Stefano Cucchi fu “sottoposto ad un violentissimo pestaggio da parte
dei Carabinieri appartenenti al Comando Stazionale di Roma Appia”,
nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009, dopo esser stato arrestato
in via Lemonia, a Roma. Quel pestaggio sarebbe stato coperto per sei
anni tramite ostacoli, omissioni, addirittura cancellature di
bianchetto. Una sapiente “strategia” che cinque Carabinieri (al momento)
avrebbero “scientificamente orchestrato”, e che avrebbe potuto fare
affidamento su un’omertà diffusa, anche fuori dal corpo militare.
Accanto ai fatti, inoltre, la verità sul caso Cucchi sarebbe stata
penalizzata anche da perizie medico legali a dir poco carenti, come del
resto avevamo descritto nel nostro libro “Mi cercarono l’anima” (ottobre
2013) oltreché lo scorso settembre.
È quanto emerge con chiarezza dalle 55 pagine che compongono la richiesta di incidente probatorio utile a riaprire il caso fatta al GIP di Roma e firmata l’11 dicembre dal procuratore Giuseppe Pignatone e il sostituto Giovanni Musarò.
A pestare Cucchi -morto in solitudine il 22 ottobre 2009, senza aver mai avuto la possibilità di parlare con un avvocato o un familiare durante i sette giorni trascorsi nelle mani dello Stato, costretto com’era nelle celle sanitarie del presidio ospedaliero “protetto” del Sandro Pertini- sarebbero stati i carabinieri Francesco Tedesco, Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo, rimasti impuniti anche grazie alla falsa testimonianza fornita durante il processo celebrato in Corte d’Assise da Vincenzo Nicolardi e Roberto Mandolini, quest’ultimo comandante interinale della stazione di Roma Appia all’epoca dei fatti. Tutti e cinque, interrogati il 10 e 11 novembre 2015, si sono avvalsi della facoltà di non rispondere: cifra costante nella vicenda Cucchi.
L’aggressione sarebbe nata dalla “resistenza” di Stefano Cucchi al fotosegnalamento presso la stazione Casilina, nella notte tra il 15 e il 16 ottobre, dopo l’arresto e la perquisizione domiciliare nella casa di Rita e Giovanni Cucchi, i suoi genitori. Da quel momento, cioè dal pestaggio “violentissimo”, quei Carabinieri decisero di alterare i verbali d’arresto -non inserendo i nomi di due militari (D’Alessandro e Di Bernardo)- e cancellare “ogni traccia” del passaggio di Cucchi dalla Compagnia Casilina -“al punto che fu contraffatto con il bianchetto il registro delle persone sottoposte a fotosegnalamento”-. Depistarono, insomma.
La Procura di Roma ha riacceso la luce dopo la sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Roma dell’ottobre 2014, che aveva mandato assolti tutti gli allora 12 imputati del “Cucchi I”: tre agenti della polizia penitenziaria accusati di aver pestato Cucchi nelle celle di sicurezza del tribunale di Piazzale Clodio, sei medici e tre infermieri del Pertini.
Oggi, grazie alle dichiarazioni rese da un detenuto che incrociò Cucchi nel centro clinico di Regina Coeli il 16 ottobre, due carabinieri che operarono alla stazione di Roma Appia e per merito di intercettazioni telefoniche e ambientali, viene a galla un quadro ancor più desolante di quello già visto, descritto, raccontato in questi anni. Angosciante tanto quanto il contesto narrato ne “Il sovversivo” da Corrado Stajano, la storia dell’omicidio dell’anarchico Franco Serantini avvenuto a Pisa nel maggio 1972.
Si tratta nel caso della morte di Cucchi di una generalizzata inclinazione a sopportare e a nascondere fatti di questa natura, questi pestaggi seriali, quasi con distrazione. Quanto aveva ragione Ilaria Cucchi, che nel suo contributo in “Mi cercarono l’anima” aveva sottolineato il peso dell’indifferenza in tutta questa storia, che “finisce con l’essere una forma sottile, vigliacca e diffusa di tortura e di complicità”.
Perché nelle 55 pagine firmate da Pignatone non c’è soltanto la ricostruzione dei tentativi di costruirsi nuovi alibi da parte dei tre autori del presunto “violentissimo pestaggio” -attraverso l’utilizzo di “telefoni citofono” con schede intestate “a gente amica” o l’impiego dell’applicazione Telegram per far cancellare i messaggi al momento della lettura-, o i progetti manifestati nel caso in cui fossero stati espulsi dall’Arma (“vado a fare le rapine agli orafi, quelli là che portano a vedere i gioielli dentro le gioiellerie”, dice D’Alessandro), ma anche e soprattutto un’analisi indiretta di dinamiche familiari tristi.
Secondo l’ex moglie di D’Alessandro, il militare -che nel 2009 aveva 24 anni- si sarebbe “vantato” a più riprese negli anni del pestaggio a danno di Cucchi, si “dava le arie”, si “faceva grande”: aveva picchiato un “drogato di merda” e ne dava conto “con divertimento”, “in modo molto spavaldo”. Ma ha atteso sei anni prima di raccontarlo agli inquirenti, solo dopo esser stata convocata. Come lei, sua madre, ex suocera di D’Alessandro. Sapeva e sa, e infatti il 5 novembre di quest’anno racconta la “verità” (“gli hanno dato pure un sacco di mazzate”, dirà ai pm). Sono testimonianze chiave, che riapriranno l’accertamento della verità. Ma quanto tempo è stato necessario? Se la famiglia Cucchi avesse desistito, se l’avvocato Fabio Anselmo si fosse arreso, se la Procura di Roma si fosse voltata dall’altra parte, tutto ciò sarebbe rimasto custodito dentro discorsi irraggiungibili.
Ma quale verità e giustizia verranno riconosciute agli altri "dannati", agli "arrestati della notte", cioè quegli “extracomunitari” vittime di “altri pestaggi” dopo le traduzioni in caserma, alla Stazione Appia -come rivela ai pm l’ex moglie del carabiniere accusato del violento pestaggio di Cucchi-? Anche di quella brutalità quotidiana, infatti, l’ex compagno se ne faceva vanto, trasformando calci, schiaffi e pugni in racconti divertiti.
Per ricostruire definitivamente i fatti è necessario che il giudice per le indagini preliminari nomini un nuovo perito per “stabilire la natura e l’effettiva portata delle lesioni patite da Stefano Cucchi”. Bisogna verificare infatti “il nesso di causalità tra le lesioni e l’evento morte”, alla luce di un “elemento di dirompente novità” rappresentato dalla nuova analisi del professor Carlo Masciocchi, quel referto che riapre il caso.
Le perizie ad oggi prodotte, infatti, sono state carenti. Il collegio milanese nominato dalla Corte d’Assise di Roma avrebbe eseguito l'accertamento sulla schiena gravemente ferita di Stefano Cucchi, senza “estenderlo” laddove “c’era la frattura”, cioè la porzione “più alta” della terza vertebra lombare. Un “dettaglio” che per Masciocchi avrebbe “falsato” l’accertamento. Raggiunta telefonicamente, Cristina Cattaneo, ordinario di Medicina legale all'Università Statale di Milano e membro del pool di periti della Corte d'Assise, preferisce non rilasciare dichiarazioni. “Lei l’ha letta la perizia? -si è limitata ad affermare ad Altreconomia-. È abbastanza chiaro quello che sosteniamo noi. Non commento questa cosa (la riapertura del caso e la messa in discussione dell'operato peritale, ndr) perché ci sono altre cose che forse… guardi vada a rileggersi bene tutto. Comunque non posso e non voglio commentare fuori collegio, non lo faccio mai".
È quanto emerge con chiarezza dalle 55 pagine che compongono la richiesta di incidente probatorio utile a riaprire il caso fatta al GIP di Roma e firmata l’11 dicembre dal procuratore Giuseppe Pignatone e il sostituto Giovanni Musarò.
A pestare Cucchi -morto in solitudine il 22 ottobre 2009, senza aver mai avuto la possibilità di parlare con un avvocato o un familiare durante i sette giorni trascorsi nelle mani dello Stato, costretto com’era nelle celle sanitarie del presidio ospedaliero “protetto” del Sandro Pertini- sarebbero stati i carabinieri Francesco Tedesco, Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo, rimasti impuniti anche grazie alla falsa testimonianza fornita durante il processo celebrato in Corte d’Assise da Vincenzo Nicolardi e Roberto Mandolini, quest’ultimo comandante interinale della stazione di Roma Appia all’epoca dei fatti. Tutti e cinque, interrogati il 10 e 11 novembre 2015, si sono avvalsi della facoltà di non rispondere: cifra costante nella vicenda Cucchi.
L’aggressione sarebbe nata dalla “resistenza” di Stefano Cucchi al fotosegnalamento presso la stazione Casilina, nella notte tra il 15 e il 16 ottobre, dopo l’arresto e la perquisizione domiciliare nella casa di Rita e Giovanni Cucchi, i suoi genitori. Da quel momento, cioè dal pestaggio “violentissimo”, quei Carabinieri decisero di alterare i verbali d’arresto -non inserendo i nomi di due militari (D’Alessandro e Di Bernardo)- e cancellare “ogni traccia” del passaggio di Cucchi dalla Compagnia Casilina -“al punto che fu contraffatto con il bianchetto il registro delle persone sottoposte a fotosegnalamento”-. Depistarono, insomma.
La Procura di Roma ha riacceso la luce dopo la sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Roma dell’ottobre 2014, che aveva mandato assolti tutti gli allora 12 imputati del “Cucchi I”: tre agenti della polizia penitenziaria accusati di aver pestato Cucchi nelle celle di sicurezza del tribunale di Piazzale Clodio, sei medici e tre infermieri del Pertini.
Oggi, grazie alle dichiarazioni rese da un detenuto che incrociò Cucchi nel centro clinico di Regina Coeli il 16 ottobre, due carabinieri che operarono alla stazione di Roma Appia e per merito di intercettazioni telefoniche e ambientali, viene a galla un quadro ancor più desolante di quello già visto, descritto, raccontato in questi anni. Angosciante tanto quanto il contesto narrato ne “Il sovversivo” da Corrado Stajano, la storia dell’omicidio dell’anarchico Franco Serantini avvenuto a Pisa nel maggio 1972.
Si tratta nel caso della morte di Cucchi di una generalizzata inclinazione a sopportare e a nascondere fatti di questa natura, questi pestaggi seriali, quasi con distrazione. Quanto aveva ragione Ilaria Cucchi, che nel suo contributo in “Mi cercarono l’anima” aveva sottolineato il peso dell’indifferenza in tutta questa storia, che “finisce con l’essere una forma sottile, vigliacca e diffusa di tortura e di complicità”.
Perché nelle 55 pagine firmate da Pignatone non c’è soltanto la ricostruzione dei tentativi di costruirsi nuovi alibi da parte dei tre autori del presunto “violentissimo pestaggio” -attraverso l’utilizzo di “telefoni citofono” con schede intestate “a gente amica” o l’impiego dell’applicazione Telegram per far cancellare i messaggi al momento della lettura-, o i progetti manifestati nel caso in cui fossero stati espulsi dall’Arma (“vado a fare le rapine agli orafi, quelli là che portano a vedere i gioielli dentro le gioiellerie”, dice D’Alessandro), ma anche e soprattutto un’analisi indiretta di dinamiche familiari tristi.
Secondo l’ex moglie di D’Alessandro, il militare -che nel 2009 aveva 24 anni- si sarebbe “vantato” a più riprese negli anni del pestaggio a danno di Cucchi, si “dava le arie”, si “faceva grande”: aveva picchiato un “drogato di merda” e ne dava conto “con divertimento”, “in modo molto spavaldo”. Ma ha atteso sei anni prima di raccontarlo agli inquirenti, solo dopo esser stata convocata. Come lei, sua madre, ex suocera di D’Alessandro. Sapeva e sa, e infatti il 5 novembre di quest’anno racconta la “verità” (“gli hanno dato pure un sacco di mazzate”, dirà ai pm). Sono testimonianze chiave, che riapriranno l’accertamento della verità. Ma quanto tempo è stato necessario? Se la famiglia Cucchi avesse desistito, se l’avvocato Fabio Anselmo si fosse arreso, se la Procura di Roma si fosse voltata dall’altra parte, tutto ciò sarebbe rimasto custodito dentro discorsi irraggiungibili.
Ma quale verità e giustizia verranno riconosciute agli altri "dannati", agli "arrestati della notte", cioè quegli “extracomunitari” vittime di “altri pestaggi” dopo le traduzioni in caserma, alla Stazione Appia -come rivela ai pm l’ex moglie del carabiniere accusato del violento pestaggio di Cucchi-? Anche di quella brutalità quotidiana, infatti, l’ex compagno se ne faceva vanto, trasformando calci, schiaffi e pugni in racconti divertiti.
Per ricostruire definitivamente i fatti è necessario che il giudice per le indagini preliminari nomini un nuovo perito per “stabilire la natura e l’effettiva portata delle lesioni patite da Stefano Cucchi”. Bisogna verificare infatti “il nesso di causalità tra le lesioni e l’evento morte”, alla luce di un “elemento di dirompente novità” rappresentato dalla nuova analisi del professor Carlo Masciocchi, quel referto che riapre il caso.
Le perizie ad oggi prodotte, infatti, sono state carenti. Il collegio milanese nominato dalla Corte d’Assise di Roma avrebbe eseguito l'accertamento sulla schiena gravemente ferita di Stefano Cucchi, senza “estenderlo” laddove “c’era la frattura”, cioè la porzione “più alta” della terza vertebra lombare. Un “dettaglio” che per Masciocchi avrebbe “falsato” l’accertamento. Raggiunta telefonicamente, Cristina Cattaneo, ordinario di Medicina legale all'Università Statale di Milano e membro del pool di periti della Corte d'Assise, preferisce non rilasciare dichiarazioni. “Lei l’ha letta la perizia? -si è limitata ad affermare ad Altreconomia-. È abbastanza chiaro quello che sosteniamo noi. Non commento questa cosa (la riapertura del caso e la messa in discussione dell'operato peritale, ndr) perché ci sono altre cose che forse… guardi vada a rileggersi bene tutto. Comunque non posso e non voglio commentare fuori collegio, non lo faccio mai".
Nessun commento:
Posta un commento