martedì 17 marzo 2020

Si può scioperare se non c’è sicurezza sul lavoro.

L’Unione Sindacale di Base ha più volte dato indicazione alle proprie strutture operanti nei servizi pubblici essenziali di proclamare scioperi, senza preavviso né guarentigie, laddove sia messa in pericolo la salute e/o l’incolumità dei lavoratori per mancata adozione di tutti i dispositivi di protezione necessari, utilizzando l’articolo 2 comma 7 della Legge 146/90 e successive modificazione nota come “Legge antisciopero”.
Oggi la Commissione di garanzia sul diritto di sciopero ha emanato una circolare (in calce) che invita tutte le amministrazioni e le aziende eroganti servizi pubblici essenziali ad osservare scrupolosamente le direttive in materia di sicurezza sul lavoro per ovviare a proclamazioni di sciopero fatte a norma proprio dell’art. 2 comma 7 come da noi indicato.
La Commissione sta ammettendo implicitamente la legittimità di questi scioperi e contemporaneamente ammette che molte amministrazioni e aziende che erogano servizi essenziali non stanno rispettando le norme.
Ora è necessario intensificare la vigilanza e le iniziative di lotta e di scioperi per affermare il diritto alla salute, prima di ogni altra cosa, per chi opera per la tutela di tutti e/o fornisce servizi essenziali.
Qu idi seguito la sintesi della nota diffusa dalla Commissione di Garanzia sul diritto di sciopero
“Da notizie di stampa si registrano nel Paese azioni di sciopero attuate a seguito dell’asserita mancata applicazione, da parte delle aziende, delle misure di sicurezza contenute nei recenti provvedimenti del governo, relative all’emergenza epidemiologica legata alla diffusione del coronavirus. Alcune di tali astensioni sono state proclamate richiamando la disposizione contenuta nell’articolo 2, comma 7, della legge n. 146 del 1990 e successive modificazioni – scrive la Commissione di garanzia dell’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali, in una comunicazione inviata a tutte le associazioni datoriali e alle aziende erogatrici di servizi pubblici essenziali – A tal proposito, la Commissione rivolge un fermo invito alle aziende e alle amministrazioni erogatrici di servizi pubblici ad osservare scrupolosamente quanto previsto dai richiamati provvedimenti governativi, dal momento che eventuali blocchi totali dei servizi (ad esempio trasporto pubblico), non in linea con detti provvedimenti, possono comportare l’aggravamento dell’attuale situazione emergenziale, oltreché essere oggetto di valutazione di questa Autorità”.

lunedì 16 marzo 2020

Spagna. Il governo “requisisce” la sanità privata per fronteggiare l’emergenza Coronavirus

Il governo spagnolo ha deciso di mettere la sanità privata al servizio del Sistema Nacional de Salud, mai successo finora. Lo ha annunciato il ministro della salute spagnolo, Salvador Illa, in una conferenza stampa insieme agli altri ministri del consiglio che gestisce l’emergenza Coronavirus. Da oggi sono scattate le misure “all’italiana” per il contenimento dei contagi, ormai arrivati a 8.794 casi accertati e 297 decessi.
Dopo l’impennata dei casi registrata a partire da martedì 8 marzo, il Primo Ministro Sanchez aveva annunciato lo scorso sabato l’adozione dello Stato di emergenza per (almeno) i 15 giorni successivi. Questo prevede che il governo abbia il potere di limitare il movimento di persone, requisire ogni tipo di merce, occupare temporaneamente le fabbriche o qualsiasi altro spazio (a eccezione delle abitazioni private), regolare la produzione di beni e l’attività nei servizi, razionare il consumo di determinati prodotti, o invece ordinare la fornitura dei negozi.
La misura annunciata oggi segna una svolta politica importante e un segnale forte a tutti i paesi dell’UE. Infatti, in queste ore, verrà discussa nella riunione dell’Eurogruppo l’approvazione del MES, scalata nell’ordine del giorno al terzo punto dall’originario primo.
Una mossa che non dimostra l’imbonimento delle istituzioni europee ma la paura oggettiva di una nuova e profonda crisi economica in concomitanza con una grave recessione a livello mondiale. Tenere in pieni un palazzo dalle fondamenta di sabbia che sta vacillando fortemente non è facile, specialmente quando le dichiarazioni della BCE si limitano a mettere una toppa su una voragine aperta sotto la credibilità dell’unica istituzione europea che aveva, in passato, dimostrato qualche capacità operativa.
Il governo, basato sulla coalizione di maggioranza guidata da Pedro Sánchez e formata da PSOE-Podemos-Izquierda Unida, ha deciso di attuare misure senza precedenti nel campo della salute.
La prima, di enorme importanza, prevede di mettere a disposizione del sistema sanitario nazionale la sanità privata: il governo ha concesso un termine di 48 ore alle aziende e ai privati che hanno o possono produrre materiali come attrezzature diagnostiche, maschere protettive, guanti e altri prodotti medici e farmacologici “per portarli all’attenzione” delle autorità, sotto la minaccia di sanzioni per coloro che non lo fanno. Saranno i consulenti sanitari di tutte le Comunità Autonome a poter disporre di tutti i mezzi necessari del sistema privato per affrontare l’epidemia.
Nel decreto approvato nella sera di domenica vengono prese misure per rafforzare le risorse umane dei centri sanitari, fortemente decimate dalle infezioni e dalle quarantene causate dal virus. Il provvedimento stabilisce che tutti gli studenti del quarto anno tirocinanti e specializzati in medicina interna, medicina intensiva e geriatria, vedranno un prolungamento del loto contratto.

Allo stesso modo, i turnover vengono sospesi e viene autorizzata l’assunzione di medici che non sono riusciti a completare la loro specialità dopo aver superato il test dell’abilitazione in quanto medico. Non saranno le uniche risorse che le comunità, sotto il comando del Ministero della Salute, potranno utilizzare d’ora in poi. “Potranno essere messi a disposizione anche tutti gli spazi pubblici e privati” ritenuti necessari per trasformarli temporaneamente in nuovi luoghi di cura per i malati.
Inoltre, vengono stabilite regole chiare sulla “pubblicazione di informazioni e dati” riguardanti l’evoluzione dell’epidemia. Finora questi venivano forniti quotidianamente dal Ministero della Salute, ma le comunità li aggiornavano quando lo ritenevano opportuno, il che in diversi momenti ha creato non poca confusione sulle cifre. Con il decreto di ieri, questi dati saranno pubblicati solo una volta, a metà mattina, e su base giornaliera dal Ministerio de Sanidad.
La formazione politica Anticapitalistas aveva già pubblicato la settimana scorsa un comunicato richiedendo un “Piano di emergenza sociale e politico contro il Covid-19”. Nero su bianco venivano definite una serie di misure politiche e sociali necessarie per contrastare l’epidemia e denunciare le responsabilità dei tagli alla sanità pubblica di questi anni sotto i diktat dell’austerità della Troika (Commissione Europea, BCE e FMI). Per Anticapitalistas il sistema sanitario pubblico deve essere in grado di prendere tutte le misure necessarie e ciò implica una sufficiente disponibilità di bilancio, rifiutando immediatamente le restrizioni di spesa imposte dai vincoli dell’UE.
Nel comunicato venivano rivendicate la riapertura dei letti d’ospedale nel sistema sanitario pubblico, il reclutamento urgente del personale sanitario necessario di tutte le categorie professionali, la copertura del loro congedo per malattia fin dal primo giorno (in caso di contagio, il loro congedo deve essere considerato come una malattia professionale e non comune).
Ma non basta. Perché, come si legge sempre nel comunicato di Anticapitalistas, queste misure devono essere accompagnate da un controllo e coordinamento da parte delle autorità sanitarie pubbliche di tutte le risorse, del personale e delle attività di assistenza sanitaria privata e dal controllo delle aziende farmaceutiche e delle aziende che producono materiale sanitario e scorte, nonché della loro distribuzione e dei prezzi.
Si tratta di primi passi per invertire i processi di deterioramento e privatizzazione del sistema sanitario che hanno massacrato socialmente la Spagna in questi anni, portando gli ospedali pubblici ad operare in condizioni di difficoltà strutturale e quindi a non essere pronti di fronte ad una situazione di questo tipo.

venerdì 13 marzo 2020

Coronavirus e Crisi di Sistema

La situazione che si è determinata con la “globalizzazione” dell’epidemia di coronavirus non è un incidente di percorso o l’effetto di un complotto, ma è il prodotto diretto di una crisi sistemica che in questi anni ha manifestato diversi volti ed oggi si presenta drammaticamente nella veste di una pandemia.
L’epidemia raccontata dai mass media mainstream, come al solito, viene sistematicamente distorta e si continua ad evidenziare gli elementi secondari, quali la correttezza di questa o quella decisione del governo, se la tempistica avuta è stata giusta, sull’estensione o meno delle zone rosse o arancioni e tante altre cose su cui tutti, tutti, i cosiddetti “politici” mostrano la loro inconsistenza, nel tentativo di sviare l’attenzione dalle vere cause che hanno prodotto nel tempo questi drammatici risultati nella veste di una pandemia.
Se vogliamo capire cosa sta accadendo, non ci dobbiamo far deviare dalle quotidiane sceneggiate comunicative, ma dobbiamo andare ad analizzare i motivi strutturali di una condizione che ha una dimensione internazionale, e di cui il nostro paese ne è solo una accezione. Non solo, ma siamo chiamati a capire se la situazione in cui siamo arrivati è un punto di non ritorno per un sistema sociale che dopo un trentennio di “egemonia” è condannato a regredire amplificando tutte quelle contraddizioni che ha generato a cavallo del millennio.
Sta emergendo infatti che la mondializzazione – pensiamo sia utile riutilizzare i termini marxiani che ci aiutano meglio a capire – non può essere governata con una logica capitalista che ora si ripropone con i caratteri dell’Imperialismo e della competizione.
Il movimento comunista è sempre stato internazionalista, senza mai confondere l’internazionalismo con la tendenza storica del capitale alla unificazione del mercato mondiale, come qualcuno negli ultimi decenni può aver pensato. Da questa dimensione del problema la contraddizione che si sta manifestando è quella, classicamente marxista, tra sviluppo delle forze produttive e rapporti sociali di produzione; insomma mentre ci dicono che arriviamo su Marte e ci spiegano le magnifiche sorti del nostro assetto economico, la realtà sociale, lavorativa, ambientale – nella dimensione mondiale – degrada sempre più ed entra in contraddizione con lo stesso sviluppo imposto, generando nel suo sviluppo irrazionale sempre nuovi “intoppi”.
In quale altro modo, ad esempio, interpretare la pretesa dei nostri “imprenditori” di mandare comunque i lavoratori in produzione, a rischio della loro vita, senza entrare in formale contraddizione con i pronunciamenti dello stesso governo e generare un senso di paura, rabbia e ribellione che può rimettere in discussione la passività conflittuale del mondo del lavoro da loro perseguita con tanta pervicacia?
Un’altra considerazione può essere utile a interpretare gli eventi presenti.
Negli anni abbiamo sempre pensato, forse schematicamente, che la crisi del capitalismo si manifestasse o attraverso conflitti militari, oppure attraverso crisi finanziarie, vista l’attuale assoluta autonomia delle dinamiche monetarie. In verità, la crisi attuale sul coronavirus ci sta dicendo che la realtà è sempre più complessa dei nostri ragionamenti e la crisi di egemonia, da noi da tempo individuata, si sta facendo strada laddove l’avversario di classe pensava di aver vinto definitivamente la guerra e non solo le battaglie.
L’egemonia sta implodendo proprio sulla distruzione generalizzata dello Stato Sociale, concepita nei decenni scorsi anche come vendetta storica da parte delle borghesie mondiali sul conflitto di classe del XX° secolo. In altre parole, non può esistere alcuna mondializzazione capitalistica che non produca danni e drammi, e non ci può essere nessuna emancipazione per l’umanità nel suo complesso in questo modello sociale. Insomma la Storia non è affatto finita.
Ribadire e prendere le mosse da alcuni riferimenti teorici è necessario per avere un bandolo della matassa attorno al quale ricostruire scenari e dinamiche che si stanno mettendo in moto e che verranno accentuate dalla fine della crisi sanitaria internazionale.
Si tratta allora di mettere i “piedi a terra” nella realtà concreta e cominciare a trarre alcune conclusioni; innanzitutto non possiamo non evidenziare che il paese da cui è partita l’infezione è riuscito a metterla sotto controllo in tempi rapidi mobilitando un apparato immenso che solo uno Stato degno di tale nome può essere in grado di fare.
Non abbiamo la necessaria autorevolezza per dare o meno patenti di socialismo, però possiamo dire che la dimensione pubblica è la sola che è in grado di affrontare emergenze sociali di questa dimensione. Così come non possiamo non ricordare che Cuba, ancora una volta, ha dimostrato di essere all’avanguardia non solo della medicina, ma di una chiara concezione sociale dello Stato.
Sono queste valutazioni sommarie, ma non c’è dubbio che tali risultati non sono solo il prodotto di una “efficienza” statuale, ma anche di una dimensione culturale di popoli dove il collettivo è più forte del nostro devastante individualismo capitalistico.
I motivi strutturali della nostra crisi sanitaria, in Europa e nel resto dell’occidente, sono ormai evidenti anche se la comunicazione televisiva si ostina a rimuoverli sistematicamente, in quanto sa che sarebbero un feroce atto di accusa contro le politiche adottate da tutti i governi.
Il Servizio Nazionale Sanitario in Italia è stato alleggerito con tagli su tagli per 37 miliardi in soli 10 anni, controriformato per poter essere meglio privatizzato, riorganizzato in funzione delle cosiddette eccellenze, ed ora ha perso la capacità di essere strumento di difesa della salute pubblica.
Questo è il prodotto delle politiche di austerità della UE, che non hanno solo devastato il SSN ma tutta la struttura produttiva del nostro paese. Il crollo del ponte di Genova, e non solo, non è nient’altro che l’effetto della mancata manutenzione della rete autostradale affidata a privati “illuminati” quali i Benetton.
Come i frequenti incidenti ferroviari sono il prodotto di una strategia che taglia i costi, inclusi quelli delle manutenzioni, come ha mostrato ancora una volta il deragliamento dell’AV nel Lodigiano (o di un Tgv in Francia), e aumenta le tariffe non per finalità sociali, ma per finanziare gli investimenti all’estero della Multinazionale FS, cosa questa da noi poco nota.
L’elenco degli effetti devastanti delle politiche di privatizzazione, targate UE e sostenute con convinzione dal partito trasversale del Pil – dal PD alla Lega – potrebbero continuare a lungo: dal capitalismo bollettaro, composto da famiglie ex industriali, che si è appropriato della gestione dei servizi e delle tariffe pubbliche, fino alla crisi industriale in atto, che è il prodotto dell’assenza di ogni politica industriale e di pianificazione dello Stato, che ha lasciato mano libera alla rapina dei fondi finanziari internazionali.
Quello che sta mettendo in evidenza la inaspettata crisi sanitaria internazionale è che si è arrivati a questo punto per le spinte immanenti del capitale che, dalla fine dell’URSS, ha trovato le migliori condizioni per accrescere profitti e potere, affermando la propria ideologia. Ora questo meccanismo non può tornare indietro, per motivi molto concreti che si palesano agli occhi di chi vuol vedere.
Il primo è che i margini di crescita per superare i problemi che pone la crisi attuale sono ridotti e insufficienti a dare una spinta generale all’economia capitalista. Come sappiamo, per il capitale le crisi sono anche occasione di ripresa, ma in questo caso la privatizzazione dei servizi pubblici operata a livello mondiale è stata cosi generalizzata e profonda che i margini di recupero attuali sono molto limitati.
In altre parole è entrato in crisi lo sviluppo nel settore terziario, che ha superato come dimensione la produzione industriale in sovrapproduzione dagli anni ’70, sviluppatosi piegando al profitto privato i servizi ed i beni pubblici accumulati dal conflitto di classe del ‘900, che indirizzò risorse e capitali a vantaggio della dimensione sociale.
L’altro dato che non fa intravvedere margini significativi di ripresa è il livello di composizione organica raggiunto dal capitale a livello mondiale. Ovvero: ormai il livello di automazione della produzione e dei servizi ha raggiunto una dimensione tale da cui è impossibile tornare indietro. Questo significa un incrudimento dello sfruttamento ed un peggioramento della condizione della forza lavoro intesa in termini larghi, dipendente e subalterna, che genera disoccupazione, precarietà e impedisce una risocializzazione della ricchezza prodotta in assenza, come è adesso, di un fortissimo conflitto di classe.
Infine, lo scontro che nasce da questi ridotti margini di profittabilità non si ripercuote solo verso le classi popolari, ma anche nello scontro tra potenze, come stanno mostrando con evidenza la vicenda dei dazi, le politiche protezioniste ed i conflitti militari fatti per affermare geopolitiche funzionali agli interessi di questa o quella forza imperialista. Ed anche la leva finanziaria, dopo la crisi del 2008, mostra una difficoltà a mantenere la propria funzione di stabilizzazione dell’economia, come dimostrano le guerre monetarie che si affacciano periodicamente.
In sintesi, chi crede che la crisi sanitaria possa far ripensare le politiche generali verso finalità sociali si sbaglia, in quanto questa situazione non è il prodotto di questa o quella scelta “errata”, come peraltro dimostra la dimensione mondiale dell’epidemia, ma di una condizione strutturale del capitalismo che dopo l’ubriacatura della vittoria sul socialismo ora si trova di nuovo a fare i conti con sé stesso.
Sappiamo bene che quando ciò accade le prospettive per l’umanità non sono di certo positive, come è avvenuto con le due guerre mondiali del secolo passato e come sta accadendo oggi in forme probabilmente inedite.
Il movimento di classe, i comunisti, arrivano all’appuntamento purtroppo completamente disarmati, certo anche a causa della repressione, perché il nemico di classe si incattivisce e stringe ancora di più le libertà di lotta e di organizzazione, ma il motivo di questa nostra impotenza è anche un’altro.
Questo risiede nella disgregazione materiale, politica e culturale del nostro referente sociale e di classe, favorita anche da chi, come “la sinistra” nostrana, in questi decenni di egemonia del capitale ha accettato l’idea che andava abbandonata la critica rivoluzionaria al capitalismo; da chi ha accettato i valori impliciti ed espliciti dall’attuale assetto; da chi ha pensato che doveva mettere in campo proposte “ragionevoli”, perché il socialismo ormai era obsoleto e non spendibile a livello sociale e ideologico.
Dalla predominanza del mercato sullo Stato, magari nelle utili forme del no profit, all’accettazione della competizione sociale e della “meritocrazia”, ci si è concepiti insomma solo dentro questo orizzonte, che in Italia ed in Europa è significato molto concretamente sostenere le politiche dell’Unione Europea.
Questa concezione va ribaltata. Combattere sul piano sociale e politico è importante, ma diviene insufficiente, e va aperto anche un altro fronte di lotta che è quello di ricostruire un impianto valoriale che rompa e non faccia compromessi con la cultura egemone e che contrasti fortemente il modello sociale in crisi.
Un modello che nega prospettive a fasce sempre più ampie della popolazione, a cominciare da quelle giovanili, che non vedono e non hanno prospettive.
Oggi va riqualificata a tutto tondo la lotta ideologica anticapitalista e comunista, arma trasformata in “parolaccia” da chi aveva imposto la sua egemonia culturale sulla società, ma strumento che oggi ritorna essenziale per dare forza e identità a pezzi sempre più ampi della società per combattere e contrastare una egemonia che sta disvelando sempre più la sua natura reazionaria.
Questo è l’impegno concreto che dobbiamo darci nel superamento dell’emergenza coronavirus per aprire un nuovo fronte di lotta e per impedire che il “dopo” non possa più essere come il “prima”

giovedì 12 marzo 2020

Usb convoca 32 ore di sciopero

L’Unione Sindacale di Base ha convocato 32 ore di sciopero nei settori industriali non essenziali chiedendo di fermare le fabbriche e di garantire salute e salario agli operai.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato lo stato di pandemia globale, tuttavia mentre la situazione nel nostro Paese si fa ogni giorno più grave, il governo Conte si è piegato nuovamente alla Confindustria, che insiste nell’imporre l’apertura di tutti i settori produttivi compresi quelli non essenziali.
Scorrendo il Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri dell’11 marzo si scopre che rimarranno aperte le industrie, le banche, i call center, le TLC, il commercio, le compagnie della logistica e buona parte degli uffici pubblici. Ossia milioni di lavoratori continueranno ad essere costretti ad andare a lavorare mentre c’è un’epidemia in corso.
Nella maggioranza dei casi ai lavoratori non vengono forniti gli strumenti minimi di protezione individuale, e sono poche le aziende che sanificano gli ambienti di lavoro.
Nel DPCM dell’11 marzo, ci sono disposizioni blande, lo smartworking è inutilizzabile da chi è in produzione, provocatorio è l’invito a chiudere i soli reparti non indispensabili per la produzione, tanto quanto le misure a carico dei lavoratori come l’utilizzo delle ferie.
Per affrontare questa emergenza occorrono misure drastiche ed esigibili dai lavoratori, che salvaguardino la salute e il salario, pertanto chiediamo:
  • il blocco temporaneo di tutte le attività industriali ad eccezione di quelle strettamente collegate alla lotta alla pandemia;
  • L’utilizzo degli ammortizzatori sociali, con l’integrazione piena del salario;
  • L’adozione, e il controllo degli organi preposti, di tutte le misure necessarie corrispondenti ai livelli di rischio legato alle specifiche situazioni lavorative;
L’USB ha più volte sollecitato il governo, senza ricevere alcuna risposta, e mentre torniamo a chiedere con forza un incontro con Palazzo Chigi ribadiamo il diritto dei lavoratori a scioperare per difendere l’incolumità, il salario e il benessere generale.
L’USB pertanto indice a far data dal 12 marzo un primo pacchetto di 32 ore di sciopero generale dei settori industriali, non essenziali, per ogni turno di lavoro. Tale pacchetto è rinnovabile e può essere aumentato oltre le 32 ore a livello territoriale e aziendale.

mercoledì 11 marzo 2020

La Cina sta vincendo la battaglia contro il coronavirus

Diciannove contagi. La Cina, nella giornata del 9 marzo, ha registrato soltanto diciannove nuovi casi di Covid-19, il nuovo coronavirus. Diciassette nella regione dell’ Hubei, l’“epicentro” dell’infezione, uno a Pechino ed uno nel Guandong.
Numeri che in Italia ci appaiono chimere, obiettivi da raggiungere per restituite normalità alla nostra vita e ridare forma alla nostra quotidianità. Un risultato enorme, se si pensa ai numeri: l’emergenza coronavirus è costata alla Cina 3.136 morti, per un numero totale di malati pari a 80.757 (per l’aggiornamento sui dati vedi https://www.arcgis.com/apps/opsdashboard/index.html#/bda7594740fd40299423467b48e9ecf6).
Numeri spaventosi, difficili da gestire. Eppure si è arrivati, con uno sforzo collettivo, a registrate un incremento di soli diciannove contagi. Questo è stato possibile grazie al fatto che lo Stato, al centro del meccanismo di controllo del paese, ha deciso che al primo posto ci fosse la salute dei cittadini.
Un “muoversi insieme” che ha coinvolto tutti, compresi i colossi dell’industria hi tech: Alibaba, Baid e Tencent – per citarne alcuni – hanno risposto prontamente all’appello lanciato dal presidente Xi Jinping, mettendo a disposizione del governo, quindi dello Stato, quindi della “cosa pubblica”, le loro possibilità tecnologiche per contribuire a combattere la diffusione del virus. Ed è anche grazie alla tecnologia che la Cina sta vincendo la sua battaglia contro il coronavirus. Utilizzando anche Intelligenza Artificiale, robotica, Big Data.
La Cina sta insegnando molto, rispetto a quello che ci si dovrebbe aspettare da uno Stato. Lo ha riconosciuto persino l’Organizzazione Mondiale della Sanità, che ha sottolineato in maniera entusiastica la capacità di far arrivare la Sanità Pubblica ovunque fosse necessario farla arrivare. Altro che tagli, privatizzazioni, regionalizzazione…
Un apparato coeso, univoco e deciso che ha posto come unico obiettivo l’interesse generale della collettività e di conseguenza il suo diritto alla salute. E parlano i risultati. Da un incremento di migliaia di malati al giorno ai dati di ieri: 19 malati in più.
E’ vero che la fase della loro emergenza è cronologicamente più avanti della nostra di circa un mese. Ma è anche vero che si parla di oltre ottantamila malati, e di oltre tremila morti: sono numeri diversi, ma già inferiori – in percentuale – a quelli che si registrano in Italia. Sarà interessante verificare quanto, in tema di scelte pubbliche, impareremo da questa emergenza e da quello che sta avvenendo in Cina, sopratutto in questa fase.

giovedì 5 marzo 2020

Il Super martedì: un primo bilancio

Il “super-martedì” delle primarie democratiche conferma alcune tendenze emerse nel corso delle precedenti tappe: Iowa, New Hampshire e Nevada vinte da Sanders e Carolina del Sud conquistata da Joe Biden.
Allo stesso tempo “risolleva” le sorti dell’ex numero due di Obama – alla sua terza avventura nelle primarie democratiche – che sembrava moribondo prima del successo dello scorso sabato, ma che ha conquistato nel “super-martedi” 10 dei 14 Stati in cui si è votato, anche se alcuni di stretta misura.
Prima di questa giornata, due sfidanti democratici si erano ritirati, facendo il loro endorsement per Biden. Si tratta del “centrista” giovane Buttigieg, che era andato “testa a testa” con Sanders in Iowa – prendendo meno voti ma più delegati – , ma che non aveva poi brillato nelle tappe successive, fino a decidere di gettare la spugna dopo il pessimo risultato in Carolina del Sud. Il giorno successivo si è fatta da parte anche Klobuchar, una delle due candidate – insieme alla Warren – cui il NYT aveva regalato il proprio endorsement, senza che questo aiutasse nei fatti né l’una né l’altra (il che solleva qualche dubbio sulla attuale capacità dei grandi media di “formare” l’opinione pubblica).
Questo martedì era la prova del fuoco per il 12° uomo più ricco del mondo secondo “Forbes”, magnate dei media, per tre volte sindaco di New York e con un passato nelle file dei repubblicani. Bloomberg aveva speso più di qualsiasi uomo politico nel corso della storia elettorale, ma ha vinto solo nelle Samoa Islands ed ha avuto dei risultati in media di poco superiori al 10%. Ma si è ritirato anche lui ieri, facendo il proprio endorsement a Biden in pratica subito dopo la sua discesa in campo, visto che non aveva partecipato alle precedenti quattro tappe.
L’elettorato latinos, giovane, “working class” e “very liberal” ha premiato il senatore del Vermont facendogli vincere di discreta misura lo Stato più importante per numero di delegati, cioè 415, che andranno alla convention democratica a Milwaukee a luglio: la California, come pronosticato dai sondaggi.
Sanders prende circa un terzo dei voti, Biden è dietro di circa 8 punti, Bloomberg il 14% e la Warren il 12%.
Stessa dinamica, ma più accentuata, per un altro Stato dove la sinistra democratica ha una posizione consolidata ed un importante comunità ispano-americana : il Colorado che elegge 66 delegati, dove il Senatore del Vermont prende ben più di un terzo, e l’ex numero due di Obama è dietro di ben più di 10 punti.
Qui il miliardario prende un 20% delle preferenze.
Il Texas era l’altro pezzo da novanta per delegati eletti (228), con una significativa popolazione ispano-americana, e che ha visto quasi un “testa a testa” tra Sanders e Biden: l’uno prende il 30% l’altro il 34%.
Ma i sondaggi davano Sanders in testa…
Sanders stravince ancora “in casa”, in Vermont – da dove è eletto dal 1981 – con più di metà dei voti che doppiano Biden fermo al 22%, e nello Utah con più di un terzo dei voti, mentre gli altri tre sfidanti sono tutti appaiati in questo Stato con poco scarto sopra il 15%.
Biden, forte dell’elettorato più anziano della comunità afro-americana, così come era successo in Carolina del Sud, vince nella moderata Virginia e negli Stati del Sud: Alabama, Tennesse, Oklahoma, Carolina del Nord.
Ma anche in Texas, secondo gli exit poll, lo ha votato il 60% degli afro-americani.
Conquista con un terzo dei voti anche il Massachusetts, dove la Warren “giocava in casa”, davanti a Sanders con oltre il25% e la Warren sopra il 20%.
Da notare come in questo Stato “bianco” i due candidati della “sinistra” democratica, che hanno alcune proposte politiche identiche, sfiorino la metà dei voti e come Biden di fatto mantenga punti di forza nella classe operaia bianca e nel sindacato.
In Minnesota Biden vince di larga misura con più del 38% dei voti, contro Sanders che sfiora il 30%, grazie anche all’endorsement di Amy Klobuchar eletta in questo Stato e dove avrebbe  fatto il suo risultato migliore, se non si fosse ritirata.
Anche qui la “sinistra” democratica avrebbe il 45% in totale, con Bloomberg che è sotto il 10%.
In Maine, uno stato che esprime solo 24 delegati, Biden vince di stretta misura con poco più del 34% mentre Sanders sfiora il 33% e Warren poco più del 15% con Bloomberg sotto di pochi punti.
La prossima tappa delle primarie si svolgerà martedì 10 marzo in Missisipi, Missouri, Idaho, Dakota del Nord e lo Stato di Washington (sul Pacifico).
Emergono alcuni dati “a caldo”. Il primo è la sconfitta di Bloomberg, che oltrepassa il 15% solo in 5 Stati e vince solo a Samoa, nonostante la pioggia di denaro speso grazie alla sua fortuna personale, di cui mezzo miliardo di dollari in sola pubblicità.
Da “outsider” di destra ha comunque ampliato e consolidato il fronte anti-Sanders ed ora andrà a sostenere l’ex numero due di Obama.
Il miliardario non è riuscito a “comprarsi” le elezioni, ma ha comunque occupato mediaticamente lo spazio politico con idee che portano acqua al mulino dei “centristi”, contro-bilanciando l’egemonia imposta da Sanders su alcuni temi.
Il secondo dato è la capacità di “rigenerazione” dell’establishment democratico, che ha puntato a questo giro su un solo candidato, capendo la pericolosa dispersione prodotta nei primi tre confronti favorevoli a Sanders, giungendo di fatto ad una selezione naturale dopo le primarie della Carolina del Sud, in cui Biden aveva stravinto dimostrandosi l’unico in grado di catalizzare il voto degli afro-americani (tranne i più giovani che hanno votato in maggioranza per Sanders) e quindi in grado – com’è infatti successo – di replicare negli Stati del Sud.
Il terzo fatto è l’”incomprensibile” funzione svolta dalla Warren, togliere a Sanders quote di voti preziosie, che rischia di divenire un “ago della bilancia” importante all’interno della Convention, soprattutto in caso di un “testa a testa” tra gli eletti del socialista del Vermont e dell’ex numero due di Obama.
Certo l’ex consigliera di Obama è un’interprete più di continuità che di rottura con la storia del partito democratico, e rischia di depotenziare “a sinistra” uno scontro diretto tra i frontrunner fin qui più votati. Ha dimostrato un certo “pragmatismo”, in senso negativo, accettando le non piccole sovvenzioni di un PAC legato all’industria dell’idro-carburi (che aveva prima sempre rifiutato).
Si ha il legittimo sospetto che questo suo opportunismo possa anche portarla ad appoggiare Biden magari in cambio di un “posto al sole”. La sua presenza nel prosieguo della competizione sarebbe altrimenti indecifrabile.
Il quarto, ma non meno importante è la conferma dell’appeal di Sanders, un risultato difficilmente immaginabile fino a non molto tempo fa, limitato però dall’incapacità di incrementare veramente la partecipazione al voto, al di là dell’inversione di tendenza che il suo movimento fa registrare rispetto alla disaffezione alla politica anche in termini di adesione economica ad un progetto.
I suoi elettori sono probabilmente tra i più “motivati” e gode dell’organizzazione di base più sviluppata, ma non è riuscito pienamente a cambiare completamente i fattori in campo.
Si va dunque prefigurando uno scontro a due, tra Sanders e Biden.
Il primo impegnato a rimarcare la differenza sostanziale con l’avversario nelle scelte politiche pregresse, in particolare sulla guerra all’Iraq – cui Sanders si oppose, a differenza di Biden – e sui tagli allo Stato sociale, facendo apparire l’ex numero due di Obama la “vecchia politica” che non può certo sconfiggere Trump.
Il secondo, che gode del sostegno dell’establishment democratico e ora anche del magnate dell’informazione, calcherà sulla sua presunta maggiore “eleggibilità” – argomento molto caro ad una parte degli elettori democratici moderati – sfruttando il suo momentum particolarmente pompato dai media, ribattezzato “Joementum”, forte di una performance elettorale galvanizzante ma non quanto viene narrata.
In sintesi, Sanders spinge sulla “polarizzazione” tra i due, Biden sulla ricerca del voto “moderato”, cercando di catturare gli indecisi; mentre la Warren che si era posta come elemento di unione tra le due ali del partito, sembra all’oggi non avere altra strategia se non rosicchiaare qualche consenso da far valere poi un domani.
Da qui a giugno, a cominciare da martedì prossimo, si voterà ancora in 30 Stati in cui si eleggeranno il 60% dei delegati rimanenti; l’obbiettivo è raggiungere i 1991 delegati per conquistare la maggioranza alla convention, ma sono ancora lontani per tutti.
La sfida è ancora aperta e piena di incognite.

mercoledì 4 marzo 2020

Cosa temono i servizi segreti? Il conflitto di ritorno, prima ancora che il ritorno del conflitto

Con qualche giorno di ritardo sulla scadenza di febbraio, gli apparati di sicurezza dello Stato hanno presentato la loro relazione annuale al Parlamento esaminando le minacce alla sicurezza nell’anno appena trascorso.
Come al solito la relazione è molto interessante sia quando esamina il quadro internazionale –  con particolare attenzione sulle tensioni e i conflitti in Medio Oriente e le minacce dei gruppi jihadisti – sia quando valuta le minacce alla stabilità economica (anche se la competenza degli apparati non arriva a mettere in evidenza i danni provocati ad esempio dai vincoli della Ue sulla destabilizzazione dell’economia italiana, ndr).
Ma i capitoli che ormai da anni destano la nostra attenzione, sono quelli dedicati  alla cosiddetta “eversione”.
Cinque pagine e mezzo vengono dedicate alla minaccia rappresentata dagli anarchici, dai marxisti-leninisti e dai movimenti antagonisti e due paginette alla destra radicale (questa volta però appare più ridotto il doppio standard che avevamo denunciato gli scorsi anni).
Il modello di repressione preventiva contro i conflitti sociali – un modello che abbiamo definito più “sabaudo” che fascista – sembra aver dato i suoi frutti. In tal senso sembra essere stato molto efficace il combinato disposto tra il modello dei decreti sicurezza di Minniti e quello di Salvini.

Nella visione delle vecchie barbe finte e dei giovani disgregatori che monitorano – da fuori e da dentro – le attività delle organizzazioni della sinistra di classe a antagonista, colpiscono da un lato la sensazione di non aver ormai troppi grattacapi sui conflitti sociali nel paese, dall’altro la preoccupazione sul ripresentarsi di una contro-narrazione sull’antagonismo politico e sociale nel paese, una sorta conflitto di ritorno sul piano ideologico e storico.
In particolare gli apparati di sicurezza sembrano “aver fiutato” l’indebolimento dell’incantesimo rimozionale creato dal sistema dominante e la curiosità delle nuove generazioni nei confronti della lapide di piombo posta sulla storia del conflitto sociale e politico dei decenni precedenti.
Il tentativo di chiudere la storia dentro lo schema delle classi vincenti e criminalizzando quelle perdenti, potrebbe non funzionare più di fronte alla fine delle illusioni dei più giovani sulle magnifiche sorti progressive del capitalismo e delle sue espressioni politiche ed ideologiche di dominio sulla società.
Scrivono infatti i servizi di sicurezza che:  “L’attività di costante monitoraggio informativo assicurata dal Comparto intelligence ha rilevato, in linea di continuità con gli ultimi anni, il proseguire dell’impegno divulgativo, specie attraverso la testimonianza di militanti storici e detenuti “irriducibili”, volto a tramandare la memoria degli “anni di piombo” e dell’esperienza delle organizzazioni combattenti. La propaganda si è in particolare rivolta, in un’ottica di proselitismo, a un uditorio giovanile, con un occhio di riguardo alla composita area dell’antagonismo di sinistra, sulle cui sensibilità risulta tarata una lettura trasversale, in chiave rivoluzionaria, dell’“antifascismo”, dell’“anti-imperialismo”, dell’“antimilitarismo” nonché delle questioni correlate al disagio sociale, dall’emergenza abitativa a quella migratoria, passando per le criticità del mondo del lavoro”.
Ma oltre al conflitto di ritorno sul piano della narrazione storica e della visione ideologica, ai servizi di sicurezza dello Stato non sfuggono le possibilità di “ritorno del conflitto” sulla base della accresciute e irrisolte contraddizioni sociali alle quali il sistema dominante non può, e non vuole, dare risposte di segno popolare.
Sulle questioni del mondo del lavoro, i servizi di sicurezza scrivono che : “A quest’ultimo riguardo, l’interesse dei circuiti marxisti-leninisti verso delicate vertenze occupazionali in atto sul territorio si è tradotto in tentativi – peraltro rimasti tali – di influenzare le rivendicazioni dei lavoratori per favorirne una trasposizione su un piano di conflitto politico-ideologico, nel segno della contrapposizione al “sistema di produzione capitalistico”.
Altro scenario monitorato è quello della solidarietà internazionalista. Nella relazione dei servizi si segnala come “Si è mantenuta elevata, inoltre, l’attenzione delle componenti d’area verso lo scenario estero – specie in relazione alla questione palestinese e alla “resistenza curda” nel Rojava – cui si è guardato secondo la tradizionale visione “anti-imperialista”. Sono del pari proseguiti i contatti con formazioni straniere della medesima matrice ideologica impegnate in campagne di solidarietà a “rivoluzionari prigionieri”.  Ed ancora: “Non è mancato, infine, anche da parte di tali ambienti, l’interesse nei con-fronti della situazione cilena, analizzata in connessione con le contestazioni registratesi in Libano, in Ecuador, ad Haiti, ad Hong Kong e in Francia. Proteste che, sotto la lente dell’internazionalismo marxista-leninista, sono viste come concreti segnali di una crisi globale del “capitalismo” e, come tali, quali altrettanti indicatori della perdurante validità di ideologia e prassi rivoluzionaria”.

Le “tre A” del movimento antagonista”

Antifascismo, antimilitarismo e ambientalismo sembrano essere i terreni su cui gli apparati di sicurezza monitorano con maggiore attenzione e preoccupazione l’iniziativa del movimento antagonista. Scrivono infatti che: “Pur tradizionalmente fluido ed eterogeneo, il fronte del dissenso antagonista è parso trovare momenti di coesione nelle mobilitazioni sviluppate attorno a tre temi: l’“antifascismo” (declinato principalmente come opposizione alle politiche di sicurezza e alla gestione dei flussi migratori), l’“antimilitarismo” e l’ambientalismo, nel cui ambito è riemersa la significativa valenza antisistema della “lotta No TAV”.
In questo contesto, l’intelligence ha continuato a rilevare i tentativi delle più agguerrite formazioni antagoniste d’inserirsi in contestazioni, come quelle promosse dai cd. Fronti del No contro la realizzazione di grandi opere infrastrutturali, per radicalizzarne le istanze. Ne è un esempio la protesta in Val di Susa, che in estate ha fatto registrare un ritorno a pratiche violente, come attestato dagli incidenti occorsi nella notte tra il 20 e il 21 luglio al cantiere di Chiomonte (TO).
L’antagonismo ha mostrato interesse anche per le mobilitazioni indette a livello internazionale sulla questione del cambiamento climatico: sul terreno, partecipando a manifestazioni in varie città, in alcuni casi tradottesi in blocchi temporanei all’ingresso di stabilimenti di carburante e di raffinerie; sul piano propagandistico, ponendo strumentalmente in connessione ambientalismo, interessi economici di multinazionali del comparto militare ed energetico e questione migratoria, in una logica di contrapposizione tra “Occidente neo-colonialista e imperialista” e “sfruttati del Terzo Mondo”. Sono stati colti, altresì, segnali di rilancio della campagna antimilitarista, che ha seguitato a distinguersi per un accentuato respiro internazionalista, con pulsioni anti-NATO declinate in diverse iniziative di protesta in occasione delle celebrazioni del 4 aprile per il 70° anniversario dell’Alleanza Atlantica”.

Le organizzazioni fasciste

Quando si arriva a parlare dei gruppi neofascisti, i servizi segreti riescono sempre a prenderla alla larga. Molta attenzione su quanto avviene negli altri paesi, poca attenzione su quello che i fascisti combinano nel nostro paese. E’ scritto infatti nel capitolo dedicato alla destra radicale che “L’attività degli Organismi informativi in direzione della destra radicale ha necessariamente tenuto conto di uno scenario di fondo che, confermando gli allarmi lanciati nei più qualificati consessi internazionali d’intelligence, ha fatto registrare gravissimi attentati – a partire da quello di Christchurch del 15 marzo – e una molteplicità di episodi di violenza motivati dall’intolleranza religiosa e dall’odio razziale. Tali eventi hanno testimoniato l’emergere di insidiosi rigurgiti neonazisti, favorito da una strisciante, ma pervasiva propaganda virtuale attraverso dedicate piattaforme online, impiegate per veicolare documenti, immagini e video di stampo suprematista, razzista e xenofobo. Il fenomeno, che nella sua dimensione associativa presenta numeri contenuti, alimenta soprattutto – in analogia con quanto avviene nell’ambito della radicalizzazione jihadista – percorsi individuali di adesione al messaggio oltranzista. I profili più esposti, come emerge dalla casistica delle azioni, sono quelli dei più giovani, maggiormente vulnerabili ad una retorica che, da un lato, esalta il passaggio all’azione quale unica via per “mutare l’ordine delle cose”, dall’altro, offre un recinto identitario in cui riconoscersi ed esaltarsi.”
Dopo questo pippotto su quello che i nazifascisti combinano all’estero, i servizi di sicurezza devono ammettere che: “In relazione al quadro delineato, l’attenzione dell’intelligence non ha mancato di considerare il rischio che anche ristretti circuiti militanti o singoli simpatizzanti italiani possano subire la fascinazione dell’opzione violenta. Ciò, pure alla luce dell’inedito scenario disvelato da diverse operazioni di polizia nei confronti di ambienti filo-nazisti. Il monitoraggio informativo ha posto in luce come, accanto a formazioni strutturate e ben radicate sul territorio, si sia mossa una nebulosa di realtà skinhead ed aggregazioni minori, alcune delle quali attive soltanto sul web. Una galassia militante frammentata, che si è caratterizzata per una comunanza di visione su alcuni temi, quali la rivendicazione identitaria e l’avversione all’immigrazione, al multiculturalismo e alle Istituzioni europee, oltre che per momenti di corale, quanto estemporanea, convergenza in occasione di appuntamenti politico-culturali e commemorativi sul “fascismo delle origini”.

Inutile rammentare, come le principali preoccupazioni sottolineate nella relazione siano quelle di ordine pubblico per la contrapposizione nelle periferie metropolitane tra le organizzazioni della sinistra di classe e le incursioni fasciste.“Le maggiori compagini, cronicamente attraversate da dissidi interni ed impegnate in processi di riorganizzazione, hanno proseguito nell’opera di accreditamento e inserimento nel tessuto sociale, con iniziative propagandistiche e mobilitative, specie nelle periferie urbane, volte a coinvolgere i contesti giovanili e le fasce popolari più svantaggiate, cavalcando tensioni e problematiche socio-economiche, legate all’emergenza abitativa e occupazionale, alla questione migratoria e alla sicurezza. Una inclinazione, non nuova, ad innestarsi sulle situazioni di disagio, polarizzandole, che non ha mancato di produrre effetti rilevanti per l’ordine pubblico, come avvenuto nella Capitale, nei casi in cui le contestazioni contro i centri di accoglienza e l’assegnazione di alloggi a stranieri e Rom sono sfociate in scontri di piazza”.
Per i servizi segreti, il problema è l’invasione di campo dei gruppi neofascisti sulle questioni sociali che li contrappone  ai gruppi di sinistra presenti sui territori metropolitani. “Proprio l’impegno su tematiche sociali e su materie tradizionalmente appannaggio dell’antagonismo di sinistra e, ancor più, la decisa opposizione ai flussi migratori, declinata con un registro chiaramente xenofobo e razzista, hanno alimentato dinamiche fortemente conflittuali con la militanza di opposto segno ideologico, tradottesi in reciproche provocazioni ed aggressioni”.
A parte l’attenzione sui gruppi skinhead (anche se i fascisti più aggressivi spesso hanno i capelli sulla testa, su quello che ci sia dentro il giudizio è più perentorio, ndr), colpisce il fatto che di almeno tre operazioni condotte nel 2019 che hanno portato al ritrovamento di arsenali e di reti neofasciste, la relazione, in una apposita scheda, ne citi solo una:  “Tra le operazioni di polizia condotte nel 2019 in direzione di soggetti e gruppi di dichiarato orientamento nazi-fascista, specifica menzione meritano le indagini sfociate, il 28 novembre, nell’esecuzione, da parte della Polizia di Stato, di 20 decreti di perquisizione domiciliare emessi dalla Procura Distrettuale di Caltanissetta a carico di altrettanti soggetti, indagati per costituzione e partecipazione ad associazione eversiva ed istigazione a delinquere. L’inchiesta – che ha interessato le città di Torino, Cuneo, Milano, Monza Brianza, Bergamo, Cremona, Padova, Verona, Vicenza, Genova, Imperia, Livorno, Messina, Siracusa e Nuoro – ha portato all’arresto di 3 persone e al sequestro di armi, munizioni, documenti apologetici e pubblicazioni sul nazional-socialismo hitleriano, bandiere naziste e simboli delle SS. L’attività ha permesso di evidenziare l’intenzione di dar vita ad un “Partito Nazionalsocialista Italiano dei Lavoratori” attestato su posizioni dichiaratamente filo-naziste, xenofobe e antisemite”
Insomma del missile trovato ad un ex (?) di Forza Nuova a Torino o dell’arsenale rinvenuto nel senese non vi è traccia. Eppure sono stati trovati e ci sono stati degli arresti.
Nella seconda parte della relazione viene poi pubblicato  il “Documento sulla Sicurezza Nazionale” dedicato soprattutto alle minacce informatiche e alla cyber sicurezza, un dossier che da tempo i servizi segreti seguono con molta attenzione e che sta portando anche ingenti finanziamenti statali su questo fronte.  Allo “Stato della minaccia cibernetica” sono dedicate molte pagine.

lunedì 2 marzo 2020

Intercettazioni a strascico”

Chi grida al “pericolo fascismo” rappresentato da Salvini e Meloni non ha tutti i torti. Che le stesse persone non vedano il “pericolo fascismo” nel quotidiano operare del governo Conte bis, con la presenza determinante del Pd, è invece la prova che hanno molti torti.
Facciamo un esempio concreto: il decreto sulle intercettazioni. In quel dispositivo è contenuta la possibilità discrezionale, per magistrati e polizia giudiziaria, di operare tramite trojan installati sui telefoni di chiunque entri in rapporto – anche casuale – con altri intercettati sotto indagine.
L’aspetto tecnico-giuridico che permette questa autentica schedatura di massa di tutta la popolazione, ad libitum, è talmente inestricabile che persino un ex presidente della Corte Costituzionale come Giovanni Maria Flick alza le mani. E non si tratta di un “rivoluzionario”, ma di un rappresentante di quella cultura cattolica democratica che ha attraversato il dopoguerra cercando di contemperare – spesso senza riuscirci – esigenze pratiche di governo del conflitto e rispetto almeno formale delle regole costituzionali. Tanto da essere, in uno dei governi Prodi, “ministro di grazia e giustizia” (ora, nella denominazione, è scomparsa la “grazia” e la “giustizia” è rimasta come sinonimo della certezza della condanna…).
L’intervista concessa a Il Dubbio è giuridicamente “dotta”, ma forse non accessibile a tutti. Per cui ci sembra necessario premettere, in forma “popolare”, il nocciolo del problema rappresentato da quelle che anche Flick chiama “intercettazioni a strascico”. Ossia intercettazioni che non sono mirate a trovare le prove del fatto che determinati individui stiamo commettendo un certo reato, ma che registrano qualsiasi comunicazione sperando che da qualche parte si scopra un reato in corso.
Va ricordato che nel sistema penale attuale, di sicuro molto repressivo e “securitario”, i magistrati sono obbligati ad esercitare l’azione penale quando ricevono – da privati cittadini o dalla polizia giudiziaria – una “notizia di reato”: ossia una segnalazione, un rapporto,una denuncia, ecc. Sono dunque obbligati a seguire un filo, a mettere sotto inchiesta un determinato gruppo di persone in relazione a uno o più reati ipotizzati come in atto.
Con le “intercettazioni a strascico tramite trojan”, invece, si può registrare qualsiasi attività di qualsiasi persona, nell’intero arco delle 24 ore. Quando poi qualcuno degli intercettati commetterà un’irregolarità o un reato, scatterà l’azione penale.
E’ il passaggio da un sistema giuridico ad un altro. Da un sistema che reprime e punisce reati già commessi o in corso a un sistema che tiene controllo tutta la cittadinanza. Senza arrivare (ancora) ai livelli di Minority report, ma aprendo con decisione la strada in quella direzione.
Come sempre, questi dirottamenti da un sistema limitatamente democratico ad uno di “controllo totale” vengono nascosti sotto “l’urgenza” o “l’emergenza”. O ancora più sbrigativamente motivati con la necessità di reprimere un certo reato diventato mediaticamente “impopolare”. C’è stata una stagione con il feticcio “terrorismo”, poi una stagione “antimafia”, ora – in mancanza di problemi più gravi – una “anti-corruzione” (anche se i media si occupano per lo più di altro…).
Che i corrotti vadano in galera, o almeno vengano esclusi per sempre dalla amministrazione pubblica (ma ci piacerebbe anche che i “corruttori” non potessero più fare gli “imprenditori” o i “faccendieri”), è certamente un obbiettivo di igiene pubblica. Il modo e i metodi con cui ci si può arrivare, invece, investono le regole legali di un Paese. Ed è estremamente pericoloso, per la tenuta democratica, che si possa “fare qualsiasi cosa” per raggiungerlo.
Anche perché, diciamocelo, “i corrotti” sono in genere al governo e dunque hanno molti strumenti per controllare i controllori (la magistratura e le varie polizie, insomma). Alcuni di loro incapperanno nelle maglie di alcune inchieste, ma la corruzione proseguirà cambiando metodi e tecniche (già oggi “la bustarella” viene usata dai pulciari, mentre il bonifico diretto è decisamente un ricordo del lontanissimo passato).
In secondo luogo perché il “controllo totale a strascico” è la forma suprema del controllo politico della società. Un potere anche formalmente “democratico” perché mantiene in vita le scadenze elettorali, gestendo le centrali di controllo può facilissimamente individuare ed eliminare sul nascere qualsiasi ipotesi di cambiamento, riformista o rivoluzionaria che sia, perpetuando se stesso senza mai alternativa.
Il trucco sta insomma nell’agitare davanti agli occhi del pubblico lo straccio del “reato da reprimere”, mentre si nasconde completamente l’enorme potere che viene concesso alle “strutture di controllo”. Le quali, essendo composte da normali esseri umani, non è affatto detto che siano esenti dalle comuni tentazioni dei umani normali. Anzi, le cronache pluridecennali ci raccontano l’esatto opposto
Che la strada verso questo tipo di società sia aperta da un governo in coabitazione tra i “finti rivoluzionari” a Cinque Stelle e i fintissimi “democratici” del Pd è la prova, secondo noi, che il “pericolo fascismo” del terzo Millennio è un po’ più serio delle sole teste rasate e delle scritte antisemite (che non a caso non vengono neanche perseguite…).
Il “pericolo fascismo” è in un potere economico in crisi, che vede il baratro avvicinarsi e prova a blindarsi per sopravvivere. Non ci riuscirà, ma sta facendo danni mostruosi. Specie sui cervelli…
*****

«Intercettazioni, qui si colpisce la base della nostra civiltà»

Errico Novi – Il Dubbio
«Sa, in una democrazia è importante stabilire le regole del gioco. Invece a me sembra che da un po’, anche con il decreto intercettazioni, si indulga troppo nel gioco delle regole». 
Non è un calembour, no, se si pensa che persino il presidente Giovanni Maria Flick, nello sfogliare i prospetti comparativi delle nuove, vecchie e vecchissime norme sulle intercettazioni, è sconcertato dall’«incredibile, sconcertante intreccio di modifiche, tale da prefigurare un chiarissimo rischio di confilitti interpretativi. E guardi», dice il presidente emerito della Corte costituzionale, fin dal principio di un’ampia e per certi versi appassionata riflessione sul decreto legge e su alcuni principi fondamentali della nostra Costituzione, «che le difficoltà non saranno solo dei miei bravissimi colleghi ricercatori, destinati a misurarsi con questo groviglio nelle loro attività universitarie, ma innanzitutto dei magistrati e degli avvocati che quel groviglio dovranno applicare».
Ma un po’ l’azzardo del legislatore colto da Flick è il riflesso, il correlativo oggettivo, per così dire, della tendenza a scherzare col fuoco dei diritti, «una tendenza giustizialista che è tra le ragioni, se non la ragione ultima del Movimento 5 Stelle, ma temo sia anche radicata, seppur in modo meno profondo, nel Partito democratico, che non è mai riuscito a liberarsi davvero di quella matrice».
Non che gli interessi soffermarsi su valutazioni del genere, ma è a una simile rischiosa iperbole giustizialista che il presidente Flick riconduce «il grave tradimento della libertà di comunicazione sancita dalla nostra Carta non solo nella sua declinazione pubblica, e politica, all’articolo 21, ma anche al troppo poco evocato articolo 15, quale libertà del singolo di comunicare con chi vuole nella garanzia della segretezza, che può essere limitata solo in virtù di previsioni di legge. Tassative previsioni. Non approssimative, indefinite e confuse quali sembrano anche le norme contenute nel decreto sulle intercettazioni appena convertito in legge dal Parlamento».
Insomma, quest’ultimo provvedimento è un colpo pesante ai diritti?
Aspetti un momento. Il colpo davvero decisivo, e pesante, non è tanto nel decreto appena convertito in legge. È nella cosiddetta legge spazza corrotti. È lì che si decide di introdurre un uso delle intercettazioni, in particolare di quelle acquisite con i trojan, anche per i reati di corruzione. Si è trattato dell’intervento normativo che forse più di tutti ha realizzato la pretesa assimilabilità fra mafia e reati contro la pubblica amministrazione. Una correlazione sbagliata, perché la mafia si basa sulla violenza, la corruzione su un accordo illecito. Sbagliata proprio in radice. Se vogliamo, il difetto più grave dell’ultimo provvedimento è nel metodo prima ancora che nel contenuto.
Si riferisce alla sovrapposizione fra le norme appena convertite in legge e il decreto Orlando?
Mi riferisco al fatto che la riforma Orlando, contenuta, attenzione, in un decreto legislativo e non in un provvedimento d’urgenza, era stata rinviata nella sua entrata in vigore assai numerose volte. Ora, mi saprebbe dire dove sarebbe la “straordinaria urgenza”, dichiarata nel testo dell’ultimo decreto, di intervenire su una materia rimasta congelata per due anni? Me lo dice dov’è l’urgenza?
E poi c’è la contorsione tecnico normativa, così esiziale da condurre alla nevrosi il malcapitato costretto a leggere il testo.
E sì, ma come le ho detto tra i malcapitati ci saranno magistrati e avvocati che dovranno applicarlo. Si figuri quanti conflitti d’interpretazione ne potranno nascere.
È di queste ore una polemica sul rapporto della Commissione europea in materia di giustizia, che approva la riforma della prescrizione e ha perciò suscitato l’esultanza dei deputati cinque stelle: perché allora non ci si ricorda pure che in Europa siamo quelli che usano di più le intercettazioni?
Non lo deve chiedere a me, almeno su questo non credo di poter rispondere. Credo solo di poter ricordare che sul consistente, forse eccessivo ricorso alle intercettazioni sono venuti richiami in numerose inaugurazioni dell’anno giudiziario, così come ne sono venute sull’eccessivo ricorso alla custodia cautelare: le sembra che la cosa abbia avuto conseguenze? Il problema del ricorso eccessivo, a mio giudizio, ha rilievo però soprattutto rispetto al rischio della pesca a strascico.
Che viene innalzato, dall’ultimo decreto?
Credo si debba rispondere a partire da un percorso giurisprudenziale. Si è discusso per molto tempo, lo si fa da diversi anni, sul legittimo uso di intercettazioni autorizzate per un determinato procedimento anche per l’accertamento di reati diversi. Da molto tempo è stato acquisito in modo pacifico il ricorso per reati diversi che comportino l’arresto in flagranza. In quel caso si tratta di esigenze di politica criminale e non c’è contestazione. Poi però il conflitto ha coinvolto chi ritiene insuperabile il limite della connessione fra i reati e chi invece lo ritiene superabile. Nell’ultimo caso si pone un problema enorme, perché l’uso per reati non collegati lascia sguarnita la necessità di una autorizzazione. Si pretende di far riferimento alla categoria dell’indispensabile. Ma come si fa a valutare se l’acquisizione delle captazioni in un procedimento diverso sia davvero indispensabile per la prosecuzione di quest’ultimo? Salta del tutto il principio per cui il pm domanda al giudice il via libera sulla base di quella irrinunciabilità per l’indagine.
Chiarissimo. Ma allora perché con l’ultimo decreto si è esteso così allegramente l’uso per reati diversi?
Va segnalato un aspetto forse decisivo, senz’altro illuminante sul modo in cui si ritiene di poter legiferare. Poco prima che l’ex presidente del Senato Pietro Grasso proponesse l’emendamento estensivo sull’uso delle intercettazioni per reati diversi da quelli per i quali sono autorizzate, era stata depositata una sentenza di straordinario rilievo della Cassazione, la sentenza Cavallo, che definiva una volta per tutte quel conflitto giurisprudenziale. La pronuncia ha stabilito che i reati diversi devono essere comunque collegati a quello per cui le intercettazioni sono state autorizzate. Vale a dire, ritiene insuperabile il limite che si riferisce all’articolo 12 del codice di procedura penale, dov’è definita la nozione di reato connesso. Deve trattarsi di un illecito compiuto per nascondere il precedente, di un reato attribuito a una persona che ha agito in concorso con l’autore del reato precedente oppure di un reato riconducibile al medesimo disegno criminoso. Da qui non si scappa. Non si dovrebbe, almeno. Perché tale logica regge, seppur forse con uno sforzo di buona volontà, in quanto la prima autorizzazione può essere considerata implicitamente riferibile anche agli altri reati.
Benissimo, chiaro, solare: e allora com’è che il legislatore se n’è infischiato?
È grave che se ne sia infischiato. La sentenza in questione è stata pronunciata dalla Suprema corte a sezioni unite. E appunto, tali pronunce hanno valore nomofilattico, vale a dire che è opportuno pensarci bene prima di discostarsene. I giudici difficilmente se ne sarebbero discostati.
Il legislatore lo ha fatto.
E qui rispondo alla sua domanda iniziale: la sola possibile logica di una simile scelta normativa si spiega nella volontà di venire incontro alle spinte dei pm affinché fosse di fatto consentita la pesca a strascico dei reati tramite intercettazioni. Della serie: noi caliamo la rete, poi vediamo cosa ci resta impigliato. Vorrei ricordare che l’estensione all’uso delle captazioni per l’accertamento di reati diversi, e non collegati, riguarda specificamente le intercettazioni ambientali effettuate con i trojan, anche per i reati di corruzione. Oltre a quelle fatte con altri strumenti se relative a reati gravi di cui all’articolo 266 primo comma.
La nuova norma dice che l’uso delle intercettazioni fatte coi trojan è consentito anche per reati diversi, compresi quelli di corruzione, se però si tratta di materiale indispensabile per accertare quegli illeciti.
Ecco, e allora noi veniamo al nodo chiave. La categoria dell’indispensabile rischia di non soddisfare l’esigenza di tassatività della previsione di legge, che invece è richiesta dall’articolo 15 della Costituzione, quando consente solo nelle forme garantite dalla legge di violare la libertà di comunicazione privata. Vede, qui parliamo di un bene primario parallelo alla libertà di manifestazione del pensiero sancita all’articolo 21, dov’è la base della democrazia. All’articolo 15 è consacrato il diritto alla diversità e all’identità della persona, che deve poter comunicare privatamente con chi vuole, in condizioni di segretezza. Adesso le dirò una cosa che potrà sembrare sconvolgente.
Cosa?
Ha presente la sentenza Cavallo che ho citato prima, che definisce il limite dei reati connessi? In quella sentenza le sezioni unite fanno ampio riferimento all’articolo 15. A un principio a cui si può, sì, contrapporre un altro interesse, quello della collettività all’accertamento delle condotte illecite, ma solo in modo proporzionato. Vuol dire che a un giudice deve essere assicurato lo strumento di legge in grado di verificare che, nel singolo caso, davvero ci sia un interesse superiore a quello dell’inviolabilità delle comunicazioni private, e cioè alla identità e diversità della singola persona. E come fa un giudice a bilanciare quegli interessi se non può autorizzare l’uso di un’intercettazione per reati diversi da quelli per i quali l’aveva inizialmente autorizzata?
Il presidente del Cnf Mascherin ha denunciato il rischio che la tecnologia dei trojan sfugga di mano.
E non dovremmo lasciarcela sfuggire. La tecnologia è madre, perché spalanca nuovi diritti, ma può essere anche matrigna, perché ne può soffocare altri ancora. Vede, è sorprendente davvero che si parli tanto della reputazione, delle intercettazioni diffamanti da non sbattere in prima pagina, del dovere di informazione a tutti i costi da parte dei media, del diritto di conoscere i dettagli privati della vita della persona pubblica, e così poco della libertà di comunicare il proprio pensiero nella segretezza di una relazione privata. È strano perché, se è vero che tale diritto attiene al libero manifestarsi di una identità e di una diversità della persona, ci si dovrebbe forse ricordare che proprio di fronte a una tecnologia così pervasiva, proprio in una società in cui la comunicazione e l’informazione sono tutto, dovremmo essere ancora più preoccupati dal rischio che una conoscibilità così assoluta comprometta l’identità della persona, la travolga. Ecco, in questo senso davvero l’uso di uno strumento come i trojan, se consentito in modo indiscriminato come avviene con l’ultimo decreto, può sfuggire di mano.
Ma in ogni caso, lei dice, l’argine è saltato con la “spazza corrotti”, non con questo decreto.
Sì, la deriva è in quell’estensione dei trojan, anche nel luogo del domicilio privato, ai reati di corruzione. Va detto che nel decreto intercettazioni appena convertito in legge si colgono anche aspetti condivisibili. Innanzitutto il ripristino del controllo del pm sulla selezione delle intercettazioni rilevanti, che invece il decreto Orlando aveva affidato in maniera quasi esclusiva alla polizia giudiziaria. Viene restituito al difensore il diritto ad estrarre copia del materiale intercettato, viene restituita la necessaria centralità all’udienza stralcio. Però vede, credo sia legittimo porsi comunque degli interrogativi sul metodo, a prescindere dai contenuti più o meno condivisibili.
La scelta del decreto legge dopo anni di rinvio?
Pensi a come può reagire il privato cittadino di fronte al fatto che, in piena emergenza coronavirus, si ritenga “straordinariamente urgente” intervenire su una riforma vecchia di due anni in materia di intercettazioni. Oppure si provi a immaginare cosa pensa un cittadino dell’affannarsi sulla prescrizione, con quello che gli capita intorno. Diciamo che se per caso potesse dire quello che pensa a un parlamentare incontrato per strada, il rischio che lo mandi a quel paese è elevato. Poi sa, certe tempistiche sono sempre un po’ sospette.
Cioè, ha fatto comodo nascondersi all’ombra dell’emergenza?
Ricorda un certo decreto in materia di custodia cautelare emanato nel 1994 in coincidenza con un’attesa gara dei Mondiali di calcio? Devo proprio tornare a quanto le ho detto all’inizio. Si dovrebbe avere non una simile disinvoltura, ma un’idea sacra delle regole del gioco. E invece ci si diletta nel gioco delle regole, ed è una cosa pericolosa quanto le intercettazioni a strascico.