domenica 30 agosto 2015

Grecia, quel modello di welfare fra miti infondati e tagli reali

Nel dibattito sulla crisi greca ricorre l’affermazione che l’indebitamento del paese derivi in larga misura dall’elevata spesa pubblica erogata da un sistema di welfare – in particolare quello previdenziale – troppo generoso e perciò bisognoso di robusti interventi di riforma. Sulla nostra stampa, generalmente sulla base di aneddoti, la Grecia è spesso dipinta come un paese in cui il livello della spesa sociale è anomalo, il sistema pensionistico paga prestazioni iper-generose, gran parte dei lavoratori e delle lavoratrici smette di lavorare a 55 anni e, soprattutto, nessuna riforma previdenziale significativa è stata adottata dall’esplodere della crisi in poi, da cui il mantra: “Il paese meriterà gli aiuti solo quando inizierà a introdurre riforme strutturali”.
Stanno veramente così le cose? Il sistema previdenziale greco è quasi esclusivamente a gestione pubblica (il ruolo dei fondi pensione privati è del tutto marginale), è finanziato a ripartizione con aliquote a carico sia del datore che dei lavoratori (attualmente pari a circa il 26% della retribuzione lorda, di cui 6 punti per finanziare la cosiddetta pensione pubblica supplementare) e le prestazioni sono formate da una quota legata alle retribuzioni ricevute durante l’attività lavorativa (come in Italia nel sistema retributivo) e da una quota in somma fissa di importo limitato (pari a circa 360 euro al mese). Tuttavia, mentre queste macro-caratteristiche sono rimaste invariate nel corso degli ultimi anni, dal 2010 in poi ben 6 riforme hanno modificato in misura sostanziale sia le regole di calcolo e gli importi delle prestazioni erogate, sia i requisiti per accedere al pensionamento anticipato o per vecchiaia.
Come accadeva in Italia prima della riforma Amato del 1992, in Grecia fino al 2010 le prestazioni venivano calcolate prendendo a riferimento le ultime 5 annualità retributive. Le riforme hanno introdotto parametri di calcolo molto meno favorevoli: dal 2011 la retribuzione di riferimento si basa sull’intera storia lavorativa (poiché i rendimenti sono crescenti con l’anzianità, è avvantaggiato chi lavora più a lungo), mentre dal 2015 la parte di pensione pubblica “supplementare” viene calcolata con il metodo contributivo.
La modifica delle regole di calcolo si applica gradualmente alle sole pensioni in maturazione. Tuttavia, alcune norme hanno ridotto in modo consistente anche le pensioni in essere: dal 2011 sono state abolite la tredicesima e la quattordicesima mensilità (determinando una perdita di circa il 14% all’anno) e, fra il 2011 e il 2014, sono stati progressivamente ridotti gli importi erogati; con l’ultimo taglio le pensioni comprese tra i 1.000 e i 1.500 euro vengono ridotte del 5%, la parte di pensione fra 1.500 e 2.000 euro viene ridotta del 10%, nello scaglione fra 2.000 e 3.000 euro si applica una trattenuta del 15% e sulla parte eccedente i 3.000 euro la riduzione è del 30%.
Il processo di riforma è inoltre intervenuto in modo significativo anche sull’età pensionabile, che è stata incrementata da 60 e 65 anni (rispettivamente, per donne e uomini) a 67 anni. Chi ha 40 anni di contribuzione (35 anni se ha iniziato a lavorare prima del 1993) può però ritirarsi a partire dai 62 anni di età, con una pensione di importo pieno. Non solo. Il pensionamento a partire dai 62 anni è consentito anche a chi ha meno di 40 anni di contribuzione, ma, in questo caso, l’importo della prestazione si riduce di 1/200 per ogni mese in anticipo rispetto all’età di vecchiaia (prima del 2010, a determinate condizioni, ci si poteva pensionare a partire dai 53 anni e la riduzione della pensione era pari a 1/267 per ogni mese di anticipo). Come in Italia, si è anche stabilito che a partire dal 2021 tutti i requisiti anagrafici per il pensionamento verranno aggiornati automaticamente in base all’andamento dell’aspettativa di vita.
Gli attuali requisiti per il pensionamento, di vecchiaia o anticipato, appaiono dunque assolutamente in linea con quanto previsto nella gran parte dei paesi dell’Unione europea. In cosa consisterebbe, dunque, l’anomalia greca della persistenza delle baby pensioni, enfatizzata dalla stampa e dalla stessa Troika? L’anomalia consiste nella possibilità di anticipare il ritiro di ulteriori 5 anni (fino dunque a 57 anni, o 55 se si accetta una prestazione di importo ridotto) laddove si sia lavorato almeno 35 anni, di cui 25 o più in professioni considerate usuranti o insalubri.
La verità è che le riforme introdotte dal 2010 hanno sì incrementato a 62 anni la possibilità di ritirarsi con pensione piena per chi ha svolto attività usuranti o insalubri, ma l’incremento non si applica a chi aveva già trascorso almeno 10 anni in tali attività al momento della riforma. La lista di attività ritenute usuranti o insalubri è effettivamente abbastanza ampia, includendo 580 professioni che riguardano, in base ad alcune stime, più di un terzo della forza lavoro maschile e circa il 15% di quella femminile.
Ma quanto incidono le possibilità di ritiro anticipato sulle effettive scelte di pensionamento dei greci? Per comparare le età pensionabili non basta confrontare le età legali di pensionamento, dato che in ogni paese sono previste forme di uscita anticipata dal lavoro. I dati sull’età effettiva di ritiro dei lavoratori calcolata dall’Ocse smentiscono però la presunta anomalia di Atene: lungi dal luogo comune che vorrebbe torme di baby pensionati, in Grecia nel 2012 (quando non si erano ancora pienamente realizzati gli effetti delle riforme) l’età effettiva di pensionamento era pari a 61,9 anni fra gli uomini e 60,3 anni fra le donne; superiore pertanto a quella di Spagna e Italia e non troppo distante da quella tedesca.
Addirittura, secondo le stime relative al 2015 contenute nell’ultimo rapporto dell’Ageing Working Group (Awg) della Commissione europea, la Grecia è uno dei paesi dell’eurozona con la più alta età effettiva di pensionamento. Insomma, le caratteristiche del sistema previdenziale greco non appaiono per nulla anomale. Anche se, in rapporto al Pil, la spesa per pensioni risulta in forte crescita, essendo passata dal 13,5 del 2009 al 17,2% del 2012 (l’ultimo anno disponibile in base ai dati Eurostat), mentre nello stesso periodo la spesa per pensioni dell’eurozona a 12 paesi (quelli originari) è aumentata di soli 0,2 punti percentuali.
Prima di dedurne che il sistema pensionistico greco sia insostenibile, bisogna però sottolineare due aspetti. In primo luogo, in periodi di forte recessione non ha senso valutare i trend di spesa sulla base di indicatori espressi in rapporto al Pil, dato che la forte caduta del denominatore distorce per sua natura il dato; è invece più informativa la dinamica della spesa pro capite. In secondo luogo, anziché soffermarsi su una sola componente di spesa, come quella per pensioni, è preferibile osservare, soprattutto in comparazione internazionale, il complesso della spesa sociale.
I confronti internazionali risentono infatti del tipo di strumento scelto da ciascun paese per fronteggiare varie tipologie di rischio (per esempio: povertà o disoccupazione dei lavoratori anziani). Storicamente, la Grecia (così come l’Italia) ha utilizzato il sistema pensionistico per far fronte a esigenze assistenziali e occupazionali, mentre nei paesi del Nord Europa, in caso di uscita anticipata dall’attività, si erogano generalmente sussidi di invalidità o disoccupazione, non contabilizzati nella spesa previdenziale. A conferma del ruolo marginale delle prestazioni di welfare non pensionistiche, in Grecia prima della crisi (da dati Eu-Silc) il 24,1% del reddito disponibile delle famiglie proveniva da pensioni, mentre solo il 3,2% derivava da trasferimenti monetari non previdenziali.
Se poi si utilizzano i dati Eurostat sulla spesa sociale, basati sulla classificazione della spesa per tipologia di rischio (malattia, vecchiaia, invalidità, superstiti, disoccupazione, famiglia, esclusione sociale, abitazione), la Grecia risulta, dopo la Spagna, il paese (dato sempre relativo al 2012) con la minor spesa, ben lontana dal valore dell’eurozona, e poco meno del 60% di tale spesa è destinata a pensioni (il 2012 non incorpora però integralmente gli effetti delle riforme).
Guardando alle singole componenti di spesa (accorpando le spese per disoccupazione a quelle per pensioni, data la stretta sostituibilità fra queste e la limitata importanza delle prime in Grecia) risulta impressionante il crollo della spesa sanitaria pro capite (meno 34,9% nel quadriennio) e di quella (già molto limitata) destinata a sostegno assistenziale a individui e famiglie (meno 32,6%), mentre la spesa per pensioni e disoccupazioni è rimasta sostanzialmente immutata.
Sintetizzando, la descrizione delle riforme introdotte in Grecia dall’esplosione della crisi e l’evidenza empirica disponibile sull’età effettiva di pensionamento e sull’andamento della spesa sociale porta a smentire con forza l’idea che in questi anni non siano state introdotte importanti riforme dei sistemi di welfare. Al contrario, l’ampiezza dei tagli già effettuati e di quelli in divenire (come nel caso delle pensioni) porta a interrogarsi con timore sugli effetti depressivi scatenati da queste misure, che hanno inciso in modo significativo sul benessere economico della popolazione.

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