lunedì 31 agosto 2015

Mazziati e contenti, come vuole l’industria della felicità

I padroni non vogliono dai loro subalterni solo quello che riescono a estorcere con il lavoro, ne pretendono anche l’anima. Poco importa se le condizioni lavorative stanno ormai retrocedendo a forme ottocentesche. Le scienze sociali, arruolate alle esigenze dell’impresa, da tempo rilevano come in tempi di crisi sia necessario che i lavoratori e i consumatori vendano la propria anima – e non solo la forza lavoro e i loro redditi – al mercato. Si chiama Happyness Industry, l’industria della felicità. Diffondere ottimismo nella società e sentimenti positivi dentro le imprese sta diventando uno strumento indispensabile per far ripartire l’economia in quei paesi a capitalismo avanzato che hanno subìto più duramente le torsioni dell’ultima fase della crisi capitalistica. E’ interessante quanto riporta su questo tema un ampio servizio de “La Repubblica”, che pure è un giornale di prima linea dentro questo meccanismo. Il saggio del sociologo britannico William Davis descrive come «le aziende oggi stanno investendo così tante risorse nel renderci felici che chi non si mostra entusiasta di tutto ciò viene visto come un sabotatore da tenere d’occhio».In alcune selezioni aziendali, ad esempio, se ne colpisce uno per educarne nove a mostrarsi felici del lavoro chiamati a svolgere. Chi fa il musone viene licenziato o non assunto. Non solo. E’ stata istituita la figura dirigenziale dell’addetto alla felicità dei dipendenti – lo Chief Happyness Officer – uno che deve saper fare squadra, mettere il naso nella loro vita privata e assicurare che il clima aziendale non accumuli in modo pericoloso focolai di malumore che possono diventare altro. Questa ennesima diavoleria di derivazione anglosassone è stata importata anche in Italia. Prima come forma della pubblicità e adesso come modello di governance da parte di Renzi e del suo stuolo di ladylike e goldenboys. A fare dell’ottimismo un veicolo pubblicitario, non a caso, è uno dei “prenditori amici” più ascoltati da Renzi: Oscar Farinetti. Suo era stato l’uso dello scrittore romagnolo Tonino Guerra per la pubblicità della sua Unieuro all’insegna dell’ottimismo. Ereditata dal padre Paolo Farinetti, la catena di elettrodomestici Unieuro è stata gestita dal figlio, Oscar appunto, dal 1978 al 2003. Poi fu venduta ad una società britannica. Gli slogan e gli spot sull’ottimismo iniziano nel 2001.Una volta che Renzi “è stato messo lì”, come ebbe a dire Marchionne, Farinetti è diventato quasi una musa ispiratrice del premier, il quale infatti se la prende con i gufi, i piagnoni, i pessimisti mentre lui ostenta con fare da piazzista risultati positivi smentiti dai fatti. In compenso realizza la tabella di marcia voluta da Confindustria e banche su ogni aspetto: dall’abolizione dell’articolo18 alla aziendalizzazione della scuola, dal decreto “Sblocca Italia” alla destrutturazione dell’amministrazione pubblica. Declinare in ogni conferenza stampa, Twitter o dichiarazione che «le cose stanno andando bene, cieco è solo chi non le vede» – potendo contare su un servilismo dei mass media che fa rimpiangere Berlusconi – è un modo di “fare produttività”. O almeno di comunicare che la produttività c’è anche se non si può vedere. Ma se poi la gente non ci crede perchè non vede? Scatta allora la demonizzazione e la malevolenza pubblica che addita chi osa dire le cose come stanno: disfattista, gufo, antitaliano. Un linguaggio che somiglia sempre più a quello del regime fascista. La felicità e l’ottimismo non devono più essere categoria dell’anima, ma comportamenti da omologare. Il bicchiere deve essere sempre visto come mezzo pieno, anche quando è quasi completamente vuoto.Vengono in mente le parole di una canzone resa nota da Dario Fo ed Enzo Jannacci: “E sempre allegri bisogna stare, che il nostro piangere fa male al re; fa male al ricco e al cardinale, diventan tristi se noi piangiam!”. Oggi, purtroppo, molte lavoratrici e molti lavoratori resistono a questa arroganza padronale e governativa che non ha precedenti nel dopoguerra solo con lo “sciopero del cuore”. Accettano la situazione e, nella migliore delle ipotesi ricorrono alla “egreferenza”, cioè alla negazione della deferenza verso il padrone e i suoi pagliacci. Questi ultimi se ne sono accorti e sanno bene che quando si accumulano sentimenti ostili, anche se non manifesti, prima o poi possono ridiventare odio di classe e allora finisce la (loro) festa. Per questo hanno messo in moto gli scienziati sociali per imprigionare anche l’anima e non solo le condizioni di vita delle classi subalterne. La felicità, quando diventa fenomeno genuino e collettivo, non può essere messa in vendita come una merce, neanche nei divertimentifici artificiali o nelle politiche aziendali. Il rumore di fondo che ancora non diventa rabbia organizzata tra la nostra gente va coltivato e ben orientato. Dilatare questa contraddizione, trasformare lo sciopero del cuore in conflitto sociale, connetterlo e coordinarlo, rimane la convinta ragione di esistenza di questo giornale.(Sergio Cararo, “L’industria della felicità”, da “Contropiano” del 5 agosto 2015).
I padroni non vogliono dai loro subalterni solo quello che riescono a estorcere con il lavoro, ne pretendono anche l’anima. Poco importa se le condizioni lavorative stanno ormai retrocedendo a forme ottocentesche. Le scienze sociali, arruolate alle esigenze dell’impresa, da tempo rilevano come in tempi di crisi sia necessario che i lavoratori e i consumatori vendano la propria anima – e non solo la forza lavoro e i loro redditi – al mercato. Si chiama Happyness Industry, l’industria della felicità. Diffondere ottimismo nella società e sentimenti positivi dentro le imprese sta diventando uno strumento indispensabile per far ripartire l’economia in quei paesi a capitalismo avanzato che hanno subìto più duramente le torsioni dell’ultima fase della crisi capitalistica. E’ interessante quanto riporta su questo tema un ampio servizio de “La Repubblica”, che pure è un giornale di prima linea dentro questo meccanismo. Il saggio del sociologo britannico William Davis descrive come «le aziende oggi stanno investendo così tante risorse nel renderci felici che chi non si mostra entusiasta di tutto ciò viene visto come un sabotatore da tenere d’occhio».
In alcune selezioni aziendali, ad esempio, se ne colpisce uno per educarne nove a mostrarsi felici del lavoro chiamati a svolgere. Chi fa il musone viene licenziato o non assunto. Non solo. E’ stata istituita la figura dirigenziale dell’addetto alla Oscar Farinettifelicità dei dipendenti – lo Chief Happyness Officer – uno che deve saper fare squadra, mettere il naso nella loro vita privata e assicurare che il clima aziendale non accumuli in modo pericoloso focolai di malumore che possono diventare altro. Questa ennesima diavoleria di derivazione anglosassone è stata importata anche in Italia. Prima come forma della pubblicità e adesso come modello di governance da parte di Renzi e del suo stuolo di ladylike e goldenboys. A fare dell’ottimismo un veicolo pubblicitario, non a caso, è uno dei “prenditori amici” più ascoltati da Renzi: Oscar Farinetti. Suo era stato l’uso dello scrittore romagnolo Tonino Guerra per la pubblicità della sua Unieuro all’insegna dell’ottimismo. Ereditata dal padre Paolo Farinetti, la catena di elettrodomestici Unieuro è stata gestita dal figlio, Oscar appunto, dal 1978 al 2003. Poi fu venduta ad una società britannica. Gli slogan e gli spot sull’ottimismo iniziano nel 2001.
Una volta che Renzi “è stato messo lì”, come ebbe a dire Marchionne, Farinetti è diventato quasi una musa ispiratrice del premier, il quale infatti se la prende con i gufi, i piagnoni, i pessimisti mentre lui ostenta con fare da piazzista risultati positivi smentiti dai fatti. In compenso realizza la tabella di marcia voluta da Confindustria e banche su ogni aspetto: dall’abolizione dell’articolo18 alla aziendalizzazione della scuola, dal decreto “Sblocca Italia” alla destrutturazione dell’amministrazione pubblica. Declinare in ogni conferenza stampa, Twitter o dichiarazione che «le cose stanno andando bene, cieco è solo chi non le vede» – potendo contare su un servilismo dei mass media che fa rimpiangere Berlusconi – è un modo di “fare produttività”. O almeno di comunicare che la produttività c’è anche se non si può vedere. Ma se poi la gente non ci crede perchè non vede? Scatta allora la demonizzazione e la malevolenza pubblica che addita chi osa dire le cose come stanno: disfattista, gufo, antitaliano. Un linguaggio che somiglia sempre più a quello del regime fascista. La felicità e l’ottimismo non devono più essere Tonino Guerra nello spot Unieurocategoria dell’anima, ma comportamenti da omologare. Il bicchiere deve essere sempre visto come mezzo pieno, anche quando è quasi completamente vuoto.
Vengono in mente le parole di una canzone resa nota da Dario Fo ed Enzo Jannacci: “E sempre allegri bisogna stare, che il nostro piangere fa male al re; fa male al ricco e al cardinale, diventan tristi se noi piangiam!”. Oggi, purtroppo, molte lavoratrici e molti lavoratori resistono a questa arroganza padronale e governativa che non ha precedenti nel dopoguerra solo con lo “sciopero del cuore”. Accettano la situazione e, nella migliore delle ipotesi ricorrono alla “egreferenza”, cioè alla negazione della deferenza verso il padrone e i suoi pagliacci. Questi ultimi se ne sono accorti e sanno bene che quando si accumulano sentimenti ostili, anche se non manifesti, prima o poi possono ridiventare odio di classe e allora finisce la (loro) festa. Per questo hanno messo in moto gli scienziati sociali per imprigionare anche l’anima e non solo le condizioni di vita delle classi subalterne. La felicità, quando diventa fenomeno genuino e collettivo, non può essere messa in vendita come una merce, neanche nei divertimentifici artificiali o nelle politiche aziendali. Il rumore di fondo che ancora non diventa rabbia organizzata tra la nostra gente va coltivato e ben orientato. Dilatare questa contraddizione, trasformare lo sciopero del cuore in conflitto sociale, connetterlo e coordinarlo, rimane la convinta ragione di esistenza di questo giornale.

domenica 30 agosto 2015

Grecia, quel modello di welfare fra miti infondati e tagli reali

Nel dibattito sulla crisi greca ricorre l’affermazione che l’indebitamento del paese derivi in larga misura dall’elevata spesa pubblica erogata da un sistema di welfare – in particolare quello previdenziale – troppo generoso e perciò bisognoso di robusti interventi di riforma. Sulla nostra stampa, generalmente sulla base di aneddoti, la Grecia è spesso dipinta come un paese in cui il livello della spesa sociale è anomalo, il sistema pensionistico paga prestazioni iper-generose, gran parte dei lavoratori e delle lavoratrici smette di lavorare a 55 anni e, soprattutto, nessuna riforma previdenziale significativa è stata adottata dall’esplodere della crisi in poi, da cui il mantra: “Il paese meriterà gli aiuti solo quando inizierà a introdurre riforme strutturali”.
Stanno veramente così le cose? Il sistema previdenziale greco è quasi esclusivamente a gestione pubblica (il ruolo dei fondi pensione privati è del tutto marginale), è finanziato a ripartizione con aliquote a carico sia del datore che dei lavoratori (attualmente pari a circa il 26% della retribuzione lorda, di cui 6 punti per finanziare la cosiddetta pensione pubblica supplementare) e le prestazioni sono formate da una quota legata alle retribuzioni ricevute durante l’attività lavorativa (come in Italia nel sistema retributivo) e da una quota in somma fissa di importo limitato (pari a circa 360 euro al mese). Tuttavia, mentre queste macro-caratteristiche sono rimaste invariate nel corso degli ultimi anni, dal 2010 in poi ben 6 riforme hanno modificato in misura sostanziale sia le regole di calcolo e gli importi delle prestazioni erogate, sia i requisiti per accedere al pensionamento anticipato o per vecchiaia.
Come accadeva in Italia prima della riforma Amato del 1992, in Grecia fino al 2010 le prestazioni venivano calcolate prendendo a riferimento le ultime 5 annualità retributive. Le riforme hanno introdotto parametri di calcolo molto meno favorevoli: dal 2011 la retribuzione di riferimento si basa sull’intera storia lavorativa (poiché i rendimenti sono crescenti con l’anzianità, è avvantaggiato chi lavora più a lungo), mentre dal 2015 la parte di pensione pubblica “supplementare” viene calcolata con il metodo contributivo.
La modifica delle regole di calcolo si applica gradualmente alle sole pensioni in maturazione. Tuttavia, alcune norme hanno ridotto in modo consistente anche le pensioni in essere: dal 2011 sono state abolite la tredicesima e la quattordicesima mensilità (determinando una perdita di circa il 14% all’anno) e, fra il 2011 e il 2014, sono stati progressivamente ridotti gli importi erogati; con l’ultimo taglio le pensioni comprese tra i 1.000 e i 1.500 euro vengono ridotte del 5%, la parte di pensione fra 1.500 e 2.000 euro viene ridotta del 10%, nello scaglione fra 2.000 e 3.000 euro si applica una trattenuta del 15% e sulla parte eccedente i 3.000 euro la riduzione è del 30%.
Il processo di riforma è inoltre intervenuto in modo significativo anche sull’età pensionabile, che è stata incrementata da 60 e 65 anni (rispettivamente, per donne e uomini) a 67 anni. Chi ha 40 anni di contribuzione (35 anni se ha iniziato a lavorare prima del 1993) può però ritirarsi a partire dai 62 anni di età, con una pensione di importo pieno. Non solo. Il pensionamento a partire dai 62 anni è consentito anche a chi ha meno di 40 anni di contribuzione, ma, in questo caso, l’importo della prestazione si riduce di 1/200 per ogni mese in anticipo rispetto all’età di vecchiaia (prima del 2010, a determinate condizioni, ci si poteva pensionare a partire dai 53 anni e la riduzione della pensione era pari a 1/267 per ogni mese di anticipo). Come in Italia, si è anche stabilito che a partire dal 2021 tutti i requisiti anagrafici per il pensionamento verranno aggiornati automaticamente in base all’andamento dell’aspettativa di vita.
Gli attuali requisiti per il pensionamento, di vecchiaia o anticipato, appaiono dunque assolutamente in linea con quanto previsto nella gran parte dei paesi dell’Unione europea. In cosa consisterebbe, dunque, l’anomalia greca della persistenza delle baby pensioni, enfatizzata dalla stampa e dalla stessa Troika? L’anomalia consiste nella possibilità di anticipare il ritiro di ulteriori 5 anni (fino dunque a 57 anni, o 55 se si accetta una prestazione di importo ridotto) laddove si sia lavorato almeno 35 anni, di cui 25 o più in professioni considerate usuranti o insalubri.
La verità è che le riforme introdotte dal 2010 hanno sì incrementato a 62 anni la possibilità di ritirarsi con pensione piena per chi ha svolto attività usuranti o insalubri, ma l’incremento non si applica a chi aveva già trascorso almeno 10 anni in tali attività al momento della riforma. La lista di attività ritenute usuranti o insalubri è effettivamente abbastanza ampia, includendo 580 professioni che riguardano, in base ad alcune stime, più di un terzo della forza lavoro maschile e circa il 15% di quella femminile.
Ma quanto incidono le possibilità di ritiro anticipato sulle effettive scelte di pensionamento dei greci? Per comparare le età pensionabili non basta confrontare le età legali di pensionamento, dato che in ogni paese sono previste forme di uscita anticipata dal lavoro. I dati sull’età effettiva di ritiro dei lavoratori calcolata dall’Ocse smentiscono però la presunta anomalia di Atene: lungi dal luogo comune che vorrebbe torme di baby pensionati, in Grecia nel 2012 (quando non si erano ancora pienamente realizzati gli effetti delle riforme) l’età effettiva di pensionamento era pari a 61,9 anni fra gli uomini e 60,3 anni fra le donne; superiore pertanto a quella di Spagna e Italia e non troppo distante da quella tedesca.
Addirittura, secondo le stime relative al 2015 contenute nell’ultimo rapporto dell’Ageing Working Group (Awg) della Commissione europea, la Grecia è uno dei paesi dell’eurozona con la più alta età effettiva di pensionamento. Insomma, le caratteristiche del sistema previdenziale greco non appaiono per nulla anomale. Anche se, in rapporto al Pil, la spesa per pensioni risulta in forte crescita, essendo passata dal 13,5 del 2009 al 17,2% del 2012 (l’ultimo anno disponibile in base ai dati Eurostat), mentre nello stesso periodo la spesa per pensioni dell’eurozona a 12 paesi (quelli originari) è aumentata di soli 0,2 punti percentuali.
Prima di dedurne che il sistema pensionistico greco sia insostenibile, bisogna però sottolineare due aspetti. In primo luogo, in periodi di forte recessione non ha senso valutare i trend di spesa sulla base di indicatori espressi in rapporto al Pil, dato che la forte caduta del denominatore distorce per sua natura il dato; è invece più informativa la dinamica della spesa pro capite. In secondo luogo, anziché soffermarsi su una sola componente di spesa, come quella per pensioni, è preferibile osservare, soprattutto in comparazione internazionale, il complesso della spesa sociale.
I confronti internazionali risentono infatti del tipo di strumento scelto da ciascun paese per fronteggiare varie tipologie di rischio (per esempio: povertà o disoccupazione dei lavoratori anziani). Storicamente, la Grecia (così come l’Italia) ha utilizzato il sistema pensionistico per far fronte a esigenze assistenziali e occupazionali, mentre nei paesi del Nord Europa, in caso di uscita anticipata dall’attività, si erogano generalmente sussidi di invalidità o disoccupazione, non contabilizzati nella spesa previdenziale. A conferma del ruolo marginale delle prestazioni di welfare non pensionistiche, in Grecia prima della crisi (da dati Eu-Silc) il 24,1% del reddito disponibile delle famiglie proveniva da pensioni, mentre solo il 3,2% derivava da trasferimenti monetari non previdenziali.
Se poi si utilizzano i dati Eurostat sulla spesa sociale, basati sulla classificazione della spesa per tipologia di rischio (malattia, vecchiaia, invalidità, superstiti, disoccupazione, famiglia, esclusione sociale, abitazione), la Grecia risulta, dopo la Spagna, il paese (dato sempre relativo al 2012) con la minor spesa, ben lontana dal valore dell’eurozona, e poco meno del 60% di tale spesa è destinata a pensioni (il 2012 non incorpora però integralmente gli effetti delle riforme).
Guardando alle singole componenti di spesa (accorpando le spese per disoccupazione a quelle per pensioni, data la stretta sostituibilità fra queste e la limitata importanza delle prime in Grecia) risulta impressionante il crollo della spesa sanitaria pro capite (meno 34,9% nel quadriennio) e di quella (già molto limitata) destinata a sostegno assistenziale a individui e famiglie (meno 32,6%), mentre la spesa per pensioni e disoccupazioni è rimasta sostanzialmente immutata.
Sintetizzando, la descrizione delle riforme introdotte in Grecia dall’esplosione della crisi e l’evidenza empirica disponibile sull’età effettiva di pensionamento e sull’andamento della spesa sociale porta a smentire con forza l’idea che in questi anni non siano state introdotte importanti riforme dei sistemi di welfare. Al contrario, l’ampiezza dei tagli già effettuati e di quelli in divenire (come nel caso delle pensioni) porta a interrogarsi con timore sugli effetti depressivi scatenati da queste misure, che hanno inciso in modo significativo sul benessere economico della popolazione.

sabato 29 agosto 2015

Il petrolio del Kurdistan iracheno svenduto illegalmente ad Israele

Israele importa il 77% del suo fabbisogno di petrolio dal Kurdistan iracheno; lo ha rivelato il Financial Times lunedì scorso. Citando i dati di navigazione delle petroliere e le negoziazioni, il rapporto dimostra che, tra maggio e agosto, le raffinerie e le compagnie petrolifere israeliane hanno importato oltre 19 milioni di barili di greggio, pari appunto al 77% del suo consumo, per un valore complessivo, ai prezzi di mercato del periodo, che s’avvicina al miliardo di dollari. Esso viene esportato attraverso il porto turco di Ceyhan, terminal del petrolio curdo iracheno che, per circa un terzo, viene imbarcato per Israele.
Secondo diversi esperti del settore, le autorità del Kurdistan, in base ad accordi privilegiati, vendono il greggio a Tel Aviv a un prezzo scontato. Ciò s’inquadra negli stretti rapporti che Erbil intrattiene da molto tempo con l’establishment sionista; a tal proposito, un rapporto Reuters spiega che le forniture di petrolio fanno parte di una più ampia strategia di Israele volta a rafforzare quei legami, finanziando in questo modo l’entità curda nell’ottica di incentivarne il separatismo e smembrare l’Iraq.
Il traffico rivelato dal Financial Times, è l’ennesima conferma del cinico doppio gioco condotto da Erbil: da un canto ha cercato ogni aiuto possibile da Baghdad, dalle milizie sciite e dall’Iran, che hanno impedito che fosse travolta dai tagliagole dell’Isis; dall’altro manovra senza scrupolo alcuno con Israele e con la Turchia, per tentare di separarsi del tutto dall’Iraq, propiziando il suo smembramento e favorendo i tentativi di destabilizzazione posti in atto dai suoi nemici.
Peraltro, la vendita autonoma di greggio, non solo riconosce implicitamente l’entità sionista, cosa rifiutata dal Governo centrale del Paese, ma contraddice tutti gli accordi siglati con Baghdad per un’equa ripartizione delle ricchezze del Paese.

venerdì 28 agosto 2015

Migranti, stragi continue: 2.440 i morti nel Mediterraneo solo nel 2015

Rinvenute altre 51 vittime nella stiva di un barcone soccorso da una nave svedese operante per Triton. 3.000 i migranti soccorsi nella stessa giornata. Nel nuovo sito dell’Unhcr il conteggio aggiornato di arrivi (293 mila quest’anno) e morti via mare per raggiungere l’Europa
Sono 2.440, dal primo gennaio a ieri, i migranti morti nel Mediterraneo nel tentativo di raggiungere l’Europa: con questa tendenza verrebbe superata la cifra record del 2014, quando le vittime furono oltre 3.500, ma bisogna considerare che con l’arrivo dei mesi freddi il flusso diminuirà e di conseguenza anche i naufragi, per cui è è sperabile che quella cifra non verrà raggiunta.
Il numero di 2.440 campeggia nel nuovo sito dell’alto commissario Onu per i rifugiati (Unhcr), che fornisce i dati aggiornati sugli arrivi via mare nei paesi del sud Europa e, appunto, il conteggio di quelli che non ce l’hanno fatta.
Migranti. Mappa Unchr 2015
La cifra è aggiornata all’ultima tragedia scoperta ieri durante una delle varie operazioni di salvataggio svolte nel Mediterraneo, precisamente quella della nave svedese Poseidon che si muove nell’ambito del programma europeo Triton. 51 migranti morti sono stati rinvenuti nella stiva di un barcone proveniente dalla Libia con a bordo complessivamente 439 persone. Rinchiusi sotto coperta, ritengono gli esperti, erano i migranti che avevano meno soldi per pagarsi la traversata e che erano stati quindi collocati nella stiva senza la possibilità di uscire ed esposti alle esalazioni letali del motore. Una strage quasi identica, anche nelle cifre, a quella scoperta a Ferragosto, quando le vittime morte soffocate furono 49.
Complessivamente ieri sono stati 3.000 i migranti salvati in mare da unità della Marina militare italiana, di Triton e della missione privata Moas di cui fa parte anche Medici senza frontiere. Secondo il nuovo sito dell’Unchr, che dichiara un aggiornamento al 24 agosto (senza contare quindi questi 3.000) i migranti arrivati via Mediterraneo sono stati 293.035 nel solo 2015, di cui 109.500 in Italia (111 mila dicono le ultime cifre del ministero dell’Interno) e 181.488 in Grecia. Per l’Italia il trend risulterebbe leggermente inferiore a quello del 2014, quando in totale gli arrivi furono 170 mila, anche se il flusso straordinario di questi ultimi giorni (altri 4.500 migranti erano stati soccorsi solo nell’ultimo fine settimana) non permette di fare proiezioni attendibili. Per la Grecia si tratta invece di un aumento record, dato che i migranti arrivati via mare nel 2014 nel paese erano stati “solo” 43 mila.
I 293 mila migranti arrivati via mare nel 2015 segnano un aumento di quasi 30 mila unità in soli 10 giorni (l’ultimo dato dell’Unhcr al 14 agosto parlava di 264 mila, sul totale di 340 mila che comprende anche gli arrivi in Europa via terra). La percentuale più alta resta quella dei siriani, pari al 43% (146 mila persone), seguita da Afghani, Eritrei e Nigeriani.

giovedì 27 agosto 2015

Il fantoccio Obama

Non c’è voluto molto per la Lobby di Israele a mettere in ginocchio il Presidente Obama per il suo divieto di costruire nuovi insediamenti illegali Israeliani nei territori Palestinesi occupati. Obama ha scoperto che un semplice presidente Americano è impotente quando viene affrontato dalla Lobby di Israele, e che agli Stati Uniti semplicemente non viene permesso di avere una politica in Medio Oriente diversa da quella di Israele. Obama ha anche scoperto che non può cambiare niente, sempre che ne avesse mai avuto l’intenzione.
Nell’agenda della lobby militare e della difesa c’è la guerra e uno stato di polizia interno, e un semplice presidente Americano non può farci niente.
Il Presidente Obama può ordinare che vengano chiuse le camere della tortura di Guantanamo, e che i sequestri di persona e le torture vengano fermati, ma nessuno esegue i suoi ordini.
In pratica, Obama è irrilevante.
Il Presidente Obama può promettere che porterà a casa le truppe, e la lobby militare dice, “No, invece li manderai in Afghanistan, e nel frattempo inizierai una guerra in Pakistan e costringerai l’Iran in una posizione che ci darà un pretesto per fare una guerra anche lì. Le guerre sono troppo lucrose per noi perchè tu possa fermarle”. E il piccolo presidente dirà, “Sissignore!”.
Obama può promettere l’assistenza sanitaria a 50 milioni di Americani che non ce l’hanno, ma non può sconfiggere il veto della lobby della guerra e della lobby delle assicurazioni. La lobby della guerra dice che i profitti di guerra sono più importanti dell’assistenza sanitaria e che il paese non si può permettere sia la “guerra al terrore” che la “medicina socializzata”.
La lobby delle assicurazioni dice che l’assistenza sanitaria deve venir data dalle assicurazioni sanitarie private; altrimenti non possiamo permettercela.
Le lobbies della guerra e delle assicurazioni hanno sventolato le loro agende con i contributi versati in campagna [elettorale] e molto velocemente hanno convinto il Congresso e la Casa Bianca che lo scopo reale del progetto di legge sull’assistenza sanitaria è di salvare soldi tagliando i benefici a Medicare e Medicaid, e quindi “mettere gli entitlements [Ndr. diritti acquisiti] sotto controllo”.
Entitlements è una parola usata dalla destra per denigrare le poche cose che, in un lontano passato, il governo faceva per i suoi cittadini. La Social Security e Medicare, ad esempio, vengono denigrati come “entitlements”. La destra continua senza sosta a parlare della Social Security e di Medicare come se fossero regali dati a persone incapaci che rifiutano di prendersi cura di se stesse, quando in realtà i cittadini vengono di gran lunga sovratassati con un’imposta del 15% nelle loro paghe per avere in cambio dei magri benefici.
Infatti per decenni ormai il governo federale ha finanziato le sue guerre e i budget militari con le entrate in surplus raccolte dalla tassa sul lavoro della Social Security.
Sostenere, come fa la destra, che non possiamo permetterci l’unica cosa nell’intero budget che ha in modo consistente prodotto delle entrate in eccesso sta ad indicare che lo scopo reale è di portare il cittadino medio ad uno stato di indigenza.
I veri entitlements non vengono mai menzionati. Il budget della “difesa” è un entitlement per il complesso militare e della difesa, sul quale il Presidente Eisenhower ci mise in guardia 50 anni fa. Una persona dev’essere folle per credere che gli Stati Uniti, “l’unica superpotenza del mondo”, protetta da oceani ad Est e a Ovest e da stati fantoccio a Nord e a Sud, abbia bisogno di un budget della “difesa” superiore all’intera spesa militare del resto mondo messo insieme.
Il budget militare è nient’altro che un entitlement per il complesso militare e della sicurezza. Per nascondere questo fatto, l’entitlement viene mascherato come una protezione contro i “nemici” e fatto passare attraverso il Pentagono.
Io dico, eliminiamo l’intermediario e distribuiamo semplicemente una percentuale del budget federale al complesso militare e della sicurezza. In questo modo non avremo bisogno di inventare scuse per invadere altri paesi e andare a fare la guerra con il solo scopo di dare al complesso militare e della difesa il suo entitlement. Sarebbe molto più economico dargli i soldi direttamente, e salverebbe anche un sacco di vite umane e sofferenze in patria e all’estero.
L’invasione Statunitense dell’Iraq non aveva proprio niente a che fare con gli interessi nazionali Americani. Aveva a che fare con i profitti sugli armamenti e con l’eliminazione di un ostacolo all’espansione territoriale Israeliana. Il costo della guerra, oltre i 3 trilioni di dollari, è stato di 4,000 Americani morti, oltre 30,000 feriti e mutilati, decine di migliaia di matrimoni Americani distrutti e carriere perdute, un milione di Iracheni morti, quattro milioni di Iracheni dislocati e un paese ridotto in macerie.
Tutto questo è stato fatto per i profitti del complesso militare e della sicurezza e anche affinchè la paranoide Israele, armata con 200 bombe nucleari, potesse sentirsi “sicura”.
La mia proposta renderebbe il complesso militare e della difesa ancora più ricco dato che le compagnie riceverebbero i soldi senza aver bisogno di costruire le armi. Piuttosto, tutti i soldi potrebbero venir usati per bonus multimilionari e dividendi distribuiti agli azionisti. Nessuno, in patria o all’estero, dovrebbe venir ucciso, e il contribuente sarebbe ben più felice.
Non c’è alcun interesse nazionale Americano nella guerra in Afghanistan. Come rivelato dall’ex Ambasciatore Britannico Craig Murray, lo scopo della guerra è di proteggere gli interessi della Unocal per un oleodotto che passa attraverso l’Afghanistan. Il costo della guerra è di gran lunga superiore all’investimento dell’Unocal nell’oleodotto. L’ovvia soluzione è di comprare l’Unocal e dare l’oleodotto agli Afghani come parziale risarcimento per la distruzione che abbiamo inflitto a quel paese e alla sua popolazione, e di portare le truppe a casa.
Il motivo per cui le mie ragionevoli soluzioni non verranno attuate è che le lobbies pensano che i loro entitlements non potrebbero sopravvivere se diventassero evidenti a tutti. Loro pensano che se il popolo Americano sapesse che le guerre stanno venendo combattute per arricchire le industrie degli armamenti e del petrolio, la gente fermerebbe le guerre.
In realtà, il popolo Americano non ha diritto di opinione su ciò che il “suo” governo fa. I sondaggi mostrano che metà o più della metà del popolo Americano non sostiene le guerre in Iraq e Afghanistan e non sostiene l’escalation del Presidente Obama per quanto riguarda la guerra in Afghanistan. Nonostante ciò, le occupazioni e le guerre continuano. Secondo il Generale Stanley McChrystal, le 40,000 truppe aggiuntive sono sufficienti per mettere in stallo la guerra, cioè, per farla continuare all’infinito, una situazione ideale per la lobby degli armamenti.
Il popolo vuole l’assistenza sanitaria, ma il governo non lo ascolta.
Il popolo vuole un lavoro, ma Wall Street vuole azioni più costose e costringe le aziende Americane a trasferire i posti di lavoro in paesi dove la manodopera è più economica.
Il popolo Americano non ha il controllo su niente. Non può influire su niente. E’ diventato irrilevante come Obama. E continuerà ad essere irrilevante fino a quando gruppi di interesse organizzati potranno comprare il governo USA.
L’incapacità della democrazia Americana di produrre un qualsivoglia risultato che gli elettori vogliono è un fatto dimostrato. La completa assenza di reazione del governo al popolo è il contributo che il conservatorismo ha dato alla democrazia Americana. Qualche anno fa ci fu un tentativo di rimettere il governo nelle mani del popolo mettendo un freno alla capacità dei gruppi d’interesse organizzati di versare enormi somme di denaro nelle campagne politiche e, quindi, obbligare gli ufficiali eletti ad essere dipendenti a coloro che avevano versato i soldi. I conservatori dissero che ogni restrizione sarebbe stata una violazione del Primo Amendamento che garantisce la libertà di parola.
Gli stessi “protettori” della “libertà di parola” non ebbero alcuna obiezione però quando la Lobby di Israele fece passare il disegno di legge sull’ “hate speech”, che ha criminalizzato le critiche al trattamento genocida che Israele riserva ai Palestinesi e al costante furto della loro terra.
In meno di un anno, il Presidente Obama ha tradito tutti i suoi sostenitori e rotto tutte le sue promesse. Obama è il prigioniero dell’oligarchia degli imperanti gruppi d’interesse. A meno che venga salvato da un evento orchestrato tipo l’11 Settembre, la presidenza Obama non durerà più di un termine. In realtà, l’economia al collasso lo dannerà indipendentemente da un “attacco terrorista”.
I Repubblicani stanno preparando la Palin. La nostra prima presidentessa femmina, dopo il nostro primo presidente nero, completerà la transizione ad uno stato di polizia Americano arrestando i critici e i contestatori dell’immorale politica estera e domestica di Washington, e la Palin completerà così la distruzione della reputazione Americana all’estero.
La Russia di Putin ha già paragonato gli USA alla Germania Nazista, e il premier Cinese ha paragonato gli USA ad un debitore irresponsabile e immorale.
In modo sempre più crescente il resto del mondo vede gli USA come l’unica fonte di tutti i suoi problemi. La Germania ha perso il capo delle sue forze armate e il suo ministro della difesa, perchè gli USA convinsero o premettero, in un modo o nell’altro, il governo Tedesco a violare la propria Costituzione e mandare truppe a combattere per gli interessi della Unocal in Afghanistan. I Tedeschi hanno fatto finta che le loro truppe non stavano davvero combattendo, ma che fossero impegnati in una “operazione di peace-keeping”. Questo ha funzionato più o meno finchè i Tedeschi hanno ordinato un’attacco aereo che ha ucciso oltre 100 donne e bambini che aspettavano in fila per un pò di carburante.
Gli Inglesi stanno indagando sul loro capo criminale, l’ex primo ministro Tony Blair, e l’inganno che mise in piedi contro il suo stesso consiglio dei ministri per fornire una scusa a Bush per la sua invasione illegale dell’Iraq. Agli investigatori Inglesi è stata negata l’abilità di presentare accuse penali, ma la questione della guerra basata interamente su una macchinazione di bugie e inganni sta venendo ben diffusa. Riecheggierà per tutto il pianeta, e il mondo vedrà che non esiste un’indagine simile negli USA, il paese da dove ebbe origine la Guerra Falsa.
Nel frattempo, le banche d’investimento USA, che hanno distrutto la stabilità finanziaria di molti governi, incluso quello degli USA, continuano a controllare, come hanno sempre fatto fin dall’amministrazione Clinton, la politica economica e finanziaria degli USA. Il mondo ha sofferto in modo terribile per i gangsters di Wall Street, e adesso guarda all’America con un occhio critico.
Gli Stati Uniti non suscitano più il rispetto che suscitavano sotto il Presidente Ronald Reagan o il Presidente George Herbert Walker Bush. I sondaggi nel mondo mostrano che gli USA e il suo capo-fantoccio vengono visti come le due più grandi minacce per la pace. Washington e Israele superano nella lista dei più pericolosi il regime pazzoide della Nord Korea.
Il mondo sta iniziando a vedere l’America come un paese che deve andarsene via. Quando il dollaro sarà sovra-inflazionato da una Washington incapace di pagare i suoi conti, il mondo sarà motivato dall’avidità e cercherà di salvarci per salvare i suoi investimenti, oppure dirà, grazie a Dio, che liberazione.

mercoledì 26 agosto 2015

la Crimea “era e resta russa”

La Crimea era “assolutamente russa” ai tempi dell’URSS e rimane russa anche oggi, ha riconosciuto l’osservatore del giapponese Japan Times dopo una visita nella penisola.
Quello che Mosca dice a proposito della Crimea deve essere preso in considerazione, ma l’Occidente non vuole sentire, ha rilevato il giornalista. La Russia sta cercando spiegare la sua posizione in merito all’Ucraina e alla Crimea, ma l’Occidente rimane sordo alle sue argomentazioni, scrive l’ex diplomatico dell’ambasciata d’Australia a Mosca Gregory Clark, che oggi è osservatore del nipponico Japan Times. L’ex diplomatico fa ricordare che ai tempi dell’URSS l’Est dell’Ucraina era una “piccola Russia”.
Era inevitabile che fossero in molti a chiedere atonomia dopo il crollo del potere a Kiev”, — osserva Clark. Secondo l’osservatore è emblematico che la maggioranza degli abitanti locali stiano cercando salvezza in Russia e non nel territorio ucraino. Clark, che aveva visitato Crimea all’epoca sovietica e ci è ritornato in agosto 2015, riconosce che la penisola era “assolutamente russa” ai tempi dell’URSS e russa rimane anche oggi. In questo territorio, egli sottolinea, la politica di Kiev per l’imposizione della lingua ucraina non ha avuto grandi successi.
Mosca ha anche dei validi motivi giuridici per considerare Crimea come parte della Russia, perché la decisione di Krusciov, che nel 1954 “regalò” Crimea all’Ucraina, fu illegale, in quanto il Soviet Supremo non aveva il diritto di ratificarla. Gregory Clark sottolinea che se si accetta la posizione dell’Occidente, che ha accusato la Russia di violazione del diritto internazionale per l’annessione della Crimea, allora diventa innegabile anche la colpa dell’Occidente nel caso del Kosovo, con la differenza che in Serbia la sovranità del paese è stata contestata con le bombe, mentre il futuro della Crimea è stato deciso al referendum.
“L’immagine della Russia ancora oggi risente del passato sovietico, per questo motivo la sua voce sui problemi dell’Ucraina, della Crimea e del volo MH17 in Occidente viene spesso ignorata”, — osserva Clark. Secondo l’osservatore, Mosca deve promuovere più attivamente la sua posizione in Occidente. Più dura questa tensione, più attivi saranno Washington e la NATO nel fomentare la pressione militare, come già sta accadendo nei paesi Baltici, scrive Clark, osservando che “la situazione è molto più pericolosa di quanto pensa la maggioranza”.

martedì 25 agosto 2015

NO ALL'OLIO DI PALMA DALLA NORVEGIA

La Norvegia riconosce i gravi danni ambientali legati alla produzione di olio di palma e esclude dal Fondo Sovrano quattro multinazionali del settore. Ecco allora che il Nord Europa si preoccupa della situazione asiatica e inizia ad agire a livello economico.
Il Fondo Sovrano norvegese vedrà dunque l'esclusione dal portafoglio degli investimenti di quattro società asiatiche che stanno causando gravi danni ambientali in Indonesia e Malesia a partire dalla distruzione delle foreste pluviali per la creazione di nuove piantagioni di palme da olio.
L'olio di palma, un ingrediente molto comune nell'industria alimentare (oltre che nella produzione di detergenti, cosmetici e biocarburanti), è stato ampiamente criticato negli ultimi anni per i danni all'ambiente provocati dalla deforestazione legata alla sua produzione. Sono stati inoltre denunciati sfruttamento della manodopera e abuso del lavoro minorile.
Le nuove decisioni giungono dalla Banca Centrale norvegese, secondo cui il più grande Fondo Sovrano del mondo non dovrebbe rivolgere i propri investimenti verso le seguenti quattro società coinvolte nella produzione di olio di palma e nella deforestazione: Daewoo International e Posco in Corea del Sud, Genting e IJM in Malesia.
Le quattro società asiatiche riuniscono ben 50 aziende che dovrebbero risultare escluse dal Fondo Sovrano proprio per questioni legate all'olio di palma. Tra di esse troviamo Boeing, British American Tobacco, Rio Tinto e Walmart.
Per tutti i quattro i casi la Banca Centrale norvegese ha deciso che non potevano esistere altre opzioni aperte oltre all'esclusione dal Fondo Sovrano e al disinvestimento. Non verranno considerate proteste formali o accordi con le aziende per un maggior impegno.
La Norvegia avrebbe dato ascolto nella nuova decisone soprattutto alle proteste provenienti dagli attivisti della società civile. In precedenza il Paese scandinavo aveva già deciso di escludere i produttori di tabacco e di armi, con particolare riferimento al nucleare. Ma altri provvedimenti erano rimasti a lungo accantonati e risultavano intrappolati tra le maglie della burocrazia.
E' importante che la Norvegia abbia basato la propria decisione su una presa di coscienza dei gravi danni ambientali provocati in Asia dalla deforestazione legata alla produzione di olio di palma. Dal canto nostro possiamo continuare, se vogliamo, a preferire prodotti che non contengano questo ingrediente.

lunedì 24 agosto 2015

Italia rischia manovra? Mancano 10 miliardi

Il governo Renzi starebbe accelerando sui tagli alla sanità. E' quanto riporta il Messaggero, in un articolo scritto da Michele di Branco.
"La legge di Stabilità vale già più dei 25 miliardi di euro che erano stati preventivati: il conto, nelle ultime settimane, viaggia ormai verso i 30-35 miliardi. Ed il governo, alle prese con il non facile rebus delle coperture, accelera sui tagli alla sanità".
Già con il decreto Enti locali, il governo ha lanciato misure del valore di 2,3 miliardi, al fine di razionalizzare la spesa. "Ma l’orizzonte è molto più ambizioso ed ora ne servono almeno altri 10 da recuperare nel corso del triennio 2016-2018". I tagli sarebbero stati concepiti per ridurre gli sprechi degli ospedali.
Anche Marco Palombi in un articolo de Il Fatto Quotidiano affronta la questione, scrivendo: "Panico manovra - Renzi, abbiamo un problema. Ai conti mancano 10 miliardi, sottolineando che "Il premier pensava che la "flessibilità europea" valesse un punto di Pil, sarà (forse) lo 0,4%. Pure il Pil non aiuta".
Ieri intanto il ministro dell'Interno e leader di Area popolare, Angelino Alfano, ha detto, nel corso di un'intervista rilasciata all'ANSA: "Siamo di fronte alla crisi economica più lunga dal dopoguerra: servono leggi speciali anti-crisi per almeno cinque anni. A settembre, con la ripresa dell'attività e in vista della legge di Stabilità, presenterò al presidente del Consiglio una proposta dettagliata su fisco, burocrazia, incentivi alle famiglie".
"Servono - ha detto - leggi speciali per uno shock fiscale, con una botta secca alla tassazione prima casa e un fortissimo sostegno fiscale alle famiglie con detrazioni e deduzioni per i nuovi nati e aiuti alle spese, dai pannolini ai libri: per le famiglie abbiamo un piano da 7,5 miliardi, con solide coperture. Per alcuni anni, noi ne proporremo cinque, ci deve essere per cittadini e imprenditori libertà assoluta di realizzare ciò che le leggi consentono loro senza dover chiedere autorizzazioni, licenze o permessi"

domenica 23 agosto 2015

Privatizzazioni: come in Grecia, Italia mette all'asta i suoi porti

Come la Grecia, anche l'Italia mette all'asta alcuni dei suoi porti più prestigiosi lungo litorali da sogno.
Tramite una società controllata dal Tesoro, Invitalia, il governo sta per vendere cinque marine turistiche per un patrimonio complessivo stimato in 50 milioni di euro.
All’asta sono finiti i moli di Capri, la marina di Portisco in Costa Smeralda (Sardegna), la marina d’Arechi nel golfo di Salerno (un progetto nella regione Campania da mille posti barca dell’archistar Santiago Calatrava), il porto delle Grazie a Roccella Jonica, in Calabria, e l’area di Porto Lido a Trieste (Friuli Venezia Giulia).
In tutto si parla di 25 mila posti per le imbarcazioni, in zone che quando ha avviato il progetto dieci anni fa, la società controllata dal Tesoro intendeva valorizzare per attirare investimenti e promuovere lo sviluppo turistico e commerciale dei suoi porti.
Poi una serie di problemi giudiziari - sono indagati per frode e abuso dufficio l'AD di Invitalia Domenico Arcuri e il capo della gestione rifiuti Manlio Cerroni - ritardi nella pubblicazione del bando e le richieste politiche di sospensione da parte di due parlamentri del PD.
Con un'interrogazione parlamentare da loro firmata, Vincenza Bruno e Nicola Stumpo, hanno protestato contro le modifiche in corsa apportate al bando da Invitalia e nel dettaglio "contro la riserva di una quota del 31% a favore di enti e/o imprese pubbliche fissata per il Porto di Roccella Jonica", racconta Andrea Ducci sul Corriere della Sera.
Una modifica, si legge nel documento, che ha "introdotto una limitazione di acquisto ai privati, che in sostanza si concretizza in una palese agevolazione dell’unico ente pubblico - il Comune di Roccella Jonica - interessato all’acquisto".
Il Corriere lo definisce un "corto circuito", in particolare se si tiene conto che "Invitalia vende i porti motivando la scelta con l’obbligo di rispettare la norma che impone la dismissione delle partecipazioni societarie da parte degli enti pubblici".

sabato 22 agosto 2015

Ricominciamo dalla riduzione dall’orario di lavoro

Le ragioni dell'urgenza di uscire dalla "crisi della sinistra e della necessaria centralità della questione del lavoro. Ma è sufficiente oggi ragionare dall'interno della logica del capitalismo e della sua concezione del lavoro? Il manifesto, 21 agosto 2015
La sini­stra è in una crisi sto­rica e, direi, mon­diale. Su que­sto tema è in corso sul mani­fe­sto (che si defi­ni­sce ancora “quo­ti­diano comu­ni­sta”) un’utile ricerca, «C’è vita a sini­stra ?», avviata in luglio e che dovrebbe por­tarci almeno all’abbozzo di una con­clu­sione sulla base degli inter­venti pub­bli­cati e in arrivo.
Sap­piamo bene che da una crisi, spe­cie se grande e pesante, non se ne esce restando come prima e i rischi di andare al peg­gio sono forti. Già con Renzi pre­vale la poli­tica di destra: la pro­spet­tiva è che o resi­ste accre­scendo il suo potere per­so­nale o sarà sca­val­cato da un’avanzata delle forze dichia­ra­ta­mente di destra. Le crisi sono una cosa seria.
Non si ricorda mai abba­stanza che dopo la rivo­lu­zione russa del 1917 e le grandi lotte ope­raie in tutta Europa, ci fu una rispo­sta rea­zio­na­ria con il fasci­smo e il nazi­smo che acqui­sta­rono forza con la crisi del l929 e matu­ra­rono le con­di­zioni per la Seconda Guerra Mondiale.
Nel secondo dopo­guerra ci fu un grande svi­luppo eco­no­mico anche in Ita­lia ( il famoso mira­colo ita­liano) accom­pa­gnato da un’avanzata della sini­stra. Ma durò poco. Già con gli anni ’80 comin­cia a matu­rare l’attuale gra­vis­sima crisi nella quale siamo oggi: dell’economia della poli­tica, e, direi anche della cultura.
Per ten­tare una ripresa della sini­stra, ci vuole una buona ana­lisi dell’attuale crisi; senza una seria dia­gnosi non si cura una malat­tia. E biso­gna anche chie­dersi per­ché con la forte disoc­cu­pa­zione, soprat­tutto gio­va­nile, non ci siano lotte e pro­te­ste, i sin­da­cati sono inde­bo­liti e anche la buona ini­zia­tiva di Lan­dini fa fatica a decol­lare. Senza con­tare che oggi, il ruolo ammor­tiz­za­tore delle fami­glie si sta esaurendo.
L’attuale pesan­tis­sima crisi ha cause strut­tu­rali da ricer­care, come sosten­gono impor­tanti eco­no­mi­sti, nella glo­ba­liz­za­zione e nel pro­gresso tec­nico. La glo­ba­liz­za­zione, con la rapida cre­scita della comu­ni­ca­zione com­porta l’ingresso sul mer­cato di indu­strie di paesi a bassi salari come la Cina che con la recente sva­lu­ta­zione riduce i prezzi del suo pro­dotto, attira gli inve­sti­menti dei paesi indu­stria­liz­zati (da leg­gere un altro edi­to­riale di Romano Prodi sul Mes­sag­gero del 15 ago­sto). Il pro­gresso tec­nico – e non da oggi - riduce l’importanza del lavoro vivo e pro­duce disoc­cu­pa­zione.
Due effetti assai forti che col­pi­scono soprat­tutto il lavoro vivo e, quindi, anche la sog­get­ti­vità stessa dei lavo­ra­tori, e che met­tono in evi­denza come il pro­gresso tec­nico che in regime socia­li­sta (o non capi­ta­li­sta) miglio­re­rebbe le con­di­zioni di tutti, in regime capi­ta­li­stico pro­voca disoc­cu­pa­zione, mar­gi­na­liz­za­zione e mise­ria da una parte e con­cen­tra­zione del potere e della ric­chezza in un ristretto e potente gruppo di capi­ta­li­sti finan­ziari dall’altra.
Que­sta del pro­gresso tec­no­lo­gico nemico strut­tu­rale del lavoro vivo è sto­ria antica e non pos­siamo dimen­ti­care che l’avvio dell’industrializzazione capi­ta­li­stica in Inghil­terra diede vita al movi­mento lud­di­sta che con­te­stava l’introduzione delle mac­chine. Allora il lud­di­smo fu tra­volto dallo svi­luppo e dalla cre­scita della pro­dut­ti­vità. Ma fu bat­tuto anche dalle lotte ope­raie per il miglio­ra­mento delle con­di­zioni di lavoro e, soprat­tutto, dalle pro­gres­sive ridu­zioni dell’orario (va ricor­data la con­qui­sta delle dieci ore e poi delle attuali otto ore mai più ridotte da quasi un secolo).
Oggi di fronte alla attuale gra­vis­sima crisi e alla disoc­cu­pa­zione in cre­scita, biso­gna rimet­tere al primo posto ( ma per alcuni è un con­tro­senso) la ridu­zione dell’orario, anche se il lavoro nei paesi che entrano oggi sul mer­cato glo­bale è sot­to­pa­gato, con orari otto­cen­te­schi e con­tra­sta con que­sta riven­di­ca­zione. Si tratta ora di rove­sciare l’uso che il capi­ta­li­smo fa del pro­gresso tec­nico ma ricor­dare anche che le pro­gres­sive ridu­zioni dell’orario hanno con­tri­buito alla cre­scita dei con­sumi e dello stesso mer­cato. Oggi una ridu­zione dell’orario di lavoro penso che gio­ve­rebbe anche ai capi­ta­li­sti che con la finanza si arric­chi­scono, ma rischiano di affogarvi.
La ridu­zione del tempo impe­gnato nel lavoro dipen­dente accre­sce­rebbe il cosid­detto “tempo libero”, che oltre a miglio­rare le con­di­zioni di vita darebbe spa­zio a nuovi con­sumi, a nuove spese diven­tando così anche un fat­tore di cre­scita del mer­cato e della società. Anche i capi­ta­li­sti dovreb­bero aver capito che se il popolo sta meglio i loro affari miglio­re­ranno. Ma i capi­ta­li­sti temono da sem­pre che la cre­scita della libertà del mondo del lavoro riduca, quasi auto­ma­ti­ca­mente il pro­prio potere poli­tico ed economico.
Ma vogliamo aspet­tare che siano i capi­ta­li­sti a pro­porre la ridu­zione dell’orario di lavoro? Oggi, anche per­ché la disoc­cu­pa­zione cre­sce e nel mondo del lavoro cre­sce non solo la domanda di sala­rio, ma anche quella di libertà e di cul­tura, la ridu­zione dell’orario di lavoro, e la gestione del “tempo libero”, que­sto immenso spa­zio da con­qui­stare e orga­niz­zare, dovrebbe diven­tare l’obiettivo sto­rico della classe ope­raia, dei suoi sin­da­cati e delle forze che dicono di volerla rappresentare.

venerdì 21 agosto 2015

L’Italia è un paese veramente fragile

Una utile ricostruzione delle cause che hanno reso sempre più grave il rischio ambientale in Italia (e nel mondo) ma anche qualche indicazione per disinnescare la tendenza all’autodistruzione. “Fragile” è il titolo del nuovo libro del professor Ugo Leone, geografo. Una buona informazione per distinguere fra i rischi reali e quelli immaginari, perché certe volte il lupo tanto lungamente evocato arriva davvero
di Giorgio Nebbia - La lunga successione di settimane molto calde, interrotte da brevi tempeste improvvise, conferma che qualcosa sta cambiando nel nostro pianeta. Aumenta la temperatura dei mari con mutamenti delle correnti, comparsa e scomparsa di specie marine, modificazioni del pescato; diminuisce la superficie dei ghiacci presenti sul pianeta con aumento del volume e diminuzione della salinità dei mari; cambia il ciclo planetario dell’acqua, per cui lunghe siccità mettono in ginocchio l’agricoltura e la vita in molte parti del pianeta, accompagnate da estesi incendi, mentre altrove piogge intense allagano campi e città.
Anche il nostro paese appare sempre più “fragile”; è il titolo di un recente libro del prof. Ugo Leone, docente di geografia nell’Università di Napoli e instancabile autore di scritti e libri sullo stato dell’ambiente in Italia e nel mondo. Il titolo completo è “Il rischio ambientale in Italia”, Carocci, 2015, e il libro ricostruisce le cause di tale fragilità italiana e planetaria da quando i nostri predecessori, pochi milioni di persone, sono diventati agricoltori e allevatori, fino alla rivoluzione industriale e tecnologica, iniziata duecento anni fa.
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Il progresso tecnico-scientifico ha permesso, al 20 percento degli attuali settemila milioni di terrestri, di avere case calde d’inverno e fresche d’estate, cibo e energia e merci, di muoversi e di conoscere altre persone e paesi e andare in vacanza. Purtroppo l’aumento del benessere economico e merceologico è inevitabilmente accompagnato da una modificazione dell’ambiente sotto forma di prelevamento dalla natura di acqua, minerali, rocce, combustibili, di diminuzione della superficie delle terre coltivabili e delle foreste, di immissione nella natura di fumi, liquidi inquinati, rifiuti solidi nocivi, di alterazione delle valli, delle colline e delle coste per far spazio a edifici e strade, spesso costruiti in luoghi che intralciano il moto naturale delle acque, con conseguenti frane e alluvioni.
Il libro del prof. Leone elenca l’aumento del rischio territoriale in Italia e soprattutto fornisce delle ricette per diminuirlo. La prima ricetta consiste nella necessità di conoscere la base fisica del territorio sui cui si svolgono le attività umane, e qui la geografia rappresenta un insostituibile strumento; la seconda consiste nel “prevedere e prevenire” un tema a cui è dedicata la seconda metà del libro, e nel comunicare l’esistenza dei rischi.
La conoscenza del rischio può, in molti casi, suggerire di “non fare”, nel nome della sicurezza presente e futura degli abitanti, certi interventi che sembrano desiderabili per il progresso economico, cioè per l’aumento del Prodotto Interno Lordo PIL italiano che invece impone di fare nuove opere e innovazioni e aumento delle produzioni e dei consumi di beni materiali. Per mettere a tacere chi chiede una maggiore precauzione nelle scelte economiche, i governi e gli imprenditori devono convincere i cittadini che molte delle denunce di rischi ambientali sono immotivate o sopravvalutano fatti poco rilevanti, o addirittura sono dovute ad ignoranza e ad un’irragionevole sfiducia verso il progresso scientifico e tecnico.
Alcuni studiosi sostengono, per esempio, che le stranezze climatiche ci sono sempre state e non sono dovute ai gas immessi nell’atmosfera dalle centrali e dalle automobili, che le coltivazioni con piante geneticamente modificate producono alimenti del tutto sicuri, e anzi consentono di aumentare le rese agricole e quindi contribuiscono a sfamare le popolazioni povere, eccetera. E’ un delicato ed eterno scontro fra valori, quello del “benessere” attraverso l’aumento della produzione di merci e di denaro e quello del dovere di assicurare alle persone, oggi e in futuro, un mondo più sicuro.
Quasi mezzo secolo fa l’enciclica ”Populorum progressio”, sullo sviluppo dei popoli, di Paolo VI ricordava che: “Non basta promuovere la tecnica perché la terra diventi più umana da abitare” un pensiero ribadito ancora più energicamente nell’enciclica di Papa Francesco ”Laudato si’”. Da alcuni viene obiettato che i papi si occupino delle cose del cielo, perché delle cose della terra si occupano economisti e governanti e imprenditori; questi peraltro faranno bene a non sottovalutare, o irridere, le voci del dissenso perché non è detto che essi abbiano sempre ragione, che tutte le scelte del “fare” siano sempre “buone” e prive di effetti negativi.
Se è vero che in alcuni casi gli allarmi sono o si sono rivelati infondati, è altrettanto vero che si può fare un lungo elenco di scelte apparentemente “economiche” che si sono tradotte in disastri ambientali e anche finanziari. E’ troppo facile citare i fallimenti delle centrali nucleari e dei depositi di scorie radioattive: fra le scelte sbagliate ci sono strade che hanno tagliato le colline e sono state spazzate via dalle frane; villaggi turistici e quartieri urbani costruiti nei luoghi sbagliati e allagati da alluvioni; laghi artificiali che si sono riempiti di fango anziché di acqua; processi industriali che hanno provocato incendi e inquinamenti dell’aria e delle acque; inceneritori inquinanti e discariche di rifiuti che hanno avvelenato le falde idriche sotterranee. Ogni volta qualcuno aveva protestato ed è stato zittito come nemico dei governanti e del progresso.
Il prof. Leone raccomanda giustamente una buona informazione per distinguere fra rischi reali e rischi immaginari; qualche volta qualcuno grida “al lupo al lupo” e il lupo non c’è, ma molte volte il lupo c’è davvero.

giovedì 20 agosto 2015

LA GRECIA STA PER ESSERE FATTA A PEZZI E DATA IN PASTO ALLE CORPORATION

L’ultimo piano di salvataggio non ha nulla a che fare con il debito. Si tratta di un esperimento di capitalismo così estremo che nessun altro Stato Ue sinora ha osato tentarlo
La Grecia è al suo terzo “salvataggio”. Questa volta sul tavolo ci sono 86 miliardi di €, inviati in Grecia dai creditori in cambio di un pacchetto di misure di austerità, solo per poi tornare indietro agli stessi creditori nel prossimo futuro.
Sappiamo tutti che il debito non può essere rimborsato e non lo sarà. Sappiamo tutti che l’austerità non farà che peggiorare la depressione della Grecia. Eppure continua.
Se guardiamo più a fondo, però, scopriamo che l’Europa non è guidata da dei personaggi mentalmente confusi in fase terminale. Prendendo quei leader in parola, ci perdiamo quello che sta realmente accadendo in Europa. In breve, la Grecia è in vendita, e i suoi lavoratori, gli agricoltori e le piccole imprese saranno spazzati via.
Nell’ambito del programma di privatizzazioni da lacrime e sangue, la Grecia deve consegnare 50 miliardi di € dei suoi “beni patrimoniali dello Stato” ad un organismo indipendente sotto il controllo delle istituzioni europee, che procederà alla vendita. Aeroporti, porti, infrastrutture energetiche, terreni e proprietà – tutto deve essere dismesso. Vendi i tuoi beni, sostengono, e sarai in grado di ripagare il debito.
Ma, anche in quest’ottica ristretta, svendere delle attività redditizie o potenzialmente tali rende un paese meno capace di ripagare i suoi debiti. Non sorprende che le attività più redditizie siano messe all’asta per prime. La lotteria nazionale del paese è stata già acquistata. Gli aeroporti che servono le isole delle vacanze greche con tutta probabilità saranno vendute con un leasing a lungo termine ad una società aeroportuale tedesca.
Il porto del Pireo sembra che sarà venduto ad una compagnia di navigazione cinese. Nel frattempo, 490.000 metri quadrati di spiaggia a Corfù sono stati arraffati da un fondo di private equity statunitense. Ha ottenuto un contratto di locazione della durata di 99 anni al prezzo speciale di € 23 milioni. Secondo i giornalisti, il fondo delle privatizzazioni sta prendendo in esame 40 isole disabitate, oltre ad un importante progetto a Rodi che comprende un campo da golf.
Parallelamente alle privatizzazioni, vi è un ampio programma di deregolamentazione che dichiara guerra ai lavoratori, agli agricoltori e alle piccole imprese. Le diverse leggi greche che proteggono le piccole imprese, come le farmacie, i panifici e le librerie, dalla concorrenza con i supermercati e le grandi imprese, devono essere spazzate via. Queste riforme sono così dettagliate che la UE sta scrivendo leggi in materia di misurazione del pane e date di scadenza del latte. Incredibilmente, alla Grecia viene perfino detto di fare delle leggi più liberali della Germania sull’apertura domenicale dei negozi. E’ in atto un vero e proprio esperimento di libero mercato.
In materia di lavoro, le pensioni dovranno subire dei tagli rapidi e decisi, i salari minimi devono essere ridotti e la contrattazione collettiva deve essere drasticamente limitata, mentre licenziare personale deve diventare più facile. Sono misure molto più estreme di quanto non abbiano implementato molti degli stessi paesi”creditori” della Grecia. Le modifiche tributarie prevedono un’impennata dell’ IVA, la più regressiva delle imposte, su un’ampia gamma di prodotti.
Certo, fare delle riforme in alcuni settori dell’economia greca potrebbe essere una buona idea, e infatti Syriza è arrivata al potere promettendo di fare riforme serie, ad esempio, sulla tassazione e le pensioni. Ma quello che viene imposto dai creditori non è una serie di “riforme” sensibili, ma l’instaurazione e la gestione dettagliata di un’economia radicale di ‘libero mercato’.
La bonanza di deregolamentazione e privatizzazione apre al grande business nuovi e vasti settori della società greca su cui non aveva mai potuto metter piede prima. La speranza è che questo possa generare lauti profitti e far crescere il grande business, oltre a fornire un modello estremo di quello che potrebbe essere fatto in tutta Europa. Anche se quel che è ancora più sgradevole dell’ipocrisia dei leader europei, che costringono la Grecia ad adottare delle politiche che essi stessi non hanno osato mai proporre in casa propria, è il cinismo con cui gli stessi leader impongono delle politiche che andranno a vantaggio delle grandi società del loro stesso paese.
L’intensità del programma di ristrutturazione concordato per la Grecia dovrebbe dissipare anche l’ombra dell’idea che questo sia un tentativo ben intenzionato, ma maldestro, di affrontare una crisi del debito. Si tratta di un tentativo cinico di creare nel Mediterraneo un paradiso per le grandi corporation, a cui si deve resistere a tutti i costi.

mercoledì 19 agosto 2015

Le radici del terrorismo statunitense: come Obama se ne andrà

I presidenti si giudicano dal loro curriculum in economia, politica, diplomazia e guerra. Possono anche essere giudicati per quello che avrebbero potuto fare ma non hanno fatto. Tragicamente, il primo presidente afro-americano sarà diffamato dagli storici per quello che ha combinato. Questo sito è dedicato alla guerra in Siria e qualsiasi analisi dell’inettitudine di Obama dovrà concentrarsi sulle miserie che ha aggravato o deliberatamente creato. Quest’uomo non è di sinistra; non è rivoluzionario; non è socialista, né idealista, non è l’umanitario meritevole del Premio Nobel per la Pace. La nostra posizione è che sia solo un imbecille, un uccello che arruffa le piume. Pochi giorni fa, l’urbano ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov era seduto allo stesso tavolo con la controparte dell’Arabia Saudita per una conferenza stampa conclusiva. Un microfono puntato verso la bocca del signor Lavrov ha raccolto qualcosa d’insolito per questo affabile diplomatico di carriera. Mentre il saudita Adil al-Jubayr confutava ogni ipotesi di cooperazione con il governo legittimo del Dottor Bashar al-Assad, Lavrov fu registrato borbottare in russo, senza alcuna sorpresa: “Che fottuto imbecille!” La Cage aux folles degli alleati degli USA in mostra. Fin dall’inizio del conflitto, Obama e la sua squadra di diplomatici dementi e spettrali come Robert Ford, Hillary Clinton e Christopher Stephens, sono complici dello spargimento di sangue che inonda la Siria da marzo 2011 a oggi. Ford, uno dei peggiori criminali di guerra della storia, era intento a sfruttare la cosiddetta “primavera araba” come copertura per un piano covato anni prima per destabilizzare il governo siriano baathista, al fine di allontanare Damasco da Iran e Hezbollah. La trama non aveva niente a che fare con democrazia o libertà di riunione, ma con il crescente potere iraniano e relativa proiezione sul Mediterraneo, riflettendo anche la sensibilità statunitense alle denunce di alleati come Qatar e Arabia Saudita che guardavano gli sviluppi minacciosi nell’energia, che mettono in dubbio il futuro di tali plutocrazie feudali.
sergey-lavrov-adel-jubayrL’Iran, come ho già scritto in un lungo articolo, ha sfidato i complotti di USA/NATO per isolarlo e strangolarne l’economia. Ciò che gli statunitensi hanno ottenuto invece è un Iran che si sviluppa dall’interno basandosi su millenni di realizzazioni scientifiche di un popolo assuefatto a disagio e sfruttamento pragmatico del proprio universo per conquistarlo. L’Iran non è per nulla una nazione di terza categoria composta da tribù e sciamani come gli arabi della penisola. L’Iran osserva dritto l’abisso di Washington negli occhi di Barack Obama e della sua banda di assassini. Tutto, da quel momento, quando Washington si rese conto d’impegnare ideologicamente sul serio Teheran con la propria agenda islamista, ebbe per scopo inserire un cuneo tra l’Iran e la Mezzaluna Fertile. Ecco ciò che guida gli Stati Uniti: il metanodotto che attraversa l’Iraq sciita fino al litorale siriano, mettendo fine alla posizione di vantaggio del Qatar quale principale esportatore di gas. Gli Stati Uniti guardavano al progetto iraniano-russo rafforzare ulteriormente l’influenza di Mosca sull’Europa mentre quella degli USA diminuiva. Gazprom, il monopolio energetico russo, aveva già stipulato accordi con Iran e Siria per trasportare, raffinare e rifornire gas naturale all’Europa. Ciò significa che Gazprom avrebbe controllato i prezzi del gas naturale con una serie di alleanze che gli Stati Uniti stavano disperatamente cercando di sabotare. Questo terrorizzava anche Gran Bretagna e Francia (la vecchia Europa). Dobbiamo aggiungervi il fatto che uno dei principali giacimenti di gas naturale, Mother Lode, al largo delle coste di Siria, Libano, Cipro e la Palestina, sarebbe soggetto ai capricci dei magnati di Gazprom. Con Hezbollah in possesso di missili antinave e l’arsenale formidabile della Siria dotato di missili terra-mare Jakhont, nessuna combinazione di forze navali potrebbe fermare l’evoluzione di una nuova ed economicamente indipendente Siria baathista o del Libano controllato da Hezbollah. Il leader della Turchia, Erdoghan, è pienamente consapevole dei pericoli che ciò pone alla sua programmata rinascita neo-ottomana. Nessuno è più interessato ad impedirlo del leader-stragista della Turchia. Per bloccare tutto questo e preservare l’egemonia statunitense nel Mediterraneo, gli Stati Uniti prima cercarono di rovesciare il Baath. Per non sbagliarsi non solo presero di mira il Dottor Assad, ma l’intera costruzione arabo-nazionalista che aveva fatto della Siria un alleato della Russia e dell’Iran, e un nemico degli Stati Uniti nella Palestina occupata e nell’Iraq invaso dagli USA. Era il Baath, ma quando gli Stati Uniti, nel 2013, capirono che i loro piani per dividere l’esercito siriano fallirono miseramente, decisero una guerra in cui non ci sarebbero stati vincitori, in particolare il Dr. Assad e il mostro di Frankenstein che Stati Uniti e sionismo hanno creato: il SIIL.
Lo sforzo per costruire un’opposizione siriana che rovesciasse Assad fallì. Robert Ford, più di chiunque altro è responsabile del fallimento e delle politiche mefitiche che hanno ucciso decine di migliaia di siriani; tutto a causa di un piano sbagliato e di un universo incompreso. A sud, dove si sperava che l’insurrezione istigata dai giordani creasse uno Stato cuscinetto alleato di Amman (e a maggior ragione degli Stati Uniti), dando impulso all’imminente invasione della capitale della nazione, divenne una guerra di attrito tra l’Esercito Siriano e soprattutto i jihadisti di al-Qaida. Gli sforzi per trovare elementi secolari tra i pochi disposti ad offrirsi volontariamente fallirono lasciando gli Stati Uniti nella non invidiabile posizione di aiutare lo stesso gruppo che glorificava gli attacchi agli Stati Uniti dell’11 settembre. Anche l’opposizione in esilio divenne una barzelletta. Mentre i suoi membri godevano del comfort degli alberghi di prima classe in Europa, finanziati dalle tesorerie saudite o qatariote, l’opposizione non poté costruire relazioni con un qualsiasi gruppo armato in Siria che non fosse l’evanescente esercito libero siriano i cui agenti sono morti o senza gambe. Anche i loro capi, da George “Capitan Canguro” Sabra ad Ahmad Muadh al-Qatib, al curdo irrimediabilmente smarrito Ghasan Hito, fino al ratto turco Qalid Qoja, resistette oltre nel fare ciò che mai poteva fare, suscitando il sarcasmo dello stesso Obama. Senza alcuna possibilità di cambiare corso della guerra affinché la Siria rinunciasse alla propria alleanza e dipendenza da Iran e Russia, gli Stati Uniti sprofondarono ulteriormente nell’abisso della depravazione da quando Ronald Reagan cominciò a chiamare i Contras “Freedom Fighters”.
Il fattore energia è la chiave per comprendere la necessità degli USA di preservare le proprie ambizioni egemoniche regionali, compresa anche la possibilità di bloccare l’avanzata della Marina russa nel Mediterraneo. Ma ci sono altri fattori, oltre l’energia, l’impatto sull’influenza degli Stati Uniti e la sopravvivenza delle alleate preistoriche monarchie feudali. C’è anche la proliferazione della tecnologia missilistica. Pensate a questa proposizione: se Hezbollah ha 100000 razzi nel proprio arsenale, quanti ne avrebbe l’esercito siriano? Quando si considera il fatto che l’85% dei razzi della milizia libanese è prodotto in Siria, si può stimare il numero posseduto dall’EAS? Supponendo che l’EAS abbia più di 100000 missili che vanno dagli SCUD B, C e D, ai FROG, Katjusha e tutte le altre chicche, quanti razzi l’Iron Dome del sionismo potrebbe intercettare? E se l’Iran lancia il suo ancor più grande arsenale sulla Palestina occupata? Che altro dopo? Alcun partito ha maggiormente investito nella carneficina in Siria dello Stato-Ghetto khazaro, la cui vita dipende soprattutto dalla capacità di contrastare l’attacco missilistico dell’alleanza tra Hezbollah, Siria e Iran. Quando Hasan Nasrallah avverte i sionisti in Palestina che le loro città bruceranno con un attacco missilistico totale, non scherza. Per il sionismo, il governo del Baath in Siria va smantellato per ragioni ancora più inquietanti di quelle che occupano le menti delle scimmie saudite. I sauditi sono preoccupati dai soldi che possono continuare a derubare dal proprio popolo. I sionisti si preoccupano per quanto possono ancora sfruttare e asservire il popolo palestinese. Ma cosa può fare Obama? O cosa avrebbe potuto fare se non fosse una donnola smidollata? Obama ha creato, insieme allo Stato colono sionista, il gruppo chiamato SIIL, Daish o Stato islamico. Quant’è intelligente? Come mostro di Frankenstein, il gruppo terroristico era la risposta agli sforzi dell’Iran per estendere il gasdotto in Iraq e Siria, ed attraverso la creazione del califfato sunnita, impedirlo; ma ciò s’è trasformato in una minaccia non solo per le aspirazioni dell’Iran ma anche per le scimmie alleate, ossessionate dall’aiutare il SIIL nel rovesciare il governo della Siria, nemico mortale del SIIL. Quant’è complicato.
Vedete, il SIIL invase l’Anbar con l’assistenza diretta del partito Baath iracheno fedele a Sadam, Stati Uniti, Turchia ed Arabia Saudita. Come, vi chiederete? Semplice. Addestrate i ratti necessari in Turchia con l’aiuto di ufficiali dell’esercito di Sadam, lo stesso esercito che fu devastato dai militari degli Stati Uniti e che fu sciolto dall’idiota immortale L. Paul Bremer. Gente, la politica estera statunitense è piuttosto curiosa, no? Così, con l’aiuto dell’US Air Force, al SIIL fu concesso abbastanza territorio per bloccare l’estensione del gasdotto, senza distruggere l’esercito iracheno che gli Stati Uniti vogliono come cliente per i propri armamenti. Ma ora il SIIL minaccia non solo i piani dell’Iran, ma degli USA e l’esistenza del regime saudita. Ora si arma un’al-Qaida riabilitata. Oh. E la cosa diventa ancora più sordida. I traditori neoconservatori statunitensi, ardenti sionisti dalla doppia cittadinanza “israeliana”-statunitense e i loro vassalli cristiani, fanno di tutto per far apparire al-Qaida il tizio del quartiere da sostenere ardentemente. I sionisti in Palestina li curano, li armano e li riforniscono, per non parlare degli interventi occasionali quando l’Esercito siriano sta per spazzarli via, come nel Qalamun o nel Golan. Il Qatar cerca disperatamente di cambiare il modo con cui Jabhat al-Nusra si presenta al mondo. Se ricordate, Nusra è il franchise di al-Qaida in Siria fedele ad Ayman al-Zawahiri e guidato da Abu Muhamad al-Julani. Finora, per motivi ideologici/teologici, il capo di Nusra non ha ingoiato l’esca tossica che il Qatar gli esibisce, preferendo attenersi alla tossicità della sua interpretazione blasfema dell’Islam. E quando si aggiunsero Gran Bretagna e Francia, fu ancora più complicato. Entrambi i Paesi, non volendo accettare la retrocessione nel cassonetto della storia, cercano di trovare il modo di restaurare i vecchi imperi. Ai traditori di carriera come gli hashemiti di Giordania, un premio come la Siria per mantenere la stentata e fallita idea di Stato governato da una dinastia di second’ordine fallita, lusinga. Dopo tutto, non sarebbe bello avere un regno giordano allargato e doverosamente al servizio degli interessi di Parigi e Londra? Ancora? E così, inglesi e francesi recuperarono il loro vecchio modo di schierarsi con i terroristi, che la stampa occidentale convenientemente chiama “ribelli”, “combattenti”… e la lista continua ad nauseam.
Ma ciò che Obama non può capire è che Russia e Iran sono strategicamente impegnate sulla longevità del governo di Assad, sia pure per ragioni diverse, e a volte per gli stessi motivi. I due Paesi hanno chiarito che non ci sarà alcun “cambio di regime”. Questo dovrebbe bastare come dimostrazione della difficoltà che Stati Uniti ed alleati affronteranno tentando di bloccare il gasdotto, difendere lo Stato colono sionista o ampliare il regno hashemita. Con l’Iraq che ora si coordina con la Siria, Obama potrebbe, quanto meno, smetterla di mascherarsi da uomo della pace e diventare un logico spassionato. Niente da fare. La Russia ha appena consegnato i cruciali aerei MiG-31B Foxhound alla Siria. Ho già scritto che la Siria ha due squadriglie di questi avanzatissimi intercettori, ora attivati fisicamente e contrattualmente per affrontare la crescente minaccia del tiranno folle e disperato della Turchia. Altri missili antiaerei S-300 e batterie di Iskender sono stati consegnati in risposta alle provocazioni turche. Obama avrebbe potuto aver successo se non fosse il buono a nulla che è. Schiavizzato dai sionisti pieni di soldi, il partito politico dipende dal supporto sionista, dai media impegnati nell’agenda sionista, da personalità prive d’indipendenza ed alleati motivati solo dalla baldanza sionista, e il desiderio di lasciare l’eredità del non intervento è divenuto la satira di tutto ciò che sognano tali pagliacci. Invece di lasciare l’incarico senza guerre in attivo, lo lascerà con più guerre all’orizzonte che il successore, e l’umanità, potranno immaginare. La sua presidenza è un fallimento per ciò che avrebbe o non avrebbe potuto fare.

martedì 18 agosto 2015

Poste Italiane in super-attivo, quindi ora Renzi le regala

La collocazione in Borsa prevista per l’autunno annuncia, di fatto, la rapida privatizzazione di Poste Italiane: l’Italia si appresta così a perdere quasi mezzo miliardo di utile netto all’anno, in cambio di forse 4 miliardi, certo non rilevanti per alleviare il peso del debito pubblico che, una volta denominato in euro, si è fatto insostenibile. L’intento, per la controllata del ministero dell’economia e delle finanze, è di procedere speditamente verso la cessione del 40% del gruppo. In un’intervista rilasciata al “Sole 24 Ore”, Luisa Todini, presidente di Poste Italiane, ha confermato che il prospetto informativo depositato in Consob è già stato integrato con la nuova governance societaria approvata dall’assemblea dei soci. «Lavoriamo perchè il debutto in Borsa avvenga in autunno», conferma la Todini, «possiamo immaginare tra fine ottobre e inizio novembre». La Todini ha rimarcato che la scelta di fissare la soglia al possesso azionario al livello più elevato possibile, pari al 5%, è stata voluta dal Tesoro con l’auspicio di incoraggiare i grandi investitori ad acquistare quote importanti dell’azienda evitando il frazionamento del capitale.
Banca del Mezzogiorno (che fa parte del gruppo Poste Italiane) entrerà nel perimetro di quotazione, rinviando ogni decisione su «come valorizzarla al meglio», ha aggiunto la Todini. I conti semestrali di Poste Italiane, scrive Giuseppe Maneggio su “Il Luisa Todini, Poste ItalianePrimato Nazionale”, hanno evidenziato un utile netto di 435 milioni di euro, sostanzialmente raddoppiato rispetto ai 222 milioni dello stesso periodo dello scorso anno. I ricavi totali, inclusivi dei premi assicurativi, sono in crescita del 7% a 16 miliardi di euro, sospinti dal comparto assicurativo (+10,9% a 11,2 miliardi) e dalla tenuta del comparto finanziario (2,9 miliardi), che hanno più che compensato la flessione dei ricavi per la corrispondenza. «Un’azienda profittevole, Poste Italiane, che conferma il trend di crescita avuto nell’ultimo lustro anche grazie alle strategiche società controllate, tra cui Sda Express Courier».
Le intenzioni del governo sono chiare, continua Maneggio: l’esecutivo guidato da Matteo Renzi intente mettere sul mercato il 40% del gruppo postale. Di questa quota circa il 30% andrà al pubblico “retail” con una porzione corposa riservata ai 145.000 dipendenti. Il Tesoro pensa di poter così incassare circa 4 miliardi dalla privatizzazione. «Briciole, nel mare infinito degli oltre 2.000 miliardi del debito pubblico, nel caso fosse questa la ragione sbandierata». Soldi, peraltro, «assolutamente inutili nel caso si volesse racimolare della liquidità per abbassare (forse) qualche imposta o tassa». Intanto, «gli oltre 400 milioni di utile netto che lo Stato incassa oggi, domani non li avrà più. Facile immaginare da dove verranno presi negli anni successivi».

lunedì 17 agosto 2015

Un paese spaccato in due

Con un PIL che, nel 2014, torna positivo nel Nord Est e riduce la propria caduta nella maggior parte delle altre Regioni, l’Italia sta avviando una ripresa che rischia però di lasciare indietro il Mezzogiorno. Confermando un dualismo tra aree forti e deboli del Paese espressosi già prima della crisi
Lo scorso 30 luglio l’Associazione per lo Sviluppo dell’Industria nel Mezzogiorno (SVIMEZ), ha pubblicato le Anticipazioni sui principali andamenti economici tratti dal Rapporto 2015 sull’economia del Mezzogiorno, di prossima pubblicazione.
La SVIMEZ inquadra la crisi del Sud in uno scenario globale nel quale la ripresa, prevista per il 2014, è sostanzialmente mancata, nonostante le condizioni favorevoli date dal calo delle quotazioni del petrolio.
Naturalmente lo scenario globale si presenta con diverse sfaccettature, soprattutto nell’area Euro, le cui regole interne sembra abbiano influito negativamente sulle economie più deboli, specie nel confronto con i Paesi UE emergenti e non aderenti alla moneta unica.
L’Italia risulta l’unico tra i grandi Paesi europei a non aver mostrato nel 2014 segnali di ripresa del PIL, riuscendo a tornare alla crescita (+0,3%) solo nel primo trimestre del 2015.
Questa tardiva ripresa è ritenuta solida benché soggetta a incertezze esterne (crisi internazionali e dell’area Euro) ed interne, dati i dubbi sulle prospettive future della domanda, a fronte di politiche fiscali severe (il risanamento del debito pubblico risulta già aver influito sui consumi privati rallentando la ripresa), in uno scenario che frena le imprese dal produrre e investire.
Tra 2001 e 2014, il divario cumulato di crescita è pari a quasi 18 punti con l’UE e a oltre 13 con l’area Euro, a causa di vari fattori: dalla ridotta dimensione media delle imprese, alla bassa spesa in ricerca e sviluppo, sia istituzionale (si pensi allo stato della giustizia civile e dell’istruzione) che infrastrutturale (dotazione ITC e capitale umano).
Per tali motivi il Paese non avrebbe beneficiato delle evoluzioni degli ultimi venti anni: dall’allargamento dei mercati globali, all’integrazione economica e finanziaria della moneta unica, all’incremento di produttività ed efficienza determinato dall’ITC.
Con un PIL che, nel 2014, torna positivo nel Nord Est e riduce la propria caduta nella maggior parte delle altre Regioni, l’Italia sta avviando una ripresa che rischia però di lasciare indietro il Mezzogiorno, confermando un dualismo tra aree forti e deboli del Paese espressosi già prima della crisi (al contrario della Spagna, dove nel pre-crisi le Regioni deboli crescevano di più) e accentuato in questi anni, a riprova della mancanza di quella sintonia nella crescita che caratterizza, invece, le due aree della Germania, l’altro Paese storicamente duale dell’UE.
Stando al preconsuntivo SVIMEZ, la perdita dell’1,3% del PIL del 2014 (-0,2% per l’Italia) segna il settimo anno consecutivo di crisi del Sud (con erosione totale del PIL di 13 punti) che, al contrario del Centro-Nord, non ha beneficiato della ripresa europea del 2010/2011.
Il Sud ha avvertito uno stimolo inferiore dalla domanda estera, ma anche una forte riduzione di quella interna, con una minor competitività riguardante sia la spesa per consumi (importante calo di quella della P.A. segnata da un calo di spesa in conto capitale) che quella per investimenti (anche quelli diretti pubblici, cui va aggiunto il quasi dimezzamento delle agevolazioni).
Il Sud ha visto ridursi la propria capacità industriale, non rinnovata (-59,3% di accumulazione di investimenti, il triplo del Nord) e dunque sempre meno produttiva e competitiva.
La SVIMEZ richiama l’attenzione anzitutto sul comparto manifatturiero, già poco presente nell’economia del Sud e segnato dagli effetti della globalizzazione sulle proprie produzioni, subendo una contrazione nel periodo della crisi quasi tre volte più forte che nel resto del Paese (-33,1% contro -14,4%), lasciando sul campo anche imprese sane ma non attrezzate a superare questi anni difficili, attraversando i quali il Mezzogiorno è arrivato (2014) a misurare il peso del manifatturiero nell’8% sul totale del valore aggiunto della propria economia, decisamente distante dall’obiettivo del 20% fissato dalla Commissione UE nella nuova strategia di politica industriale.
Un drastico calo degli investimenti si rileva anche nel settore agricolo, riflettendo le difficoltà strutturali (modeste dimensioni aziendali e invecchiamento dei conduttori) di un comparto che in 14 anni ha perso al Sud il 16% del proprio valore aggiunto.
I servizi, che nel passato decennio registravano tassi di crescita positivi, hanno visto il livello del loro prodotto tornare a quello di fine anni ’90, con effetti negativi rilevanti per un territorio strutturalmente più sensibile al peso di tale comparto.
Intanto, tra il 2001 ed il 2014 dal Sud sono emigrate al Centro-Nord oltre 1.667.000 persone (a fronte dei rientri, il saldo negativo è di 744.000 unità): il 70% sono giovani e poco meno del 40% laureati, costretti a migrare da un territorio segnato da una strutturale carenza di opportunità di lavoro e dalla forte incidenza del fenomeno dei NEET (quasi 2 milioni i ragazzi meridionali interessati al 2014 secondo l’ISTAT).
La caduta dell’occupazione negli anni della crisi (-9%) ha limato a circa 5,8 milioni il numero di lavoratori meridionali (poco più di ¼ del totale nazionale), il dato più basso da quando sono disponibili le serie storiche ISTAT (1977). Oltre ai giovani, la disoccupazione colpisce le donne (1 su 5 nella fascia 15-34 anni risulta occupata) e le classi di età centrali. Unico dato in controtendenza è l’aumento dell’occupazione straniera (+67% a fronte di +31,7% del Centro Nord).
Il primo trimestre 2015 offre segnali di ripresa, con 47 mila nuove assunzioni determinate dalle misure di decontribuzione fiscale del jobs act. Per contro, tuttavia, il tasso di mancata partecipazione al mercato del lavoro nel Sud ha raggiunto il 39%.
Per la SVIMEZ il depauperamento di risorse imprenditoriali, finanziarie ed umane rischia di impedire al Sud di agganciare la ripresa, condannandolo ad un sottosviluppo permanente, tenuto conto anche dei riflessi negativi della caduta dei redditi e dell’occupazione sui consumi delle famiglie (- 13,2% dal 2008 al 2014), che sono invece in ripresa nel resto del Paese.
Del resto, a partire dal 2011 la percentuale di famiglie in povertà assoluta è cresciuta al Sud di 2,2 punti (il doppio del Centro-Nord), benché si valuti una moderata riduzione nel 2014. Il rischio-povertà, in base ai redditi rilevati da ISTAT nel 2013, interessa al Sud 1 persona su 3 (1 su 10 al Centro-Nord), coinvolgendo soprattutto Sicilia e Campania.
La lunghezza della congiuntura negativa, la riduzione delle risorse per infrastrutture pubbliche produttive e la caduta della domanda interna sono fattori che, rileva SVIMEZ, hanno contribuito a “desertificare” l’apparato economico delle Regioni del Mezzogiorno.
Al 2014, tuttavia, se il calo delle attività economiche resta ancora relativamente elevato in alcune Regioni (Puglia, Sardegna), esso si attenua sensibilmente in altre (Campania, Sicilia). Segnali incoraggianti provengono da Molise, Basilicata e soprattutto Calabria, la regione con il PIL pro-capite più basso del Sud.
Per invertire la rotta la SVIMEZ rivolge l’attenzione alle risorse attivabili nel ciclo di programmazione 2014-2020 dei Fondi Strutturali UE.
SVIMEZ auspica una politica industriale “attiva”, che affronti il deficit strutturale del Mezzogiorno favorendo l’adeguamento e la ristrutturazione del sistema produttivo (riqualificazione del modello di specializzazione produttiva), oltre che l’accrescimento delle sue dimensioni (sostegno ai processi di aggregazione delle imprese). Si ritengono necessarie misure attive e selettive volte a promuovere e integrare le filiere produttive, allo scopo di favorire il loro inserimento nelle global value chain.
SVIMEZ immagina una iniziativa a medio-lungo termine capace di rafforzare la ricerca, l’innovazione ed il trasferimento tecnologico, l’aumento dell’apertura verso l’estero ed il rilancio delle politiche di attrazione. Viene poi ricordata l’esigenza di migliorare le condizioni di accesso al credito e ai mercati di capitali.
La SVIMEZ promuove, inoltre, interventi UE compensativi del dumping fiscale subito dai Paesi che hanno aderito all’Unione nel 2004, in attesa della necessaria armonizzazione delle politiche fiscali nazionali.
Tra le misure preliminari possibili, SVIMEZ rileva la possibilità di creare (come già fatto da Polonia, Lettonia e Lituania) Zone Economiche Speciali, sfruttando le opportunità offerte dai porti di Gioia Tauro, Taranto e Catania, di modo da attrarre investitori e contribuire allo sviluppo della logistica avanzata, utile ad abbattere i costi di trasporto ed a realizzare una global value chain che internazionalizzi le imprese del Mezzogiorno.
Sul piano della lotta alla povertà, SVIMEZ incoraggia una riorganizzazione del welfare, magari adottando uno strumento specifico e universale di contrasto della povertà.
Sul piano delle reazioni governative, il Premier ha indicato alcune direttrici (ruolo della politica, investimento nel capitale umano, prime iniziative infrastrutturali) e promosso l’elaborazione di un masterplan ad opera del PD (al Governo in tutto il Sud) entro metà settembre (prima della Legge di Stabilità).
Ferve, intanto, un dibattito importante sul Sud: da interventi sulle realtà industriali e produttive ancora vive (Pirro), a quelli su ciò che si sta realizzando nell’economia dell’innovazione partecipata ( “Che Futuro!” ‪#‎ilsudsiamonoi‬), fino a valutazioni sull’esigenza di investimenti su trasporti, intermodalità, aree urbane e politiche pubbliche ordinarie efficienti (Viesti).
Senza voler trarre conclusioni definitive, si può riprendere anche l’osservazione di chi (Smerilli) ricorda che la priorità per il Sud è trovare la propria strada, strutturando legami di fiducia e cooperazione.
La valorizzazione delle peculiari risorse di ciascun territorio, del resto, potrebbe essere la premessa per il rilancio dell’intero progetto comunitario.

domenica 16 agosto 2015

La Bce ammette: l’euro è stato una catastrofe, per l’Italia

Che l’euro fosse stato la peggiore delle disgrazie occorse al nostro paese dalla fine della II Guerra Mondiale ce ne eravamo accorti un po’ tutti da tanto, ma se ora in una ricerca condotta proprio dalla Bce vengono ammessi nero su bianco gli effetti deleteri della moneta unica sull’economia italiana, l’aspetto si colorisce di grottesco. Proprio in queste ore infatti la Banca Centrale Europea ci fa sapere che dal 1999, anno dell’introduzione della moneta unica con la determinazione dei concambi irrevocabili, il nostro paese è quello che ha subito la peggiore performance tra gli iniziali 12 paesi membri. Se prima dell’introduzione dell’euro l’Italia era fra “l’elite” con il reddito pro capite fra i più elevati, attualmente registra il peggior dato, agganciando Grecia e Portogallo, che all’atto dell’entrata erano già i fanalini di coda dell’Eurozona. Insomma, un vero e proprio fallimento per il nostro paese. Ma la ricerca della Bce va oltre, rivelando candidamente che i famosi criteri di convergenza, tanto cari alle Istituzioni Europee (leggasi Troika), non hanno fatto altro che ampliare le divergenze fra gli euro-paesi e, strano a dirsi, chi ci ha rimesso di più è stata proprio l’Italia!
Le motivazioni addotte dall’istituto centrale europeo si concentrano guarda caso sulla scarsa propensione del nostro paese nel procedere speditamente verso “un marcato aggiustamento dei costi unitari del lavoro”, disvelando inequivocabilmente, se Romano Prodiancora ce ne fosse bisogno, che la sostenibilità dell’area euro si fonda sulla flessibilità del costo del lavoro, essendo logicamente precluso l’aggiustamento dei valori di cambio fra le ormai abbandonate valute nazionali. Inoltre la ricerca della Bce omette volutamente di precisare che tutto questo si è potuto verificare poiché il modello macroeconomico di riferimento su cui si basa l’euro è quello imposto dall’ortodossia tedesca, che prevede la stabilità dei prezzi, cioè il “fobico” contenimento dell’inflazione fino a far precipitare l’intera Eurozona in deflazione (e inoltre letteralmente “appestando” gran parte del mondo) e il rigore dei conti pubblici fino al perseguimento del pareggio di bilancio relegando, per mezzo della fiscalità, le famiglie e le imprese al ruolo di unici prestatori di ultima istanza.
Questo è il vero motivo per il quale l’euro non ha funzionato, non funziona e non potrà mai funzionare! Aver costretto economie continentali così diverse ad uniformare le proprie politiche economiche verso un modello non proprio, evirandole conseguentemente di quelle che autonomamente avrebbero tenuto conto delle rispettive esigenze e caratteristiche, ha determinato lo sfacelo dei paesi non satelliti della Germania. Se i vertici della Bce avessero omesso di scrivere in modo irrituale quella “bella” letterina al governo italiano nell’estate del 2011, che ebbe come effetto pratico di “regalarci” Mario Monti come premier e tutto il peggio possibile dell’austerità “made in Troika”, forse oggi non ci meraviglieremo troppo di apprendere proprio dagli stessi inquilini dell’Eurotower che l’euro si è rivelato un disastro per l’Italia. Se gli “euroforici” Prodi, Ciampi e Amato invece di sbandierare ai quattro venti di essere bravi e in grado di rispettare i vincoli esterni previsti dai trattati al momento dell’adesione all’euro, avessero preventivamente verificato gli effetti e la compatibilità che tali cambiamenti avrebbero prodotto Antonio Maria Rinaldinel nostro sistema economico, sicuramente non ci troveremo in queste drammatiche condizioni ammesse ora addirittura dalla Bce.
O la stessa Banca Centrale Europea già mettendo le mani avanti sapendo perfettamente che dopo la Grecia i prossimi saremo noi e che non basteranno le aspirine e il chinino per risolvere la situazione? Mentre aspettiamo impazienti le considerazioni del governo italiano su queste affermazioni provenienti dal massimo organo monetario europeo, perché se rimarrà silente vorrà dire che chi ci governa non sta perseguendo gli interessi del paese ma quelli di qualcun altro, ben vengano questi rapporti da parte della Bce: magari nel prossimo futuro potremmo apprendere proprio da loro stessi che l’euro è da considerarsi da sempre reversibile…

sabato 15 agosto 2015

CORTE DEI CONTI: PIÙ TAGLI, PIÙ TASSE

Austerità. La relazione sulla finanza locale della magistratura contabile: «Gli 80 euro peggiorano il fabbisogno pubblico». L’abolizione dell’Imu? «Danneggia il federalismo fiscale». Le tasse comunali cresciute di otto miliardi di euro dal 2010 a causa di 40 miliardi di tagli agli enti locali, 113 euro a testa in più all’anno. Promemoria in attesa del pacchetto "taglia-tasse" annunciato dal governo
L’abolizione dell’Imu sulla prima casa? Un pastic­cio gigan­te­sco che ha distrutto uno dei prin­cipi car­dine del fede­ra­li­smo fiscale: la cor­ri­spon­denza tra con­tri­buenti e sog­getti bene­fi­ciari dei ser­vizi resi. Vogliamo par­lare del taglio dell’Irap? L’imposta sulle imprese su base regio­nale tagliata di 1,9 miliardi da Renzi per ridurre il «cuneo fiscale» ha avuto «riflessi nega­tivi» sulle fun­zioni degli enti locali. Quanto al «bonus Irpef» degli 80 euro per i lavo­ra­tori dipen­denti con red­diti tra 8 e 26 mila euro è costato 4,5 miliardi di euro e ha «peg­gio­rato il fab­bi­so­gno del set­tore pubblico».
La rela­zione sugli anda­menti della finanza ter­ri­to­riale, resa nota il 27 luglio dalla Corte dei Conti, non è pro­pria­mente una let­tura estiva, ma per­mette di com­pren­dere i danni pro­vo­cati dall’uso popu­li­sta dei conti pub­blici del governo Renzi. Senza con­tare che quella della magi­stra­tura con­ta­bile è la più seria requi­si­to­ria con­tro i tagli voluti dai governi dell’austerità dal Ber­lu­sconi del 2008 al Renzi della legge di sta­bi­lità del 2015.
Alla base non c’è solo la richie­sta del rispetto delle fun­zione costi­tu­zio­nale nella gestione della spesa pub­blica, rego­lar­mente infranta da tutti i governi per rispet­tare i dik­tat della Troika, ma le gravi defor­ma­zioni pro­vo­cate da una visione mer­can­ti­li­sta dell’economia ispi­rata dal man­tra della com­pe­ti­ti­vità, della ridu­zione dei costi e della com­pres­sione salariale.
Tutti ele­menti che hanno pro­vo­cato un boom inau­dito della tas­sa­zione, l’aumento del debito pub­blico e il blocco della tanto ago­gnata «com­pe­ti­ti­vità». L’austerità è un cir­colo vizioso, soprat­tutto senza una cre­scita capace di aumen­tare l’occupazione e inve­sti­menti mancanti.
I tagli agli enti locali dal 2008 a oggi ammon­tano a quasi 40 miliardi, risul­tato della ridu­zione dei tra­sfe­ri­menti sta­tali di 22 miliardi e di un calo dei finan­zia­menti per la sanità di 17,5 miliardi. «Per con­ser­vare l’equilibrio in rispo­sta alle severe misure cor­ret­tive del governo» i Comuni — col­piti da tagli per quasi 8 miliardi tra il 2010 e il 2014 — hanno rispo­sto con «aumenti molto accen­tuati» delle tasse locali.
Oggi il peso del fisco è «ai limiti della com­pa­ti­bi­lità con le capa­cità fiscali locali» denun­cia la magi­stra­tura con­ta­bile. La tas­sa­zione comu­nale è infatti bal­zata dai 505,5 euro a testa del 2011 ai 618,4 euro dello scorso anno. Una pres­sione che tocca i livelli più alti nei Comuni con più di 250mila abi­tanti, arri­vando a 881,94 euro pro capite.
Se i Comuni hanno rispo­sto ai tagli con una revi­sione al rialzo delle ali­quote Ici-Imu — gli «aumenti gene­ra­liz­zati hanno visto gli incassi pas­sare dai 9,6 miliardi di euro del Ici 2011 ai 15,3 miliardi del 2014 — le Regioni hanno pun­tato sul taglio degli inve­sti­menti e dei ser­vizi con «una com­pres­sione delle fun­zioni extra-sanitarie». Tra il 2009 e il 2015 il taglio al finan­zia­mento del fab­bi­so­gno della sanità è stato del 17,5 miliardi.
La Corte dei conti descrive le poli­ti­che del rigore fiscale nei ter­mini di un «mec­ca­ni­smo distor­sivo» che impone agli enti locali di sca­ri­care i tagli impo­sti dal l’Europa agli enti locali sul con­tri­buente. L’equivalenza è net­tis­sima: l’aumento delle tasse è dovuto ai tagli alle risorse sta­tali dal 2011. A que­sto si aggiunge il ritardo nella «ricom­po­si­zione delle fonti di finan­zia­mento della spesa» per garan­tire ser­vizi pub­blici effi­cienti ed eco­no­mici. Que­sto signi­fica aziende dei tra­sporti locali in defi­cit, come la pri­va­tiz­za­zione delle municipalizzate.
E que­sto nono­stante l’incremento con­si­stente delle entrate (+15,63% rispetto al 2013). In altre parole, la crisi di aziende come l’Atac a Roma, di cui tanto si parla in que­sti giorni, non è solo dovuta all’inefficienza orga­niz­za­tiva, ma a un «baco» nel sistema dei tra­sfe­ri­menti delle risorse. La ven­dita di pac­chetti azio­nari, o la pri­va­tiz­za­zione dei ser­vizi pub­blici, sono l’ultimo step che può chiu­dere un cerchio.
«Serve un piano straor­di­na­rio di con­tra­sto alle povertà, una vera epi­de­mia per tante zone del Paese, che com­prenda più fondi e più ser­vizi» sostiene Anto­nio Satta — com­po­nente del diret­tivo dell’Anci –In que­sti anni abbiamo garan­tito ser­vizi, nono­stante un Patto di sta­bi­lità che ci ha tra­sfor­mati in notai più che in ammi­ni­stra­tori e politici».
Per chi vuole leg­gerle, que­ste pagine costi­tui­scono un ammo­ni­mento sulle con­se­guenze dei tagli che ver­ranno, quelli alla Sanità (2,3 miliardi nel 2016) e a quelli alle tasse sulla prima casa (45 miliardi) nei pros­simi tre anni. È in arrivo un’altra imbar­cata di aumenti delle tasse sui cit­ta­dini. La crisi fiscale viene pro­dotta dai governi. I tagli li pagano i cit­ta­dini che, in più, sono obbli­gati a rinun­ciare ai ser­vizi, alle cure e ad un tra­sporto locale efficiente.
E Renzi che dice? Ieri ha assi­cu­rato che i soldi «sot­tratti» ai Comuni per l’abolizione della Tasi/Imu «saranno resti­tuiti inte­gral­mente». Magie con­ta­bili della finanza creativa.
regalo ai più ricchi»