mercoledì 23 febbraio 2011

COMPLICITA' BIPARTISAN CON GHEDDAFI

Improvvisamente si scatena la meno prevista delle rivolte nel mondo arabo, di gran lunga la più violenta: il popolo libico contro il dittatore sanguinario Gheddafi. Il mondo assiste a uno spettacolo tremendo: i dimostranti di manifestazioni politiche disarmate vengono sterminati e massacrati. Gli Stati Uniti condannano, anche se la voce della prima potenza del mondo appare troppo debole e tardiva. 
L'unione europea  ha detto che ciò che accade in Libia viola ogni principio politico e umano e non può essere accettato da nessuno dei Paesi membri.
Ma l’Italia è legata alla Libia del dittatore che sta sterminando il suo popolo da un trattato che la vincola al punto che – si dice all’articolo 4 – “l’Italia si impegna ad astenersi da qualunque forma di ingerenza, diretta o indiretta, negli affari interni o esterni che riguardino la giurisdizione dell’altra parte. L’Italia non userà mai ne permetterà l’uso dei propri territori in qualsiasi atto ostile contro la Libia”. Ma il trattato che, sottolineamo, è stato votato non solo da tutta la destra ma da tutto il Pd, (che ora si scandalizza) con l’eccezione dei Radicali eletti nelle liste del Pd, e di due Deputati del Pd,  ha in serbo altre sorprese. Art. 20: “Le due parti si impegnano a sviluppare, nel settore della Difesa, la collaborazione tra le rispettive Forze Armate, anche attraverso lo scambio di informazioni militari e di un forte partenariato industriale nel settore della Difesa e delle industrie militari”. Ma anche (art. 19) “le due parti promuovono un sistema di controllo delle frontiere terrestri libiche da affidare a società italiane”.
In poche parole siamo complici. Siamo legati da uno “stretto partenariato” con un Paese che era ed è senza alcuna garanzia di rispetto dei diritti umani. Frecce Tricolori si sono viste volteggiare festosamente nel cielo di Tripoli, sugli edifici di governo che, in queste ore, i cittadini libici oppressi e senza diritti hanno dato alle fiamme.
È dovere urgente dello stesso Parlamento italiano che ha ratificato quasi alla unanimità quel trattato già allora facilmente riconoscibile come vergognoso, di agire subito per sospenderlo. Chiuderò con la frase pronunciata da Berlusconi all'indomani dello scoppio dei disordini a Tripoli “Non chiedetemi di intervenire adesso. Non posso disturbare Gheddafi”. Al peggio non c'è mai fine!

mercoledì 2 febbraio 2011

I 150 ANNI DELL'UNITA' D'ITALIA TRA LUCI (POCHE) ED OMBRE

Siamo vicini ormai ai centocinquant’anni dall’unità dell’Italia: dal momento in cui una nazione antica ha creato uno stato unitario che ci ha condotti prima al liberalismo, poi alla dittatura fascista e quindi a una repubblica democratica peraltro sempre in pericolo, attaccata da più parti e ancora in piedi, pur con molte ferite.
Ora un primo bilancio è necessario per andare avanti. E aprire prospettive nuove a un futuro che si annuncia difficile ma che dovrebbe almeno superare il populismo  tendenzialmente autoritario che ha dominato l’Italia negli ultimi sedici anni. Se guardiamo quel che è successo nel secolo e mezzo che ci divide dalla proclamazione del regno d’Italia retto da Vittorio Emanuele II di Savoia scopriamo che alcune caratteristiche negative del paese restano ancora in piedi e appesantiscono il nostro cammino.
Penso all’assenza di un’educazione civile delle masse popolari, ai tratti di clientelismo e di egoismo personale e di gruppo che caratterizzano i comportamenti di una parte non piccola delle classi dirigenti, al divario netto tra le parti del paese, a cominciare dal Nord e dal Sud, alla presenza strabordante delle associazioni mafiose in molte regioni del Paese, per non parlare della stessa capitale, con il dominio dell’economia e della politica locale.
E ancora alla scarsa divisione costituzionale tra Stato e Chiesa; al perpetuarsi di un vizio antico definito come “connubio” tra le forze di maggioranza e di opposizione e più tardi nella seconda metà dell’Ottocento come “trasformismo” e ancora più tardi, negli anni sessanta e settanta del Novecento, ebbe tra i suoi protagonisti i leader della sinistra comunista e si chiamò allora “consociativismo”.
Ma che,  nelle sue diverse incarnazioni, rappresentò sempre la tendenza al monopolio politico che era la negazione del liberalismo come di un socialismo moderno e significava sempre la confusione tra i ruoli storici del governo e dell’opposizione. E, quindi, a un Paese che dispone di una Costituzione avanzata e moderna che è scritta ma è, in una parte molto  ampia, lontana dall’essere attuata; uno Stato di diritto contemplato dalle leggi della repubblica ma che non viene in questo momento, come è già avvenuto negli ultimi decenni più volte, praticato in maniera efficace  dal governo e dalla maggioranza parlamentare.
Insomma a una crisi dello Stato e della società che non si riesce a superare per l’esistenza di una classe dirigente spesso non adeguata ai suoi compiti e a un’ opposizione politica divisa e solo parzialmente decisa a lottare, costituita da personalità alcune delle quali, aspirano anche loro prima di tutto alla conquista del potere e sognano un’alternativa al populismo che come abbiamo già sottolineato, dovrebbe essere tuttavia elaborata e precisata prima dell’inevitabile scontro elettorale. E questo non è ancora avvenuto. Il problema oggi non può essere soltanto quello di sostituire l’attuale governo e, al suo posto, insediarne un altro, ma piuttosto quello di indicare una prospettiva diversa sul piano del programma da attuare ma anche di costruire una classe politica di governo diversa da quella attuale, che faccia politica per perseguire l’interesse generale piuttosto che quello privato.
Se guardiamo da lontano il sessantennio liberale che ha caratterizzato i primi decenni dell’unificazione nazionale fino alla vittoria del movimento fascista e della dittatura di Mussolini, scopriamo che il regime liberale italiano ha avuto caratteristiche positive per i primi decenni per lo sviluppo e il progresso economico e civile del paese ma che successivamente sono diventate negative soprattutto, prima, durante e dopo la prima guerra mondiale, tanto da favorire la vittoria fascista
In particolare i tratti autoritari e antidemocratici, le politiche sociali, nella maggior parte dei casi chiuse alle esigenze delle masse popolari, la presenza di una monarchia che oscilla sempre tra la politica parlamentare e quella dinastica e di un Vaticano che, per paura del comunismo e del socialismo, si allea proprio ai futuri protagonisti del fascismo. E ancora i guasti e i traumi della guerra, le divisioni interne alle classi dirigenti, la difficoltà di adeguarsi alla modernità e alle esigenze dei nuovi partiti politici.
Basta pensare alle contraddizioni di alcuni degli uomini più importanti del periodo liberale: da Francesco Crispi, un siciliano che incomincia la sua azione con il partito d’azione e l’impresa garibaldina e poi diventa nazionalista e colonialista così da dover lasciare il potere per la sconfitta delle nostre truppe coloniali ad Adua. E quindi Giovanni Giolitti, ex funzionario pubblico, sostenitore di un liberalismo democratico aperto ai socialisti ma, nello stesso tempo, poco preoccupato per il divario tra Nord e Sud che si avvale spregiudicatamente dei mazzieri pugliesi per una lotta politica condita di violenza nelle terre meridionali come Gaetano Salvemini denunciò nel suo “Ministro della malavita”.
E, nella fase finale della crisi del dopoguerra, convintosi a torto  della possibilità di usare i fascisti di Mussolini come “medici” della malattia dello Stato e quindi in grado di esser successivamente controllati e riportati all’opposizione. Questi elementi sono alla base della debolezza della democrazia liberale italiana e del suo cedimento precoce all’assalto fascista nei primi anni venti del Novecento. A differenza di quel che accade nella repubblica tedesca di Weimar che, soltanto un decennio più tardi, durante una terribile crisi economica europea e mondiale, si arrende all’assalto di Hitler e del suo partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi. E, soprattutto, a differenza degli altri paesi europei retti da esperimenti democratici e liberali come la Francia e la Gran Bretagna, che riescono a respingere i movimenti fascisti (o simili ad essi) negli stessi anni e mantengono le libertà fondamentali nel periodo tra le due guerre mondiali.
L’Italia fascista dura vent’anni e assai più sarebbe durata, se la seconda guerra mondiale e la sconfitta militare dell’Italia non avessero condotto alla ribellione dei gerarchi fascisti, collegati con la monarchia sabauda, con il Vaticano e gli imprenditori più attivi, che il 25 luglio1943 o poco prima abbandonano Mussolini.
Le forze più retrive della società italiana, come del suo movimento, spingono Mussolini per contrasto a collegarsi ancora con l’alleato tedesco e a fondare l’effimera Repubblica sociale italiana destinata a durare venti mesi in un’atroce guerra che attraversa e devasta il territorio italiano, segnando la morte di decine di migliaia di italiani e la deportazione non solo di novemila ebrei ma di oltre ventimila oppositori politici e perseguitati dal regime nei lager dell’Europa in guerra occupata dal Terzo Reich.
Le contraddizioni nella crisi dei protagonisti maggiori da Mussolini a Vittorio Emanuele III a Pio XII occupano questo periodo e hanno suscitato, negli anni, infinite polemiche fino agli ultimi trenta anni in cui finalmente sono usciti dagli archivi americani e inglesi, oltre che da quelli fascisti, gli elementi decisivi di interpretazione della crisi complessiva. La dittatura fascista ha prodotto una modernizzazione lenta e contraddittoria dell’Italia, ha risolto la crisi del 1929 con un’economia mista che ha salvato le imprese in difficoltà e ha addossato allo Stato le grandi perdite, concentrando nell’IRI le partecipazioni pubbliche. L’Italia, negli anni della dittatura, si è trasformata in uno Stato che vede al potere una diarchia, formata dal presidente del Consiglio, che è anche capo carismatico del movimento e del partito fascista, e da un re che conserva il potere costituito dal giuramento che i militari gli devono e dal tradizionale ossequio che gli spetta come Capo dello Stato
Grazie alla guerra e alla vittoria militare degli angloamericani nella seconda guerra mondiale, cui collaborano i partigiani sul teatro di guerra nazionale, gli italiani si liberano alla fine del fascismo e riescono a fondare una repubblica parlamentare, regolata dalla costituzione del 1 gennaio 1948. Questa è la grande novità dell’ultimo Settantennio. E non ha molto senso parlare di prima e seconda repubblica, visto che in questo periodo c’è stata e c’è tuttora, malgrado i numerosi tentativi compiuti dalla destra, una sola costituzione repubblicana a cui far riferimento. Ma settant’anni sono un periodo lungo di storia e, nei decenni che l’hanno caratterizzata, le cose sono notevolmente cambiate. I primi vent’anni hanno segnato il periodo più intenso della guerra fredda tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica e di vicende interne che hanno visto il dominio del partito cattolico democristiano prima da solo, poi con il partito socialista come partner di governo, e la collocazione del Partito comunista italiano all’opposizione ma, con un ruolo di indubbia importanza politica ed economica, soprattutto in certe regioni del paese.
I protagonisti di questo primo periodo della repubblica si chiamano Alcide De Gasperi, Pietro Nenni, Palmiro Togliatti e Ugo La Malfa. E, nel Vaticano, Pio XII prima e Giovanni XXIII e quindi Paolo VI successivamente. Negli anni cinquanta Amintore Fanfani, dopo la precoce caduta di De Gasperi, riorganizza il partito, cercando di farne un moderno partito di massa formato da gruppi che si contendono il potere interno con metodi vari e con la formazione di grandi correnti organizzate. I vent’anni successivi hanno visto molti tentativi di superare l’alleanza di centro-sinistra che ha fatto alcune riforme fondamentali negli anni cinquanta e sessanta senza riuscire ad eliminare del tutto gli aspetti negativi che abbiamo sottolineato all’inizio e che hanno condotto alla crisi e poi alla fine del sistema politico repubblicano nei primi anni novanta del Novecento.
Già negli anni sessanta, la crisi politica è emersa con l’esperimento del governo Tambroni e il tentativo di colpo di stato soprattutto intimidatorio del 1964 dovuto – come ormai è stato storicamente accertato – non al generale De Lorenzo ma al presidente della repubblica Antonio Segni, colpito da un ictus mentre discuteva con il ministro Saragat che non era d’accordo con lui. E è, a questo punto, dopo il fallimento di una sorta di “compromesso storico” che ha visto, in un effimero connubio, i democristiani e i comunisti cercare di affrontare i terrorismi di opposto colore peraltro legati ai servizi segreti e fronteggiare la crisi economica, si è aperta la crisi decisiva della repubblica e l’ascesa, per la seconda volta nel Novecento, di un capo carismatico, che ha conquistato, con le elezioni, il potere nel 1994 e lo ha lasciato nel 1996 e nel 2006 ma, riconquistandolo nel 2001 e nel 2008 e, soprattutto, conservando una egemonia culturale e politica già raggiunta negli anni settanta e ottanta grazie alla sconfitta non solo elettorale ma anche culturale del partito comunista.
Personaggi che sono stati protagonisti di questo secondo periodo della vita repubblicana si trovano tra uomini politici che gli italiani ricordano oggi soltanto in parte ma che hanno pesato nel nostro paese, come Aldo Moro il cattolico tra i più importanti autori del testo costituzionale, e soprattutto due uomini che dominano la crisi repubblicana, Giulio Andreotti sette volte presidente del Consiglio e infinite volte ministro della repubblica, indagato negli anni novanta e condannato per associazione mafiosa, salvato soltanto dalla prescrizione valutata fino agli anni ottanta per decisione dei giudici, e Bettino Craxi, a lungo egemone nel partito socialista e sostenitore di una mezzadria dc-psi nel governo della repubblica, che favorisce l’espandersi della pubblica corruzione e lascia il paese da latitante in circostanze avventurose, terminando la sua vita ricercato dai magistrati a Tunisi.
Così è avvenuta l’importazione nel nostro paese, attraverso la televisione commerciale e poi quella pubblica, che le è andata dietro invece di contrastarla, una visione complessiva della vita sociale che ricalca quella statunitense ma, con alcuni tratti propri dell’ideologia italiana più antica, e  che mette insieme la spregiudicata ricerca del denaro e del profitto con un clericalismo a volte  ottuso e un culto del clan e della famiglia primitiva che si lega, più o meno direttamente, ai metodi mafiosi come ideologia emergente, al di là degli orpelli più nuovi e moderni che vengono sbandierati dalla propaganda del populismo.
Gli ultimi sedici anni sono stati caratterizzati, con brevi intervalli, dal degrado della vita pubblica in ogni sua espressione, dall’attacco ripetuto, e a volte efficace, ai principi fondamentali della costituzione cui corrispondono articoli-base del dettato costituzionale come l’articolo 3 sull’eguaglianza dei cittadini messo in discussione dai vari “Lodi” e dai “legittimi impedimenti”; l’articolo 21 che indica regole generali per la libertà di pensiero e di espressione e ancora gli articoli 33 e 34 che riguardano la libertà di insegnamento e i diritti degli italiani di raggiungere i gradi più alti del sapere a prescindere dalla condizione sociale ed economica dell’individuo. La repubblica, insomma, è sottoposta a una revisione abbastanza radicale che si traduce con l’approvazione parlamentare come progetto di revisione costituzionale nel 2005  ma che viene rigettato nel 2006 dagli italiani che alla fine bocciano il referendum confermativo e riportano le cose alla situazione precedente.
La repubblica è ferita così in maniera piuttosto grave ma non è ancora morta. Sicché questo che stiamo vivendo nel 2011 rischia di diventare, ancora una volta, un momento decisivo per gli italiani. O saranno in grado in maggioranza, magari attraverso un’alleanza inedita tra nuove e vecchie generazioni, di rovesciare gli attuali equilibri e crearne di nuovi che vedano protagoniste le forze più sane della nazione, o il populismo  lo riconquisterà ancora una volta e affosserà, in una  maniera che potrebbe essere quasi definitiva, la repubblica democratica e le libertà costituzionali. Altra via non esiste e non può realizzarsi. Ed è questa contingenza che chiama a raccolta forze  diverse ed eterogenee che non si richiamano tanto    all’antiberlusconismo quanto ai valori della costituzione, della democrazia sociale moderna, delle libertà individuali e collettive previste (ma attualmente conculcate nella crisi italiana) nelle costituzioni più avanzate del ventesimo secolo.