martedì 30 ottobre 2018

Ora legale: ora anche l’Europa vuole disfarsene

Questa notte è tornato in vigore l’orario invernale, una prassi quella di spostare la lancetta di un’ora avanti nel periodo estivo e una indietro nel periodo invernale, che viene adottata dai primi del Novecento. Durante la Prima Guerra Mondiale infatti si cercò un sistema per il risparmio energetico, essendoci l’esigenza di ottimizzare al massimo delle risorse. Essenzialmente un’idea del mondo anglofono, fu il Regno Unito il primo ad adottarlo, gli altri paesi seguirono Londra per imitazione.
Nel corso del XX secolo la diffusione dell’ora legale è stata ampia, soprattutto a partire dalla Seconda Guerra Mondiale. Lo spostamento delle lancette è stato adottato da Russia, Cina, Argentina, India e naturalmente i paesi dell’Europa e del Nord America. In Europa da quando l’Unione comunitaria ha compiuto la sua costituzione con i suoi diversi trattati l’ora legale viene stabilita di comune accordo con tutti i paesi membri, che la adottano nello stesso periodo e alla stessa ora (si rispettano i diversi fusi orari).
Tuttavia il Daylight Saving Time è stato negli ultimi anni messi in discussione: discorsi di natura psicologica dovuti ai cicli del sonno e al posticipo troppo tardo dell’orario dell’alba, e di natura scientifica, legati a un reale valore di risparmio energetico della misura, hanno fatto dubitare della reale utilità dell’ora legale nel mondo contemporaneo, soprattutto a partire dal XXI secolo. La Russia vi ha rinunciato 7 anni fa, la Cina ha smesso di adottarla già a partire dal 1991, l’Argentina ha smesso dal 2009, solo per fare alcuni esempi
Se per ora il fenomeno è da ascrivere al mondo extraeuropeo ed extra Nord America, cioè mezzo mondo, anche nell’Unione Europea nell’ultimo anno è nato un dibattito sull’ora legale: il Presidente della Commissione Europea Jean Claude Juncker ha annunciato qualche giorno fa che l’ora legale potrebbe essere abolita in futuro. In realtà le richieste sarebbero arrivate soprattutto dai paesi del Nord che d’estate sono sottoposti ad una durata del moto apparente solare molto lunga, accentuando certi fenomeni depressivi tipici nei paesi scandinavi. Per ora però il Parlamento Europeo avrebbe bocciato la richiesta, ma se ne parlerà in futuro ha garantito Juncker.
Se nel prossimo futuro l’Unione Europea dovesse rinunciare definitivamente all’ora legale resterebbe soltanto il continente nord americano ad adottare completamente il DST, ovvero circa un sesto della popolazione. Al di fuori del continente scoperto da Colombo resterebbero soltanto Libano, Israele-Palestina, Iran, Cile. Paesi come Brasile, Nuova Zelanda, Australia invece adottano il DST soltanto in alcuni territori.

lunedì 29 ottobre 2018

Dietro la disputa tra Bruxelles e Roma. Come può la UE rifiutare una manovra che rispetta i parametri di Maastricht?

La resa dei conti tra Roma e Bruxelles occupa da settimane i media europei e gli investitori. Il nuovo governo italiano, composto da partiti politici particolarmente ribelli, ha proposto un deficit di bilancio pari al 2,4 percento del PIL per il prossimo anno. Martedì la Commissione Europea ha dichiarato che questa cifra è troppo elevata e ha dato all’Italia tre settimane di tempo per proporre una revisione della bozza di bilancio. Tuttavia, il 2,4 percento è ben sotto il limite del 3 per cento stabilito dal Trattato di Maastricht. Perché Bruxelles impone a Roma un limite così stretto?

La risposta è che i burocrati dell’Unione Europea hanno cambiato il modo in cui valutano i bilanci degli stati membri, e la nuova formula è fortemente fuorviante.

La crisi dei debiti sovrani iniziata nel 2010 ha spinto Bruxelles a rivedere i criteri di Maastricht, in base all’idea che un limite fisso di deficit al 3 per cento e di debito al 60 per cento possa permettere un eccessivo margine di manovra durante i boom economici e uno troppo esiguo durante le recessioni. Dal 2011 la Commissione ha considerato invece il budget di bilancio “strutturale”, che esclude le voci “uniche” come le politiche per reagire ai disastri naturali e le cosiddette componenti cicliche del bilancio pubblico – questo include sia la tendenza all’aumento della spesa sociale durante le recessioni che gli aumenti del gettito fiscale durante i boom.

Bruxelles può allora stabilire obiettivi specifici per i singoli paesi e imporre piani che i governi nazionali sono tenuti a seguire. Per l’Italia, quest’anno la Commissione ha chiesto una riduzione della parte di deficit strutturale pari allo 0,6 percento del PIL. Il bilancio consegnato dal governo italiano riporta invece un aumento (anziché una riduzione) del deficit strutturale pari allo 0,8 percento del PIL. Questa differenza – “una deviazione significativa dal percorso di aggiustamento”, come viene definita nel gergo degli eurocrati – è la fonte dell’attuale controversia.

Quello che la Commissione non vuole ammettere è che l’intero metodo poggia su congetture. Per calcolare il deficit “strutturale”, si deve prima definire quanta parte del deficit dipende da fattori ciclici. E per capire in che punto del ciclo economico si trovi un paese, nella pratica, è necessario stimare l’“output gap”, cioè la differenza tra il PIL effettivo e quello potenziale. Quest’ultimo è una stima del prodotto che un’economia potrebbe raggiungere in condizioni di piena occupazione, di pieno utilizzo dei capitali, ma senza provocare pressioni inflazionistiche. L’entità dell’output gap è una stima piuttosto importante nel momento in cui la Commissione stabilisce degli obiettivi fiscali.

La stima di questo output gap è la vera fonte della divergenza tra Roma e Bruxelles, e sono le stime di Bruxelles ad avere poco senso. La previsione fatta dalla Commissione prevede un output gap positivo dello 0,5 percento per il 2019. In altre parole, Bruxelles ritiene che l’Italia il prossimo anno avrà una produzione dello 0,5 percento più elevata rispetto a quanto possibile in una condizione di piena occupazione e pieno utilizzo dei capitali [ma senza pressioni inflazionistiche, NdT]. Pertanto, la Commissione ritiene che Roma oggi debba ridurre il deficit.

Tutto questo è ottimistico, per usare un eufemismo. Bruxelles ritiene che l’Italia produrrà al di sopra del suo potenziale, nonostante il suo tasso di disoccupazione sia a doppia cifra da anni. La stima fatta dalla Commissione su un output gap positivo dell’Italia il prossimo anno è quasi pari alla stessa stima fatta per la Germania (0,6 percento), ma la Germania sta avendo un tasso di crescita economica annuale attorno al 2 per cento e un tasso di disoccupazione inferiore al 4 per cento.

Roma ritiene che il PIL del prossimo anno sarà invece dell’1,2 percento inferiore (anziché superiore) alla sua produzione potenziale. Altri economisti ritengono che l’output gap sia addirittura più vicino a un valore negativo del 4 o 5 per cento.

Il problema sta nel metodo che la Commissione usa per stimare variabili cruciali per il calcolo dell’output gap, come la produttività e, soprattutto, il “tasso di disoccupazione a salari stabili” [“non accelerating wage rate of unemployment”], o NAWRU. Questo è il presunto tasso di disoccupazione di equilibrio, tale da non generare pressioni al rialzo sui salari. Maggiore è il divario tra il tasso di disoccupazione effettivo e il NAWRU, maggiore sarà l’output gap.

Bruxelles sta stimando una crescita economica potenziale quasi certamente troppo bassa, quando stima il suo NAWRU. La stima del NAWRU per l’Italia nel 2018 è di una disoccupazione al 9,9 percento, ovvero neanche l’1 per cento inferiore al tasso di disoccupazione effettivo – il che suggerirebbe che l’Italia non abbia alcuna speranza di ridurre il tasso di disoccupazione al di sotto di quel livello (comunque elevato) senza andare incontro a un significativo aumento di inflazione.

Roma usa stime diverse per calcolare l’output gap, più in linea con le caratteristiche particolari del mercato del lavoro italiano. Sebbene non abbia divulgato pubblicamente la sua stima del NAWRU, essa è probabilmente attorno all’8,5 percento. Bruxelles in passato ha ammesso che le stime fatte dall’Italia sul proprio output gap potrebbero essere più precise, il che sarebbe un buon argomento per concedere a Roma una maggiore flessibilità fiscale, anche sotto le regole di bilancio della stessa Commissione Europea.

La grande questione è che nessuno di questi modelli tiene adeguatamente conto della carenza di investimenti, dei ritardi nella produttività, e di un insieme di altri fattori che influenzano la salute economica complessiva dell’Italia, salute economica che a sua volta determina il gettito e il bilancio fiscale. Non è chiaro se il nuovo governo italiano abbia dei piani efficaci per migliorare tutti questi fattori, e se aumentare la spesa in recessione sarà davvero di aiuto. Ma è sicuro che la lotta che si prepara sul deficit di bilancio si riduce alla fine a una spettacolare disputa su modelli econometrici di dubbia esattezza.

venerdì 26 ottobre 2018

L’Istat sballa i dati statistici

Da un’editoriale dell’economista renziano Marco Fortis, apparso ieri su Il Sole 24 Ore, forse per celebrare gli anni del furbetto di Rignano, scopriamo che a settembre l’Istat ha rivisto al rialzo i dati della produzione manifatturiera italiana: +1% nel 2014, + 1,3% nel 2015, + 1,5% nel 2016 e + 1,8 nel 2017. In tutto fa un + 5,6% di produzione manifatturiera aggiuntiva rispetto alle stime iniziali, che porta la produzione in questo quadriennio a +10%.
Quindi la perdita della produzione manifatturiera italiana non è del 22% ma del 10%, contando la crescita di quest’anno. In più, la redditività operativa (+8,6%) è tornata ai livelli pre-crisi e le imprese hanno una patrimonializzazione fortemente aumentata, visto che in dieci anni l’incidenza del capitale proprio sul passivo è passata dal 29 al 40%.
Ricordiamo che Federmeccanica e Confidustria, durante le sessioni di rinnovi contrattuali delle varie categorie, tra cui quella dei metalmeccanici, avvertivano che la diminuzione della produzione rispetto ai livelli precrirsi era pari al 25%.
Era falso, come visto dalla revisione Istat. Ma nel frattempo sono state elargite miserie contrattuali. Il capitale italiano ha ripreso vigore solo ed unicamente grazie alla deflazione salariale a danno del mercato interno. Contano sulla domanda estera, ma fino a quando gli andrà bene?
In ogni caso sarebbe ora che chi contratta i rinnovi legga le carte ufficiali e non si faccia più abbindolare.

giovedì 25 ottobre 2018

Il narcotraffico, l'inquinamento criminale della nostra economia e di quella dell'UE

Dunque, “buone notizie” dalla “borsa del narcotraffico” per l’economia e il Pil del nostro Paese, stando a come vanno gli “affari” nel 2018. Se è vero – nessun motivo per dubitarne – come ha scritto la Commissione parlamentare Antimafia della passata legislatura nella sua relazione conclusiva (febbraio 2018) che “mediamente nel periodo 2005-2008 all’economia criminale è stato attribuito un valore pari al 10,9% del Pil, in ascesa nel 2008 al 12,6%” ed almeno un punto percentuale è da attribuire al commercio di stupefacenti, alla prostituzione e al contrabbando di tabacchi lavorati, alla fine di quest’anno il contributo alla ricchezza nazionale dovrebbe essere ancora maggiore rispetto all’arco temporale sopra indicato soprattutto grazie al narcotraffico che va a gonfie vele.
L’Istat, infatti, proprio in questi ultimissimi giorni ha valutato in circa lo 0,8% il valore aggiunto al Pil generato dalle attività criminali suddette (pari a circa 18 miliardi di euro, una stima prudente), ma i dati sono riferiti al 2016 e se si tiene nella dovuta considerazione i sequestri di stupefacenti da parte delle forze di polizia e delle dogane nel 2017, oltre 114tonnellate, il secondo record assoluto nei sequestri dopo quello del 2014 con oltre 154 ton, si deve ritenere un volume generale di affari e di ricchezza (mafiosa) ancor più notevoli. Un giro di affari che in ambito UE, tenuto conto dei prezzi degli stupefacenti rilevati nel 2017 in alcune piazze (Madrid, Parigi, Lisbona, Berlino, Londra, Amsterdan), oscillerebbe tra i 35 e i 38 miliardi di euro (anche in questo caso una stima prudente) ricavati dai quantitativi dei sequestri effettuati nei vari Paesi (cfr. Rapporto EMCDDA, Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze, del giugno 2018). Cifre che aumentano considerando i sequestri di altre sostanze illecite tra cui Lsd (dietillamide dell’acido lisergico), Ghb (gammaidrossibutirrato), Gbl (gammabutirrolattone), ketamina, khat, catinoni e e cannabinoidi sintetici, nuove benzodiazepine. Un mercato illecito straordinariamente effervescente, dunque, con le grandi organizzazioni criminali, italiane ma anche gruppi strutturati stranieri, che lo regolano fin nei minimi dettagli lavorando strenuamente per far aumentare la domanda, con una fitta rete di spacciatori, organizzati in piccoli gruppi o singole persone, a volte insospettabili, che commerciano la merce in casa, nelle strade o recapitandola a domicilio. Merce che, a giudicare dagli ultimi dati statistici elaborati (12 ottobre scorso) con meticolosità dagli operatori interforze della DCSA, continua ad essere sempre particolarmente “voluminosa”.
Così, i circa 70mila chilogrammi di stupefacenti intercettati dall’inizio dell’anno al 30 settembre scorso (di cui oltre 41ton di hashish e 24 ton di marijuana) fanno ritenere che anche nel 2018 si supererà il tetto delle 100 tonnellate. Preoccupano (dovrebbero) non poco anche le voci circolanti in questi ultimi giorni di una possibile legalizzazione della cannabis (ipotesi che viene fatta di tanto in tanto, supportata, talvolta, anche da alcuni autorevoli magistrati) che significherebbe, con la tassazione che ne deriverebbe, un introito considerevole per le esangui casse dello Stato alla perenne ricerca di denaro per soddisfare le tante promesse fatte in campagna elettorale. La tutela della salute umana, per quei politici che pensano così di far cassa e mantenere il potere politico, passa in secondo piano. Inutile parlare di mercato parallelo a quello legale che si creerebbe inevitabilmente e che sarebbe sempre gestito dalla criminalità.
Altro denaro si ricaverebbe dalla legalizzazione del sesso a pagamento (fatturato annuo stimato dall’Istat in circa 400 milioni d euro) e anche su questo punto ci auguriamo che la classe politica dirigente faccia una profonda riflessione e non ceda ulteriormente alla suggestione di avere in ordine i conti nazionali legalizzando fenomeni criminali che vanno affrontati con leggi severe, un’ adeguata prevenzione (mai fatta seriamente, spesso rimasta sulla carta) e forze di polizia messe in condizioni di fronteggiare questi fenomeni.

mercoledì 24 ottobre 2018

LA BOCCIATURA DELLA MANOVRA

La Commissione europea ha formalizzato all’Italia la bocciatura del progetto di Bilancio sul 2019, alla luce del fatto che quello attuale “non rispetta né le raccomandazioni del Consiglio europeo, né gli stessi impegni presi dall’Italia”. Ha consentito tre settimane di tempo per rimetterla in discussione e ripresentarla a Bruxelles, ancora prima che al Parlamento italiano.
“Il Governo italiano – ha dichiarato il “kommissar” Dombrovskis – sta apertamente e coscientemente andando contro gli impegni presi verso se stesso e verso gli altri Stati membri”. A maggio scorso, la Commissione Ue aveva concluso di non aprire la procedura per debito “soprattutto perché l’Italia era sostanzialmente in linea con le regole”, ma “i piani attuali sono un cambiamento materiale che potrebbe richiedere una rivalutazione” di tutto. “La palla è ora nel campo del Governo italiano, abbiamo tre settimane per un dialogo intenso che affrontiamo in modo costruttivo”. Ma il rinvio di tre settimane del redde rationem tra governo e Commissione europea non deve trarre in inganno. Il kommissar Dombrovskis ha infatti aggiunto che: “Violare le regole può sembrare una tentazione a primo sguardo, può dare l’illusione di sfuggirvi senza conseguenze” così come può tentare “curare il debito con più debito”, ma “a un certo punto il debito si avvicina al punto in cui diventa troppo pesante e si finisce per non avere più libertà del tutto. Ci è stato affidato il compito da tutti gli stati membri di mantenere gli impegni comuni”, è “nostro dovere”, perché “la fiducia è cruciale”.
Sul contenzioso tra Italia e Commissione europea è intervenuto anche il commissario Ue agli affari economici Pierre Moscovici, prima lisciando il pelo al ministro dell’economia Giovanni definito come  “un interlocutore credibile e legittimo”, ma subito dopo affidandogli lo spiacevole compito di riportare in riga il governo:  “Speriamo  – ha detto Moscovici – che sia capace di convincere il governo italiano della necessità” che la manovra italiana sia “compatibile” con le regole Ue e “gli impegni comuni presi”.   Inutile dire che il famigerato spread tra Btp e Bund è tornato sopra quota 300, fino a 320 per poi riscendere a  311, dopo la notizia della bocciatura da parte della Commissione europea alla manovra di bilancio dell’Italia.
Il governo “a tre” si trova adesso di fronte agli stessi problemi con cui ha dovuto fare i conti il governo di Tsipras in Grecia. E come esso dovrà scegliere se chinare la testa, cercare un compromesso al ribasso o tenere duro. Si accettano scommesse.

martedì 23 ottobre 2018

L’Italia rompe gli indugi sulla Cina

Per molti anni l’approccio politico dell’Italia verso la Cina è stato aperto, ma scettico, spesso ambiguo. Oggi sta cambiando radicalmente. Permettetemi di riassumere i punti principali di questa possibile transizione. L’Italia non ha riconosciuto lo status di economia di mercato alla Cina nel 2016 ed è stata in prima linea nelle crescenti critiche dell’UE legate agli investimenti esteri cinesi, sostenendo la necessità di definire un regolamento per il loro controllo. Ciononostante, l’Italia ha sempre riconosciuto l’importanza dello sviluppo cinese e ha mostrato un enorme interesse per la Belt and Road Initiative (BRI).
Negli ultimi anni, l’Italia è diventata una delle principali destinazioni degli investimenti cinesi in Europa. Ad esempio, Cassa Depositi e Prestiti (CDP), la banca italiana di sviluppo, ha già costituito sinergie di successo con la Cina. Nel 2014, la State Grid of China ha acquistato il 35% di CDP RETI, che controlla le principali società italiane (Terna e Snam) nel settore della trasmissione di energia. Nello stesso anno, Shanghai Electric Corporation e Ansaldo Energia hanno firmato due accordi di joint venture. Nel 2017, in occasione della visita di una delegazione governativa italiana a Pechino, CDP e China Development Bank hanno concordato di creare un nuovo strumento da € 100 milioni che investirà nel capitale delle piccole e medie imprese italiane e cinesi. Questi sono solo alcuni esempi importanti del dinamismo degli investimenti cinesi negli ultimi anni. Non tutti gli accordi sono stati considerati economicamente sostenibili, ma nel complesso l’Italia ha guadagnato da questi flussi di capitali.
Il problema è che fino a pochi mesi fa il paese non ha elaborato un piano o una strategia coerente. Questo è il motivo principale per cui Michele Geraci, il nuovo sottosegretario al Ministero dello Sviluppo Economico con vasta conoscenza sulla Cina e sull’economia internazionale, ha recentemente affermato: “siamo molto diversi dal precedente governo sulla Cina, e stiamo cercando di non ignorare la Cina come è stato fatto in passato”. Il punto fondamentale risiede nella mancanza di una strategia nazionale, a lungo termine, per la Cina. Non è possibile trarre il massimo vantaggio da questa relazione se non c’è un lavoro istituzionale costante per affrontare il potenziale della BRI, oppure per negoziare accordi di investimento e commerciali, senza definire priorità nazionali e così via. Ad esempio, l’attuale governo sarà più cauto nei confronti dei tentativi dell’UE di controllare gli investimenti dalla Cina (o altri paesi extra-Ue), dopo anni di critiche verso importanti acquisizioni cinesi di asset europei. Il governo ritiene che potremmo ottenere maggiori benefici da un approccio sistemico verso la Cina e i suoi progetti internazionali. Le nostre esportazioni verso la Cina stanno crescendo, anche perché le importazioni cinesi sono in un trend positivo che durerà a lungo. Dovremmo firmare accordi per penetrare ulteriormente i mercati di consumo cinesi, che sono in forte espansione.
Francia, Germania e Regno Unito sono progredite bene negli ultimi 20 anni, ma l’Italia è rimasta indietro. Potremmo fare molto meglio. In effetti, il nuovo governo si sta muovendo velocemente. In poche settimane, abbiamo avuto molte visite ufficiali di alto livello e i leader del nuovo governo italiano sono entrambi sulla stessa pagina per ciò che concerne l’interesse strategico nazionale verso la Cina. L’Italia ha il diritto e il potenziale per sfruttare meglio la sua posizione geografica nella BRI e offrire molti canali di cooperazione.
Per questi motivi, il Ministero dello Sviluppo Economico italiano ha istituito una task force sulla Cina con rappresentanti delle comunità nazionali economiche, culturali, finanziarie e politiche di entrambi i paesi. L’obiettivo è quello di indagare su ciascun settore economico e su ciascuna questione di cooperazione bilaterale al fine di fare sistema. La task force considera i molteplici benefici che deriverebbero dal rafforzamento delle relazioni Cina-Italia: investimenti, commercio, finanza pubblica, occupazione, avanzamento tecnologico, cooperazione ecologica, sviluppo internazionale ecc. Riassumendo i principali obiettivi, il governo italiano si concentrerà su sei punti chiave: 1) promuovere l’ingresso di capitale strategico e investimenti diretti greenfield in Italia; 2) favorire gli investimenti cinesi in titoli di stato e società private; 3) promuovere l’export italiano in Cina e del turismo cinese in Italia; 4) assistere le imprese italiane nel settore agro-alimentare; 5) facilitare l’espansione dell’economia verde in Cina e in Italia; 5) aiutare le aziende italiane a connettersi con i programmi di investimento cinesi finanziati dall’iniziativa Belt and Road; 6) potenziare i meccanismi di collaborazione scientifica e ricerca e sviluppo.
Non è un caso che durante le ultime visite, l’Italia abbia confermato l’intenzione di cooperare con la Cina nei paesi terzi, come quelli del continente africano. A tale riguardo, un protocollo d’intesa firmato durante l’ultima visita è già un risultato importante. Inoltre, alla fine dell’anno verrà firmato un altro MoU per coinvolgere pienamente l’Italia nella BRI, in modo che possa diventare il principale partner della Cina in Europa. Dobbiamo adattarci al mondo che cambia in modo costruttivo.

lunedì 22 ottobre 2018

Fine del dollaro, fine delle guerre

Il Venezuela ha annunciato che eliminerà l’uso del dollaro nel sistema bancario ufficiale, privilegiando euro, yuan e altre monete convertibili. E’ stata, ha spiegato il governo di Caracas, “una conseguenza delle recenti e illegali sanzioni Usa che bloccano la possibilità di continuare a usare dollari”.
Di necessità virtù, infine. Pianeta dedollarizzato, pianeta mezzo salvato.  Perché?
Un articolo pubblicato nel 2005, ancora sull’onda dell’indignazione per la guerra di Bush in Iraq, esordiva così: “Se la possibilità da parte degli Stati uniti di intraprendere guerre e conquiste imperiali dipende dalla loro supremazia militare, questa a sua volta si basa sull’uso del dollaro come moneta di riserva mondiale. Il privilegio che il mondo ha concesso al dollaro sostiene il dominio finanziario degli Usa e il loro illimitato potere di spesa, il quale permette loro di mantenere centinaia di migliaia di uomini e basi in tutto il mondo. Distruggi l’egemonia del dollaro Usa e l’impero si scioglierà”. Che pace!  
Nel 1973 nascono i petrodollari con un patto «segreto», vero matrimonio di convenienza fra Stati uniti e Arabia saudita, i monarchi wahabiti si impegnano a vendere in dollari il petrolio e a riciclare i petrodollari nell’economia del Grande fratello d’oltreoceano, ottenendo in cambio da quest’ultimo la protezione manu militari, con esagerate vendite di armi e se occorre spietati interventi con i bombardieri dal cielo. Nel 1975 tutte le nazioni Opec (Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio) decidono di denominare in dollari le vendite del cosiddetto «oro nero».
Da allora, l’ingiusto e nefasto privilegio del dollaro è ancora lì. Il biglietto verde è ancora centrale negli affari; e perfino nelle teste – gli stessi attivisti vanno alle conferenze antimperialiste usando i dollari quando non è affatto necessario.
Certo, il tentativo di bypassare il dollaro è costato caro a chi lo ha tentato individualmente, come Saddam Hussein in Iraq (con la scelta di farsi pagare il petrolio in euro) e Muammar Gheddafi in Libia (con il progetto del dinaro d’oro in l’Africa). La dittatura del dollaro è stata mantenuta a suon di bombe. Non ci si può dissociare in solitaria da questa egemonia dittatoriale e bellicista.
Ma un’uscita corale dal dollaro è possibile (non possono bombardare tutti) e recherebbe pace al mondo.  Qualcosa si sta muovendo da alcuni anni, in vista di una nuova architettura finanziaria con monete di scambi e di riserva alternative
Magari da parte di paesi soggetti a sanzioni. Come il Venezuela.

venerdì 19 ottobre 2018

Auto: vita sempre più dura per diesel e benzina, ma c’è anche qualche spiraglio

La “Crociata contro le emissioni” varata negli ultimi anni dai principali governi occidentali continua a mietere vittime, ma trova salde sponde anche nel resto del pianeta.
E’ stata appena diffusa la notizia che in Israele, per esempio, dal 2030 non potranno più essere vendute autovetture a combustibili fossili, quindi né diesel né benzina: potranno essere solo elettriche. Quelle già esistenti, del resto, non avranno vita lunga perché si prevede di smaltirle in tempi ragionevolmente brevi. Solo per i camion ci sarà la possibilità di avere l’alimentazione a metano, in alternativa all’elettrico. Israele, del resto, ha vari giacimenti di metano, ed intende usarlo anche per alimentare le centrali elettriche, ma pure in questo caso dando sempre più spazio alla produzione di energia elettrica da fonti verdi.
La mossa varata dal governo israeliano è persino più estrema di quella già eclatante varata poco tempo fa da quello danese: in tal caso, infatti, si è detto di non voler più consentire la vendita di autovetture diesel e benzina dal 2030, con un’eccezione però per quelle ibride. Si tratta però di una misura transitoria, poiché dal 2035 il divieto di vendita sarà applicato anche a loro, con l’obiettivo di azzerrare completamente le emissioni nel paese entro il 2050.
Si tratta in entrambi i casi di progetti molto ambiziosi: in Israele, per esempio, girano oggi 177mila vetture elettriche, ma l’obiettivo nel giro di pochi anni è di approdare ad un milione e mezzo di unità; mentre in Danimarca il mercato dei mezzi elettrici nel 2017 è valso per lo 0,4% del totale ed arrivare alla totalità richiederà una pesante azione del governo. A titolo di raffronto, in Italia le auto elettriche costituiscono al momento lo 0,1% del venduto.
Nel frattempo, a Bruxelles, i ministri dell’Ambiente dei vari paesi UE si sono confrontati per 14 ore per definire i nuovi obiettivi di abbattimento delle emissioni di anidride carbonica. Entro il 2030 si dovrà quindi avere un taglio del 35% delle emissioni per le auto, ridotto al 30% per i veicoli commerciali. La soglia del 35% è stata un compromesso fra quanto votato in precedenza dagli europarlamentari, che puntavano al 40%, e quanto richiesto invece dai commissari UE, pari al 30%.
I paesi nordeuropei spingevano addirittura per limiti pari al 45%, ma si sono scontrati col parere degli altri Stati membri, che diversamente da loro hanno un’industria automobilistica da tutelare. I primi hanno poi anche criticato l’atteggiamento a loro dire troppo mite dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), l’organismo ONU che si occupa dei cambiamenti climatici e che opera presso i vari paesi per tutelare e sensibilizzare sulla necessità di provvedere a tutela del pianeta.
Erik Jonnaert, che presiede l’ACEA, l’Associazione Europea dei Costruttori Automobilistici, ha criticato invece la scelta del 35%, pur apprezzando il ridimensionamento rispetto al 40% votato la scorsa settimana dagli europarlamentari, paventando conseguenze tanto per le industrie quanto per il mercato.
Nel frattempo, cominciando dal nostro paese, scatta la lotta contro le vecchie automobili Euro4 comprese: vetture tutto sommato ancora recenti, ma già indicate come inquinanti da molte amministrazioni regionali e locali. In Emilia Romagna i blocchi e le limitazioni hanno superato, per severità, le altre regioni: non solo le Euro3 ma anche le Euro4 sono state messe al bando, con sanzioni da 164 a 663 euro nel caso di Bologna. Anche in questo caso, però, dopo il primo duro colpo vi è stata una parziale mitigazione: dopo il vertice fra la Regione e i sindaci di trenta comuni, si è deciso infatti di riammettere alla circolazione le pur recenti Euro4.

giovedì 18 ottobre 2018

Economia circolare contro povertà e sprechi

Anche se non risolutivi esistono meccanismi sinergici e buone pratiche di economia circolare che possono almeno attenuare due enormi problemi: lo spreco alimentare di 5,5 milioni di tonnellate di cibi annue e la povertà assoluta di 2,7 milioni di cittadini. L’esempio di Napoli.
In Italia, secondo l’ultimo rapporto sulla povertà alimentare e lo spreco, 2,7 milioni di individui versano in condizioni di povertà assoluta e, per il consumo di pasti e la sussistenza nutrizionale, 2,55 milioni traggono sostegno da pacchi alimentari e, per comprensibili motivi di riserbo, solo 114mila ricorrono alle mense dei poveri presso strutture caritatevoli. Tra questi soggetti 455mila sono bambini under15, 200mila anziani under65 e 100mila homeless (Coldiretti, 2018). Le cause imputabili all’aumento di questo fenomeno sono riconducibili tradizionalmente e sostanzialmente a conflitti, crisi e rotture dei legami familiari, condizioni di salute avverse e inabilitanti, episodi di maternità associati ad assenza di tutele contrattuali (Campiglio e Rovati, 2009), come pure al fenomeno del working poor e alla fragilità occupazionale (Pesenti, 2015) e i dati Istat mostrano che l’accesso a pasti tramite forme caritatevoli interessa sia gli stranieri (di cui 22,2% senza alcuna fonte di reddito e 48,8% con una sola fonte di reddito ma di fatto insufficiente) che gli italiani (con percentuali pari rispettivamente a 11,2% e 59,5%).
A fronte di una domanda alimentare di tale portata che resta insoddisfatta, ogni anno in Italia 5,5 milioni di tonnellate di alimenti vengono sprecate per responsabilità dei consumatori (42% dei casi), dei produttori (39%), dei ristoratori (14%) e dei rivenditori (5%) dovute ad inefficienze presenti lungo tutta la filiera e attinenti a motivi climatici e limiti e difetti tecnici, gestionali, organizzativi e cognitivi (BCNF, 2012).
Posto che tra i bisogni essenziali (basic needs) sono proprio i bisogni nutrizionali (food needs) a venire utilizzati prevalentemente nella letteratura scientifica tra i criteri di misurazione della povertà (Santoro, 2017) e vista l’efficacia documentata di percorsi di auto-attivazione civile per dar risposta ai crescenti bisogni sociali in modo integrativo all’intervento statale (Maino e Ferrera, 2017) anche in campo alimentare (Maino et al. 2016), in un logica che rientra nell’ambito dell’economia sociale, ove, con finalità redistributiva, si realizzano utilità sociali specifiche per soggetti privi delle disponibilità monetarie sufficienti per accedere agli scambi di mercato (Musella e Santoro, 2012), una recente ricerca (Musella e Verneau, 2017) analizza invece le prospettive di soluzione che possono venire apportate al problema dall’economia circolare. Questo nuovo paradigma di sviluppo, la Circular Economy, che risulta applicabile a tutti i segmenti economici, con vantaggi attinenti la stabilità e l’indipendenza dall’aumento dei prezzi delle materie prime e con ricadute positive sull’indotto, agevola la creazione di filiere trasversali e l’estrazione di valore da asset esistenti, secondo una sequenza ricorsiva del tipo vendita/noleggio acquisto/pay per use utilizzo ritiro rigenerazione vendita/noleggio [..]> e risponde all’insostenibilità del modello lineare <take make use dispose> dovuta all’elevato sfruttamento di risorse ormai in esaurimento, all’esponenziale crescita demografica e agli effetti del cambiamento climatico (Deandreis et al., 2018).
La Fondazione (di Ellen MacArthur che, per prima, a livello mondiale, ha promosso una riflessione sul tema e ha concorso alla creazione di un Network per l’introduzione e l’affinamento di applicazioni concrete basate su cinque pilastri Input; Recovery, Recycling and Upcycling; Product Life Extension; Sharing Economy; Product As a Service) stima, per l’Europa, grazie all’applicazione della Circular Economy, effetti concreti in termini di vantaggio competitivo e di produttività nell’ordine rispettivamente di 1.800 miliardi di euro e 3% annui (McKinsey Center for Business, Enviroment and The Ellen MacArthur Foundation, 2015) e la Commissione europea prevede significativi incrementi dell’occupazione, con 600.000 nuovi posti di lavoro (Commissione europea, 2014).

All’interno di questo filone di studi, la ricerca coordinata da Musella e Verneau, posto che “esistono ampi spazi per dimostrare che l’economia basata sul paradigma dell’efficienza, e l’etica, ispirata al paradigma dell’equità, possono assumere caratteri sinergici e interdipendenti” e che “equità ed efficienza possono essere richiamate entrambe per giustificare pratiche di recupero del cibo invenduto o di riduzione dello spreco, un’utilizzazione sociale del cibo invenduto ha un indiscutibile valore etico ma anche evidenti vantaggi economici”, mostra come “attivare canali di riutilizzo del cibo invenduto rende possibile avviare quei processi di economia circolare che hanno di recente assunto rilevanza per la tutela dell’ambiente, per un uso migliore delle risorse naturali, per una sostenibilità dei processi di produzione e consumo” (op. cit., p.11-13).
Lo studio di caso citato ha interessato il Centro Storico di Napoli e, partendo dall’evidenza che negli ultimi anni questa area è stata investita da maggiori flussi di turismo e interessata da un conseguente aumento del numero di esercizi dedicati alla ristorazione, ipotizzando che ciò abbia accresciuto la quantità di avanzi alimentari prodotti, il team di ricerca, tramite interviste presso ristoranti, bar, mense e catering, ha realizzato una stima qualitativa e quantitativa degli scarti del settore. I risultati mostrano, tra l’altro, che oltre il 70% degli scarti degli approvvigionamenti annui consiste in prodotti finiti, rimasti invenduti, ma potenzialmente ancora valorizzabili attraverso un uso alimentare. Si tratta di 5.400 quintali di cibo, volutamente prodotto in eccesso per garantire gamme di offerta ampie e quindi attrattive per i clienti, la cui impronta ambientale è pari ad oltre 1,5 milioni di metri cubi d’acqua e quasi 1.000 tonnellate di CO2. Secondo le stime dei ricercatori (utilizzando un fattore di conversione pari a 3.500 Kilocalorie/Kg), tutto ciò “corrisponderebbe ad oltre 2,5 milioni di pasti e consentirebbe di sfamare totalmente circa 3.000 individui l’anno” (p.36) per un valore di 3,25 milioni di euro.
L’analisi citata, inoltre, approfondisce il fenomeno del cibo invenduto dal lato della domanda e,con piste di interviste rivolte ai responsabili e agli utenti delle mense caritatevoli dell’area, mostra come su un totale di 1.720 poveri serviti, il 68% è di origine straniera (proveniente per lo più dall’Africa e dall’Est Europa), ma nell’ultimo quinquennio la percentuale degli italiani è in aumento, disoccupato in oltre il 90% dei casi, con più di un figlio nel 46,51% dei casi e privo di fissa dimora nel 51,16% dei casi.
Nella situazione presentata gli strumenti operativi che risultano particolarmente rispondenti a favorire il matching tra domanda e offerta di cibo sono le reti di servizi integrati, che consentono di agire su più fronti lungo la filiera agroalimentare e coinvolgere più attori possibili grazie anche all’influsso della sharing economy e al moltiplicarsi delle realtà partecipative nel mondo del Terzo Settore (Amati, Arrigoni e Musella, 2017).
La ricerca coordinata da Musella e Verneau ha il pregio di offrire un chiarimento rispetto ai canali di riutilizzo del cibo invenduto (recentemente normati dalla legge Gadda, n.166/2016), che rientrano anche tra i processi di economia circolare e possono incidere positivamente sulla riduzione della povertà alimentare e delle disuguaglianze nelle opportunità; sulla liberazione di risorse per politiche sociali di well-being alternative, nonché sull’abbattimento dei costi di smaltimento dei rifiuti e dell’impronta ambientale. Inoltre, realizzando un identikit di chi ricorre alle mense caritatevoli e esplicitando i limiti e le difficoltà organizzative dei gestori di questi istituti, dà voce a una parte di popolazione altrimenti invisibile e offre utili indicazioni per rendere i servizi di integrazione nutrizionale più funzionali e rispondenti alle effettive esigenze.
Si tratta complessivamente di un contributo alla ricerca e alla letteratura sul tema utile per promuovere l’effettivo ricorso ad un fattivo approccio rigenerativo in campo alimentare, focalizzando l’attenzione degli stessi esercenti sul problema e, tramite un’informazione completa, curata e comprensibile, può anche concorrere a superare le ritrosie registrate dagli stessi nel rendere trasparenti per effetti di Desiderabilità Sociale e quindi migliorare le conoscenze relative allo spreco alimentare, strumentali alla creazione di virtuosi modelli di economia circolare che favoriscano l’incontro tra richiesta di cibo e rimanenze e coniughino così efficienza ed equità.

mercoledì 17 ottobre 2018

I primati mondiali dell'Italia di cui nessuno parla

Diretto a Washington per ritirare il Premio Speciale della National Italian American Foundation (Niaf) - riservato a chi raggiunge particolari traguardi nella propria professione e già attribuito a personalità come Lee Iacocca, Giovanni Agnelli, Sergio Marchionne, Gianni Versace, Robert De Niro, Al Pacino, Leon Panetta e tanti altri in 43 anni di storia - il Presidente della Confindustria Vincenzo Boccia ha tenuto una lecture alla New York University per offrire un'immagine dell'Italia diversa da quella che potrebbe apparire leggendo le cronache di questi giorni.
Invece che soffermarsi sulle divisioni e sulle incomprensioni che fanno del nostro Paese, almeno nell'immaginario collettivo, uno dei posti più litigiosi e meno governabili del globo, Boccia è partito dalla narrazione dei prodotti bellissimi che esporta e di quegli uomini, gli imprenditori appunto, che anche negli anni più bui della storia hanno trovato la forza e il coraggio, il modo attraverso infinite difficoltà, di creare ricchezza e benessere fino a spingerci a diventare la seconda manifattura d'Europa e la settima potenza industriale al mondo.
Vista con altri occhi, quelli che ci guardano e ci giudicano per quello che abbiamo saputo fare e ancora sappiamo fare in campo industriale con una bravura che ci viene largamente invidiata, l'Italia da scolara svogliata e ripetente diventa maestra. E infatti dalla meccanica alla moda, dall'agroalimentare all'arredamento, sono almeno otto i settori nei quali il nostro Paese eccelle piazzandosi al primo, al secondo o al terzo posto delle classifiche internazionali. Dati che si possono leggere nelle statistiche del Wto, ma che con molta difficoltà sono oggetto di dibattito e approfondimento.
E infatti l'Italia divide con il Brasile l'antipatico primato delle nazioni che si considerano peggio di come sono valutate dagli altri. A furia di parlarci male addosso, di accusarci l'un con l'altro delle difficoltà e dei problemi che abbiamo, di usare l'estero come palcoscenico per attaccare i nemici interni, abbiamo cominciato a credere per primi noi stessi alle cattiverie che ci scambiavamo - e continuiamo imperterriti a scambiarci - perdendo la fiducia reciproca. E se non riusciamo a difendere i nostri valori e le nostre capacità, perché dovrebbe farlo qualcun altro?
Ecco il punto. È come se l'Italia scommettesse continuamente contro se stessa esaltando i suoi punti peggiori che diventano oggetto di dileggio e nascondendo quelli migliori che faticano a farsi riconoscere mentre invece meriterebbero di essere evidenziati con giusto orgoglio. Non si tratta di fare gli sbruffoni, come altri Paesi invece fanno esagerando in senso opposto, ma di trovare anche nella sfera pubblica quell'equilibrio che ci ha reso famosi nelle forme dell'arte e nel design. Dobbiamo cioè imparare, ma questo è stato già detto, a volerci un po' più di bene.

martedì 16 ottobre 2018

Italia, economia sommersa vale 16,7 miliardi

Nel 2016, le attività illegali considerate nel sistema dei conti nazionali hanno generato un valore aggiunto pari a 16,7 miliardi di euro, con un incremento di 800 milioni di euro rispetto all’anno precedente. Si tratta di una somma pari a circa lo 0,8% del Pil nazionale.
I consumi finali di beni e servizi illegali, riporta l’Istat, sono risultati pari a 19,9 miliardi di euro (+0,9 miliardi rispetto al 2015), che corrispondono all’1,9% del valore complessivo della spesa per consumi finali.
A influire sulla crescita dell’economia sommersa è stato soprattutto l’aumento del traffico di stupefacenti, il cui valore aggiunto sale nel 2016 a 12,6 miliardi di euro (con un aumento di 0,8 miliardi rispetto al 2015), mentre la spesa per consumo relativa all’acquisto di droghe illegali è pari a 15,3 miliardi di euro (contro i 14,3 miliardi dell’anno precedente). L’incremento registrato su entrambi gli aggregati è quasi interamente riferibile ad un aumento dei prezzi degli stupefacenti a fronte di una sostanziale stabilità dei volumi.
Per quanto riguarda i servizi di prostituzione si stima un valore aggiunto pari a 3,7 miliardi di euro e consumi per 4,0 miliardi di euro, sostanzialmente invariati rispetto al 2015. Anche le attività di contrabbando di sigarette mantengono un livello analogo all’anno precedente, con un valore aggiunto pari a 0,4 miliardi di euro e un ammontare di consumi di 0,6 miliardi di euro.

Istat: 3,7 milioni di lavoratori irregolari nel 2016

L’indotto connesso alle attività illegali, principalmente riferibile al settore dei trasporti e del magazzinaggio, si è mantenuto costante, generando un valore aggiunto di economia sommersa pari a circa 1,3 miliardi di euro.
Restando in tema di attività illecite, sempre nell’anno di riferimento del 2016, il numero di lavoratori in nero è stato pari a 3 milioni e 701 mila, in prevalenza dipendenti (2 milioni 632 mila), in lieve diminuzione rispetto al 2015 (rispettivamente -23 mila e -19 mila unità). Il tasso di irregolarità, calcolato come incidenza delle unità di lavoro (Ula) non regolari sul totale, è pari al 15,6% (-0,3 punti percentuali rispetto all’anno precedente).
L’incidenza del lavoro irregolare, riferisce sempre l’Istat, è particolarmente rilevante nel settore dei Servizi alle persone (47,2% nel 2016, in calo di 0,4 punti percentuali rispetto al 2015), ma risulta significativo anche nei comparti dell’Agricoltura (18,6%), delle Costruzioni (16,6%) e del Commercio, trasporti, alloggio e ristorazione (16,2%).

lunedì 15 ottobre 2018

La guerra in Iraq di Bush e Blair è stata la chiave che ha aperto la porta all'inferno attuale della Siria

A seguire, l'analisi di John Wight già giornalista per diversi quotidiani e periodici come The Independent, Morning Star, Huffington Post, Counterpunch, London Progressive Journal, e Foreign Policy Journal.

Come con il popolo vietnamita, così con i siriani. La loro lotta contro l'imperialismo e l'egemonia ha fatto guadagnare loro un posto al tavolo della storia che non potrà mai essere abbandonato. Perché, se si penetra oltre le offuscate propagandate dagli ideologi occidentali, il conflitto in Siria nel suo nucleo è stato di carattere antimperialista.

L'inferno visto nella società siriana è stato per molti aspetti una continuazione dell'inferno visto sull'Iraq nel 2003, dopo che 13 anni di sanzioni avevano già ucciso due milioni di persone, tra cui mezzo milione di bambini .
Durante questo periodo di sanzioni, l'ex segretario di Stato statunitense Madeleine Albright, in un raro momento di candore per un funzionario dell'impero, ci ha fornito una preziosa visione della barbarie incontaminata che si cela dietro la maschera della democrazia e dei diritti umani che tali persone solitamente indossare allo scopo di confondere l'opinione  pubblica su chi e cosa siano veramente.
L'intervistatrice, Lesley Stahl, disse ad Albright che mezzo milione di bambini iracheni erano morti a causa delle sanzioni e le chiese se pensava che se "ne valesse la pena". Albright senza esitazione rispose: "Sì. Pensiamo valga la pena.”

 
Afferrarsi con la bestia dell'egemonia occidentale ci obbliga ad affrontare la verità saliente che la grottesca e perversa visione del mondo di Albright, fornendole la capacità di spiegare in modo impersonale l'omicidio con le sanzioni di mezzo milione di bambini iracheni, è la stessa visione del mondo che ha guidato la guerra degli Stati Uniti contro il Vietnam, che ha sostenuto i sei decenni di guerra economica contro il popolo cubano, gli interventi militari segreti nel Sud e Centro America negli anni '80, il supporto con i mujaheddin in Afghanistan nello stesso periodo e il continuo sforzo per effettuare un cambio di governo in Venezuela.

È anche, senza dubbio, il pensiero che ha informato l'approccio dell'Occidente nei confronti della Libia nel 2011, quando la difficoltà del paese si è presentata come un'opportunità.
In altre parole, è la visione del mondo di coloro che sono così malati dell'ideologia dell'egemonia non c'è atto mostruoso, nessun crimine o massacro che non può essere intrapreso nella sua causa, rendendo necessaria l'astrazione di milioni di vite come semplici relitti e jetsam per giustificare la loro sofferenza come un "prezzo che vale la pena pagare ".

Ritornato in Iraq nel 2003, il flagello del jihadismo salafita che ha sfregiato la società siriana è nato nel corso di quella guerra, in cui ISIS (Stato islamico) ha iniziato la sua vita come Al Qaeda in Iraq (AQI) sotto un Abu Musab al-Zarqawi . Secondo la Stanford University , un'istituzione che fino a quel momento non era conosciuta come un focolaio di sentimento pro-Assad, questa particolare storia si è sviluppata così:
"Lo Stato Islamico (ISIS), noto anche come Stato Islamico in Iraq e Siria (ISIS o ISIL) è un'organizzazione militante salafita-jihadista in Siria e Iraq il cui obiettivo è la costituzione e l'espansione di un califfato. Il gruppo ha le sue origini nei primi anni 2000, quando Abu Musab al-Zarqawi iniziò a formare militanti estremisti. Il gruppo è stato un importante partecipante dell'insurrezione irachena durante l'occupazione americana, prima sotto il nome di Jama'at al-Tawhid wa'al-Jihad e poi, dopo aver giurato fedeltà ad Al-Qaeda, come Al-Qaeda in Iraq ".

Questo motivo per cui questa traiettoria è così importante da riaffermare, e perché deve trattenerci, è sottolineare che le radici di quella che in seguito fu la Siria fu piantata in Iraq dalla guerra guidata dagli Stati Uniti si scatenò nel 2003. La guerra di Bush e Blair era la chiave che ha sbloccato le porte dell'inferno da cui questa barbarie medievale ha avuto un effetto devastante.
 Coloro che credono diversamente, come l'ex ambasciatore americano in Siria, Robert Ford , farebbero bene a riflettere sul fatto che senza l'Iraq spinto nell'abisso del collasso sociale, della carneficina e del conseguente salasso settario, il salafita-jihadismo di al-Zarqawi e altri sono state negate le condizioni richieste per alimentare la sua crescita e diffusione.
Washington, non Damasco o Mosca, ha creato e incubato il Mostro di Frankenstein dell'ISIS, nello stesso laboratorio dell'imperialismo USA in cui i Khmer Rossi furono creati negli anni '70 e Al-Qaeda negli anni '80.
Quello che il Vietnam negli anni '60 e '70, l'Afghanistan negli anni '80 e la Siria oggi hanno in comune, ovviamente, è la posizione di Mosca. È una questione storica che senza gli aiuti sovietici (russi) ai vietnamiti negli anni '60 e '70, non avrebbero prevalso, ed è anche una questione di cronaca che il destino del destino dell'Afghanistan negli anni '90 era basato su il ritiro forzato delle forze sovietiche mentre il paese iniziava a dimenarsi sotto il peso delle contraddizioni interne che dovevano condurre alla sua fine.

Anche se il costo per il mondo della fine dell'Unione Sovietica non sarà mai risarcito - misurato non solo nell'abisso medievale in cui è precipitato l'Afghanistan, ma anche nello smembramento della Jugoslavia e nella suddetta decimazione dell'Iraq - senza la ripresa di Mosca verso il punto di poter intervenire militarmente in Siria nel 2015, Damasco oggi occuperebbe un posto nello stesso cimitero.
L'Iran e gli Hezbollah hanno anche svolto un ruolo indispensabile nella lotta per la sopravvivenza della Siria, spendendo sangue e denaro nell'impresa, mentre il sacrificio dell'esercito arabo siriano è stato incommensurabile.
La glorificazione della guerra e del conflitto, specialmente tra coloro che vivono in sicurezza a molte miglia di distanza dai suoi orrori e dalla sua brutalità, nasconde e sanifica le sue aspre verità. Coloro che la glorificano, che la vedono come un gioco di società, dovrebbero prendere un momento per studiare e assimilare le parole di Jeannette Rankin, che ha detto: " Non puoi più vincere una guerra di quanto tu non possa  vincere un terremoto ".
La guerra in Siria conferma la verità costante di quelle parole quando prendiamo in considerazione la mastodontica distruzione che ha prodotto, il tragico costo umano e come ha scosso la società siriana fino ai limiti della resistenza. Significa che mentre la sopravvivenza del paese come stato indipendente non settario può ormai essere certa, la sua capacità di riprendersi completamente dal terremoto che Rankin descrive è qualcosa che solo il tempo dirà.
Ma il fatto che il paese sia riuscito a raggiungere la sua sopravvivenza e, con esso, l'opportunità di recuperare, è prevalentemente il risultato dell'esercito arabo siriano, la cui carnagione è un microcosmo della stessa società e delle persone che ha difeso - sunniti, sciiti , Drusi, cristiani, alawiti, ecc.
Robert Fisk , le cui notizie dalla Siria dall'inizio del conflitto sono state indispensabili per aiutarci a navigare nella sua traiettoria, ci informa che qualcosa dell'ordine di 70-80.000 soldati siriani sono morti. Ciò costituisce un incredibile bilancio in un paese il cui esercito era di 220.000 all'inizio del conflitto. Ancora più cruciale, è un tributo che non è stato possibile sostenere senza il solido sostegno del popolo siriano per l'esercito e il suo governo, guidato dal presidente Bashar Assad, negli ultimi otto anni.

In quale direzione la Siria si dirige dopo la fine della guerra è senza riserve una questione per la sua gente. È difficile credere che possa sperare di tornare allo status quo che esisteva prima, però, non dopo la sofferenza e il sacrificio elementare che sono stati sopportati e fatti da così tanti. 
Una cosa è abbastanza certa: la nazione e la società che hanno iniziato la vita come una costruzione coloniale, nel corso del conflitto, si sono radunate in un punto cruciale della sua storia per affermare il diritto di non essere mai più colonizzato da nessuno.

venerdì 12 ottobre 2018

Italia, uno dei paesi più disuguali dell’Ocse. E l’euro c’entra qualcosa

La secessione reale che sta devastando il nostro paese da anni vede aumentare sistematicamente le disuguaglianze sociali e territoriali.
A certificare quello che andiamo denunciando da anni, smascherando la retorica sulle “zone smart che trainano la crescita”, questa volta viene addirittura l’Ocse con il rapporto “Oecd: Regions and city at the glance 2018” (Regioni e città nello sguardo dell’Ocse 2018).
Il rapporto esamina i divari economici e sociali all’interno in una quarantina industrializzati rilevati dall’Ocse. Nel caso italiano il giudizio è pesante affermando che “le già ampie disuguaglianze economiche regionali sono aumentate un po’ negli ultimi sedici anni”, nel senso che le regioni più povere hanno perso ancora terreno. Magari sarà solo una coincidenza, ma lo hanno perso “negli ultimi sedici anni” cioè da quando nel 2000 è entrato in vigore formalmente l’euro (per la circolazione materiale occorrerà aspettare il 2002). Il Rapporto Ocse infatti prende in esame i dati fino al 2016.
Il dettaglio dell’indicatore temporale non poteva essere più preciso (avrebbero potuto dire gli ultimi venti anni o gli ultimi dieci) e in qualche modo conferma che quella decisione – entrare nella gabbia dell’Eurozona – ha accentuato le disuguaglianze sul piano sociale ma anche sul piano territoriale, allontanando tra loro le regioni che si sono legate al nucleo duro europeo e quelle che ne sono state via via centrifugate.
Secondo l’Ocse, l’Italia è il Paese industrializzato con le maggiori disparità tra regioni in termini di occupazione ed è al secondo posto per le disuguaglianze nella sicurezza. Ma ci sono divari ancora tra i più ampi nell’accesso ai servizi, nella casa, nella sanità, nell’ambiente, nella scuola e, di conseguenza, anche nelle condizioni e nelle aspettative generali di vita.
A livello di aree metropolitane, Milano è all’apice con un Pil pro-capite di quasi 62mila dollari, contro i 17.545 dollari della città più svantaggiata e su una media nazionale di 33.200 dollari. Il capoluogo lombardo è però bocciato per l’inquinamento e ha perso posizioni rispetto al 2000 in quanto a ricchezza rispetto alle altre aree metropolitane dell’area Ocse, così come è accaduto anche per Roma.
In termini di reddito disponibile l’area metropolitana più ricca in Italia risulta essere quella di Bologna con 35.200 dollari, in pratica i livelli dell’area metropolitana londinese, ed è il doppio dei 17mila euro scarsi di Palermo, una quota questa che è un terzo in meno rispetto alla media italiana e tra i più bassi delle aree metropolitane dell’Ocse in assoluto. Milano, resta l’area metropolitana più ricca d’Italia in termini di Pil pro capite, ma è solo 79esima tra le 329 aree metropolitane censite dall’Ocse, dopo avere perso 37 posizioni rispetto al 2000. Roma, che nel 2000 era nel 20% delle aree più ricche dell’Ocse, ha perso addirittura 78 posti, la performance peggiore tra le aree metropolitane
L’Italia, in compenso non è il paese al top per le maggiori disparità in materia di Pil pro capite (è quattordicesima sui 33 paesi aderenti all’Ocse).
Non sorprende che le disuguaglianze più profonde nei paesi Ocse siano nella patria dell’ultraliberismo: la Gran Bretagna. La City di Londra ha un Pil pro capite di 23 volte più alto di quello della sperduta isola di Anglesey (463mila dollari contro 19.800). Nella classifica subito dopo ci sono Usa, Germania, Francia, Svizzera e Olanda.
La divaricazione tra Nord e Meridione in Italia si ripropone, comunque, in quasi tutti gli aspetti presi in considerazione. Il lavoro resta il fattore dirimente a tutti i livelli: il tasso di disoccupazione dei giovani della Calabria, pari al 55,7% è tra i più alti dell’intera Ocse e livelli superiori al 50% affliggono anche Puglia, Campania e Sicilia, mentre a Bolzano i giovani senza lavoro sono il 10% (meno della media Ocse che è del 11%) e la media nazionale è del 34,7% nel 2017 (i dati di agosto 2018 la pongono al 31%). Il tasso di occupazione nel 20% delle regioni al top è del 70,3%, mentre nelle regioni più svantaggiate scende al 41%.
La disoccupazione tra i 15 e il 64 anni in Italia, sottolinea l’Ocse, varia tra un minimo del 6,3% e un massimo del 21,7%. L’Italia ha poi il terzo maggiore divario di genere nell’area per l’occupazione femminile, che registra in Sardegna la differenza più ampia (27 punti percentuali), a livelli della regione cilena del Maule. È invece la Campania ad avere il maggiore ‘gender gap’ della disoccupazione femminile (10,3), più alto anche della Grecia occidentale. Tra i paesi Ocse solo la regione turca dell’Anatolia fa di peggio.
Le condizioni abitative migliori in Italia si rilevano in Friuli Venezia Giulia, con 1,5 persone per stanza nel 2016, meglio che in Svezia, contro le 2 persone della Campania (2 persone, ma il dato è migliore di tanti altri Paesi anche scandinavi). La spesa per l’alloggio in Italia varia tra il 44% (più che a Oslo) e il 25% del reddito famigliare a seconda della regione e in ogni caso più della media Ocse che è circa del 20%.
Nel livello di istruzione il rapporto rileva che mentre nella provincia di Trento il 77% della forza lavoro ha almeno un titolo di istruzione secondaria, in Puglia la percentuale si ferma al 59%.
La salute, intesa come aspettativa di vita, è all’apice nella provincia di Trento, mentre la Campania si colloca sul lato opposto e negativo della graduatoria. “Tutte le regioni italiane – rileva il rapporto – hanno migliorato la loro posizioni in termini di salute dal 2000 in poi e sono ora nel 20% delle regioni più sane, eccetto la Campania e la Sicilia”. La Lombardia si colloca il primo posto per l’accesso ai servizi, misurato però sulla base dell’accesso alla banda larga, mentre la Calabria è il fanalino di coda.
Infine, in materia di sicurezza, la Val d’Aosta è tra le regioni più sicure dell’intera Ocse (con solo 0,4 omicidi per 100.000 persone), mentre la Sicilia è nel 10% meno sicuro (4,5 omicidi per 100.000 abitanti). La regione italiana con il maggior numero di furti d’auto è il Lazio (187 per 100mila abitanti), quella con il minor numero è la provincia di Trento (12 per 100mila persone), che è più sicura del Vermont e anche della Baviera (ma va detto che al primo posto assoluto c’è Berlino con 337 furti).
Guardando in controluce i dati contenuti in questo rapporto dell’Ocse, si conferma come la secessione reale ossia l’ordine di priorità nelle scelte economiche degli ultimi sei governi e la subalternità ai parametri imposti dall’Unione Europea/Eurozona, abbia accentuato enormemente il divario complessivo tra Nord e Meridione, ma soprattutto tra alcune regioni del Nord e il resto di un paese sempre più “meridionalizzato” dalle scelte della governance multivello (europeo, nazionale, locale) esercitata da Bruxelles e dai grandi gruppi multinazionali.
L’Italia è un paese che sta riproducendo una estesa periferia interna – funzionale all’esclusivo sviluppo di alcune aree del Nord integrate con la filiera tedesca – dentro una periferia ancora più estesa e con la medesima funzione prodotta da un modello coloniale a livello europeo.

giovedì 11 ottobre 2018

I mercati spiegati a mio nipote

I signori Mercato sono strani, potentissimi, ma non si fanno vedere, potentissimi proprio perché invisibili (come The Invisible Man di H. G. Wells, 1881). Sono velocissimi e sono dappertutto. Per questo è impossibile evitarli. Ma, soprattutto, hanno un carattere impossibile: irascibili, volubili, permalosi, autoritari, vendicativi. Si sa quel che fanno, ma nessuno è ancora riuscito a conoscerli di persona. Io ci ho provato e ti voglio raccontare com’è andata.
Innanzitutto ho fatto mio il motto della Guardia di Finanza: segui i soldi! La principale attività dei signori Mercato, infatti, è scambiare il denaro che noi tutti spendiamo per comprarci le cose che usiamo (i giocattoli, le merendine, i vestiti…). Ho quindi cercato un mercato, che pensavo fosse la casa dei Mercati. Non è stato facile trovarlo: il mercato del grano sta a Chicago, quella della CO2 a Londra, quello dei diamanti ad Anversa, quello dell’acciaio in Cina … Quello più vicino a casa era quello del pesce a Chioggia. Una confusione che non ti dico! Strilli e urla, imprecazioni. Nessuno qui è mai contento: non c’è un pescatore che sia appagato del prezzo a cui vende il pesce e nemmeno un commerciante sicuro di riuscire a rivenderlo. Gli ho chiesto di chi fosse la colpa e loro in coro: dei Mercati! Ho capito allora che i Mercati non sono nei mercati. Per trovarli dovevo continuare a seguire i soldi lì dove si ammucchiano. Semplicissimo: in banca. Come non pensarci subito! È lì che prima o poi tutti noi li portiamo o li prendiamo; li depositiamo quando ne risparmiamo un po’, li preleviamo quando rimaniamo senza. Mi sono allora ricordato che una volta un funzionario della mia banca mi ha chiamato per chiedermi se volevo “investire” la eredità della bisnonna. Sono andato da lui convinto di trovare un signor Mercato. Mi ha ricevuto a viso scoperto, gioviale e sorridente. No, non era lui un signor Mercato. Lui era solo un collettore. Aveva cioè il compito di raccattare spiccioli che poi altri suoi colleghi impacchettano, trasformano in prodotti finanziari e rivendono sotto forma di valute, titoli, azioni, obbligazioni, polizze, cambiali, bond, cedole, fondi, derivati, derivati di derivati … Quando finisce il denaro scambiano titoli con titoli, polizze con polizze, derivati con derivati … Quando finiscono anche i titoli scambiano promesse sul valore futuro di questo o di quell’altro titolo. Insomma, tirano a indovinare partendo dal presupposto che prima o poi ci sarà qualcuno che compra nuovi giocattoli, mangia più merendine, ricambia il guardaroba… Insomma, anche le banche lavorano sodo per i Mercati: con 1 $ buono creano tanti pezzi di carta che ne valgono 10. È così che i signori Mercato trovano di che alimentare il loro insaziabile apparato digerente e riescono ad allargare all’infinito il loro giro d’azione.
Stanco di cercare a vuoto, ho pensato di chiedere aiuto a degli esperti e sono andato direttamente alla più prestigiosa Università di Economia che è proprio nella mia città. Mi hanno trattato da scemo: i Mercati non esistono, sono impersonali e anonimi, sono un sistema di sistemi matematici che tiene conto degli scambi di beni e servizi che ogni individuo realizza calcolati in denaro. Loro, gli economisti, tengono solo il pallottoliere. L’equilibrio del sistema (l’utilità generale) è raggiunto automaticamente.
Sconsolato sono tornato a casa, ma un dubbio mi è rimasto: come mai il “sistema dei sistemi” è diventato sempre più iniquo, ingiusto e prepotente? Ad esempio decide di tagliare i soldi alle scuole e diminuire le tasse ai ricchi, di farci mangiare più merendine confezionate e di mandare al macero le arance, di farci comprare vestiti cuciti in Bangladesh e chiudere le sartorie da noi, di …?

Allora mi è venuta in mente la famosa storia de Il Turco, un automa creato nel 1769 da un inventore austriaco con le sembianze di un uomo orientale che muoveva le pedine e giocava a scacchi, per divertire Maria Teresa d’Austria e, in seguito, i molti spettatori nei teatri e nei musei degli Stati Uniti. Peccato che la macchina fosse collegata a una cassa che nascondeva un vero giocatore di bassa statura che grazie a ingranaggi, magneti e specchi riusciva a vedere le mosse dell’avversario e manovrare con leve e ingranaggi gli arti del manichino.
Rimane aperta la gara a chi riuscirà a scoprire la scatola e smascherare chi manovra i mercati.

mercoledì 10 ottobre 2018

9 ottobre 1963: il disastro del Vajont. Storia di una strage che si poteva evitare

Alle ore 22.39 del 9 ottobre 1963 circa 260 milioni di metri quadri di roccia precipitarono alla velocità di 30 metri al secondo, pari a 108 chilometri orari, nel sottostante bacino artificiale nato dalla creazione della Diga del Vajont, che conteneva al momento del disastro 115 milioni di metri quadri d’acqua. Si creò così un’onda di piena tricuspide che superò in 250 metri d’altezza il coronamento della diga e che addirittura in parte risalì il versante opposto, distruggendo tutti gli abitati lungo le sponde del lago nei comuni di Erto e di Casso. La diga, pur subendo forze di venti volte superiori a quelle per le quali era stata progettata, rimase sostanzialmente intatta, come uno spettrale monumento alla morte e alla follia dell’uomo, in mezzo ad un territorio che la furia delle acqua aveva invece completamente trasformato in un deserto.
Dai 25 ai 30 milioni di metri quadri di roccia caddero invece su Longarone e sui centri limitrofi, riversandosi nella Valle del Piave, e creando a loro volta un nuovo lago artificiale. In totale vi furono 1917 vittime, di cui 1450 nella sola Longarone, 109 a Codissago e Castellavazzo, 158 ad Erto a Casso e le rimanenti 200 nei comuni limitrofi.
Lungo le sponde del Lago del Vajont andarono così completamente distrutti i borghi di Frasègn, Le Spesse, Il Cristo, Pineda, Ceva, Prada, Marzana, San Martino, e la parte bassa di Erto. Nella Valle del Piave, invece, furono rasi al suolo Longarone, Pirago, Faè, Villanova, Rivalta, mentre Codissago, Castellavazzo, Fortogna, Dogna e Provagna riportarono gravi danni. Altri danni ancora, seppur minori, si registrarono in altri centri circostanti.
Il drammatico evento fu causato da una serie d’imperdonabili errori umani, gravi leggerezze, l’ultima delle quali era rappresentata dall’improvvida scelta d’innalzare le acque del lago artificiale oltre la soglia di sicurezza di 700 metri voluto dall’ente gestore, la SADE del Conte Volpi. E pensare che la stessa SADE, all’atto di passare il controllo della diga alla neocostituita ENEL, ben s’era raccomandata dal fare un tentativo tanto ardito. Giravano poi altri studi, svolti da terzi, che sottolineavano la pericolosità della situazione: il nome stesso del Monte Toc, che nel dialetto locale significa “marcio”, faceva ben intuire quanto la sua roccia fosse friabile ed inaffidabile.
L’operazione, ufficialmente, venne effettuata per il collaudo dell’impianto, col fine di provocare una caduta controllata della frana dentro l’invaso, in maniera che non costituisse più un pericolo. Ciò, in contemporaneità con una stagione caratterizzata da elevate precipitazioni, costituiva un esperimento indubbiamente azzardato ed inopportuno. Non mancarono poi gravi negligenze per quanto riguardava la gestione dell’assetto idrogeologico, in particolare per quanto concerneva il Monte Toc, dal quale si staccò la famigerata frana prima dei tempi previsti. Anche la velocità con cui la frana avrebbe dovuto precipitare dentro l’invaso era stata ampiamente sottostimata, ricorrendo pure in questo caso a modelli matematici fallaci.
Nel febbraio del 2008, durante l’Anno Internazionale del Pianeta Terra dichiarato dall’Assemblea Generale dell’ONU, il Disastro del Vajont è stato citato insieme ad altre quattro tragedie come un caso esemplare di “disastro evitabile”, provocato dal “fallimento d’ingegneri e geologi nel comprendere la natura del problema che stavano cercando d’affrontare”.

martedì 9 ottobre 2018

La dannosa sindrome della “rivolta dei tecnici

Nelle scorse settimane ha ripreso vigore la polemica, da parte di vari esponenti politici, nei confronti dei “tecnici”, accusati senza troppo riguardo di essere degli ottusi interpreti di regole altrettanto ottuse o, ancora peggio, di presentarsi come gli artefici consapevoli di un premeditato disegno volto ad impedire alle attuali forze di governo di realizzare alcuni punti salienti del loro programma elettorale. Si tratta di uno scontro che, per molti versi, costituisce una novità nella storia italiana sia per la ferocia dei toni usati, davvero inediti, sia per la natura del rapporto instaurato, appunto, tra tecnici e politica.
Riguardo a questo secondo aspetto, infatti, le vicende patrie degli ultimi centocinquanta anni hanno conosciuto diverse modalità di relazione tra tecnici e politica che, quasi mai, si sono tradotte in un aperto scontro. Durante il periodo della Destra e della Sinistra storica, nell’Italia appena formata, gran parte delle compagini ministeriali erano composte da figure di alto spessore tecnico, soprattutto nei dicasteri decisivi. La poltrona di ministro delle Finanze fu occupata, solo per citare qualche esempio, da Marco Minghetti, profondo conoscitore di questioni agrarie e industriali, da Quintino Sella, che, dopo la laurea in ingegneria, si era perfezionato alla prestigiosa Ecole des mines di Parigi, divenendo uno degli scienziati più stimati in Europa, da Antonio Scialoja, economista di chiara fama e grande conoscitore dei bilanci pubblici, da Bernardino Grimaldi, studioso e docente universitario di diritto costituzionale, da Sidney Sonnino, dotato, tra le altre cose, di una formidabile preparazione “tecnica” in materia di banche, di moneta e di industria. Non mancavano poi i ministri che provenivano direttamente dagli apparati ministeriali come nel caso di Vittorio Ellena, già direttore generale delle gabelle al ministero delle Finanze e in seguito ministro, e dello stesso Giovanni Giolitti, formatosi negli “stanzoni” ministeriali.
Certo non a caso, anche durante il cosiddetto “periodo giolittiano”, nel primo quindicennio del Novecento, questa tradizione dello stretto legame fra ministri e tecnici fu ancora coltivata con cura. Nei diversi esecutivi guidati dal politico piemontese comparvero figure come Luigi Luzzatti, economista e giurista di grande rilievo, profondo conoscitore del sistema bancario italiano, come il costituzionalista Angelo Majorana Calatabiano, e come Giulio Alessio, uno dei “fondatori” in Italia della Scienza delle finanze. Durante tutta questa fase, in estrema sintesi, la capacità tecnica veniva ritenuta un requisito essenziale per coprire ruoli pubblici e, soprattutto, i tecnici, a cominciare da quelli dei ministeri, erano considerati un’autorevole risorsa in grado di tenere insieme i già sgangherati conti pubblici italiani. Un simile atteggiamento conobbe alcune trasformazioni negli anni del fascismo. Da un lato emerse una sostanziale continuità nella scelta di ministri dotati di buona preparazione tecnica per i dicasteri economici, da Alberto De Stefani, docente di Scienza delle finanze all’università di Roma, ad Antonio Mosconi, che era stato Segretario generale del Ministero dell’interno in età giolittiana, a Giuseppe Volpi e Guido Jung, legati a doppio filo alle proprie imprese e grandi conoscitori del mercato.
Dall’altro, Mussolini rivendicò a più riprese un primato della politica sulla tecnica destinato a rivelarsi fatale, a cominciare dal clamoroso errore di imporre, con Quota Novanta, un cambio artificiale e insostenibile tra lira e sterlina che, peraltro, fu osteggiato dai “tecnici” della Banca d’Italia, a cominciare dal direttore Bonaldo Stringher, e che costrinse il Paese a una costosissima e perdente autarchia. Mussolini però fece ampio ricorso ai tecnici, come Alberto Beneduce e Donato Menichella, per mettere in piedi la rete dei salvataggi bancari negli anni Trenta, rintracciando proprio nella competenza di tali figure una gran parte delle motivazioni delle sue scelte. L’attenzione alla preparazione tecnica dei personaggi chiave degli esecutivi divenne quasi maniacale negli anni della ricostruzione e del boom economico, con i dicasteri finanziari affidati a figure come Luigi Einaudi, Epicarmo Corbino, Ezio Vanoni e Antonio Giolitti; anche nel momento in cui i grandi partiti tendevano ad occupare tutti gli spazi dell’apparto statuale, la “riserva” dei tecnici continuava ad essere preservata e ad essere considerata, talvolta persino un po’ ipocritamente, un valore. Questa prassi fu attenuata nel corso degli anni Ottanta con dicasteri economici più “spregiudicati” e molto politici a cui seguì -verrebbe da dire inevitabilmente- la breve stagione dei tecnici al governo, prima con Ciampi e poi con Monti, chiamati dalla presidenza della Repubblica a porre un argine alle tragiche difficoltà dei conti pubblici e accusati poi dei peggiori misfatti per aver provato a mettere delle pezze, certo non troppo gradite in termini di consenso. La storia italiana, dunque, ha conosciuto un articolato rapporto tra tecnici e politica in cui molto spesso i primi sono stati ritenuti indispensabili alla seconda e, comunque, quasi mai sono stati considerati un corpo ostile, il “nemico interno”, nella complessa macchina statale. Costruire, in chiave elettoralistica, una contrapposizione del tutto artificiale rischia di aprire dannose stagioni di caccia alle streghe che, fortunatamente, il nostro Paese non ha vissuto. L’Italia ha conosciuto brutali epurazioni, fortunate carriere spinte dalla politica e altri mali profondi, ma è riuscita a risparmiarsi la sindrome della “rivolta dei tecnici”. Almeno finora.

lunedì 8 ottobre 2018

Disoccupazione occultata dai lavoretti

Gli ultimi dati Istat, letti attentamente, mostrano come la disoccupazione in Italia non stia affatto diminuendo. Si occulta, come la povertà. Aumenta invece la precarizzazione, contratti anche di pochi giorni, i lavoretti dei Libretti con cui Gentiloni di fatto ha reintrodotto i voucher, e gli scoraggiati.
La disoccupazione in Italia non sta diminuendo. La si occulta. Siamo in sintonia con chi ha sconfitto la povertà. I dati Istat pubblicati martedì scorso infatti, dicono ben altro rispetto a quanto pubblicato su numerosi siti web.
Negli ultimi tre mesi, giugno, luglio e agosto solo 9.000 persone in più hanno trovato lavoro. Questo numero è il saldo tra la perdita di posti dei mesi di giugno e luglio, meno 60.000 e l’aumento di agosto, più 69.000. Il risultato non permette la riduzione della percentuale di disoccupati riportata da molti media. Invece, scrive l’Istat, solo negli ultimi due mesi presi in considerazione, ben 222.000 persone hanno smesso di cercare lavoro. Ecco perché la disoccupazione cala.
Altrove questo numero sarebbe al centro della attenzione per quello che di negativo contiene. Si cercherebbe di capire molte le spiegazioni di questo comportamento se sia legato alla stagione estiva che permette qualche occasione in più di lavori in nero nelle località turistiche e in campagna. Oppure se siamo di fronte ad una crescita dello scoraggiamento della ricerca del lavoro.  Comunque si tratta di comportamenti che confermano precarietà e debolezza del sistema economico.
Ci sono poi le altre osservazioni del rapporto che vengono completamente rimosse. Tra i nuovi “occupati” , scrive sempre l’istituto di statistica, troviamo anche 26.000 persone che percepiscono uno stipendio di 300 euro al mese e anche meno. Si tratta di lavoratori che usufruiscono di contratti di prestazione occasionale o di “Libretti di famiglia”.
A giugno i primi erano 20.000 con uno stipendio lordo di 250 euro. I secondi 6.000 con uno stipendio lordo di 300 euro. Sono il frutto del tentativo del governo Gentiloni di ripristinare la politica dei voucher.
Sono in crescita anche i lavoratori con contratti a chiamata. Nell’ultimo trimestre sono cresciuti di 30.000 unità al mese. Si tratta di lavoratori che sfiorano le 10 giornate mensili di impiego. La gran parte della dinamica occupazionale continua a svolgersi nel settore dei servizi. La produzione continua a non aver bisogno di occupati.

venerdì 5 ottobre 2018

Ogni anno in Europa si sprecano 88 milioni di tonnellate di cibo

Secondo le stime della FAO, un terzo del cibo prodotto a livello mondiale per il consumo umano va sprecato, nella sola Europa ogni anno se ne sprecano circa 88 milioni di tonnellate, per un costo stimato in circa 143 miliardi di euro l’anno. E a fare il punto, nello specifico, sullo spreco di frutta e verdura è uno studio curato dal Joint Research Centre della Commissione Europea (JRC), che fa il punto sul settore frutta e verdura che contribuisce a quasi il 50% degli sprechi alimentari generati dalle famiglie della UE a 28 Stati; si stima che ogni persona riduca in rifiuto 35,3 kg di frutta e verdura all'anno, 14,2 kg dei quali sarebbero evitabili.
La prima differenziazione che fa lo studio è tra il non commestibile, o rifiuto inevitabile, e il commestibile, che diventa rifiuto a causa di comportamenti di acquisto e consumo sbagliati.
Sono stati presi in esame 51 tipi di frutta e verdura acquistati, consumati e sprecati nel Regno Unito, Germania e Danimarca nel 2010, arrivando alla conclusione che 21,1 kg di rifiuti pro capite sarebbero inevitabili e 14,2 kg evitabili.
In media, il 29% (35,3 kg per persona) di frutta e verdura fresca acquistata dalle famiglie è sprecato, e di questo il 12% (14,2 kg) potrebbe non venire gettato.
Gli autori rilevano differenze a causa dei diversi livelli di comportamenti nei consumi, legati essenzialmente a fattori culturali ed economici, che influenzano direttamente la quantità di rifiuti generati.
Per esempio, i dati mostrano che sebbene gli acquisti di verdure fresche siano più bassi nel Regno Unito rispetto alla Germania, la quantità di rifiuti inevitabili generati pro-capite è quasi la stessa, mentre la quantità di rifiuti evitabili è più alta nel Regno Unito.
Il problema, dunque, non è di poco conto. In proposito, la Commissione Europea sta predisponendo la seguete serie di azioni:
- elaborazione, entro marzo 2019, di una metodologia comune europea per misurare coerentemente i rifiuti alimentari, in cooperazione con gli Stati membri e le parti interessate;
- utilizzo di una piattaforma sulle perdite e gli sprechi alimentari che riunisce organizzazioni internazionali, organi dell'UE, Stati membri, attori nella catena alimentare, per contribuire a definire le misure necessarie, facilitare e sviluppare la cooperazione, analizzare l'efficacia delle iniziative di prevenzione degli sprechi alimentari, condividere le migliori pratiche e i risultati raggiunti;
- adozione di linee guida per facilitare la donazione di cibo e la valorizzazione di alimenti non più destinati al consumo umano come alimenti per animali, senza compromettere la sicurezza di alimenti e mangimi;
- esaminare i modi per migliorare l'uso della marcatura delle date di scadenza e la loro comprensione da parte dei consumatori.
Non è detto che tali misure siano destinate a funzionare, anche perché gli interventi "dall'alto" non sempre sono veloci ed efficaci e non sempre sortiscono effetti significativi.
La cosa più importante sarebbe che ogni persona, ogni cittadini maturasse la consapevolezza che non è più momento per potersi permettere di sprecare nulla.

giovedì 4 ottobre 2018

Il business dei farmaci sotto inchiesta. Undici arresti tra medici e manager

La Procura di Parma ha indagato 36 persone – di cui per 11 è stata chiesta la custodia cautelare – rivelando un sistema corruttivo per la vendita di farmaci che coinvolgeva medici e aziende farmaceutiche. Tra gli indagati e gli arrestati figurano dirigenti, medici, universitari e rappresentanti del settore farmaceutico.
Le aziende coinvolte nelle attivita’ illecite sono sette, al momento non sono stati resi noti i nomi. Nell’operazione sono stati sequestrati 335.000 euro ritenuti i proventi dei reato di corruzione e truffa. Nell’operazione, che i carabinieri hanno chiamato “Conquibus”, sono coinvolte persone residenti in Emilia Romagna, Lombardia, Piemonte, Liguria, Friuli Venezia Giulia, Umbria e Lazio.
L’ordinanza di misure cautelari e’ stata richiesta dalla Procura della Repubblica di Parma ed emessa dal Gip, che ha disposto l’arresto di un dirigente medico e di un imprenditore e l’applicazione di misure interdittive a carico di altri 9 indagati tra medici universitari e rappresentanti del settore farmaceutico. Sono in corso oltre 40 perquisizioni presso le abitazioni dei professionisti coinvolto e presso le sedi di societa’ e di note aziende farmaceutiche. I reati contestati agli indagati sono corruzione, induzione indebita a dare o promettere utilita’, comparaggio farmaceutico, abuso d’ufficio, falso ideologico e truffa aggravata.
L’operazione di oggi sembra essere la prosecuzione di una analoga realizzata sempre a Parma, nel maggio scorso anno, dove c’era già stata una inchiesta sul medesimo settore – il connubio tra business, medici e aziende farmaceutiche – che aveva portato all’arresto di 19 persone tra cui luminari della sanità parmense e gli amministratori delegati di aziende come Spindial spa e della Appmed srl.

mercoledì 3 ottobre 2018

Un rapporto rivela l'aumento del tasso di suicidi tra i militari degli Stati Uniti

È un'emergenza nazionale che richiede un'azione immediata. Abbiamo trascorso l'ultimo decennio cercando di migliorare il processo di transizione dei nostri veterani, ma è chiaro che stiamo fallendo e la gente sta morendo», ha dichiarato Joe Chenelly, direttore esecutivo dell’associazione statunitense dei veterani Amvets.

In totale, 6079 veterani si sono suicidati nel 2016, rispetto ai 6281 del 2015, secondo un rapporto pubblicato dal Dipartimento per gli Affari dei Veterani degli Stati Uniti.

Le percentuali più alte, spiega il rapporto, si verificano tra veterani militari tra i 18 e i 34 anni, una cifra che il Dipartimento considera «molto allarmante».

Secondo i dati del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti (il Pentagono), dal 2008 più di 200 membri attivi del servizio sono morti per suicidio ogni anno.

martedì 2 ottobre 2018

Il pareggio di bilancio in Costituzione c'è solo da sei anni ed è una 'camicia di forza' neoliberista

Forse non tutti sanno che la parte dell'articolo 97 della Costituzione che impone il pareggio di bilancio, citata da Mattarella per criticare il governo e il DEF di pochi giorni fa, esiste solo da sei anni. Non c'era infatti nel testo stabilito dall'Assemblea Costituente nel 1947, che si limitava a stabilire il "buon andamento e imparzialità dell'amministrazione". Il liberale Einaudi tentò già allora di farlo inserire nella Carta ma c'erano i comunisti e per paura di loro la DC era costretta a fingersi populista, così la norma non venne presa in considerazione.

La promise Berlusconi nel 2011 (era di moda negli Stati Uniti, chiesta a gran voce dalla destra antikeynesiana, e fra gli euroburocrati) ma a farla approvare ci pensò Monti l'anno seguente con la consueta scusa dell'emergenza, a larga maggioranza ma senza una vera discussione parlamentare o pubblica e con un iter insolitamente rapido.
Favorevoli ovviamente Pd e FI; a opporsi furono solo, accanto al M5S (non rappresentato in Parlamento), Rifondazione e SEL, ancora non interamente scivolate nel liberismo liberal.

Mi auguro che appena possibile questo governo corregga l'articolo 97 eliminando la "camicia di forza economica" voluta da Monti (la definizione è di cinque premi Nobel per l'economia, in un loro messaggio del 2012 al presidente americano Obama) e oggi celebrata da Mattarella.

lunedì 1 ottobre 2018

Guerra del pane invenduto: l'Antitrust smaschera i più importanti supermercati italiani

Il pane invenduto, fornito dai piccoli panettieri alla grande distribuzione, graverebbe sulle tasche dei primi, a vantaggio dei secondi. L'ennesima lotta di Davide contro Golia e questa volta riguarda uno degli alimenti più consumati nel nostro paese.
È già stata soprannominata la "guerra del pane invenduto" e nei due schieramenti vedi contrapposti da una parte alcuni grossi supermercati, dall'altra i piccoli produttori di pane. L'Antitrust sta indagando sulla vicenda e ha aperto 6 istruttorie per verificare una presunta pratica sleale a danno delle imprese di panificazione. Oggetto delle istruttorie sono i principali operatori nazionali nel settore della Grande Distribuzione Organizzata: Coop Italia, Conad, Esselunga, Eurospin, Auchan e Carrefour, alcune di esse già ispezionate dai funzionari dell’Antitrust e dal Nucleo Speciale Antitrust della Guardia di Finanza.

L'invenduto che grava sui piccoli fornitori

Secondo quanto riportato dall'Agcm, la condotta che viene contestata alla GDO prevede che i fornitori di pane fresco, a fine giornata, debbano ritirare a proprie spese l’intero quantitativo di pane invenduto. La differenza di valore tra quello consegnato a inizio giornata e quello reso a fine giornata viene poi riaccreditata al compratore della GDO sugli acquisti successivi.

Altro che lotta agli sprechi alimentari...

E non è tutto. I piccoli panificatori in più devono occuparsi a proprie spese dello smaltimento del pane, considerato un “rifiuto” alimentare. Un meccanismo perverso, visto che attualmente la normativa vigente non permette alcun riutilizzo del pane invenduto a fini commerciali. Addirittura, anche donarlo non è possibile. Una beffa, che colpisce i panificatori e indirettamente anche i cittadini, visti i grandi spechi alimentari che ne derivano.
Per l'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato
"la pratica si inquadra in una situazione di significativo squilibrio contrattuale tra le catene della GDO e le imprese di panificazione (imprese artigiane con pochi dipendenti). In tale contesto, l’obbligo di ritiro dell’invenduto rappresenta una condizione contrattuale posta ad esclusivo vantaggio delle catene della grande distribuzione e determina un indebito trasferimento sul contraente più debole del rischio commerciale di non riuscire a vendere il quantitativo di pane ordinato e acquistato".
I procedimenti dell'Agcm sono stati avviati dopo una serie di segnalazione da parte della principale associazione nazionale di panificatori, Assipan-Confcommercio Imprese per l’Italia, e dovranno accertare eventuali violazioni dell’art. 62 del decreto legge n. 1/2012 che regola le relazioni commerciali nella filiera agro-alimentare.
Non tarda ad arrivare la replica di Esselunga, che si è difesa dicendo:
“In relazione all’istruttoria aperta da Antitrust nei confronti dei principali operatori della GDO per una presunta pratica sleale a danno di alcuni aderenti alle associazioni di panificatori, chiariamo che il pane da noi venduto è per il 95% sfornato direttamente nei reparti dei nostri negozi, cioè non è fornito da panificatori terzi. Siamo certi che l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, nella quale abbiamo piena fiducia e con la quale collaboreremo su ogni aspetto utile a chiarire la questione, saprà valutare la piena correttezza del nostro operato”.
Non sarebbe meglio se, sostenuta dalla legge, la GDO a proprio carico mettesse a disposizione il pane invenduto a chi, ancora oggi, ha difficoltà a mettere in tavola un pasto per la propria famiglia?