mercoledì 10 ottobre 2018

9 ottobre 1963: il disastro del Vajont. Storia di una strage che si poteva evitare

Alle ore 22.39 del 9 ottobre 1963 circa 260 milioni di metri quadri di roccia precipitarono alla velocità di 30 metri al secondo, pari a 108 chilometri orari, nel sottostante bacino artificiale nato dalla creazione della Diga del Vajont, che conteneva al momento del disastro 115 milioni di metri quadri d’acqua. Si creò così un’onda di piena tricuspide che superò in 250 metri d’altezza il coronamento della diga e che addirittura in parte risalì il versante opposto, distruggendo tutti gli abitati lungo le sponde del lago nei comuni di Erto e di Casso. La diga, pur subendo forze di venti volte superiori a quelle per le quali era stata progettata, rimase sostanzialmente intatta, come uno spettrale monumento alla morte e alla follia dell’uomo, in mezzo ad un territorio che la furia delle acqua aveva invece completamente trasformato in un deserto.
Dai 25 ai 30 milioni di metri quadri di roccia caddero invece su Longarone e sui centri limitrofi, riversandosi nella Valle del Piave, e creando a loro volta un nuovo lago artificiale. In totale vi furono 1917 vittime, di cui 1450 nella sola Longarone, 109 a Codissago e Castellavazzo, 158 ad Erto a Casso e le rimanenti 200 nei comuni limitrofi.
Lungo le sponde del Lago del Vajont andarono così completamente distrutti i borghi di Frasègn, Le Spesse, Il Cristo, Pineda, Ceva, Prada, Marzana, San Martino, e la parte bassa di Erto. Nella Valle del Piave, invece, furono rasi al suolo Longarone, Pirago, Faè, Villanova, Rivalta, mentre Codissago, Castellavazzo, Fortogna, Dogna e Provagna riportarono gravi danni. Altri danni ancora, seppur minori, si registrarono in altri centri circostanti.
Il drammatico evento fu causato da una serie d’imperdonabili errori umani, gravi leggerezze, l’ultima delle quali era rappresentata dall’improvvida scelta d’innalzare le acque del lago artificiale oltre la soglia di sicurezza di 700 metri voluto dall’ente gestore, la SADE del Conte Volpi. E pensare che la stessa SADE, all’atto di passare il controllo della diga alla neocostituita ENEL, ben s’era raccomandata dal fare un tentativo tanto ardito. Giravano poi altri studi, svolti da terzi, che sottolineavano la pericolosità della situazione: il nome stesso del Monte Toc, che nel dialetto locale significa “marcio”, faceva ben intuire quanto la sua roccia fosse friabile ed inaffidabile.
L’operazione, ufficialmente, venne effettuata per il collaudo dell’impianto, col fine di provocare una caduta controllata della frana dentro l’invaso, in maniera che non costituisse più un pericolo. Ciò, in contemporaneità con una stagione caratterizzata da elevate precipitazioni, costituiva un esperimento indubbiamente azzardato ed inopportuno. Non mancarono poi gravi negligenze per quanto riguardava la gestione dell’assetto idrogeologico, in particolare per quanto concerneva il Monte Toc, dal quale si staccò la famigerata frana prima dei tempi previsti. Anche la velocità con cui la frana avrebbe dovuto precipitare dentro l’invaso era stata ampiamente sottostimata, ricorrendo pure in questo caso a modelli matematici fallaci.
Nel febbraio del 2008, durante l’Anno Internazionale del Pianeta Terra dichiarato dall’Assemblea Generale dell’ONU, il Disastro del Vajont è stato citato insieme ad altre quattro tragedie come un caso esemplare di “disastro evitabile”, provocato dal “fallimento d’ingegneri e geologi nel comprendere la natura del problema che stavano cercando d’affrontare”.

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