giovedì 31 dicembre 2015

Lo specchietto per allodole del “conflitto di interessi”

Il “conflitto di interessi” è risorto in Italia dalle ceneri dopo essere stato archiviato con la fine dell’era berlusconiana. Ai tempi d’oro del Cavaliere era l’argomento privilegiato dell’opposizione con cui attaccarlo. Distrutto politicamente Berlusconi, ha potuto essere accantonato ed è ricomparso soltanto nella recente cronaca politica con la vicenda del Ministro Boschi e della Banca Etruria.
A prescindere dalla responsabilità individuali, che chi scrive non intende negare, la vera questione è l’incapacità dei media, del ceto politico e della gran parte degli intellettuali di avanzare una critica sistemica a un fenomeno che trova la sua ragion d’essere nella struttura sociale. Ci si limita per lo più ad accuse personali che mettono in discussione il singolo, senza toccare l’apparato socio-economico.
Dovrebbe far riflettere il fatto che i casi succitati siano affatto secondari. Nulla si disse, ad esempio, della nomina a Presidente del Consiglio di Enrico Letta, membro delle più importanti lobby economiche internazionali, dal Gruppo Bilderberg all’Aspen Institute; stesso profilo per il suo predecessore Mario Monti, che in più è stato anche consigliere di Goldman Sachs e della Coca Cola. Silenzio assoluto sulla nomina di Mario Draghi, anch’egli uomo di Goldman Sachs, prima a governatore della Banca d’Italia e infine a Presidente della Banca Centrale Europea. Cosa dire, invece, di Carlo Cottarelli, che da rappresentante del Fondo Monetario è stato nominato Commissario per la Revisione della Spesa dal governo Letta? E lo stesso Renzi, può annoverare tra i suoi sovvenzionatori finanzieri come Davide Serra, fondatore del fondo speculativo Algebris, e Marco Carrai, consiglieri come l’israeliano Yoram Gutgeld, dirigente della controversa multinazionale americana di consulenza McKinsey in seguito nominato successore di Cottarelli.
Di esempi se ne potrebbero fare a migliaia. Praticamente tutti i governi della Seconda Repubblica hanno accolto tra i loro più importanti esponenti figure di questo tipo, che influenzano le decisioni politiche molto più che un Berlusconi o una Boschi qualsiasi. Eppure non suscitano alcuna indignazione lontanamente paragonabile allo scandalo provocato dai giornali attorno a questi ultimi.
Nella rete dei j’accuse mediatico-giudiziari cadono sempre casi molto esposti pubblicamente, ma politicamente molto poco rilevanti se confrontati con le straordinarie influenze che i gruppi di pressione e gli apparati finanziari esercitano costantemente sui vari governi, spesso con propri rappresentanti al loro interno.
Non è un problema individuale, di “buoni” e “cattivi”. È il capitalismo stesso a essere un enorme conflitto di interessi vivente, perché ha bisogno costante di sostegno politico e non si limita certo a operare in una situazione di “libero” mercato, come vorrebbero i neoliberali. Il clamore attorno a singole figure più o meno irrilevanti è utile soltanto a distogliere l’attenzione dal meccanismo complessivo, dall’essenza stessa del capitalismo, per smistarla su personaggi pubblici. In questo modo la frustrazione popolare può trovare uno sfogo, scaricandosi su uomini in carne e ossa ed essere così gestita e fatta rientrare nel sostegno di fondo all’organizzazione socio-economica che la produce.
Anche questo personalismo è il risultato della post-ideologia, ovvero dell’ideologia dell’assenza di ideologia (di per sé contraddittoria). Su di esso i nuovi demagoghi costruiscono la loro effimera carriera. Venendo a mancare le strutture di pensiero che permettevano di interpretare la realtà in modo olistico, venendo a mancare gli apparati politici che consentivano di agire sulla realtà in virtù di quella data interpretazione, non resta al “cittadino globale” dell’era post-moderna che affidarsi a figure estemporanee che personalizzano la politica, e a impotenti sfoghi di rabbia contro i soggetti mediaticamente più esposti.
La catarsi popolare viene così raggiunta attraverso rituali linciaggi metaforici (espressione della loro impotenza) tanto comuni in internet ma anche su televisioni e giornali, i “due minuti d’odio”, come nel romanzo orwelliano, che consentono alle pulsioni di manifestarsi in

mercoledì 30 dicembre 2015

CLASSE MEDIA IN RIVOLTA NEGLI USA. E IN EUROPA ?

Scende la durata della vita, cresce a dismisura la vendita di armi insieme alla frustrazione, alla rabbia, al senso di precarietà e insicurezza. La fotografia impietosa e allarmante fornita da Robert Reich dei sentimenti che pervadono la sempre più impoverita classe media americana contraddice la rosea immagine divulgata dai nostri media di un’America ‘in ripresa’ dove l’economia cresce e i posti di lavoro aumentano .
Quella che era stata la grande forza degli Stati Uniti – una classe media solida, lavoratrice, fiduciosa, dove l’ascensore sociale funzionava, esempio per il mondo – non esiste più e non è una novità. Ma oggi si sta avviando per una china preoccupante alla ricerca dell’uomo forte che possa salvarla. Sta già accadendo.
Non solo. I sentimenti che pervadono la “classe ansiosa”, come la chiama Reich ci sembrano assomigliare molto a quelli di noi europei. Sempre più attratti infatti da partiti anti-sistema, così come negli Usa volano i sondaggi per quell’outsider estremista che e è Donald Trump, dal quale i media tutti prendono sdegnosamente distanza, non senza imbarazzo, ma senza vederne la spia di un fenomeno sociale.
Così come hanno fatto recentemente nei confronti di Marine Le Pen in Francia. Fino a plaudire all’anomala ‘alleanza’ di sinistra e destra ‘moderata’ che ne ha bloccato la vittoria, ma non l’ascesa come primo partito.
Sono i motivi per cui proponiamo la traduzione del post di Robert Reich, non un estremista e neppure un disfattista, ma un ex sottosegretario al Lavoro durante la presidenza Bill Clinton, e blogger, i cui libri sono tradotti anche da noi. Un allarme, il suo, che fa riflettere. A partire dal titolo: “La classe media americana è in uno stato di rivolta” .
“La grande classe media americana è diventata una classe ansiosa- ed è in rivolta.
Prima di spiegare come questa rivolta sia in atto, è necessario andare alle origini dell’ansietà.
Cominciamo col dire che la classe media si sta vieppiù restringendo, come risulta da un’indagine Pew [non rappresenta più la maggioranza degli americani, soorpassata dalla somma delle famiglie di classe alta – i ricchi- e bassa – i poveri].
Le probabilità di cadere nella povertà sono alte in modo impressionante, specialmente per la maggioranza priva di istruzione superiore.
Due terzi degli americani vivono di stipendio in stipendio. La maggior parte può perdere il lavoro in ogni momento.
Molti appartengono alla crescente forza lavoro 'a richiesta', impiegati quando e se ve ne sia bisogno, pagati quel che si può, quando si può.
Se non riescono a farcela col pagamento dell’affitto o del mutuo, o non ce la fanno a pagare il negozio di alimentari o le bollette, perderanno la loro base e arretreranno ancora.
Lo stress paga un pedaggio. Per la prima volta nella storia la durata della vita della classe media bianca sta scendendo.
Secondo una recente ricerca dell’economista premio Nobel Angus Deaton e della sua collega Anne Case, uomini e donne bianchi di mezza età negli Usa hanno cominciato a morire più presto.
Si avvelenano con droghe e alcol, o commettono suicidio.
Le probabilità di essere uccisi da un jihadista in America sono di gran lunga inferiori alla probabilità di queste morti auto-infitte, la recente tragedia di San Benardino si limita ad innalzare un senso di arbitrarietà e fragilità soverchianti.
La ' classe ansiosa' si sente vulnerabile davanti a forze di cui non ha un controllo. Cose terribili avvengono senza una ragione.
Eppure non si può contare sul governo che protegga.
Le reti della sicurezza sono piene di buchi. La maggior parte di coloro che hanno perso il lavoro non hanno neppure un’assicurazione per la disoccupazione [la cassa integrazione negli Usa non è mai esistita].
Il governo non proteggerà il loro posto di lavoro dall’essere trasferito ( outsourced) in Asia o dal venir sostituito da un lavoratore illegale.
Il governo non è neppure in grado di proteggerli da persone malvage con armi o bombe. Ed è il motivo per cui la classe ansiosa si sta armando, comprando armi in quantità record.
[in novembre l’FBI ha censito2 milioni 243mila nuove armi , il 2015 si avvia superare il record 2013 di 21 milioni. Non si tratta esattamente delle armi vendute, non si considerano fra l’altro le armi usate vendute tra privati, ma sono cifre indicative, si dice qui].
Il governo è considerato non tanto incompetente quanto incapace di dar loro un accidente. Lavora per i big e i ricchi – il “capitalismo degli amici” che foraggia i candidati e ottiene in cambio speciali favori.
Quando ho visitato i cosiddetti stati “rossi” quest’autunno ho sentito gente arrabbiata lamentarsi del fatto che il governo è gestito dai banchieri di Wall Street che sono stati salvati dopo aver provocato il caos nell’economia, dai titani delle corporations che hanno ottenuto lavoro a basso costo, dai miliardari che hanno avuto scappatoie fiscali di ogni genere.
L’anno scorso due scienziati della politica molto rispettati, Martin Gilens e Benjamin Page, hanno esaminato da vicino 1.799 decisioni prese dal Congresso in vent’anni e chi le ha influenzate.
La loro conclusione: “ Le preferenze dell’Americano medio sembrano state scarsissime, vicine allo zero, statisticamente non rilevanti nell’impatto sulla politica pubblica”.
E’ solo una questione di tempo prima che la classe ansiosa si rivolti.
Sosterranno un uomo forte che li protegga da tutto il caos.
Uno che salvi il loro posto di lavoro dall’essere trasferito all’estero, si scontri con Wall Street , bastoni la Cina, faccia piazza pulita dei lavoratori illegali, impedisca ai terroristi di entrare in America.
Un uomo forte che possa rendere l’America di nuovo grande – che in realtà significa rendere di nuovo sicuri i cittadini che lavorano.
Era – è – un sogno del tubo, naturalmente, un inganno da illusionista. Nessuna persona singola può fare questo. Il mondo è di gran lunga troppo complesso. Non puoi costruire un muro lungo il confine col Messico [dal quale entrano negli Usa migliaia di immigranti, lavoratori illegali]. Non puoi tener fuori tutti i musulmani come ha appena proposto Trump, con grande scandalo mediatico]. Non puoi impedire alla corporations di spostare sedi all’estero.
Non lo si può nemmeno tentare.
Oltre a questo, viviamo in una democrazia incasinata, non in una dittatura.
Eppure, loro pensano che ci possa essere uno abbastanza intelligente e in gamba da poter cambiare tutto. E’ ricco. Dice le cose come stanno [pensano di Trump].
Rende ogni tema un test della sua forza personale. Dice che i suoi avversari sono deboli mentre lui è forte.
E’ crudo e rude? Forse e’ quel che ci vuole per proteggere la gente media in questo mondo crudelmente precario.
Per anni ho sentito il brontolio della classe ansiosa. Ho ascoltato la sua rabbia crescente – nelle sedi sindacali, nei bar, nelle miniere di carbone e nei saloni di bellezza, nelle strade e lungo le acque stagnanti dell’America. ù
Per anni ho sentito le lamentele della classe ansiosa, le sue teorie cospirazioniste, la sua indignazione.
Per lo più sono brava gente, non bigotti o razzisti. Lavorano sodo e hanno un grande senso dell’ equità.
Ma il loro mondo pian piano è stato messo da parte. E loro sono impauriti e stanchi.
Ora arriva qualcuno che è anche più bullo di quelli che per anni li hanno angariati economicamente, politicamente e anche violentemente.
L’attrazione è comprensibile, anche se mal riposta.
Se non sarà Donald Trump, sarà qualcun altro che si presenta come uomo forte. Se non sarà questo ciclo elettorale, sarà il prossimo.
La rivolta della classe media ansiosa è appena cominciata".
(E tralasciamo di parlare dei 'complottisti' incalliti per alcuni dei quali la campagna contro le armi negli US sarebbe motivata proprio dai timori di rivolte dei cittadini, più che dalle ricorrenti stragi, che addirittura sarebbero 'aiutate' a questo scopo)

martedì 29 dicembre 2015

Trucchi dell’Italicum e i calcoli sbagliati del premier pentito

Non è dunque per caso che la sinistra in Spagna non pensa affatto di importare il sistema italiano, come dice Renzi. Ma, al contrario che da noi, è all’attacco sul fronte delle riforme costituzionali. E propone una legge elettorale proporzionale pura». Il manifesto, 23 dicembre 2015 (m.p.r.)
In attesa che gli spagnoli copino la legge elettorale italiana voluta da Renzi, come prevede Renzi, è il caso di ricordare quando gli attuali sostenitori dell’Italicum tifavano per il sistema spagnolo. Per esempio il senatore del Pd Tonini, che ieri su Repubblica spiegava perché con l’Italicum il nostro paese è «all’avanguardia in Europa» e non rischia «di fare la fine della Spagna». È lo stesso Tonini che ha presentato un disegno di legge (con l’attuale viceministro Morando) per importare da noi il sistema elettorale spagnolo. Era la moda, lanciata da Veltroni quando segretario del Pd cercò di agganciare Berlusconi (ha fatto scuola). Il sistema fu chiamato Veltronellum, lo studiarono i professori Ceccanti e Vassallo (oggi sostenitori dell’Italicum), convinse rapidamente il centrodestra. Alfano e Quagliariello, per dirne due, pensavano per quella via di risolvere tutti i problemi dell’Italia. Lo stesso compito che oggi affidano al ballottaggio.
Più recentemente anche il Movimento 5 Stelle ha scelto il sistema spagnolo, al quale proponeva di aggiungere le preferenze in un ordine del giorno di due anni fa che sarebbe coerente con l’attuale opposizione dei grillini all’Italicum. Non fosse che oggi, con un altro ordine del giorno, hanno chiesto il contrario: conservare l’Italicum senza cambiamenti. Del resto è l’unico sistema che può condurli alla vittoria. Ma ancora di più ha fatto Renzi, che lunedì davanti ai risultati spagnoli ha «benedetto» l’Italicum. Anche lui propose il sistema spagnolo, quando eletto segretario offrì al confronto tre proposte «equivalenti»: la prima era proprio il modello iberico. Con una correzione, un premio di maggioranza del 15% che, assicurava, assieme allo sbarramento avrebbe «garantito la maggioranza». E invece no, al Partido popular - pure favorito dallo sbarramento che è conseguenza dei collegi piccoli - oggi per conquistare la maggioranza assoluta nel Congreso non basterebbe l’omaggio di 52 seggi immaginato da Renzi. Per quello ci vorrebbe l’Italicum.
Con la nuova legge italiana (congelata fino al luglio dell’anno prossimo in attesa della riforma costituzionale) il calcolo è assai semplice. Nessun partito in Spagna ha raggiunto il 40% dei voti validi, dunque per assegnare il premio che garantisce il 54% dei seggi della camera servirebbe il secondo turno. Vi parteciperebbero i popolari e i socialisti, che in totale al primo turno - pur essendo calato l’astensionismo - hanno raccolto il voto del 34% degli aventi diritto; in pratica di un elettore su tre. Come dice l’avvocato Felice Besostri, che ha istruito i ricorsi in tribunale contro l’Italicum, «si giocherebbero la vittoria finale i due grandi perdenti di domenica. I popolari che hanno perso 62 seggi e i socialisti che hanno segnato il minimo storico».
Non solo, se il nuovo sistema italiano venisse adottato in Spagna, al secondo turno è prevedibile un’astensione in massa degli elettori di Podemos, partito che ha condotto la campagna elettorale attaccando contemporaneamente socialisti e popolari, giudicati equivalenti. E così a decidere il vincitore, titolare della maggioranza assoluta, sarebbe una minoranza assoluta. Se per ipotesi vincessero i socialisti, che hanno raccolto al primo turno il 22% dei voti, grazie al premio previsto dall’Italicum si ritroverebbero con oltre il doppio dei seggi realmente guadagnati: 189 invece dei 90 che hanno adesso effettivamente. Non è dunque per caso che la sinistra in Spagna non pensa affatto di importare il sistema italiano, come dice Renzi. Ma, al contrario che da noi, è all’attacco sul fronte delle riforme costituzionali. E propone una legge elettorale proporzionale pura.

lunedì 28 dicembre 2015

ECCO COME APPARE UNA CRISI FINANZIARIA

Proprio nei giorni scorsi sono ‘implosi’ tre importanti fondi ad alto rendimento E a Wall Street si sta rapidamente diffondendo il panico. I fondi gestiti da Third Avenue Management e Stone Lion Capital Partners hanno sospeso i pagamenti agli investitori e un altro fondo gestito da Lucidus Capital Partners ha liquidato il suo intero portafoglio. Stiamo assistendo ad una fuga verso le uscite come mai visto finora dal grande crollo del 2008 e molti di quelli che preferiscono aspettare, finiranno completamente spazzati via. Nel caso in cui ve lo stiate chiedendo, è così che appare una crisi finanziaria.
Nel 2008, altri mercati azionari del mondo hanno iniziato a cadere e, di conseguenza, hanno iniziato a crollare i titoli spazzatura, seguiti a ruota dai titoli statunitensi. Si sta profilando ora lo stesso preciso modello e la carneficina a cui finora abbiamo assistito non è che la punta di un iceberg.
Dalla fine del 2009, un titolo ETF ad alto rendimento che ho osservato molto da vicino, conosciuto col nome di JNK, è stato trattato in un range compreso tra 36 e 42. Ho aspettato e aspettato ed ecco che è scivolato sotto i 35, poiché sapevo che sarebbe stato questi il segno inequivocabile di una nuova crisi imminente.
Ad un certo punto, nel mese di settembre, ha chiuso a partire da 35.33, ma non era quello il segnale che aspettavo. Alla fine, all’inizio della scorsa settimana, il JNK è andato sotto i 35 per la prima volta dopo l'ultima crisi finanziaria, e da allora ha sempre continuato a scendere. Mentre scrivo questo, JNK sta precipitando a 33,42 e Bloomberg riporta che molti gestori di obbligazioni "prevedono un’ulteriore carneficina per gli investimenti ad alto rendimento”.
Primari gestori obbligazionari prevedono un’ulteriore carneficina per gli investimenti ad alto rendimento, considerando l’attuale caduta del mercato che ha fatto crollare la scorsa settimana tre importanti fondi di credito. Lucidus Capital Partners, un fondo ad alto rendimento fondato nel 2009 da ex-dipendenti di Bruce Kovner Caxton Associates, lunedì ha dichiarato di aver liquidato il suo intero portafoglio e che prevede di restituire agli investitori il mese prossimo i $ 900,000,000 che ha in gestione. I fondi gestiti da Third Avenue Management e Stone Lion Capital Partners hanno interrotto i pagamenti agli investitori, dopo che i loro clienti avevano iniziato a prelevarne una quantità eccessiva.
Quando dicono che queste società “hanno interrotto i pagamenti agli investitori” significa che molti di questi saranno più che fortunati se si ritroveranno qualcosa quando tutto sarà finito.
Come ho detto, ora che la crisi è solo all’inizio, quelli che perderanno di più saranno quelli che preferiranno aspettare e vedere…
E sentiamo dei grossi nomi che già mettono in guardia sulle sulle “ ulteriori tempeste in arrivo per gli investimenti ad alto rendimento” (link).
Scott Minerd, responsabile degli investimenti globali di Guggenheim Partners, prevede che dal 10 al 15 % dei fondi obbligazionari spazzatura assisteranno a sempre maggiori ritiri di denaro, a mano a mano che sale la preoccupazione degli investitori di non poter avere più restituito il denaro. Minerd e altri importanti gestori come Jeffrey Gundlach, Carl Icahn, Bill Gross e Wilbur Ross, prevedono ulteriori tempeste in arrivo per i fondi ad alto rendimento.
In un quadro del genere, la FED sarebbe completamente folle ad aumentare i tassi d’interesse.
Sfortunatamente, sembra proprio quello che sta per succedere.
L’aumento dei tassi da parte della FED renderebbe le insolvenze sui debiti societari ancora più probabili, facendo anche crollare ulteriormente i titoli a più alto rendimento.
L’aumento dei tassi renderebbe ancora più probabili le insolvenze societarie obbligazionarie e gli investitori stanno già ritirando denaro dal settore (nella sola settimana fino al 9 dicembre sono stati ritirati 3,8 miliardi di dollari di fondi ad alto rendimento, il più significativo spostamento di denaro delle ultime quindici settimane). Il rendimento effettivo sui titoli spazzatura statunitensi è ora al 17%, il più alto livello degli ultimi cinque anni, secondo i dati di Bank of America Merrill Lynch.
Nomi importanti del settore pensano già che la FED stia per compiere un tragico errore. Uno di loro è James Rickards…
“La FED avrebbe dovuto aumentare i tassi di interesse nel 2010 e nel 2011; se lo avesse fatto, oggi sarebbe in condizione di poterli tagliare” ha detto James Rickards, un critico della Banca Centrale e capo della strategia globale del West Shore Fund. "La Fed sta per compiere un errore storico del tipo di quelli commessi nel 1927 e nel 1929. Crescendo in debolezza, probabilmente provocherà una nuova recessione.”
Nel 2015, abbiamo già visto un crollo di titoli in tutto il mondo. All’inizio di dicembre più della metà del 93 maggiori indici di mercato azionario globale era giù del 10% dall’inizio dell’anno, e alcuni di essi anche del 30% e 40%. A questo punto, si profilano le condizioni perfette per uno spaventoso crollo del mercato Statunitense, mentre la FED si appresta a versare benzina sul fuoco.
Chiunque dica che “non sta succedendo niente”, o è completamente disinformato o completamente pazzo.
E’ notevole il modo in cui James Howard Kunstler ha sintetizzato quello che oggi stiamo vivendo:
La scorsa settimana le azioni hanno perso il 4%; il credito si sta sgretolando (nessuno vuole prestare); i titoli spazzatura scendono (a mano a mano che si profila il rischio d’insolvenza); le valute di tutto il mondo crollano; gli hedge fund non sono in grado di restituire il denaro ai loro investitori; la “liquidità "è AWOL (assente ingiustificato – Absent Without Official Leave); le materie prime sono in caduta libera; il petrolio sta andando talmente sotto il seminterrato del suo valore che difficilmente l’industria potrà recuperare; il commercio internazionale sta evaporando; il Presidente sta facendo tutto il possibile in Siria per dare inizio ad una Terza Guerra Mondiale…e il mostro dal nome “Globalizzazione” giace nella sua bara con un palo piantato nel cuore”.
I mercati finanziari, tenuti insieme da molto più tempo di quanto si pensasse possibile, ora stanno ricominciando a crollare.
Di questo passo, “i vincitori” saranno quelli che riusciranno a ritirare il loro denaro prima possibile. Questo vale soprattutto per i fondi ad alto rischio, come i tre grandi appena ‘implosi’. Se si esita, si potrebbe perdere tutto.
E a mano a mano che accelera questa corsa verso l’uscita, ci saranno sempre più venditori che acquirenti, e questo spingerà i prezzi verso il basso ad un ritmo sempre più rapido. Nei prossimi giorni prepariamoci a sentire nuovamente la mancanza di ‘liquidità, ma soprattutto ad assistere a del sano panico vecchio stile.

domenica 27 dicembre 2015

TERRORISMO IN VERSIONE CONSUMISTICA

Il rapporto del Censis di De Rita ci fa sapere che l’Italia, con una crescita dello zero virgola, se non è al declino poco ci manca, e la colpa non è degli attentati terroristici, ma dello stile di vita degli Italiani, troppo pigri e prudenti. Non si mettono in gioco fino in fondo, non rischiano, mentre “nelle banche giace inoperosa una montagna di risparmi, un cash cautelativo, che supera i 4.000 miliardi, molti depositi e contanti, sempre meno azioni e partecipazioni”.
Certamente dovranno cambiare "stile di vita" i centotrentamila bidonati dalle quattro banche salvate da Renzi, che hanno imparato a loro spese che fidarsi delle banche non è un rischio: è sempre e comunque una fregatura. Il Censis, si sa, non è un vero centro studi, ma essenzialmente un organo di propaganda, perciò questa colpevolizzazione dei risparmiatori risulta funzionale al chiamarli a pagare per l'insolvenza delle banche.
Nella vicenda di quelle che in gergo finanziario sono chiamate "sofferenze" bancarie, il governo tedesco si è comportato come il Don Giovanni di Molière: dopo aver foraggiato con i soldi dei contribuenti i banchieri in crisi, ora si atteggia a censore nei confronti dei governi europei che volessero fare altrettanto, e tempo fa ha costretto l'Unione Europea ad approvare le regole del cosiddetto "bail in", cioè la garanzia interna delle banche a spese dei loro risparmiatori. In tal modo il governo Merkel cerca di favorire l'acquisizione da parte delle multinazionali tedesche di istituti bancari in crisi in altri Paesi europei. Per la verità il governo italiano appare il più preparato ad adeguarsi alle nuove regole, dato che in Italia l'assistenzialismo per banchieri è stato finanziato soprattutto a spese dell'utenza. Il governo Monti impose ai pensionati di aprire un conto corrente per poter riscuotere la pensione, ed altrettanto fu imposto a centinaia di migliaia di dipendenti pubblici che percepivano direttamente il loro cash agli sportelli della Banca d'Italia. "Bail in" o "bail out", la regola aurea non cambia: sono sempre i poveri a dover versare l'elemosina ai ricchi. I banchieri non devono infatti temere più di tanto, dato che per loro c'è il Meccanismo Europeo di Stabilità, o Fondo Salva Stati - che ha in effetti salvato solo banche -, un fondo finanziato dagli Stati, cioè dai contribuenti, ma i cui aiuti per le banche, chissà perché, non sono considerati aiuto statale. Poi per le banche ci sono anche i prestiti ad interessi zero della BCE. Insomma, un bengodi. Peccato che alle banche non basti mai ed, anzi, continuino a "soffrire".
La colpevolizzazione del risparmio assume però anche una valenza propagandistica in chiave di rilancio del consumismo. Uno dei mantra più diffusi della propaganda in tempi di ISIS, soprattutto dopo gli attentati di Parigi, sembra avere come argomentazione quella della contrapposizione degli stili di vita fra "occidentali" e mussulmani o, come si dice oggi, "islamici". Si tratta di un tipo di propaganda piuttosto rozza, ma che funziona sempre. Ci viene narrato che gli islamisti odiano la vita e, a maggior ragione, la “dolce vita” degli "occidentali", la loro cultura, i loro divertimenti blasfemi. I leader occidentali promettono misure spietate contro i barbari bigotti, ma allo stesso tempo lanciano appelli accorati ai cittadini perché non si rinchiudano in casa, ma vadano a teatro, al ristorante o, semplicemente, a fare shopping, solo per dimostrare all’ISIS che non ha vinto.
Già nel 1939 il film "Ninotchka" di Ernst Lubitsch metteva a confronto le dolcezze dello stile di vita occidentale e capitalistico con quello di un bigottismo sovietico retrogrado. Anche se il film era di produzione americana, era però ambientato proprio a Parigi come luogo elettivo della dolcezza di vivere “occidentale”. Nel 2012 è uscito un film, ufficialmente di produzione saudita, "La Bicicletta Verde", che riprendeva la tesi del consumismo come via di scampo alle strettoie del bigottismo, in quel caso bigottismo islamico. Il film era chiaramente di marca CIA-Mossad, ed il fatto che si sia cercato di far credere che l'autore fosse una donna costituiva un'esca per i "progressisti" occidentali, sempre troppo proni di fronte alle parodie del "politically correct".
Lo schema propagandistico di questo tipo di film si basa sul confronto tra la "naturalezza" dell'edonismo capitalistico e le forzature ideologiche del comunismo o del fanatismo religioso. In realtà poi si è visto che gli slogan del capitalismo sono intercambiabili, perciò, quando serve, si ricorre al moralismo più vieto e bacchettone, ed arriva il Fondo Monetario Internazionale a colpevolizzare l'edonismo di chi vorrebbe "vivere al di sopra dei suoi mezzi". Sia che il capitalismo si presenti nella versione libertino-licenziosa dell'edonista, oppure nei panni severi del "calvinista", lo scopo della propaganda è comunque quello di costringere le opposizioni a sottostare a dei giochi di ruolo, impedendo così di andare a smascherare di volta in volta i camuffamenti del solito assistenzialismo per ricchi. Uno dei maggiori paradossi legati al terrorismo interno costruito dalla Nato e dai suoi alleati delle petromonarchie del Golfo Persico, è che, se da un lato si ottengono con questa solita vecchia formula degli effetti disciplinari ben sperimentati, legati ad un aumento indiscriminato (se mai potesse esisterne uno discriminato…) dei controlli, della presenza di polizia ed esercito nelle strade, delle restrizioni dei diritti formali del cittadino (basti ricordare il Patriot Act dopo l'11settembre); dall’altro lato c’è il rischio di un calo dei consumi già ridotti al lumicino dalla crisi, e quindi che le persone la smettano di indebitarsi sempre di più per merci di qualità sempre peggiore. Se è lecito nutrire qualche dubbio sul numero di disoccupati o lavoratori in difficoltà che la sera siano disposti a correre a teatro o al ristorante, è vero pure che i più terrorizzati sembrano essere gli addetti allo shopping e al marketing. In altri termini è bene terrorizzare la popolazione, ma bisogna evitare che smetta di indebitarsi per poter comprare. Anzi, bisogna far sì che il terrorismo venga percepito come incentivo ai consumi. Un terrorismo in funzione pubblicitaria.
Non mancano i precedenti della tesi che lo "stile di vita" da salvaguardare contro la minaccia terroristica sia proprio quello dello shopping. Nel suo secondo discorso alla nazione dopo l’attacco dell’11 settembre, il presidente Bush invitava gli statunitensi a mostrarsi forti e incitava “ad avere fiducia e a sostenere l’economia americana”. Il consumismo viene quindi fatto passare come un'espressione di eroismo civile, un'indomita difesa dei valori "occidentali" contro la minaccia della barbarie.
Il vicepresidente, Dick Cheney, era stato anche più diretto nel rappresentare questa mitologia del consumatore/eroe, e in televisione aveva espresso la sua personale speranza che: “gli americani reagiscano sbattendo in faccia ai terroristi il loro ottimismo”, e “non permettano in alcun modo che gli avvenimenti incidano sulla loro abituale attività economica”.
A New York, un giorno solo dopo la caduta delle torri, il sindaco Rudolph Giuliani ha raccomandato ai suoi elettori sgomenti : “Fate vedere che non siete spaventati. Andate al ristorante. Uscite a fare shopping.” Quando qualcuno nel mondo ha chiesto in che modo avrebbe potuto rendersi utile, lui ha risposto : “Venite qui a spendere i vostri soldi”.
A quando l'uso dello spauracchio del terrorismo anche nelle televendite?

sabato 26 dicembre 2015

Cina ed Europa, nuovi legami (e Washington vigila)

Tra i due estremi della massa continentale euroasiatica la distanza, fisica quanto politica, sembra sempre più accorciarsi lungo le direttrici di una sempre più ramificata via della seta. Lo dimostrano due fatti, uno di poco successivo all'altro. Partiamo dal più recente, vale a dire l'ingresso della Cina popolare nella lista dei 64 azionisti – molti Paesi dell'Europa orientale e dell'Asia centrale - della European Bank for Reconstruction and Development, banca, con sede a Londra, che opera dal 1991 con investimenti in una quarantina di Paesi (South China Morning Post, “European development bank approves China’s application to become shareholder”, 15 dicembre). Contrariamente al peso formale dello 0,1% del capitale sottoscritto, la presenza nell'istituzione finanziaria potrebbe consentire a Pechino l'approfondimento di progetti infrastrutturali nella fascia orientale e meridionale del Mediterraneo, oltre che il consolidamento di rapporti diplomatici con l'Europa e – come sottolineato da diversi esperti – un altro tassello sulla via dell'internazionalizzazione del renminbi. Non va inquadrata altrimenti questa adesione – richiesta da Pechino dal 2014 – vista la lontananza ideologica di una istituzione finanziaria regionale che, a differenza di altre come la giovanissima Banca asiatica di investimento per le infrastrutture (Aiib), si distingue per una chiara impostazione ideologica: privatizzazione e libero mercato. Di più: la partecipazione di aziende private cinesi ai diversi progetti potrebbe aprire una qualche contraddizione, alla luce del condizionamento statale (quindi del Partito comunista cinese) sulla loro azione internazionale.
Non è tutto. A metà novembre a Suhzou il gigante asiatico ha ospitato il quarto vertice Cina-Cee, acronimo quest'ultimo che si riferisce ai Paesi dell'Europa centrale ed orientale (Albania, Bosnia-Erzegovina, Bulgaria, Croazia, Repubblica ceca, Estonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Macedonia , Montenegro, Polonia, Romania, Serbia, Slovacchia, Slovenia e Ungheria), molti dei quali membri dell'Unione europea, che completano da qualche anno il tavolo “16+1”. Un blocco che, benché eterogeneo, rappresenta un vero e proprio “ponte”, quando non un “banco di prova” per le aziende cinesi - per l'Europa, per approfondirne legami economici e politici, e un importante “terminal” geografico ad ovest per la rete infrastrutturale che alimenta il progetto della via della seta.
E proprio la parola “infrastrutture” è stata al centro di un vertice simbolicamente ospitato su un treno ad alta velocità: sono stati firmati accordi con la Serbia e l'Ungheria per la costruzione di una linea ferroviaria ad alta velocità tra le capitali Belgrado e Budapest, che dovrà essere completata entro il 2017, parte di un più ampio progetto di “passaggio espresso terra-mare” il cui punto di partenza è il porto del Pireo in Grecia e che attraversa anche la Macedonia. A disposizione c'è una linea di credito di 10 miliardi di dollari con la prospettiva di creare un fondo specifico di 3 miliardi, e di istituirne uno in renminbi. (Xinhua, “Enhanced China-CEE cooperation injects vigor into Sino-European ties”, 26 novembre).
In questo quadro si potrebbe dare anche una valutazione più ampia del processo di integrazione nella Nato del Montenegro, non limitandola ad una mossa (e nuova provocazione) anti-russa, ma collegandola proprio alla messa in opera nell'area balcanica di una parte della strategia globale cinese e alla conseguente volontà di Washington di tenerla d'occhio.
A parlare, appunto, di tassello europeo di una strategia globale sono studiosi e opinionisti cinesi (Jiang Shixue, “A 16+1 Think Tank Network for better China-CEECs relations”, China.org) – dalle nostre parti si preferisce ricorrere al termine “interferenza” per stigmatizzare l'iniziativa cinese come tentativo di fomentare divisioni in Europa – sull'onda degli impegni annunciati dal premier Li Keqiang, che danno davvero il senso di una diplomazia economica ad ampio raggio: finanziamento e costruzione di porti e parchi industriali dalle aree costiere del Mediterraneo fino a quelle del Baltico.

venerdì 25 dicembre 2015

Il salva-banche mette Renzi contro tutti

Le banche sono al centro del sistema finanziario, quindi al centro del capitalismo contemporaneo. Molto più che non la produzione di merci fisiche o “immateriali”, che producono sì profitti ma in misura percentualmente più limitata e soprattutto con tempi di rotazione (dal momento dell'investimento a quelli del “rientro” in seguito alle vendite) infinitamente più lunghi.
Logico dunque che sulla banche si giochi molto. Sia a livello di Unione Europea che di governi nazionali. E che ogni schermaglia investa direttamente non solo gli istituti di credito di qualsiasi grandeza, ma anche chi della banca è solo cliente, magari piccolissimo e costretto a quel ruolo per poter incassare stipendio o pensione.
Logico anche, di conseguenza, che proprio sulle banche il governo Renzi abbia finito per pestare una materia nauseabonda di cui non riesce a sbarazzarsi. Tantomeno ricorrendo alle solite chiacchiere cui in due anni ha abituato il pubblico televisivo.
Con un solo decreto è infatti riuscito a mettersi contro i “risparmiatori” (categoria interclassista per definizione, perché prende in considerazione soltanto la titolarità di un conto corrente o altri beni mobili), la Banca d'Italia, l'Unione Europea (o almeno alcuni dei commissari coinbolti, comeMargrethe Vestager e Christopher Hill, addetti rispettivamente alla “concorrenza” e alla “stabilità finanziaria”). Peggio ancora. Possedendo una cultura gestionale del potere fondata sull'”andiamo avanti comunque” e sul rilancio, sembra orientato ad alazare il livello di scontro con qtutti i soggetti interesati alla vicenda.
Le notizie escono fuori un po' alla volta, com quando si “spizzicano” le carte in una mano di poker. Per i risparmiatori truffati dalle quattro banche fallite non ci sono molte speranze. Il meccanismo dell'”arbitrato” prova a divederli fino all'individualizzazione; la nomina di Raffaele Cantone alla bisogna dovrebbe servire anche a intimidire i ricorrenti; il fondo di solidarietà di appena 100 milioni può comunque garantire solo un quarto delle perdite fin qui accertate.
La Banca d'Italia è sul piede di guerra, sia pure nelle sue forme british e nel rispetto severo delle competenze altrui. Ma non s'era mai visto un Governatore costretto ad andare in uno dei talk show più governativi – quello di Fabio Fazio – per difendere l'istituzione che dirige. Del resto, non si era mai nemmeno vista la decisione di sottrarre alla Banca d'Italia una delle sue competenze fondamentali per affidarla a un'autorità pensata per tutt'altro (l'anti-corruzione) e a una commissione parlamentare d'inchiesta. Anzi, un precedente c'è, ma è letale per Renzi: il caso Sindona, che vide l'intervento diretto di Andreotti, Stammati, Evangelisti.
Le ultime sortite dell'attore fiorentino segnano l'ennesima escalation: la commissione parlamentare dovrebbe occuparsi del sistema bancario risalendo addirittura a 15-20 fa. Un modo di “buttarla in caciara”, perché in un terreno così vasto e in presenza di legami fortissimi tra buona parte dei parlamentari e diversi istituti di credito quella commissione finirebbe per smarrire il filo conduttore. In pratica, per annegare qualsiasi domanda urgente su un caso specifico – le quattro banche appena “salvate”, cominciando da Banca Etruria – in un oceano di “indiscrezioni”, “rivelazioni”, “misteri”, scoop veri e soprattutto falsi, fughe all'estero, cadute dalle finestre (è appena successo, con un dirigente di Monte Paschi), minacce incrociate, ecc.
Non è finita. L'apertura di uno scontro con l'Unione Europea è una mossa “populista” facile da pensare (è facilmente dimostrabile che il “decreto” sia stato sostanzialmente modificato – in peggio per i risparmiatori – dall'intervento dei Commissari di Bruxelles, e lo stesso governo sembra sul punto di pubblicare in carteggio istituzionale che avrebbe dovuto restare “riservato”), ma difficile da tenere a lungo senza conseguenze.
Tanto più se questo scontro ha come origine un volgare tentativo di sbrogliare "all'italiana" problemi bancario/familiari, esacerbati da interessi di poche famiglie toscane fortemente "collegate" tra loro e presenti, con ruoli pesanti, nel governo in carica.
L'anno appena trascorso dimostra a iosa che per “opporsi” alla Ue e alla Troika non basta neppure nutrire velleità “riformiste” sostenute massicciamente da una maggioranza popolare. Figuriamoci cosa potrebbe rovesciarsi sulla testa di un esecutivo in debito d'ossigeno sul piano del consenso interno e con le idee molto confuse – e dilettantesche - su come uscire da questo impiccio.

giovedì 24 dicembre 2015

Rapporto Censis: Fotografia di un'Italia sempre più ingiusta

Il grande assente dal racconto dell'Italia al 2015 sono gli investimenti, pubblici e privati". L'ha conclusa così Massimiliano Valeri, direttore del Censis, la presentazione del 49° Rapporto sulla situazione sociale del Paese oggi a Roma. Ancora poca la fiducia degli italiani nella ripresa, e infatti pochi sono gli investimenti e le nuove avventure imprenditoriali, e non basta la narrazione in atto sostenuta da Governo e politica a convincerci che siamo fuori dalla crisi. Anche perché sul versante lavoro le cose non vanno davvero bene. Con il Jobs Act c'è stato un rimbalzo occupazionale, 240mila posti di lavoro in più ma per tornare al pre-crisi ne mancano ancora tanti, 551mila, e soprattutto non ne hanno beneficiato egualmente tutti ma solo settori specifici. Appena 9mila posti in più per i giovani, mentre la fascia over 55 dal 2008 è passata da 2,5 milioni ai 3,5 milioni attuali, e continua a crescere. Uno squilibrio che il Paese, in termini di fiducia e crescita, paga caro. E poi i Neet, i ragazzi che non studiano e non cercano lavoro, che nel 2014 superano i 2,4 milioni. Così, anche per il Censis, l'effetto vero del Jobs Act e dei suoi incentivi è stata la trasformazione dei contratti non la creazione di nuovo lavoro.
Dal lavoro al welfare dove i risultati non sono però più confortanti
Lo Stato si ritira, taglia risorse e fondi a sanità e assistenza, e chi può si rivolge al privato. Chi non può rimanda, fa debiti, rinuncia a curarsi. La spesa sanitaria privata delle famiglie italiane è aumentata del 10,4% tra il 2007 e il 2014. Mentre quella pubblica che tra il 2007 e il 2011 era cresciuta del 10,7%, tra il 2010 e il 2014 è scesa del 2,2%. Il 41,7% delle famiglie ha dovuto rinviare una prestazione sanitaria per ragioni economiche ma la percentuale sale fino a diventare il 2/3 di quelle con i redditi più bassi. Mentre sono addirittura 7,7 milioni le persone che si sono indebitate per pagarsi le cure mediche.
La nota positiva sta nella celebre creatività degli italiani. Le imprese riescono, hanno successo quando si sommano vecchi e nuovi saperi, quando il digitale si fonda con il tradizionale. Come nel mix tra nuove tecnologie, gastronomia e turismo che schiaccia un po' l'occhio anche ai nuovi sistemi di ospitalità meno formali e costosi, come i Bed and Breakfast che sempre più famiglie avviano magari per dare ai propri figli quell'occupazione che non si trova nel mercato del lavoro.
In sintesi però sono le diseguaglianze in crescita e la crescente sofferenza di quello che una volta era il ceto medio e delle famiglie più disagiate a ad emergere ancora una volta dall'analisi della condizione sociale del Paese. Lo Stato arretra, non si fanno investimenti, il Paese stenta a ripartire e il lavoro manca. Siamo immersi in una sorta di "limbo italico"- ha commentato con un po' di amarezza il presidente del Censis Giuseppe De Rita affidandosi a una citazione di Filippo Turati -, fatto di "mezze tinte, mezze classi, mezzi partiti, mezze idee e mezze persone".

mercoledì 23 dicembre 2015

Lo schiaffo del Governo a chi è senza casa: azzerati i sussidi

La legge di stabilita' 2016 "azzera nuovamente il Fondo nazionale per il sostegno all'accesso alle abitazioni in locazione". Le associazioni degli inquilini sono in allarme. E a Bologna il Sunia, il sindacato inquilini della Cgil, invita le istituzioni e i partiti a fare una "forte pressione" sul Governo per rimediare. "Per il 2016 il Governo trova quattro miliardi per abolire la Tasi, ma non 100 milioni per aiutare gli inquilini piu' poveri", scrive il Comitato direttivo del Sunia in una nota.
"Dopo anni di assenza, il fondo affitti era stato finanziato dalla legge 80 del 2014 con 100 milioni per ognuna delle annualita' 2014 e 2015", ricorda il sindacato: "Una somma irrisoria che, tuttavia, insieme alle risorse di Regione e Comuni ha consentito di mantenere un certo grado di attenzione verso le famiglie in maggiore difficolta' a pagare l'affitto, il cui bisogno e' straordinariamente aumentato negli ultimi anni". Ora, invece, "azzerando il finanziamento lo Stato torna a sfilarsi dal fondo nazionale, per cui la Regione e i Comuni- prevede il Sunia- si sentiranno obbligate a considerare di nuovo chiusa l'esperienza del sostegno diretto a chi e' in affitto".
Questo significa che a Bologna, "dove il bando chiuso da poco ha contato circa 3.500 richiedenti- riferisce il sindacato- nel 2016 mancheranno due milioni di euro e le famiglie che avevano ripreso a contare su questa forma di aiuto, per reggere un po' meglio nel mercato dell'affitto privato, dall'anno prossimo dovranno arrangiarsi da sole". Il problema e' che a tante di queste famiglie, con un reddito medio 1.000 euro, "probabilmente non bastera' arrangiarsi un po' di piu' per evitare di finire in morosita'- avverte il Sunia- perche' con affitti medi pari alla meta' del reddito per loro sara' davvero difficile cavarsela". Per la sigla dei pensionati della Cgil "e' inaccettabile che una forma di sostegno che ha riguardato un cosi' grande numero di famiglie di inquilini venga abbandonata senza che nessuno rifletta sulle conseguenze che ne deriveranno, dimenticando che il picco degli sfratti per morosita' ha coinciso proprio con il precedente abbandono del contributo affitti".
E non basta dire che "non ci sono soldi: la vicenda Tasi-Imu, per rimanere nell'ambito della casa- continua la nota- e' li' a dimostrare che i soldi si potrebbero trovare".
Il Sunia, infine, giudica "inspiegabile il silenzio delle istituzioni e delle forze politiche su questo aspetto della manovra e chiede da parte di tutti una forte pressione verso il Governo- si conclude la nota- perche' non abbandoni una misura che negli anni ha aiutato migliaia di famiglie a non precipitare nell'emergenza abitativa". Sul tema era intervenuto quasi un mese fa anche l'assessore comunale alle Politiche abitative, Riccardo Malagoli, spiegando che il Governo non aveva intenzione di rifinanziare il fondo perche' diverse Regioni non avevano ancora usato gli stanziamenti precedenti. Considerando che in base al monitoraggio di Palazzo D'Accursio questi contributi aiutano ad evitare circa 150 sfratti all'anno, Malagoli aveva formulato l'auspicio di "ottenere almeno parzialmente i fondi, ma c'e' da lavorarci molto".

martedì 22 dicembre 2015

Globalizzazione, sono 150 milioni i migranti che si spostano per un lavoro.

I lavoratori immigrati sono 150 milioni in tutto il mondo. Lo rileva il nuovo studio dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro 'Ilo, Global Estimates on Migrant Workers'. Secondo il rapporto diffuso l’altro ieri, sui circa 232 milioni di migranti internazionali, 150,3 milioni sono lavoratori. I lavoratori migranti rappresentano il 72,7% dei 206,6 milioni di migranti in eta' lavorativa (a partire dai 15 anni di eta'). La maggioranza dei lavoratori migranti sono uomini, 83,7 milioni, mentre le donne lavoratrici migranti sono 66,6 milioni.
Secondo l'Ilo avere una panoramica precisa e' un contributo essenziale per arrivare a politiche migratorie ben gestite. La migrazione per lavoro e' un fenomeno che riguarda tutte le regioni del mondo. Tuttavia quasi la meta' dei lavoratori migranti (48,5 per cento) si concentra in due grandi regioni: l'America del Nord, e l'Europa (Nord, Sud e Ovest). I paesi arabi contano la maggior presenza di lavoratori migranti rispetto al totale dei lavoratori, con una quota pari al 35,6%. Lo studio esamina anche la distribuzione della forza lavoro dei migranti secondo i principali settori economici. La stragrande maggioranza dei lavoratori migranti si trova nel settore dei servizi, con 106,8 milioni di lavoratori (71,1% del totale dei lavoratori migranti); seguono l'industria- inclusa quella manifatturiera e delle costruzioni-, con 26,7 milioni (17,8%), e l'agricoltura, con 16,7 milioni (11,1%). Sull'insieme dei lavoratori migranti, il 7,7% sono lavoratori domestici. Proprio questi ultimi, per il 73,4% donne, sono i meno tutelati. Il lavoro domestico e' uno dei settori economici meno regolamentati che richiama una particolare attenzione da parte dell'Ilo. La concentrazione di lavoratrici migranti e la scarsa visibilita' dei lavoratori in questo settore spesso producono diverse forme di discriminazione. In Italia la ricchezza prodotta dagli stranieri e' pari a 125 milioni di euro e rappresenta l'8,6% del Prodotto interno lordo. E l'Europa, secondo l'agenzia Bloomberg avrebbe bisogno di 42 milioni di nuovi europei entro il 2020, e di 250 milioni in piu' di cittadini entro il 2060 per tenere in equilibrio il sistema pensionistico.
"Le stime contenute nello studio dimostrano che la stragrande maggioranza dei migranti cerca migliori opportunita' lavorative- dice Manuela Tomei, direttore del dipartimento dell'Ilo sulle condizioni di lavoro e l'uguaglianza (Workquality)-. Siamo conviti che, con l'utilizzo di una metodologia affidabile, aumentera' in modo significativo la nostra conoscenza del fenomeno migratorio e potremo disporre di una base solida su cui sviluppare politiche migratorie efficaci", conclude Tomei. La nuova agenda di sviluppo delle Nazioni Unite ha fissato tra gli obiettivi la protezione di tutti i lavoratori, inclusi i lavoratori migranti (Obiettivo 8) e l'attuazione di politiche migratorie ben gestite (Obiettivo 10). E, secondo l'Ilo, avere a disposizione dati e una panoramica sempre meglio definita del lavoro dei migranti e' un passo importante per raggiungere entrambi gli obiettivi. Una constatazione che appare scontata, ma che non lo e' affatto. Tornare alla realta' senza farsi prendere da demagogia e scontri ideologici e' una vera e propria sfida culturale, come dimostra anche in questo periodo lo scontro fra governi europei al Summit dell'Unione europea a Bruxelles. A questo quadro va ad aggiungersi, drammaticamente, il fenomeno dei migranti a causa del cambiamento del clima. Solo lo scorso anno 19,3 milioni di persone sono state costrette a lasciare la propria terra per ragioni ambientali, un numero destinato ad aumentare drammaticamente tanto che l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati stima possano esserci fino a 250 milioni di rifugiati ambientali al 2050 in fuga da degrado ambientale, impoverimento delle risorse naturali, inquinamento, disastri naturali in aumento.

domenica 20 dicembre 2015

Gelli, storia di un faccendiere bipartisan…

Morte di Licio Gelli, Maestro Venerabile? Faccendiere? Politico? Nobile? Soldato?
Non è mai piacevole scrivere e parlare di coloro che in ogni caso sono mancati agli affetti dei propri cari. E’ ancora più sgradevole quando una persona che muore porta con sé innumerevoli misteri e problemi irrisolti. E’ il caso di Licio Gelli.
Se quasi nello stesso giorno ovvero Lunedì 14 Dicembre (Gelli ci lascia la notte del giorno seguente) era mancato Armando Cossutta e ogni necrologia e ricordo parlava di costui come di un comunista, in questo caso potremmo dire che manca agli affetti dei propri cari un anticomunista. In effetti ripercorrendo la sua storia possiamo cogliere l’inizio della sua carriera come segnata da un evento. Licio Gelli era fascista, scrisse per diversi organi di stampa propagandistica al servizio del regime stesso. Scrisse anche le memorie di una guerra, la guerra di Spagna alla quale partecipò. Non è mai bene compiere nessun tipo di dietrologia anche perché in questo caso non sapremo mai più quali fossero i pensieri di quest’uomo. In ogni caso visto cosa accadde dopo si può ipotizzare che ogni atto politico che svolse più tardi, attraverso diverse istituzioni politiche, le perseguì allo scopo di evitare il ritorno o la supremazia dei suoi nemici.
Da questa paura nacque anche forse l’eterno districarsi tra mille partecipazioni e comparsate. Mi riferisco al periodo nel quale, dopo aver aderito alla Repubblica Sociale, capì che ormai la guerra per gli Alleati era perduta. Fu allora che sì dipanò la sua abile strategia: aiutare i partigiani fornendo i mezzi necessari per coprire le proprie azioni. Gelli di fatto non confessò mai la propria appartenenza e in quel periodo giocò su più tavoli come un vero bluffatore del poker.
Nel dopoguerra si impelagò per diverse vie. Nel 1956 lavorò come manager alla Permaflex di Frosinone, diventandone Direttore Generale della sede. Anche in quel caso pesarono molto gli aiuti statali che all’epoca erano parte della famosa Cassa del Mezzogiorno. Dal 1963 l’iniziazione alla loggia massonica Propaganda 2, fondata dal Gran Maestro Ugo Lenzi nel 1949. La P2 sotto la conduzione di Gelli era una loggia completamente diversa per natura e scopi dalla prima loggia denominata Propaganda massonica. Se la prima, operante nel secolo precedente, aveva visto protagonisti personaggi intrepidi e coraggiosi come uno dei padri della nostra patria Giuseppe Garibaldi, la seconda sembra aver un programma teso a coprire e aiutare pochi. Insomma il rovesciamento dell’obbiettivo originale delle logge di propaganda massonica, tese a far conoscere e a rendere popolari gli ideali proposti dall’obbedienza stessa.
Nel caso della Loggia gestita da Gelli a partire dal Giugno del ’70 vi fu un programma da seguire, chiamato “Rinascita Nazionale”, un programma che era teso a rendere l’Italia come una nazione tanto simile come istituzioni e insicurezza sociale agli Stati Uniti. Un programma che aveva come altro impegno quello di scardinare il monopolio televisivo della Rai. Un programma del quale si è discusso molto.
Si è imputata a Berlusconi la responsabilità di essere disposto alla realizzazione finale degli obiettivi della P2. Ebbene domando a queste persone se non pensano che nonostante sia cambiato il governo la volontà non sia la medesima? Deve essere riuscito nel suo intento e con la propria bravura ad essere tentacolare. Mi spiego meglio evidentemente la formazione di qualche erede di questo programma di rinascita nazionale sarà riuscita. Qualche politico attuale ne avrà davvero raccolto il testimone e quindi pronti a compierlo in ogni passaggio! Bene in nome della lotta contro il comunismo cosa resta dell’amor di patria che ebbe da giovane? Non lo sapremo mai, non lo sapremo più. Qual è l’eredità di questo personaggio? Nessuna, forse quella di aver reso a noi italiani la realizzazione dei peggiori stereotipi. Con la sua vita e con i suoi trascorsi sempre pronto a cambiare casacca e ad intessere trame di ogni tipo. Questa è l’immagine politica che ci caratterizza in altri paesi.
Di Licio Gelli non resta granché da ricordare. Si potrebbe star qui a ricordare ogni passaggio, ma il leit motiv sarà sempre il medesimo. Salvare sé stessi, salvare pochi per il benessere di pochi. E’ un’altra parte dell’Italia che se ne va con lui. Un’ Italia che in nome dell’anticomunismo ha sognata una terra di individualisti senza patria e senza ideali né tantomeno ideologie. Sognarono un’Italia quegli italiani come lui dove tutti fossero liberi. Si, liberi da ogni ideale e da ogni valore che non fosse quello del portafoglio. Sognarono un’Italia quegli italiani dove tutti fossero uguali. Si, un’Italia dove non ci fossero più differenze culturali in quanto la cultura sarebbe divenuta appannaggio di pochi privilegiati. Ovvero un paese dove la miseria ci avrebbe reso uguali e uguali predatori e prede nella lotta per la sopravvivenza quotidiana. Non di certo uguali nella ricchezza come profetizzava Karl Marx ne “l’ideologia tedesca”.
Chiaro come questi presunti valori non possono essere i nostri, ne crediamo che personaggi del genere possano essere ricordati positivamente. Si preferisce ricordare con affetto colui che combatte e perde piuttosto che colui che fa combattere altri o resta dietro le quinte. Questo tipo di politica, questo modo di scalare le vette della società non possono rappresentare il nostro paese, non più.
Il modello non può essere Gelli, come non possono esserlo la Thatcher e i suoi emuli. Ricordiamo ancora come la lady di ferro in una terra prostrata da politiche economiche draconiane aveva il coraggio di invitare i propri compatrioti ad essere allegri. E non possono esserlo altri amici di Gelli, come i generali argentini Viola e Massera. Generali che mandarono in guerra giovani impreparati con il plauso sinistro e necrofilo del loro Maestro di Loggia. Un mondo, quello dei Gelli, che sacrifica gli amici di un tempo come nel caso del banchiere Calvi. Insomma un mondo di intrighi e misteri che rimarranno tali rendendo inutili le proteste di coloro che soffrirono in modo diretto delle decisioni di queste menti illuminate. Sognavano un’Italia postideologica costoro. Purtroppo ci sono riusciti. Con la fine delle ideologie e con la sconfitta dei partiti rimane poco da aggiungere, si spera solo che il futuro ci doni un immagine migliore di italiani.
Si può solo sperare che un’Italia diversa ci porti ad essere più degni rispetto a questi esempi del passato. Uno degli ultimi di questa persona maestra di tanti atti imprevedibili? Il matrimonio con la propria badante rumena. In questo vuoto di ideali quale è ormai l’Italia si può solo sperare che nascano nuovi esempi, di gente innamorata del proprio paese, non di altri ambiziosi come il Venerabile.

sabato 19 dicembre 2015

Governo, lo sportello in faccia

Mezze ammissioni, frasi smozzicate, occhi vaganti nel vuoto. La preoccupazione, anzi la paura del Pd la percepisci a pelle, non la trovi nelle dichiarazioni ufficiali. Renzi si sente su una graticola composta da diversi elementi, tra i quali la raffica di mozioni di sfiducia sia sulla Boschi che sul governo tutto è in fondo la meno temibile. Da Porta a Porta reagisce come d’uso, contrattaccando e ostentando una sicurezza posticcia. La mozione di sfiducia? «Un autogol per chi la presenta». Il caso Boschi? «Ma se era anche lei una piccola azionista e ha visto il suo valore azzerato». Dette azioni si aggiravano sui 2mila euro, per inciso. Il conflitto di interessi? «Abbiamo mandato a casa il cda col padre della Boschi, che ha pagato una sanzione. Il tempo delle leggi ad personam è finito». In questo caso si parla in effetti di legge ad bancam. La truffa? «Se verrà dimostrata, i truffati verranno risarciti». Se invece si tratta di una classica «truffa legale», ciccia.
E’ una difesa debole, che rivela le difficoltà del governo. Che in parte dipendono davvero dalle mozioni di sfiducia. Dopo averla presentata alla Camera, nell’ansia di incassare subito i dividendi in termini di grancassa mediatica, l’M5S ne ha depositato una identica anche al Senato. Qui le cose per il governo sono molto più spinose, perché per respingere la mozione potrebbero essere necessari i voti di Denis e della sua Ala: «Verdini salva la Boschi» non è un titolo che possa riempire Renzi di gioia. Oggi, sempre alla Camera, Forza Italia e la Lega dovrebbero invece presentare la mozione contro il governo, decisione presa un po’ perché in effetti Fi si è sempre detta contraria alle mozioni individuali e molto, moltissimo per differenziarsi da un M5S che ha preso d’impeto la guida della campagna anti-Boschi.
Al Senato, invece, Fi si dichiara contraria anche alla mozione contro il governo e punta invece su una commissione d’inchiesta sul sistema bancario. Uno di quei rilanci per finta che servono in realtà ad allentare a tensione, tanto più che Forza Italia ha anche fatto blocco con il governo per impedire una calendarizzazione immediata del voto sulla ministra, e la scelta dei senatori azzurri è stata accolta nel Pd come l’unica buona notizia in una giornata nerissima. L’ordine sparso delle opposizioni in realtà si spiega facilmente: dietro l’angolo ci sono elezioni comunali importantissime, e nessuno vuole avvantaggiare il competitor. Ovvio quindi che Fi faccia il possibile per stemperare il caso Boschi, dal momento che nessuna campagna su un conflitto di interessi può tornare a vantaggio del leader che di quel conflitto è simbolo vivente.
Ma le mozioni, temute più perché amplificheranno il caso che per il loro esito, sono il meno. I veri brividi arrivano dalle inchieste sull’operato di Banca Etruria. L’ex presidente dell’istituto Lorenzo Rosi e l’ex componente del cda Luciano Nataloni, sono indagati per «omessa dichiarazione di conflitto di interessi», ma è solo un primo passo, e oltretutto della vicenda si starebbe occupando, a partire dal ruolo della Consob, anche la procura di Roma.
Inevitabilmente, poi, lo scandalo ha riportato alla luce la faccenda spinosa della legge sulle banche popolari e delle speculazioni che potrebbe aver innescato grazie all’insider trading permesso da eventuali indiscrezioni di componenti del governo stesso. Tutto, soprattutto ad Arezzo, viene tenuto quanto più blindato possibile, ma ieri tutti nel Pd erano convinti che la faccenda sia destinata non a sgonfiarsi ma a montare ulteriormente.
A tutto questo si somma un danno d’immagine senza precedenti, che forse costituisce l’elemento più esiziale. Dall’intera vicenda emerge infatti un quadro che con l’immagine innovativa, totalmente diversa da un passato ormai rottamato, non ha davvero nulla a che spartire. Assunzioni e promozioni basate sulla conoscenza e le amicizie di famiglia, aiuti reciproci, ambiguità, reticenze, ipocrisie. Ieri in rete campeggiavano ovunque le dichiarazioni della stessa Boschi ai tempi della mozione di sfiducia sull’allora ministra Cancellieri: «Io al posto suo mi sarei dimessa. E’ in gioco la fiducia nelle istituzioni». E poi, uno dopo l’altro, riaffiorano tutti i casi di dimissioni chieste o imposte per casi molto meno gravi di questo: dall’Imu non pagata dalla ministra Idem al rolex del figlio di Lupi agli scontrini del sindaco Marino. E per Renzi nulla è più letale del verdetto: «Sono come tutti gli altri».

venerdì 18 dicembre 2015

Tra evasione e stagnazione

Lotta all’evasione ed investimenti pubblici sono la condizione per crescere. Non stanno parlando la Cgil e Sinistra Italiana, ma Confindustria e Padoan.
Quindi, procediamo con ordine. Come sempre accade ad ogni aggiornamento delle stime di crescita, il nuovo dato risulta essere più basso di quello precedente. Non è dato sapere se i modelli econometrici che prevedono il Pil incorporano nei loro algoritmi una dose di ottimismo renziano. Ma così sembra visto che sbagliano sempre per eccesso.
Poi, naturalmente, quando ci si avvicina alle stime reali la correzione si impone e l’autore deve ammettere che le cose vanno meno bene del previsto. Ed allora, come in un film già visto o in una staffetta, un altro attore potrà subentrare per fornire una lettura più politico teorica a giustificazione della mancata crescita.
Il primo attore è stato ieri il Centro studi di Confindustria che ha rivisto al ribasso la previsione di crescita del Pil. Il secondo è stato il ministro Padoan che ha fornito una lettura teorica collocando la bassa crescita italiana nello scenario dell’economia globale.
Confindustria che fino a tre mesi fa prevedeva una crescita dell’1%, adesso parla di un + 0,7%. Naturalmente per il 2016 si stima un salto a +1,4%, ma sovradimensionare le previsioni future fa parte del gioco. Per adesso accontentiamoci della diagnosi: «Il vero rebus è il mancato decollo dell’economia italiana… Il paese è in recupero, ma meno velocemente di quanto atteso…. In autunno ci potrebbe essere una ripresa di slancio, ma ci sono anche rischi al ribasso legati al terrorismo». Comunque, continua Confindustria, «se si dimezzasse l’evasione, si potrebbe, abbassando le aliquote, avere una crescita del Pil del +3,1% e dell’occupazione di 650.000 unità».
Se queste frasi rispecchiano la grande incertezza che regna nelle file di Confindustria, indicano anche una presa di coscienza: le strombazzate riforme del mercato del lavoro fatte di deregolamentazione e finanziamenti non producono la crescita attesa fino a quando non si interviene sui fattori distorsivi strutturali dell’economia italiana il principale dei quali è l’evasione.
Meglio tardi che mai e questa prima ammissione meritava un approfondimento. E’ venuto, a commento di quei dati, dal Ministro dell’economia Padoan: «La ripresa è debole. Sono tra quelli che ritengono che l’ipotesi di stagnazione secolare non sia così peregrina. La sfida è trovare il modo per sostenere gli investimenti ed il governo cerca di accelerare quelli pubblici».
Considerando queste prime analisi, si potrebbe dire che si comincia a prendere atto che non basta predicare ottimismo per far crescere l’economia, che ci sono nodi strutturali da aggredire, che ci vogliono investimenti e pubblici.
Possiamo condividere questa evoluzione dell’analisi se, però, si chiariscono alcuni punti. Almeno tre.
Se si riconosce che la nostra debolezza si colloca in una crisi più profonda e strutturale, occorrerebbe allora concentrarsi di più sulle politiche redistributive verso il basso in termini di redditi e di servizi.
Se si ritiene che l’evasione è tanto grave da produrre distorsioni nel mercato e mancata crescita, allora la lotta per ridurla non si può conciliare con scelte politiche che perdonano e quindi stimolano l’evasione o con incentivi ai pagamenti in contanti.
Che la crisi sia strutturale e diffusa tanto da far pensare ad una stagnazione secolare non ci può assolvere dalle nostre responsabilità specifiche. Ed allora ci si dovrebbe spiegare perché la crescita italiana è pari alla metà di quella media europea pur avendo l’Italia usufruito delle condizioni favorevoli di tutti – quantitative easing , crollo dei prezzi del petrolio e svalutazione dell’euro. Se così è, allora, quello che si è fatto di più e di diverso – incentivi per assumere, facilitazione ai licenziamenti – a cosa è servito? Non sarebbe stato il caso di concentrare energie e risorse su obiettivi meno propagandistici e di facciata e più mirati e concreti?
Naturalmente questo non ce lo aspettiamo dai due attori citati.
Ed allora ci permettiamo di dirlo noi.

giovedì 17 dicembre 2015

Leopolda: Matteo e il suo “giubileo”

Ritorna il folkloristico incontro ideato dal “lungimirante” Matteo Renzi, un momento nel quale la propaganda è spettacolarizzata e camuffata attraverso la teatralità e l’amore per il “nuovo”, che invece odora di immobilismo dirigenziale e assenza di rinnovamento.
La prerogativa della “maschera” democratica.
La Leopolda rappresenta, nella maniera più eclatante, l’arte subdola e sopraffina dell’oltraggio e della derisione nei confronti della democrazia. La classe dirigente liberista, da sempre sinonimo di eccessiva seriosità e fastosa auto-celebrazione, ha finalmente trovato, grazie all’attuale presidente del consiglio, una strategia moderna e colorita per la sopravvivenza della propria credibilità. Si dà il caso, infatti, che strumenti come la libertà d’espressione, il dialogo e la partecipazione, tradizionalmente elementi di contestazione democratica del potere, siano ora oggetto di strumentalizzazione da parte della stessa élite politica italiana (ed europea), conscia di avere a che fare con un pubblico ben diverso rispetto al passato. Queste parole d’ordine sono state invocate dallo stesso Renzi, il quale, in un momento di crisi d’identità del Partito Democratico, non può che ritrovare il proprio consenso elettorale all’esterno di esso. Ebbene, quale migliore strumento propagandistico della Leopolda, un luogo dalle parvenze “orizzontali” e “democratiche”, ma dalla partecipazione prevalentemente di parte e filo-renziana, vista la presenza del ministro dell’economia Padoan e di Maria Elena Boschi. La stessa ministra delle riforme ha affermato in maniera entusiastica: “L’anno prossimo ci sarà un passaggio decisivo per le riforme: siamo a buon punto. Le riforme sono nate proprio nella Leopolda, perché sono alcune delle idee e delle proposte che abbiamo fatto nascere qui negli anni passati e che oggi sono a un passo dalla realizzazione in Parlamento”. Considerando l’ambiente e i suoi “frequentatori”, non vi è da stupirsi se la legge di stabilità o lo stesso Jobs Act siano stati partoriti proprio in questo luogo.
Il sapore della sconfitta e l’insipidità politica.
Le minoranze del PD hanno compreso che l’evento non costituisce soltanto una forma di auto-esaltazione dell’ “Italia che fa”, (se pure non si capisca bene cosa), bensì un braccio di ferro perso in partenza, in cui la maggioranza di governo non può che proclamare la propria sovranità. Il primo tra i deputati piddini a contestare l’orientamento della manifestazione è Pierluigi Bersani, il quale accusa il primo ministro di negligenza verso il partito, dal momento che non si pensa a nuove tessere e militanti, bensì a imbastire un evento, la Leopolda, che nulla ha a che vedere con il PD. Afferma ancora l’ex segretario democratico: “Io penso che se la strategia fosse quella di portare il Pd in una generica e confusa posizione centrale o centrista, allora ciò vorrebbe dire non aver capito nulla. Significherebbe non aver capito che un indistinto centro scomparirebbe.” La vecchia guardia del centro-sinistra sembrerebbe invece non aver “compreso nulla” della politica di de-ideologizzazione e svilimento dei contenuti sui diritti sociali e del lavoro, attuata, tra l’altro dalla stessa classe dirigente della quale si proclamava portavoce. Si rivela dunque inutile il mero atteggiamento di protesta nei confronti di un’iniziativa che cela il messaggio per cui siamo tutti liberi di esprimere la propria opinione.. Purché essa non venga attuata. Potremmo dunque definirlo una sorta di contentino, ribattezzabile come “opinionem et circenses”.
L’arma satirica firmata Leopolda.
La trovata comunicativa di maggiore ingegno è rappresentata dal coinvolgente “umorismo” che ha caratterizzato le sale della Leopolda. Oggetto di discussione e scherno, questa volta, è il giornale Il Fatto Quotidiano, il quale è stato aspramente ed esplicitamente deriso dalla convention, come dalla pagina fb della Leopolda, che titola “La top 11 delle balle contro il governo Renzi” o il sito ufficiale che ha addirittura creato il sondaggio“Scegli anche tu il peggior titolo di giornale”. A essere sotto attacco sono titoli come “Le grandi riforme: insegnanti deportati e Jobs Act fuori legge”,i quali invece esprimono lucidamente e sinteticamente le conseguenze dell’operato di governo.Se, un tempo, la libertà di stampa era minacciata dalla censura, oggi è minata dalla derisione e dalle offese, autorizzate dallo stesso presidente del consiglio e seguaci: un’arma molto più sottile ed efficace, pericolosa e utile nell’isolamento di eventuali voci dissidenti.

mercoledì 16 dicembre 2015

La Grecia è una nazione sotto occupazione

Atene è stata costretta ad accettare la presenza di guardie di frontiera straniere ai suoi confini
Forse il modo migliore per mostrare che disastro è l'Europa è l'accordo da tre miliardi raggiunto con la Turchia di Erdogan, prima che il presidente turco venisse smascherato dall'arcinemico dell'UE, Vladimir Putin, come sostenitore principale, finanziatore e chissà cos'altro del gruppo che tutti sono così desiderosi di bombardare dopo gli attentati di Parigi, scrive Raul Ilargi Meijer su The Automatic Earth.
Ma Bruxelles pensa di aver trovato un capro espiatorio per tutti i suoi fallimenti. La Grecia. Tutto ciò che va male è colpa della Grecia, non di Bruxelles. Finora l'UE ha dato alla Grecia 30 milioni di euro in 'assistenza' per la crisi dei rifugiati, mentre il paese ha speso oltre 1,5 miliardi di euro. Ma in qualche modo non ha ancora fatto abbastanza.
La giustificazione fornita per questa carenza folle è che la Grecia non segue ciecamente gli ordini provenienti dai 'leader' in Europa. Ordini come la creazione di una pattuglia congiunta nel Mar Egeo con ... sì, la Turchia di Erdogan. Mentre la Grecia non riceve quasi niente mentre i bambini continuano ad annegare, la Turchia ottiene tre miliardi e la promessa di una futura adesione all'Unione.
E ora l'ultima goccia. Come riporta WSI, "La Grecia perde l’ultimo briciolo di sovranità che le era – forse – rimasto e diventa burattino in toto dell’Unione europea. La minaccia di Bruxelles di espellere il paese dall’area Schengen ha avuto effetto, e anche subito. Atene si è piegata al volere della Ue e suo malgrado è stata costretta ad accettare la presenza di guardie di frontiera straniere ai suoi confini.
Compito di tali guardie: gestire i flussi migratori, garantendo che nella massa di rifugiati e profughi non si nasconda qualche terrorista dell’Isis che si infiltri in Europa.
Il dispiegamento del nuovo personale di sicurezza inizierà questa settimana. Così come commenta Keeps Talking Greece:
“Le maschere sono cadute. Mano nella mano, l’Unione europea e il Frontex -Agenzia europea delle Frontiere – vogliono cancellare la sovranità nazionale e assumere il controllo delle frontiere, con il pretesto di ‘salvaguardare i confini dell‘area Schengen‘. E usano il caso della Grecia per dar vita a un precedente che potrebbe ben presto presentarsi ovunque, nell’ambito di un piano che è interamente tedesco”.
L’Italia potrebbe essere il prossimo paese a essere monitorato da guardie di frontiera non italiane, se si considera che Frontex aveva già chiesto 775 guardie sia per l’Italia che per la Grecia, prima degli attentati terroristici di Parigi.
A dare la notizia è lo stesso The Independent, che scrive, sulla base di informazioni ricevute da funzionari e diplomatici nelle ultime ore:
“L’Unione europea sta considerando una misura che conferirebbe alle guardie di frontiere dell’Ue i poteri di intervenire e controllare le frontiere esterne di un paese membro, al fine di proteggere l’area di Schengen”.
Il riferimento è in particolare a una proposta che dovrebbe essere ufficializzata il prossimo 15 dicembre e che includerebbe il conferimento , al Frontex (appunto l’agenzia di controlli alle frontiere della Ue) , della responsabilità di controllare la frontiera che un paese condivide con un paese che non faccia parte dell’aerea di Schengen, nel caso in cui il paese membro dell’Ue non sia capace di gestire in modo efficiente il problema della sicurezza e la crisi dei migranti.
Così il ministro degli Interni svedese Anders Ygeman, riferendosi al caso della Grecia, già più volte ricattata con l’arma della soluzione Grexit:
“Dobbiamo tutelare i confini dell’area Schengen, e abbiamo visto che, se un paese non è capace di proteggere i propri confini, o lascia Schengen o accetta Frontex“.
Una volta che hai degli stranieri che decidono chi può entrare o lasciare il tuo paese, sei effettivamente un paese sotto occupazione. E' davvero semplice.
L'Unione europea si sta trasformando rapidamente in un teatro dove i paesi più grandi e potenti costringono il più debole a fare tutto ciò che desiderano.
Qualcuno riesce ad immaginare Frontex che prende il controllo delle frontiere britanniche, o tedesche o francesi? La nozione stessa è troppo assurda per poter essere presa seriamente. Ma questo è esattamente ciò che Tsipras sembra appena aver accettato.

martedì 15 dicembre 2015

La scuola punita dal sistema-Italia

Ci sono analisi settoriali che svelano molte più cose di profondità sistemica che non tante indagini di portata programmaticamente generale. E' questo il caso del libro di Walter Tocci, La scuola, le api e le formiche. Come salvare l'educazione dalle ossessioni normative, Donzelli 2015, che è' molto più di una tagliente analisi della scuola italiana nel nostro tempo. Senza forzare molto le cose si potrebbe dire che è una diagnosi della società italiana e al tempo stesso una spiegazione etiologica del suo conclamato declino attraverso le politiche della formazione. L'autore, infatti, prende in esame i tentativi di riforma degli ultimi anni, i suoi impatti sulla scuola, ma ha il grande merito di non rimanere dentro questo recinto, di scorgere le origini dei problemi in dinamiche più generali, sotto il cui influsso l'Italia indietreggia a grandi passi, chiudendosi in un processo di autoemarginazione di cui non si vede la fine.
La situazione della scuola italiana e il livello culturale dell'intero paese sono il risultato di processi economici e sociali molteplici, e al tempo stesso il frutto di scelte, di assecondamento, da parte delle classi dirigenti e del ceto politico, di convinzioni ideologiche dominanti. Si pensi alla diffusione del mito della società della conoscenza. «Dagli anni novanta - ricorda Tocci - si è diffusa una interpretazione rassicurante della modernità riflessiva, come processo auto-generativo della competenza sociale. Si suppone una capacità degli individui e delle istituzioni di cogliere nel cambiamento stesso i saperi necessari per il suo governo. E' il sogno del cittadino razionale che sceglie nel mercato, decide in politica ed è in grado di progettare la propria vita. Innovare sembra come passeggiare in un prato raccogliendo i fiori della conoscenza».
E' da tale visione - illusione, rielaborazione e insieme cascame ideologico della cultura neoliberista, che nasce la politica di intervento “riformatore” sulla scuola degli anni recenti. Un politica tutta orientata a piegare, attraverso dispostivi normativi, le strutture “antiquate” della formazione alla “modernità” rampante della società che avanza. «La scuola - sottolinea Tocci - è sempre in ritardo rispetto a una presunta paideia della modernizzazione. La sua resistenza al cambiamento diventa una colpa rispetto alla società. E può essere mondata solo con le riforme». Senza che gran parte dei riformatori ne abbia piena consapevolezza, tale posizione assume la società plasmata dal cosiddetto libero mercato, le sue intime logiche competitive, come il principio di realtà a cui la formazione scolastica deve adattarsi per poterla più prontamente servire. Non è più la scuola, la comunità scientifica ed educativa dello Stato-nazione che progetta le linee di formazione delle nuove generazioni, sulla base della sua storia e dei bisogni conoscitivi e culturali dell'epoca, ma è la società di mercato che tenta di trascinare le istituzioni nel vortice delle sue imperiose dinamiche.
Da ciò discende l'emarginazione sempre più dispiegata della cultura umanistica, poco utile ai bisogni economici del momento, l'insistenza ossessiva sulla valutazione e sui suoi criteri, piegati a logiche sempre più attente ai risultati quantitativi immediati, piuttosto che al processo evolutivo dei ragazzi. Il fine della scuola è sempre meno quello di formare spiritualmente e civilmente i cittadini italiani, di dotarli di un patrimonio cognitivo e culturale per la futura navigazione in una società complessa, ma di renderli più pronti alle esigenze del mercato del lavoro. Questo spiega l'ossessione normativa con cui i governi sono intervenuti negli ultimi decenni in tale ambito, senza alcuna ambizione di innalzare la qualità dei processi formativi, di innovare i metodi e i modi dell'insegnamento, di attingere alle novità dei saperi contemporanei, oggi impegnati in uno straordinario sforzo di cooperazione interdisciplinare. Una tendenza a cui si è accompagnata la nessuna cura per le sorti di chi “non eccelle”, dei ragazzi provenienti da famiglie modeste, che sempre più numerosi ripercorrono il destino sociale dei padri, entro un meccanismo di mobilità sociale bloccato, riproduttore di disuguaglianze sociali oltre che territoriali.
Indagini recenti - ricorda Tocci - mostrano che nel nostro paese poco meno di un terzo della popolazione attiva possiede le competenze necessarie per interagire consapevolmente nella società del XXI secolo. Da noi, tale incapacità, fondativa di una piena cittadinanza, riguarda il 70% dei cittadini tra i 16 e i 65 anni. Una cifra impressionante - che ci colloca agli ultimi posti, insieme alla Spagna, nelle statistiche OCSE - composta da dati articolati in altre cifre edificanti: il 6% di analfabeti primari; il 22 % di analfabeti di ritorno (quelli che perdono negli anni le poche competenze apprese a scuola); il 42% di analfabeti funzionali, di coloro, cioè che pur essendo in grado di leggere un testo non riescono a padroneggiarne il significato.
Un quadro allarmante che avrebbe dovuto essere posto al centro della riflessione delle classi dirigenti italiane, quale fuoco strategico decisivo su cui intervenire per invertire il corso accelerato del declino nazionale. E che invece non trova attenzione se non per qualche giorno sui nostri media, figuriamoci nell'agenda politica di governo. Tocci racconta che nel 2014, quando i giornali pubblicarono i risultati dell'indagine Piaac-Ocse, di fronte all'enormità dei dati, il governo Letta decise di nominare una commissione, presieduta da Tullio De Mauro, per studiare i rimedi. Giusto un gesto di buona volontà. Inutile rammentare che il governo Renzi, l'ha messa da parte, realizzando il progetto risolutivo a tutti noto come “Buona scuola”: sigillo definitivo di questo esecutivo sulla propria radicale inadeguatezza ad affrontare i problemi fondamentali del Paese.
Significativamente poche voci critiche si son levate dal mondo imprenditoriale e professionale, dal giornalismo, dai gruppi intellettuali, e non per caso. I livelli di istruzione delle nostre classi dirigenti sono fra i più bassi d'Europa: il 31% di laureati contro la maggioranza assoluta in Germania, Regno Unito e Francia, accompagnati da un sontuoso 26% di individui col solo titolo elementare. A fronte di dati a una sola cifra negli altri paesi.
Tali numeri sono decisivi per comprendere come si configura il sistema-Italia e il carattere perverso del suo avvitarsi verso il basso. Tocci lo mostra con nitore espositivo e argomentazioni inoppugnabili. Una classe imprenditoriale fra le più incolte del Continente investe in ricerca meno di quanto faccia lo stato - caso unico in Europa - che già di suo investe meno di tutti gli altri. Il sistema produttivo avanza una domanda modesta di innovazione tecnologica e si accontenta di una percentuale annuale di laureati che è la metà di quella europea. Sicché non stupisce come nel nostro Paese sia stato politicamente così agevole, ai vari governi, praticare i tagli lineari alla scuola e all'Università degli ultimi anni. Così come non stupisce lo spreco delle competenze e dei saperi dei nostri laureati e ricercatori, della nostra gioventù studiosa di cui l'intero sistema paese, fondato sullo sfruttamento intensivo della forza lavoro, non sa che fare. Come non vedere allora che scuola e Università sono le leve strategiche per invertire la china e che solo un grande progetto politico può metterle in moto?

lunedì 14 dicembre 2015

Stefano Cucchi e il violento pestaggio

Stefano Cucchi fu “sottoposto ad un violentissimo pestaggio da parte dei Carabinieri appartenenti al Comando Stazionale di Roma Appia”, nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009, dopo esser stato arrestato in via Lemonia, a Roma. Quel pestaggio sarebbe stato coperto per sei anni tramite ostacoli, omissioni, addirittura cancellature di bianchetto. Una sapiente “strategia” che cinque Carabinieri (al momento) avrebbero “scientificamente orchestrato”, e che avrebbe potuto fare affidamento su un’omertà diffusa, anche fuori dal corpo militare. Accanto ai fatti, inoltre, la verità sul caso Cucchi sarebbe stata penalizzata anche da perizie medico legali a dir poco carenti, come del resto avevamo descritto nel nostro libro “Mi cercarono l’anima” (ottobre 2013) oltreché lo scorso settembre.
È quanto emerge con chiarezza dalle 55 pagine che compongono la richiesta di incidente probatorio utile a riaprire il caso fatta al GIP di Roma e firmata l’11 dicembre dal procuratore Giuseppe Pignatone e il sostituto Giovanni Musarò.
A pestare Cucchi -morto in solitudine il 22 ottobre 2009, senza aver mai avuto la possibilità di parlare con un avvocato o un familiare durante i sette giorni trascorsi nelle mani dello Stato, costretto com’era nelle celle sanitarie del presidio ospedaliero “protetto” del Sandro Pertini- sarebbero stati i carabinieri Francesco Tedesco, Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo, rimasti impuniti anche grazie alla falsa testimonianza fornita durante il processo celebrato in Corte d’Assise da Vincenzo Nicolardi e Roberto Mandolini, quest’ultimo comandante interinale della stazione di Roma Appia all’epoca dei fatti. Tutti e cinque, interrogati il 10 e 11 novembre 2015, si sono avvalsi della facoltà di non rispondere: cifra costante nella vicenda Cucchi.
L’aggressione sarebbe nata dalla “resistenza” di Stefano Cucchi al fotosegnalamento presso la stazione Casilina, nella notte tra il 15 e il 16 ottobre, dopo l’arresto e la perquisizione domiciliare nella casa di Rita e Giovanni Cucchi, i suoi genitori. Da quel momento, cioè dal pestaggio “violentissimo”, quei Carabinieri decisero di alterare i verbali d’arresto -non inserendo i nomi di due militari (D’Alessandro e Di Bernardo)- e cancellare “ogni traccia” del passaggio di Cucchi dalla Compagnia Casilina -“al punto che fu contraffatto con il bianchetto il registro delle persone sottoposte a fotosegnalamento”-. Depistarono, insomma.
La Procura di Roma ha riacceso la luce dopo la sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Roma dell’ottobre 2014, che aveva mandato assolti tutti gli allora 12 imputati del “Cucchi I”: tre agenti della polizia penitenziaria accusati di aver pestato Cucchi nelle celle di sicurezza del tribunale di Piazzale Clodio, sei medici e tre infermieri del Pertini.
Oggi, grazie alle dichiarazioni rese da un detenuto che incrociò Cucchi nel centro clinico di Regina Coeli il 16 ottobre, due carabinieri che operarono alla stazione di Roma Appia e per merito di intercettazioni telefoniche e ambientali, viene a galla un quadro ancor più desolante di quello già visto, descritto, raccontato in questi anni. Angosciante tanto quanto il contesto narrato ne “Il sovversivo” da Corrado Stajano, la storia dell’omicidio dell’anarchico Franco Serantini avvenuto a Pisa nel maggio 1972.
Si tratta nel caso della morte di Cucchi di una generalizzata inclinazione a sopportare e a nascondere fatti di questa natura, questi pestaggi seriali, quasi con distrazione. Quanto aveva ragione Ilaria Cucchi, che nel suo contributo in “Mi cercarono l’anima” aveva sottolineato il peso dell’indifferenza in tutta questa storia, che “finisce con l’essere una forma sottile, vigliacca e diffusa di tortura e di complicità”.
Perché nelle 55 pagine firmate da Pignatone non c’è soltanto la ricostruzione dei tentativi di costruirsi nuovi alibi da parte dei tre autori del presunto “violentissimo pestaggio” -attraverso l’utilizzo di “telefoni citofono” con schede intestate “a gente amica” o l’impiego dell’applicazione Telegram per far cancellare i messaggi al momento della lettura-, o i progetti manifestati nel caso in cui fossero stati espulsi dall’Arma (“vado a fare le rapine agli orafi, quelli là che portano a vedere i gioielli dentro le gioiellerie”, dice D’Alessandro), ma anche e soprattutto un’analisi indiretta di dinamiche familiari tristi.
Secondo l’ex moglie di D’Alessandro, il militare -che nel 2009 aveva 24 anni- si sarebbe “vantato” a più riprese negli anni del pestaggio a danno di Cucchi, si “dava le arie”, si “faceva grande”: aveva picchiato un “drogato di merda” e ne dava conto “con divertimento”, “in modo molto spavaldo”. Ma ha atteso sei anni prima di raccontarlo agli inquirenti, solo dopo esser stata convocata. Come lei, sua madre, ex suocera di D’Alessandro. Sapeva e sa, e infatti il 5 novembre di quest’anno racconta la “verità” (“gli hanno dato pure un sacco di mazzate”, dirà ai pm). Sono testimonianze chiave, che riapriranno l’accertamento della verità. Ma quanto tempo è stato necessario? Se la famiglia Cucchi avesse desistito, se l’avvocato Fabio Anselmo si fosse arreso, se la Procura di Roma si fosse voltata dall’altra parte, tutto ciò sarebbe rimasto custodito dentro discorsi irraggiungibili.
Ma quale verità e giustizia verranno riconosciute agli altri "dannati", agli "arrestati della notte", cioè quegli “extracomunitari” vittime di “altri pestaggi” dopo le traduzioni in caserma, alla Stazione Appia -come rivela ai pm l’ex moglie del carabiniere accusato del violento pestaggio di Cucchi-? Anche di quella brutalità quotidiana, infatti, l’ex compagno se ne faceva vanto, trasformando calci, schiaffi e pugni in racconti divertiti.
Per ricostruire definitivamente i fatti è necessario che il giudice per le indagini preliminari nomini un nuovo perito per “stabilire la natura e l’effettiva portata delle lesioni patite da Stefano Cucchi”. Bisogna verificare infatti “il nesso di causalità tra le lesioni e l’evento morte”, alla luce di un “elemento di dirompente novità” rappresentato dalla nuova analisi del professor Carlo Masciocchi, quel referto che riapre il caso.
Le perizie ad oggi prodotte, infatti, sono state carenti. Il collegio milanese nominato dalla Corte d’Assise di Roma avrebbe eseguito l'accertamento sulla schiena gravemente ferita di Stefano Cucchi, senza “estenderlo” laddove “c’era la frattura”, cioè la porzione “più alta” della terza vertebra lombare. Un “dettaglio” che per Masciocchi avrebbe “falsato” l’accertamento. Raggiunta telefonicamente, Cristina Cattaneo, ordinario di Medicina legale all'Università Statale di Milano e membro del pool di periti della Corte d'Assise, preferisce non rilasciare dichiarazioni. “Lei l’ha letta la perizia? -si è limitata ad affermare ad Altreconomia-. È abbastanza chiaro quello che sosteniamo noi. Non commento questa cosa (la riapertura del caso e la messa in discussione dell'operato peritale, ndr) perché ci sono altre cose che forse… guardi vada a rileggersi bene tutto. Comunque non posso e non voglio commentare fuori collegio, non lo faccio mai".

domenica 13 dicembre 2015

La "Guerra al terrorismo" e lo "Stato d'Emergenza"

La dittatura capitalista affina le armi per il controllo delle masse e la spartizione del mondo
A poco più di due settimane dagli attentati che la sera del 13 novembre hanno colpito la città di Parigi cresce la psicosi totale largamente fomentata dai mezzi di comunicazione borghesi e auspicata dalle classi dominanti dei paesi europei, che in nome della sicurezza e della "lotta al terrorismo islamico" si preparano ad intensificare l'intervento imperialista nel Medio Oriente, in particolar modo in Siria, forti di un rinnovato sostegno dell'opinione pubblica, per la spartizione di risorse ed aree di mercato tra le potenze, globali e regionali, in disputa. Ma il nuovo clima di terrore sapientemente gestito e alimentato dai media servirà anche per dare il colpo di grazia alle ultime libertà concesse all'interno dell'Unione Europea, inaugurando così una nuova era nella repressione del dissenso sociale da parte del Capitale.
Lo "Stato d'Emergenza" in Francia: l'esempio da seguire per le borghesie europee
Dopo le ipocrite parole nel suo discorso alla nazione, il Presidente della Repubblica Francese, François Hollande, chiamando all'"unità nazionale", si è affrettato ad indossare l'elmetto, con il consenso leggittimatore degli altri governi imperialisti e delle forze politiche reazionarie ed opportuniste, dichiarando che la Francia, così come l'Europa è in "guerra" contro il terrorismo dell'ISIS, a cui è seguito il rafforzamento dell'azione militare francese in Siria e Mali (e in Africa in generale) e l'attivazione dell'articolo 42, comma 7 del Trattato di Maastricht da parte del consiglio dei ministri della Difesa dell'UE, che prevede la fornitura di assistenza militare nel quadro della NATO, proclamando negli stessi momenti anche lo "Stato d'Emergenza" prolungato almeno fino a febbraio con il consenso di tutte le forze politiche del parlamento francese, che prevede una serie di misure che sospendono i più basilari diritti democratici del popolo francese, le convenzioni sui diritti umani, così come modifiche agli articoli 16 e 36 della Costituzione, rispettivamente sui pieni poteri al Presidente e sul trasferimento dei poteri all'Esercito, per rendere possibile la loro attuazione in forma permanente. Verranno da subito creati 5.000 nuovi posti di polizia e doganieri, nuovi poteri "speciali" vengono concessi ai prefetti e alle forze di polizie che possono dichiarare il coprifuoco, proibire "associazioni o gruppi che incitano ad azioni di turbamento dell'ordine pubblico", vietare ogni forma di manifestazione pubblica, come già avvenuto vietando tutte le manifestazioni in programma (tra cui quella contro la Conferenza Mondiale sul clima – COP21 – del 29 novembre con l'esecuzione di 298 fermi da parte della polizia francese) e consente la possibilità di arresto e detenzione anche sulla base di sospetti o futili motivi, perquisizioni a domicilio in ogni momento e il controllo indiscriminato da parte dell'intelligence di ogni canale di comunicazione, come già avvenuto durante la rivolta anti-coloniale in Algeria nel 1955 e la rivolta delle banlieue del 2005.
Le forze politiche delle potenze imperialiste europee si sono affrettate a rispolverare e adeguare i loro repertori utilizzando espressioni come "siamo in guerra", "attacco alla nostra civiltà" o al cosiddetto "mondo libero", così come "l'Europa è sotto attacco", per promuovere un nuovo clima ideale agli obiettivi interventisti, in un'atmosfera di "panico, sgomento e paura", facendo leva sui sentimenti suscitati nella popolazione dalle immagini di Parigi, sapientemente alimentati ed incanalati dal circo mediatico. L'artificiale visione di una "guerra di civiltà o religione" permette alle classi dominanti di avvelenare la coscienza delle masse popolari per aggregarle intorno alle autorità imperialiste attraverso un rinnovato spirito "patriottico", "filo-europeo", dando in questo modo nuova linfa vitale alla legittimazione delle loro politiche antipopolari sul fronte interno e di guerra sul fronte esterno, sponsorizzate da salotti televisivi di "analisti con la baionetta alla mano" pronti a mistificare le reali cause di quanto sta oggi accadendo in Europa e in Medio Oriente che richiedono a gran voce l'intervento risolutivo in Siria e l'unità della "risposta europea" con la delega di incarichi di sicurezza e "prevenzione del terrorismo" a corpi internazionali come auspicato dal "costituzionalista" Sabino Cassese, che sul Corriere della Sera ha dichiarato :
"[…] risalta chiaramente che problemi globali, come quello del terrorismo internazionale, non possono essere risolti con soluzioni domestiche, nazionali. Bisogna, insomma, che vi siano polizie globali incaricate di mantenere un ordine che riguarda singole nazioni, ma che è minacciato da reti estese di terroristi "i.
Una forma di "polizia globale" esiste già in Europa, si tratta del corpo Eurogendfor (EGF, Forza di Gendarmeria Europea), una sorta di polizia militare formata dalle gendarmerie unite di Spagna, Portogallo, Francia, Italia, Polonia, Romania e Paesi Bassi, con sede operativa stabilita a Vicenza ed ospitata a spese dello Stato Italiano dopo la firma del Trattato di Velsen del 2007. La Eurogendfor, già impegnata in "missioni di sostegno" al servizio dell'alleanza imperialista NATO ii, è stata creata con il non meglio precisato scopo di "provvedere ad una più efficiente gestione delle crisi internazionali fuori dai confini dell'UE" e tutto fa pensare ad un suo maggiore impiego all'interno dei confini dell'UE, essendo fornito di ampi poteri (fuori da ogni controllo) nella conduzione di operazioni di sicurezza e ordine pubblico, supervisione, guida, monitoraggio, supporto o sostituzione delle forze di polizia nazionali, compiti di sorveglianza pubblica e controllo delle frontiere così come attività di intelligence investigativa. Questa risponde direttamente agli ordini di un comitato interministeriale (CIMIN) composto dai firmatari del Trattato che "esercita il controllo politico" e nomina il suo "comandante impartendogli direttive". Ideale per la militarizzazione dell'ordine pubblico funzionale a rendere permanente lo Stato d'Emergenza a livello europeo.
Inoltre, sulla base della "necessità della difesa comune" ciò che da diverse parti ritorna ad esser richiamata con forza è la costituzione di un Esercito Unico Europeo, un processo che l'UE aveva già riaperto dopo l'attentato di gennaio scorso sempre a Parigi e di cui si parla già dal 1950. La costituzione dell'Esercito Europeo è un progetto della Commissione Europea affidato all'Alto rappresentante per la politica estera e la sicurezza, Federica Mogherini, che entro giugno 2016 definirà la "nuova strategia europea per la politica estera e la sicurezza" superando l'attuale in vigore dal 2003. L'Esercito Europeo porterebbe all'integrazione delle forze armate dei diversi paesi che agirebbero all'unisono (sia all'interno che all'esterno dei confini UE) costituendo il secondo esercito più potente al mondo dopo quello degli USA iii. Si potrebbe così aprire la strada all'intervento di "forze armate comunitarie" e a nuove forme di "euro-repressione" che sono funzionali al processo di accumulazione ed espansione capitalista, che ha portato alla formazione del conglomerato inter-statale imperialistico dell'UE come lo conosciamo oggi e che necessita del superamento di alcune "prerogative nazionali" per quanto riguarda sia l'aspetto economico e politico che militare, inclusa la repressione del dissenso sociale. Un processo che al suo interno ha però enormi contraddizioni con interessi non sempre convergenti tra tutte le "borghesie nazionali".
L'Unione Europea cerca di attuare oggi ciò che gli Stati Uniti fecero dopo l'attacco alle Torri Gemelle. Le "democrazie occidentali" tentano di anestetizzare con il terrore mediatico il dissenso ai loro governi antipopolari e trovare una giustificazione alla politica estera imperialista ed aggressiva, ingannando i popoli e sfruttando a vantaggio dei profitti dei monopoli questi tanto tragici quanto torbidi avvenimenti come già accaduto dopo l'11 Settembre 2001. E' del tutto evidente, oggi più che mai, come la cosiddetta "lotta al terrorismo" sia "funzionale al processo di accumulazione di capitali nell'attuale fase di sviluppo imperialista del capitalismo internazionale" iv.
Sfruttando il clima post-attentato in Francia si modifica la costituzione sul modello del "Patriot Act" di Bush, entrato in vigore immediatamente dopo i fatti dell'11 Settembre e che ha rappresentato una delle pagine più nere nelle violazioni dei diritti civili, con migliaia di cittadini imprigionati arbitrariamente e la soppressione delle libertà basilari in nome della sicurezza. L'applicazione dello "Stato d'Emergenza" prolungato in Francia, così come il vero e proprio coprifuoco applicato per diversi giorni nel cuore dell'Europa, a Bruxelles, aprono definitivamente una strada senza ritorno nella gestione e militarizzazione dell'"ordine" del capitale, e quindi la criminalizzazione e repressione delle masse popolari in lotta, che colpirà particolarmente l'attività delle organizzazioni politiche e sindacali di classe, ossia di tutti coloro che non si subalternano allo Stato (borghese), la riproduzione del sistema e la difesa degli interessi e profitti della classe dominante. Ciò è già evidente anche in Italia, con l'attacco al diritto di sciopero, alle manifestazioni, e le nuove norme sulla sicurezza e sarà ancor di più stringente nel periodo del Giubileo. La soppressione liberticida di alcune prerogative delle "democrazie borghesi", la fomentazione artificiale del razzismo, xenofobia e islamofobia che alimenta i movimenti di natura fascista, come spesso accaduto già nella storia, non può destare alcuna sorpresa essendo che essa è solo una delle "forme della dittatura della borghesia".
"Guerra al terrorismo" o conflitto inter-imperialista per la spartizione del Medio Oriente?
Queste misure girano tutte intorno alla doppia logica: sempre più guerra, sempre meno diritti democratici. La crisi del capitalismo a livello globale, da un lato ha condotto ad un offensiva interna ai vari Stati delle borghesie contro i diritti sociali della classe lavoratrice e i settori popolari, dall'altro sta rimescolando i rapporti di forza a livello internazionale tra le potenze capitaliste da cui consegue un processo di nuova spartizione del mondo. La Siria è oggi un crocevia fondamentale per tutte le principali potenze capitaliste nella spartizione della tormentata regione del Medio Oriente, dove si trovano quasi la metà delle risorse petrolifere mondiali, il 41% delle riserve di gas. Tutte le grandi potenze imperialiste (USA, UE, Russia ecc.) vogliono controllare o avere posizioni di forza nella regione in modo che i rispettivi monopoli possano impossessarsi delle ricchezze energetiche, e in questo entrano in gioco anche forze e rispettivi alleati regionali (Turchia, Israele, Arabia Saudita, Iran, ecc.) che agiscono anch'essi su propri interessi particolari, nel contesto di una polveriera dove si innesca la fratricida lotta religiosa tra sunniti e sciiti. La guerra d'aggressione in Siria viene dopo il Libano, l'Iraq, l'Afghanistan, la Libia, la Somalia, il Sudan, il Mali, il Centrafrica ecc., decine di interventi imperialisti militari (così come le cosiddette "Primavere Arabe") che le potenze occidentali (non sempre in modo uniforme) hanno portato avanti in tutti questi anni per ridisegnare in base alle proprie esigenze il Medio Oriente e la regione più ampia del nord e centro dell'Africa.
E' in questo quadro che si forma il cosiddetto "Stato Islamico" (Daesh o ISIS), braccio armato dell'Arabia Saudita (ferreo alleato degli USA nella regione e protagonista anche nella guerra in Yemen), e supportato dagli USA, dall'UE, dalle altre petromonarchie reazionarie del Golfo come Qatar, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, e non ultima dalla Turchia, il cui regime guidato dal partito AKP del fascista islamico Recep Tayyp Erdogan ha una lunga e documentata tradizione nel supporto del terrorismo di matrice islamica nella regione, che utilizza per espandere l'influenza turca nella regione. L'élite turca ricava profitti astronomici dall'acquisto del petrolio a buon mercato estratto nei territori occupati dallo Stato Islamico e ha recentemente effettuato, con il supporto della NATO, una grave provocazione al confine turco-siriano abbattendo un caccia della Federazione Russa impegnato in azioni sul territorio siriano, adducendo come scusa un suo sconfinamentov, esacerbando le tensioni tra le potenze imperialiste e aumentando il sempre più serio rischio di un confronto armato diretto tra di esse, che in realtà stanno preparando e testando in modo reciproco.
L'ipocrisia dei mezzi di informazione, o di propaganda, tralascia sistematicamente il fatto che il cosiddetto "Islam Politico" di cui il Daesh non è altro che l'espressione armata è stato sfruttato (se non creato) e sostenuto economicamente dall'imperialismo euro-atlantico e dalle forze reazionarie del mondo arabo sin dagli anni '80, quando armarono i Talebani per sovvertire il governo Afghano, e in numerosi altri paesi contro i movimenti popolari realmente anti-imperialisti, laici, progressisti e comunisti della regione araba. L'ISIS non è dunque altro che un gruppo di mercenari e "giovani fanatici" (raccattati spesso dall'emarginazione delle periferie capitaliste), prodotto e conseguenza di anni di interventi militari e destabilizzazioni in Medio Oriente, animato dalle forze più retrive ed oscurantiste della regione nell'obiettivo di assicurare ai monopoli europei e statunitensi lo sfruttamento delle immense risorse e delle vie di trasporto nell'area. Il tutto rientra nel piano del Nuovo Medio Oriente (o Grande Medio Oriente), che consiste nel rovesciare governi e frammentare Stati che presentano ostacoli allo sviluppo dei piani dell'imperialismo euro-atlantico, e che si colloca nel quadro della feroce competizione imperialista per il predominio nella regione entrando in conflitto con gli interessi della Russia, la Cina e i suoi alleati regionali.
Quelli che chiamano oggi all'"unità nazionale", alla difesa dei "valori occidentali", della "democrazia e libertà" sono gli stessi responsabili dei mali che affliggono la gioventù d'estrazione popolare, i lavoratori e i settori popolari negli stati imperialisti così come dei tormenti dei popoli arabi, dei paesi del Medio e Estremo Oriente, Nord Africa ecc. sottoposti alla devastazione, fame, saccheggio, guerra e all'emigrazione forzata. E' fondamentale per il movimento di classe rigettare e rompere lo schema che ci vogliono imporre le classi dominanti attraverso l'inganno della propaganda delle forze politiche capitaliste e opportuniste, e dei mass media, per giustificare in nome di una presunta "sicurezza" o "interesse nazionale" tutta una serie di misure e interventi di natura militare funzionali a portare avanti i loro piani che nulla hanno in comune con gli interessi reali dei lavoratori e della gioventù e che mirano in realtà a conquistare condizioni migliori per i profitti dei "nostri" sfruttatori, dentro e fuori i propri confini, approfittando di un proletariato diviso e schiacciato, arricchendosi con la guerra, inculcando i pregiudizi nazionali o religiosi, rafforzando la reazione in tutti i paesi.
Oggi come ieri: l'opportunismo si trasforma in social-sciovinismo
A poco più di un secolo dalla Prima Guerra Mondiale, si ripropone il pericoloso ruolo politico dell'opportunismo, nell'ingannare le masse e la classe lavoratrice al servizio della borghesia. L'esempio più recente proviene proprio dalla Francia, dove il Front de Gauche (membro francese del Partito della Sinistra Europea, di cui fa parte per l'Italia, Rifondazione Comunista) si è accodato alla propria borghesia imperialista votando a favore dello "Stato d'Emergenza" insieme al Front National (FN) e gli altri partiti parlamentari. Nel suo intervento in Parlamento, la senatrice del PCF, Éliane Assassi, ha affermato che "le misure d'urgenza sono pienamente giustificate, gli obiettivi dello stato d'emergenza sono ben definite" mentre il segretario del Parti de Gauche, Mélenchon ha rafforzato il voto chiamando "all'unità della Francia e dei francesi, al di sopra delle classi e delle parti politiche" creando in questo modo il clima ideale per la tolleranza o identificazione dei settori popolari nei confronti dei piani imperialisti portando a termine un percorso opportunista avviato già da diversi decenni. Come ci ricorda Lenin "il contenuto ideologico e politico dell'opportunismo e del socialsciovinismo è identico: la collaborazione delle classi invece della lotta di classe, la rinuncia ai mezzi rivoluzionari di lotta, l'aiuto al "proprio" governo nelle situazioni difficili, invece di utilizzare le sue difficoltà nell'interesse della rivoluzione"vi. Allo stesso tempo, l'opportunismo al governo in Grecia, SYRIZA, si allinea alle manovre del blocco imperialistico dell'UE e della NATOvii e incrementa la repressione interna contro il movimento operaio e popolare, quando per decenni si è fatta portavoce nel paese di un generico e astratto "pacifismo" mentre oggi al governo lavora al servizio del miglioramento delle condizioni della "propria" borghesia nel sistema imperialista.
Nella fase imperialistica del capitalismo internazionale, la guerra, così come la reazione, sono elementi "connaturali" del sistema (e lo saranno fino alla sua eliminazione), per questo è determinante smascherare e rifiutare le visioni e costruzioni di tipo "morale" nei confronti sia degli attentati terroristici che degli attuali conflitti militari su scala locale o regionale che coinvolgono sempre di più le principali potenze imperialiste viii, identificandone la sua natura imperialistica e come essi si producano interamente nel campo del capitalismo e delle sue contraddizioni per la ridefinizione delle zone d'influenza, accaparramento delle risorse energetiche e delle rotte di trasporto, dei mercati, posizioni geopolitiche ecc., in cui in base alla propria forza politica, economica e militare, tutte le borghesie coinvolte cercano di ottenere o difendere le loro quote. In questo anche il governo e la borghesia imperialista italiana giocano ovviamente le proprie carte (rivolgendo particolare attenzione alla Libia) in funzione dei propri monopoli, in particolare ENI e Finmeccanica che ha incrementato la sua quotazione in borsa dell'8.2% dopo gli attentati di Parigi, così come i principali produttori di armi a livello globale ix; dimostrazione palese che a guadagnare dalla guerra e dal terrorismo sono le multinazionali e le borghesie ad ogni latitudine, mentre regolano i loro conti, sulla pelle dei popoli. Le varie potenze per nascondere e legittimare i propri obiettivi utilizzano infatti formule e pretesti quali "missioni di pace", la "lotta per la democrazia", la "lotta contro il terrorismo", le "questioni umanitarie" ecc., così come affinano le "mutevoli" alleanze sul campo per condurre i propri piani, guadagnare o difendere posizioni, indebolire l'avversario, sia a livello politico-diplomatico che militare, in cui non c'è spazio alcuno per le aspirazioni dei popoli. Esempio lampante di ciò è la chiamata che giunge da più parti per una "coalizione anti-ISIS" allargata, e le proposte della Francia di collaborazione con la Russia e persino con il governo Assad di cui non ha mai nascosto l'intento di rovesciarlo, così come si rafforza il legame tra la Russia e Israele x. Non bisogna riporre alcuna illusione. Tutte queste manovre si muovono in base alle contraddizioni interne al sistema imperialista, che possono produrre solo o una immediata "guerra imperialista" generalizzata o una "pace imperialista" attraverso un compromesso temporaneo xi che prepara la "guerra imperialista" generalizzata.
Di fronte allo scenario della questione della lotta contro l'ISIS e l'attuale conflitto in Siria, bisogna dunque aver chiaro quali sono gli interessi che muovono tutti gli attori in campo, smascherare le responsabilità e i piani del "nostro" imperialismo e rifiutare di conseguenza la "chiamata" sotto qualunque forma alla difesa dei suoi interessi. Allo stesso tempo, è un ulteriore espressione d'"opportunismo" rivendicare una "lotta per la pace" regolata da forze borghesi e svincolata dalla lotta rivoluzionaria xii nei paesi imperialisti contro ogni borghesia, i suoi governi e il capitalismo, legata alla lotta dei popoli oppressi per la loro emancipazione dall'aggressione imperialista e il fondamentalismo religioso xiii. Solo questa impostazione può portare ad una lotta conseguente contro l'imperialismo e le sue guerre. E ciò è possibile solo rompendo ogni legame con i settori politici opportunisti che nei contesti di guerra si convertono in social-sciovinisti.
"Il socialsciovinismo consiste nel sostenere l'idea della «difesa della patria» nella guerra attuale. Da questa idea deriva, inoltre, la rinuncia alla lotta di classe in tempo di guerra, l'approvazione dei crediti di guerra, ecc. In realtà, i socialsciovinisti conducono una politica borghese antiproletaria, perché in realtà essi sostengono non la «difesa della patria» nel senso di una lotta contro l'oppressione straniera, ma il "diritto" di determinate "grandi" potenze a depredare colonie e opprimere popoli stranieri. I socialsciovinisti rinnovano ai danni del popolo l'inganno borghese, come se la guerra si facesse per la difesa della libertà e per l'esistenza delle nazioni, e passano così dalla parte della borghesia contro il proletariato. Sono da annoverare tra i socialsciovinisti sia coloro che giustificano e mettono in buona luce i governi e la borghesia di uno dei gruppi di potenze belligeranti, sia coloro che, come Kautsky, riconoscono ai socialisti di tutte le potenze belligeranti lo stesso diritto di «difendere la patria»".xiv
 E' notizia di questi giorni che anche la Germania invierà tornado di ricognizione e una nave della marina in Siria e incrementando la presenza militare in Mali passando da 200 a 650 soldati, così come il parlamento inglese ha votato a favore dell'estensione dell'intervento dell'aeronautica britannica dall'Iraq alla Siria.
In questo quadro di alleanze mutevoli va segnalato infatti come la Russia stringa sempre di più il suo legame con l'alleato storico degli USA nella regione, Israele. Nel "comune interesse della stabilità del Medio Oriente" Israele e Russia hanno concordato un piano per stabilizzare la regione, dove in cambio del proprio sostegno all'azione russa, Israele ha ricevuto garanzie dalla Russia sull'asse Assad – Iran – Hezbollah libanese nemici di Israele e in questa fase alleati della Russia che ha promesso ad Israele di tenere sotto controllo; anche la "questione curda" entra in gioco e sia la Russia che gli USA cercano di usare a proprio vantaggio; gli USA stanno cercando di integrare le forze locali curde dell'YPG in Siria (braccio del PKK – ancora tenuto dagli USA nella lista delle organizzazioni terroriste – e nemico di Erdogan alleato degli USA e NATO) nell'alleanza con la "coalizione internazionale" a guida USA (a cui partecipa anche l'Italia) che sta addestrando e armando anche i Peschmerga curdi in Iraq. A Kobane in questo senso è giunto un contigente di Marines USA per l'addestramento delle milizie dell'YPG. La Russia invece offre all'YPG migliori condizioni militari in chiave anti-turca e potrebbe offrire anche la mediazione con Assad per il riconoscimento dell'autonomia curda.
xi Le potenze coinvolte nel conflitto in Siria potrebbero giungere ad un compromesso politico e diplomatico sulla base dei nuovi rapporti di forza definiti dagli interventi militari in corso, dopo che l'intervento russo ha in questo senso cambiato profondamente i rapporti di forza in campo. Un compromesso che può portare a diversi scenari, quali lo smembramento territoriale della Siria, una diversa spartizione dell'influenza sul paese, un accordo sulla sostituzione di Assad.
xii "Il pacifismo e la propaganda astratta della pace sono una delle forme di mistificazione della classe operaia. In regime capitalistico, e specialmente nella fase imperialista, le guerre sono inevitabili. […] Oggi la propaganda della pace, se non è accompagnata dall'appello all'azione rivoluzionaria delle masse, può soltanto seminare illusioni, corrompere il proletariato inculcandogli la fiducia nell'umanitarismo della borghesia e facendo di esso un trastullo nelle mani della diplomazia segreta delle nazioni belligeranti