Anche se non risolutivi esistono meccanismi sinergici e buone pratiche di economia circolare che possono almeno attenuare due enormi problemi: lo spreco alimentare di 5,5 milioni di tonnellate di cibi annue e la povertà assoluta di 2,7 milioni di cittadini. L’esempio di Napoli.In Italia, secondo l’ultimo rapporto sulla povertà alimentare e lo spreco, 2,7 milioni di individui versano in condizioni di povertà assoluta e, per il consumo di pasti e la sussistenza nutrizionale, 2,55 milioni traggono sostegno da pacchi alimentari e, per comprensibili motivi di riserbo, solo 114mila ricorrono alle mense dei poveri presso strutture caritatevoli. Tra questi soggetti 455mila sono bambini under15, 200mila anziani under65 e 100mila homeless (Coldiretti, 2018). Le cause imputabili all’aumento di questo fenomeno sono riconducibili tradizionalmente e sostanzialmente a conflitti, crisi e rotture dei legami familiari, condizioni di salute avverse e inabilitanti, episodi di maternità associati ad assenza di tutele contrattuali (Campiglio e Rovati, 2009), come pure al fenomeno del working poor e alla fragilità occupazionale (Pesenti, 2015) e i dati Istat mostrano che l’accesso a pasti tramite forme caritatevoli interessa sia gli stranieri (di cui 22,2% senza alcuna fonte di reddito e 48,8% con una sola fonte di reddito ma di fatto insufficiente) che gli italiani (con percentuali pari rispettivamente a 11,2% e 59,5%).
A fronte di una domanda alimentare di tale portata che resta insoddisfatta, ogni anno in Italia 5,5 milioni di tonnellate di alimenti vengono sprecate per responsabilità dei consumatori (42% dei casi), dei produttori (39%), dei ristoratori (14%) e dei rivenditori (5%) dovute ad inefficienze presenti lungo tutta la filiera e attinenti a motivi climatici e limiti e difetti tecnici, gestionali, organizzativi e cognitivi (BCNF, 2012).
Posto che tra i bisogni essenziali (basic needs) sono proprio i bisogni nutrizionali (food needs) a venire utilizzati prevalentemente nella letteratura scientifica tra i criteri di misurazione della povertà (Santoro, 2017) e vista l’efficacia documentata di percorsi di auto-attivazione civile per dar risposta ai crescenti bisogni sociali in modo integrativo all’intervento statale (Maino e Ferrera, 2017) anche in campo alimentare (Maino et al. 2016), in un logica che rientra nell’ambito dell’economia sociale, ove, con finalità redistributiva, si realizzano utilità sociali specifiche per soggetti privi delle disponibilità monetarie sufficienti per accedere agli scambi di mercato (Musella e Santoro, 2012), una recente ricerca (Musella e Verneau, 2017) analizza invece le prospettive di soluzione che possono venire apportate al problema dall’economia circolare. Questo nuovo paradigma di sviluppo, la Circular Economy, che risulta applicabile a tutti i segmenti economici, con vantaggi attinenti la stabilità e l’indipendenza dall’aumento dei prezzi delle materie prime e con ricadute positive sull’indotto, agevola la creazione di filiere trasversali e l’estrazione di valore da asset esistenti, secondo una sequenza ricorsiva del tipo
La Fondazione (di Ellen MacArthur che, per prima, a livello mondiale, ha promosso una riflessione sul tema e ha concorso alla creazione di un Network per l’introduzione e l’affinamento di applicazioni concrete basate su cinque pilastri Input; Recovery, Recycling and Upcycling; Product Life Extension; Sharing Economy; Product As a Service) stima, per l’Europa, grazie all’applicazione della Circular Economy, effetti concreti in termini di vantaggio competitivo e di produttività nell’ordine rispettivamente di 1.800 miliardi di euro e 3% annui (McKinsey Center for Business, Enviroment and The Ellen MacArthur Foundation, 2015) e la Commissione europea prevede significativi incrementi dell’occupazione, con 600.000 nuovi posti di lavoro (Commissione europea, 2014).
All’interno di questo filone di studi, la ricerca coordinata da Musella e Verneau, posto che “esistono ampi spazi per dimostrare che l’economia basata sul paradigma dell’efficienza, e l’etica, ispirata al paradigma dell’equità, possono assumere caratteri sinergici e interdipendenti” e che “equità ed efficienza possono essere richiamate entrambe per giustificare pratiche di recupero del cibo invenduto o di riduzione dello spreco, un’utilizzazione sociale del cibo invenduto ha un indiscutibile valore etico ma anche evidenti vantaggi economici”, mostra come “attivare canali di riutilizzo del cibo invenduto rende possibile avviare quei processi di economia circolare che hanno di recente assunto rilevanza per la tutela dell’ambiente, per un uso migliore delle risorse naturali, per una sostenibilità dei processi di produzione e consumo” (op. cit., p.11-13).
Lo studio di caso citato ha interessato il Centro Storico di Napoli e, partendo dall’evidenza che negli ultimi anni questa area è stata investita da maggiori flussi di turismo e interessata da un conseguente aumento del numero di esercizi dedicati alla ristorazione, ipotizzando che ciò abbia accresciuto la quantità di avanzi alimentari prodotti, il team di ricerca, tramite interviste presso ristoranti, bar, mense e catering, ha realizzato una stima qualitativa e quantitativa degli scarti del settore. I risultati mostrano, tra l’altro, che oltre il 70% degli scarti degli approvvigionamenti annui consiste in prodotti finiti, rimasti invenduti, ma potenzialmente ancora valorizzabili attraverso un uso alimentare. Si tratta di 5.400 quintali di cibo, volutamente prodotto in eccesso per garantire gamme di offerta ampie e quindi attrattive per i clienti, la cui impronta ambientale è pari ad oltre 1,5 milioni di metri cubi d’acqua e quasi 1.000 tonnellate di CO2. Secondo le stime dei ricercatori (utilizzando un fattore di conversione pari a 3.500 Kilocalorie/Kg), tutto ciò “corrisponderebbe ad oltre 2,5 milioni di pasti e consentirebbe di sfamare totalmente circa 3.000 individui l’anno” (p.36) per un valore di 3,25 milioni di euro.
L’analisi citata, inoltre, approfondisce il fenomeno del cibo invenduto dal lato della domanda e,con piste di interviste rivolte ai responsabili e agli utenti delle mense caritatevoli dell’area, mostra come su un totale di 1.720 poveri serviti, il 68% è di origine straniera (proveniente per lo più dall’Africa e dall’Est Europa), ma nell’ultimo quinquennio la percentuale degli italiani è in aumento, disoccupato in oltre il 90% dei casi, con più di un figlio nel 46,51% dei casi e privo di fissa dimora nel 51,16% dei casi.
Nella situazione presentata gli strumenti operativi che risultano particolarmente rispondenti a favorire il matching tra domanda e offerta di cibo sono le reti di servizi integrati, che consentono di agire su più fronti lungo la filiera agroalimentare e coinvolgere più attori possibili grazie anche all’influsso della sharing economy e al moltiplicarsi delle realtà partecipative nel mondo del Terzo Settore (Amati, Arrigoni e Musella, 2017).
La ricerca coordinata da Musella e Verneau ha il pregio di offrire un chiarimento rispetto ai canali di riutilizzo del cibo invenduto (recentemente normati dalla legge Gadda, n.166/2016), che rientrano anche tra i processi di economia circolare e possono incidere positivamente sulla riduzione della povertà alimentare e delle disuguaglianze nelle opportunità; sulla liberazione di risorse per politiche sociali di well-being alternative, nonché sull’abbattimento dei costi di smaltimento dei rifiuti e dell’impronta ambientale. Inoltre, realizzando un identikit di chi ricorre alle mense caritatevoli e esplicitando i limiti e le difficoltà organizzative dei gestori di questi istituti, dà voce a una parte di popolazione altrimenti invisibile e offre utili indicazioni per rendere i servizi di integrazione nutrizionale più funzionali e rispondenti alle effettive esigenze.
Si tratta complessivamente di un contributo alla ricerca e alla letteratura sul tema utile per promuovere l’effettivo ricorso ad un fattivo approccio rigenerativo in campo alimentare, focalizzando l’attenzione degli stessi esercenti sul problema e, tramite un’informazione completa, curata e comprensibile, può anche concorrere a superare le ritrosie registrate dagli stessi nel rendere trasparenti per effetti di Desiderabilità Sociale e quindi migliorare le conoscenze relative allo spreco alimentare, strumentali alla creazione di virtuosi modelli di economia circolare che favoriscano l’incontro tra richiesta di cibo e rimanenze e coniughino così efficienza ed equità.
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