuale Parlamento hanno alcun desiderio di ritrovarsi a dover decidere tra attuazione delle chiacchiere elettorali (prometteranno come sempre di tutto e il contrario di tutto), con l’unico effetto – sicuro come la morte – dello spread in volo verso vette ineguagliabili. Con le conseguenze che abbiamo imparato a conoscere e in assenza della “rate” su cui si sta facendo conto.

Dunque l’attuale governance di “garanzia europea” va mantenuta almeno per i prossimi cinque anni.

Per far questo Mario Draghi è al momento ancora insostituibile. Ma appare difficile che possa tornare ad essere, dopo le elezioni, di nuovo premier senza un’investitura popolare. La quale a sua volta appare davvero improbabile, viste le lacrime e il sangue che cominciano a far capolino tra le nebbie che circondano sia la “legge di stabilità” che, soprattutto, le “riforme”. Lacrime e sangue che tra un anno e mezzo sarebbero decisamente più evidenti di oggi.

Già dieci anni fa l’operazione fatta con un altro Mario, Monti in quel caso, fu un flop clamoroso che aprì le porte alla breve e scorbutica stagione del “populismo” (equamente diviso tra “vaffa” e razzismo).

Dunque servirebbe il bis dell’operazione che ha portato Draghi a Palazzo Chigi, come se le elezioni non fossero nel frattempo avvenute e con tutti i cosiddetti partiti che entrano nella compagine governativa solo per obbedire al “grande illuminato”.

I rischi sono evidenti. Quanti oggi strizzano l’occhio a questa ipotesi, a risultati elettorali definiti, potrebbero avere la tentazione di giocare diversamente (perché rafforzati o indeboliti dall’esito). Scombinando le attese internazionali e complicando il percorso delle “riforme” con altre “pensate” impreviste, come lo sono in parte state quota 100 e il reddito di cittadinanza.

Più semplice, invece, se Mario Draghi fosse stato nel frattempo “elevato” alla massima carica. Potrebbe esercitare il suo ruolo in modo molto forte – anche queste forzature sono già state fatte, da Cossiga in poi, e da Mattarella stesso quando diede l’incarico a Cottarelli, indicato da nessuno – assumendo di fatto anche la parte di primo ministro, magari figurativamente lasciata a Daniele Franco (attuale ministro dell’economia) o altra figura equivalente pescata nel vivaio della Banca d’Italia.

In effetti sarebbe un semipresidenzialismo di fatto. Un’anticipazione della riforma costituzionale che, a bocce ferme, non può essere neanche ipotizzata (tantomeno realizzata in soli 121 mesi).

Al di là dei piagnistei dei “difensori della Costituzione formale” – sono 100 anni quasi esatti dalla repubblica di Weimar, e si sa com’è finita – una simile forzatura risponde a un’esigenza per nulla “nazionale”. 

La classe dirigente attuale – imprenditoriale e non – non ha infatti più alcun limite nei confini, vissuti alla pari di quelli regionali o provinciali (si bada alla differenza di regole locali, cercando quella più vantaggiosa per sé, ma senza alcun “disegno di sviluppo” particolare). 

Tenere inchiodata l’attuale governance – centrata su Draghi – è un problema di efficienza nella realizzazione di una nuova divisione del lavoro tra paesi europei. Gli interessi della classi popolari, i bisogni, le speranze delle nuove generazioni, non possono trovare alcun posto (se non nella retorica, tipo quella “per i giovani” quando si parla di pensioni o debito pubblico).

La presidenza della Repubblica, da questa angolatura, diventa una carica che deve forzatamente essere assunta da un “commissario europeo”, con compiti anche operativi (che la Costituzione italiana non prevede, ma chissenefrega…).

Un Commissario Quirinalizio. Che anche simbolicamente restituisce l’immagine di un paese commissariato e in vendita. Come la Grecia dopo la capitolazione dell Tsipras I…