giovedì 31 ottobre 2019

Prodi il “dissociato”. La miseria di questa classe dirigente

Nella “storia universale dell’infamia” – grazie a Borges – c’è sempre posto per qualche volto nuovo. E dopo aver ascoltato qualche passaggio della chiacchierata con Lucia Annunziata, su RaiTre, crediamo proprio che un posto speciale tocchi di diritto a Romano Prodi.
Patiamo da quel che ha detto, perché – come diceva un prodiano di complemento in Palombella rossa – “le parole sono importanti”.
Lucia Annunziata: «Draghi si è caratterizzato in una prima fase come un grande privatizzatore…».
Romano Prodi: «Erano obblighi europei! Erano obblighi europei! Scusi, a me che ero stato a costruire l’IRI, a risanarla, a metterla a posto, mi è stato dato il compito da Ciampi che PRIVATIZZARE ERA UN COMPITO OBBLIGATORIO PER TUTTI I NOSTRI RIFERIMENTI EUROPEI.
Quindi si immagini se io ero così contento di disfare le cose che avevo costruito, ma bisognava farlo per rispondere alle regole generali di un mercato in cui noi eravamo. E questo non era sempre un compito gradevole, ma l’abbiamo fatto come bisognava farlo».
Si potrebbe ironizzare a lungo su questa dissociazione postuma dalle politiche che hanno distrutto la parte migliore della struttura industriale di questo paese, accompagnate dal mantra “ce lo chiede l’Europa”. Magari ricordando quando assicurava “Con l’euro lavoreremo un giorno di meno guadagnando come se lavorassimo un giorno di più“.
Ma non c’è proprio niente da ridere.
E’ un segno di quanto, anche dalle parti del “padre nobile del Pd”, ci si renda conto che il disastro economico, sociale e infine politico su cui è cresciuta la destra fascioleghista ha genitori ignobili. Proprio nel Pd (o come si chiamava allora) e in chi ne ha sostenuto i governi con suicida subalternità (Bertinotti e i suoi boys).
All’inizio degli anni ‘90 è cambiato il mondo, con il crollo del Muro e del “socialismo reale”. In quel periodo sono state fatte le scelte strategiche che hanno indirizzato anche l’Europa nei successivi 30 anni. Di queste scelte Prodi (con Bersani, Rutelli, D’Alema, Treu, e il codazzo chiamato “Ulivo”) è stato massimo protagonista. Due volte presidente del Consiglio, osannato a sinistra perché “unico a battere due volte Berlusconi”, presidente della Commissione Europea dal 1999 al 2004, ex presidente dell’Iri e poi suo liquidatore.
Un personaggio centrale dell’economia e della politica italiana che – vent’anni dopo le immonde decisioni da lui condivise-decise-firmate – se ne esce dicendo “io ho solo obbedito agli ordini” (di Ciampi e dell’Unione Europea), come un Eichmann qualsiasi. Ci sarebbero gli estremi per un processo per alto tradimento, se questo fosse un paese serio…
Naturalmente è falso che sa stato solo un “esecutore di ordini” (sorvolando sulla sublime “eleganza” di dare tutta la colpa a un morto…). Non si attraversano per sbaglio le strutture di direzione di cui ha fatto parte da protagonista per oltre 40 anni (lo ricordiamo ministro dell’industria nel governo Andreotti nel 1978, in pieno sequestro di Aldo Moro), sia in Italia che in Europa.
La privatizzazione-smantellamento dell’Iri è stato un atto criminale che ha privato questo paese del meglio dell’industria e della rete infrastrutturale (Telecom, Italsider, Alfa Romeo, Montedison, Autostrade, Alitalia, Tirrenia, i porti e gli aeroporti, ecc), consegnandola alla peggiore classe “imprenditoriale” dell’Occidente. Basterebbe fare l‘elenco: Colaninno (Telecom, poi sostituito da Tronchetti Provera, i francesi, gli spagnoli, ecc), Riva (finito com’è finito, con l’Ilva consegnata agli indiani è una città condannata a morte), Agnelli, Benetton, e via scendendo.
In pratica Prodi e il Pd (incrocio perverso di ex democristiani e ex “comunisti”) hanno agito come Eltsin in Russia: hanno svenduto il cuore del patrimonio industriale, per quattro soldi. Distruggendo il motore della “crescita” che aveva caratterizzato l’Italia nel dopoguerra.
Tocca ricordare, infatti, che “le imprese private” non sono mai state capaci, qui, di essere protagoniste dello sviluppo. Era stato indispensabile che lo svillaneggiato “potere pubblico” agisse in base a una programmazione economica (c’era persino un ministero con questo nome), attraverso l’Istituto per la Ricostruzione Industriale (Iri, fondato addirittura da Beneduce in periodo fascista) e la proprietà statale delle aziende nominate prima. Intorno a quel “motore” i “privati” (a cominciare dalla sussidiatissima Fiat) si acconciavano a fare i propri affari, sempre pronti a fuggire al primo stormir di crisi.
Si chiamava economia mista – pubblica più privata – con qualche paragone, in piccolo, col “miracolo cinese” degli ultimi 40 anni.
Come in Russia con Eltsin, dopo le privatizzazioni l’economia ha perso completamente spinta propulsiva, capacità di innovazione (i “privati” – tranne rari casi – disdegnano l’investimento in ricerca, per tirchieria e visione corta), ruolo internazionale.
Come con Eltsin, molti poteri “europei” e statunitensi erano molto interessati a questo suicidio mal assistito. E hanno banchettato alla grande.
Una devastazione che oggi renderebbe problematico anche un diverso indirizzo del paese, per un altro modo e altre finalità del produrre. E lo vediamo ad ogni crisi industriale recente (Embraco, Whirpool, Ilva, Alitalia, Jabil, ecc), perché “i privati”, che siano multinazionali o meno, sono stati autorizzati a fare quello che vogliono (prendendo anche finanziamenti pubblici…). E quindi anche, se lo ritengono vantaggioso, a chiudere e trasferire altrove la produzione.
Un cambiamento di sistema deciso quasi 30 anni fa. E di cui Prodi è stato uno dei player di prima fila.
Un cambiamento di sistema che – come nell’Europa dell’Est e persino in Germania – ha distrutto anche le condizioni di vita di quote crescenti della popolazione, a partire dai lavoratori dipendenti (la precarizzazione contrattuale ha preso il via con il “pacchetto Treu”, con Prodi a palazzo Chigi, e poi esteso da Berlusconi con la “legge Biagi”). Oltre che diritti sul lavoro e servizi sociali.

E’ questo il processo che – governato dall’Unione Europea in ogni paese – ha posto le basi, il “brodo di coltura” che ha fatto proliferare la flora batterica fascista e leghista che oggi tracima (e che ha sempre attivamente collaborato a quelle scelte).
Questo, a Prodi e ai suo complici di allora, va imputato ogni giorno come il maggiore dei crimini perpetrato contro il movimento operaio e la possibilità materiale di scegliere come vivere in questo paese.
Non sono il “meno peggio”, sono la levatrice dei Salvini.

mercoledì 30 ottobre 2019

Il puzzle europeo perde il collante

Può sembrare curioso, in giorni monopolizzati dal voto in Umbria e dalle sue indubbie conseguenze politiche per l’Italia, girare lo sguardo sulla crisi dell’Unione Europea. I malevoli diranno: “ma c’avete la fissa…”
E invece ci sembra proprio che sia diventato impossibile capire perché il “malessere popolare” prende direzioni così folli (la Lega in Italia, Afd in Germania, Le Pen in Francia, ecc) se non si fanno i conti fino in fondo con la governance continentale, le politiche che questa ha imposto e che vorrebbe portare avanti senza grandi mutamenti, con i disastri provocati nelle economie e quindi nella “coesione sociale” dei diversi paesi.
Non solo di quelli euromediterranei, a questo punto, visto che anche la Germania è quasi ufficialmente in recessione.
La polarizzazione estrema del voto in Turingia – dove vincono la sinistra (non tanto) estrema con Die Linke e l’ultradestra più estrema con Afd – sono apparentemente in contraddizione con il voto umbro (tutto a destra, niente a sinistra, qualcosa – ma in tracollo – al centro).
La differenza ci sembra evidente: in Turingia (Germania Est, ex Ddr) è ancora viva la memoria di uno “stato sociale” magari non ricchissimo, ma certamente più egualitario della giungla liberista attuale, e c’è almeno un partito che dice di perseguire politiche sociali di redistribuzione, localmente guidato anche da dirigenti che non hanno rinnegato ogni cosa (non dappertutto è così, per la Linke).
In Italia, i presunti “eredi” di quella tradizione (nella vulgata popolare) sono invece diventati i più fedeli esecutori dell’ordoliberismo targato Bruxelles e Francoforte, tanto da rendere credibile la marea di balle sparate dai “sovranisti de noantri”, che abbaiano in campagna elettorale ma abbassano tutte le creste anti-europeiste quando invece vanno a Palazzo Chigi.
Fin qui, però, l’Unione Europea aveva tenuto il timone della baracca in modo abbastanza fermo da nascondere – o far sottostimare – i punti di crisi (riscrittura delle filiere produttive a beneficio dell’industria tedesca, precarizzazione del lavoro, salari bassi in tutta Europa, ecc), ponendo l’accento sui “benefici” teorici derivanti da una struttura continentale e ingigantendo/ridicolizzando (a ragione, persino) le tentazioni di ritorno allo staterello nazionale.
Senza che i nostri media mainstream ne diano qualche almeno vago accenno, invece, questa struttura sovranazionale sta incontrando difficoltà crescenti. Non tanto per l’opposizione popolare (confusa, distorta, strumentalizzata, dunque inefficace), quanto per la competizione interna tra strutture/filiere/apparati che trovano ancora un forte fondamento nazionale sotto la vernice della retorica “europeista”.
Il sempre sagace Guido Salerno Aletta, su Milano Finanza, ne fa un quadro sintetico ma lucidissimo. Squarci di realtà di mandare a mente, per sbeffeggiare quanti ancora si trascinano nella confusione tra “europeismo” e internazionalismo. O, più seriamente, per calcolare i rischi dell’evoluzione politica e sociale a medio termine.
Non c’è nulla di più pericoloso, infatti, di un sistema marcio che vorrebbe presentarsi come “unitario e benefico” nel mentre si vedono ormai apertamente gli effetti disastrosi della sua azione. E soprattutto si sentono, a livello popolare.
Magari è difficile – per molti – risalire dalla propria triste condizione particolare alle cause “generali e unitarie” che la provocano. Questo favorisce i truffatori politici, quelli che indicano falsi nemici (migranti, rom, “comunisti”, come ai tempi dei nazisti), ma solo o soprattutto dove i “progressisti”, “la sinistra”, i “rivoluzionari” non fanno seriamente il proprio mestiere. Tra il movimento dei Gilets Jaunes e le selfie-adunate salviniane la distanza è infinita.
Una crisi devastante gira ancora per tutto il mondo occidentale. In America Latina le cause e l’avversario (la destra al servizio degli Stati Uniti) sono chiari a milioni di persone. In Europa, sotto il tallone dell’Unione Europea, la “percezione” è più confusa, complice anche il “finto progressismo” di cui si ammantano le forze politiche tradizionali, conservatrici e tecnocratiche.
Ma chi non si rende conto della filiera del comando finisce per combattere contro se stesso, aiutando “i padroni” a mantenersi a galla.
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Europa, perchè il puzzle va in pezzi

Guido Salerno Aletta – Milano Finanza
Mentre a Bruxelles ed a Francoforte si celebrano i riti dell’addio, per accommiatarsi da chi in questi anni ha guidato la Commissione e la Bce, le preoccupazioni per il futuro dell’Unione si accrescono, malcelate.

Lotte di potere a Bruxelles

Salta di un mese l’insediamento della nuova Commissione europea, che era previsto per il 1° novembre. La Presidente Ursula von der Leyn non è riuscita a completarne l’iter di formazione, per via dello smacco clamoroso che ha subìto da parte del Parlamento europeo, che ha bocciato a scrutinio segreto la candidatura francese di Sylvie Goulard, fortemente sostenuta dal Presidente Emanuel Macron e Ministro della Difesa dell’attuale governo.
Praticamente, le hanno votato a favore solo i rappresentanti di Renew Europe, il gruppo cui aderiscono i macronisti: i Popolari si sarebbero vendicati della scelta della von der Leyen come Presidente della Commissione, e quindi del veto che fu posto da Macron al mantenimento del tradizionale sistema dello spitzenkandidaten che avrebbe portato automaticamente alla designazione di Manfred Weber.
Ad essere indigesto è stato anche l’eccezionale peso del portafogli assegnatole, che spazia dal Mercato interno all’Industria della difesa, fino a quella digitale. Tante competenze, tanti soldi; forse troppi: ma era esattamente questo il senso dell’accordo raggiunto tra von der Leyen e Macron. Anche per il Presidente francese è stata un segnale pesante.
Occorrerà rimpiazzare anche le due candidature della romena Rovana Plumb, indicata per il portafoglio dei Trasporti, e dell’ungherese Laszlo Trocsanyi, in corsa per l’Allargamento, che sono state dichiarate “non in grado di esercitare le proprie funzioni conformemente ai trattati e al codice di condotta”.
Il nuovo candidato francese è Thierry Breton, che vanta una grande esperienza sia politica che manageriale. Aver ricoperto tanti incarichi societari potrebbe dar luogo a conflitti di interesse, ma anche Francia vuole in Europa un uomo di assoluta fiducia. I Commissari europei sembrano ormai altrettanti ministri, solo che hanno sede e soldi a Bruxelles.

Spagna, tra elezioni politiche e tensioni a Barcellona

Il prossimo 10 novembre, la Spagna tornerà alle urne: sono le seconde elezioni in sette mesi e le quarte in quattro anni, un caso senza precedenti in Europa. Il Psoe, nonostante la maggioranza relativa ottenuta sotto la guida di Pedro Sànchez, non riesce a formare un governo aggregando Unidos Podemos, che è guidata da Pablo Iglesias. Costui non si lascia sedurre dalle poltrone e pone continuamente condizioni in materia di difesa delle classi deboli e dei lavoratori che i Socialisti ritengono eccessive. Un sistema politico frammentato, con posizioni inconciliabili tra loro, è l’eredità degli anni della crisi.
Le pesanti condanne irrogate di recente ai dirigenti catalani che parteciparono alle iniziative indipendentiste di due anni fa hanno rinfocolato le tensioni. A Barcellona, si sono ripetute manifestazioni di piazza, cui hanno partecipato centinaia di migliaia di persone.
Anche in questo caso, emerge un tema di fondo che riguarda l’Unione. Se per un verso l’enfatizzazione dell’Europa delle Regioni e le iniziative transfrontaliere servono a frammentare l’unità politica statale e ad accelerare l’abbattimento delle frontiere nazionali, le azioni per la coesione si sono dimostrate assai poco efficaci. I divari economici e sociali sono aumentati, alimentando le richieste di autonomia nelle aree più ricche ed il senso di abbandono in quelle più povere.

Crisi in Romania

Nella disattenzione generale, da mesi c’è grande tensione a Bucarest. Vecchi equilibri di potere sono saltati, creando una situazione di pericolosa incertezza anche istituzionale. E’ un Paese fondamentale sul piano geopolitico, oltre ad essere molto rilevante dal punto di vista economico. Mentre in Polonia ed in Ungheria si consolidano le rispettive leadership sovraniste, la Romania consuma quella stabilità che negli scorsi anni le aveva consentito una crescita sostenuta. E’ un brutto varco, nello scacchiere orientale.

Adesione all’Ue di Albania e Macedonia

Nessun allargamento, per ora. Se ne riparlerà a maggio, quando si svolgerà una conferenza generale sui Balcani occidentali. Non è affatto casuale che, nell’ultimo Consiglio, sia stata la Francia ad opporsi all’ingresso di Albania e Macedonia del nord nell’Unione: deve bloccare la germanizzazione strisciante di tutta l’area, che Berlino considera da sempre il suo “giardino di casa”. L’asse franco-tedesco, sul piano geopolitico, non esiste: ognuno aspira ad una propria egemonia, e contrasta quella altrui.

Turchia e Cipro: l’inesistente politica estera dell’Unione

L’ingresso delle truppe turche nel nord della Siria ha provocato reazioni quanto mai diverse: l’Italia ha convocato subito l’Ambasciatore turco, rinviando alla sede europea la decisione sull’embargo alla vendita di armi. Francia e Germania hanno agito con maggiore cautela: fermandosi ad un appello a fermare l’offensiva. Sul piano concreto, si sono poi limitate a sospendere le vendite future dei soli armamenti utilizzabili in questo genere di operazioni, soluzione in qualche modo poi seguita dall’Italia. La cautela tedesca risponde alla minaccia turca di aprile i campi profughi che ospitano centinaia di migliaia di persone fuggite dal conflitto siriano. Si sarebbe riaperta la rotta dell’emigrazione che attraversa i Balcani, per giungere in Germania. Per Angela Merkel sarebbe stato un disastro.
Le tensioni con la Turchia riguardano anche lo sfruttamento di giacimenti nell’area marittima di Cipro, che viene rivendicata dalla Turchia: italiani e francesi, che operano per lo sfruttamento, dovrebbero ottenere la protezione dei rispettivi Paesi, forse anche militare. Il paradosso è che siamo tutti parte della Nato: un’alleanza che si sta dimostrando al suo interno assai fragile, proprio come l’Unione.
Anche in questa occasione, non è comparsa pubblicamente la figura dell’Alto rappresentante dell’Unione per la politica estera e la Sicurezza: ad un titolo tanto altisonante corrisponde un ruolo che è stato finora altrettanto poco efficace. Anche la costosissima rete diplomatica che l’Unione sta realizzando da anni rappresenta un lusso poco utile.

Gran Bretagna, sulla Brexit ancora più confusione

L’atmosfera è sempre più avvelenata. Nessuno sa né come, né quando avverrà il recesso dall’Unione. Il Premier Boris Johnson si è dovuto rimangiare la promessa di far uscire comunque la Gran Bretagna dall’Unione il prossimo 31 ottobre, con o senza accordo.
Non solo Westminster gli ha varato una legge che impone al governo l’obbligo di chiedere a Bruxelles un rinvio della data del recesso nel caso che non sia stato approvato un accordo, ma poi nel giro di quarantott’ore gli ha inflitto un ulteriore, duplice smacco. L’esame parlamentare della nuova ipotesi di accordo di recesso è stato sospeso.
Londra ha così ribaltato il suo stallo politico su Bruxelles, in modo a dir poco pirandelliano, inviando due missive: con una, redatta su carta bianca e non firmata, ha chiesto il rinvio del termine del recesso, adempiendo all’obbligo di legge; con l’altra, il Premier Johnson ha comunicato ufficialmente la propria contrarietà politica a qualsiasi rinvio.
Anche Bruxelles si è divisa: pur convenendo tutti sulla opportunità di concedere un rinvio, la Francia si è detta disponibile ad offrire solo una dilazione tecnica, di un mese, e non già fino al 31 gennaio 2020. In questo modo si darebbe lo stesso tempo sia a Westminster, per approvare l’ipotesi di accordo, che alla Presidente della Commissione Ursula von der Leyen per formare la nuova Commissione La Francia non vuole assolutamente rischiare che la Gran Bretagna rimanga ancora nell’Unione: ne va della strategia di ribilanciamento dei rapporti di forza con la Germania su cui si è impegnata a fondo.
La questione si è ulteriormente complicata dopo la decisione del Premier Johnson di chiedere a Westminster l’assenso per andare alle elezioni anticipate il prossimo 12 dicembre, proseguendo però nell’esame del nuovo schema di accordo fino al 5 novembre. E’ una mossa a sorpresa, di cui nessuno si fida, per ragioni opposte, tanto a Londra che a Bruxelles.
Intanto, per andare allo scioglimento anticipato, a Westminster serve la maggioranza dei due terzi, e quindi anche il voto favorevole dei Laburisti. Ma questi vogliono mantenere il vantaggio acquisito nei confronti di Johnson, ed essere sicuri di andare alle elezioni prima di votare di qualsiasi accordo con Bruxelles. Alle elezioni ci vogliono andare con le mani libere.
Ancora maggiore diffidenza circola a Bruxelles: fissando le elezioni inglesi al 12 dicembre, si scavalla la dilazione tecnica di un mese che la Francia è disposta a concedere per circoscrivere al massimo i tempi di approvazione dell’accordo da parte dell’Inghilterra. C’è chi ha il timore che dalle elezioni inglesi possa uscire una maggioranza dei Conservatori in grado di far passare la Hard Brexit, e chi al contrario teme una vittoria dei Laburisti, che interpreterebbero il voto popolare come un ribaltamento del risultato referendario ed a quel punto potrebbero chiedere la revoca del recesso della Gran Bretagna dall’Unione.
Aver usato come una clava contro la Gran Bretagna la decisione di uscire dall’Unione, rendendo il recesso quanto più doloroso possibile, fino al punto di provocare una crisi istituzionale a Londra, si sta trasformando in un rischio esistenziale per la stessa UE. Se la Brexit dovesse riuscire, al di là dei danni economici per tutti, i partner europei si dovranno ripartire un onere rilevantissimo di bilancio per mandare avanti l’Unione.
Per evitare un aumento delle contribuzioni nazionali, si dovrebbero ridurre le spese dell’Unione: una ipotesi completamente opposta rispetto alla strategia in atto, che mira ad aumentare le competenze e le dimensioni del bilancio dell’Unione, ad imitazione di qualsiasi Stato federale. La Germania ha già messo le mani avanti: di mettere mano al portafogli non ci pensa affatto.
Dopo le fanfare della Commissione uscente sulla prospettiva di una sovranità condivisa, conferendo nuovi poteri all’Unione, si torna mestamente al punto di partenza: ognun per sé.

martedì 29 ottobre 2019

La versione di Trump sulla morte di Al Baghdadi non convince

Così come dichiarato a suo tempo per Osama Bin Laden, anche i resti del capo dell’Isis Al Baghdadi sarebbero stati dispersi in mare dopo essere stato ucciso da un commando delle forze speciali Usa. A confermare questa versione sono stati i vertici del Pentagono in una conferenza stampa a cui ha partecipato il capo di stato maggiore interforze Usa Mark Milley.

Ma la versione ufficiale di Trump e dei vertici militari statunitensi, non convince alcuni giornali inglesi e americani, dal ‘New York Times’ al ‘The Guardian’, che hanno pubblicato servizi e inchieste nelle quali si comincia a dubitare della ricostruzione fatta da Trump circa la morte di Abu Bakr al-Baghdadi.
Sono diversi i punti critici rilevati dal quotidiano New York Times, in particolare la descrizione del Califfo che urla e piange nel tunnel dove poi si è fatto esplodere.
Secondo il New York Times, infatti, le immagini alle quali hanno assistito Trump e i suoi collaboratori nella ‘situation room’ erano senza audio. Non solo, di Baghdadi braccato nel tunnel il presidente americano non ha potuto nemmeno vedere le immagini in diretta. Gli ultimi minuti di vita del leader dell’Isis, infatti, sono state riprese dalle telecamere installate sugli elmetti dei soldati americani che stavano facendo il blitz. Quei video però sono stati consegnati a Trump soltanto dopo la conferenza stampa.
Su una domanda specifica della Abc sul racconto cinematografico di Trump, il capo del Pentagono Mark Esper ha provato a tergiversare dicendo di essere all’oscuro di certi dettagli e di ritenere che il presidente abbia parlato con i militari sul campo per farsi dare tutte le informazioni.
Anche il britannico “The Guardian” decostruisce la versione fornita da Trump.
In Italia a sollevare apertamente dubbi è un veterano del giornalismo sul fronte come Alberto Negri, il quale si è dichiarato assai perplesso per alcune ‘incongruenze’ che emergerebbero dalla versione dei fatti fornita dal presidente americano. “Non c’era audio, non si vedeva quasi niente perché era notte – scrive Negri su Facebook – si distinguevano a stento le sagome degli attaccanti e dei jihadisti.
Ma Trump, grazie a una fervida immaginazione, è stato in grado di descrivere nei dettagli la morte di Al Baghdadi.
I russi non sono convinti, turchi e curdi lo assecondano, i siriani tacciono, se non per protestare contro l’annuncio di Trump di voler occupare i loro pozzi petroliferi. I testimoni in zona parlano di tre ore di battaglia, raid e bombardamenti: fatti da chi e come? Da un aereo Usa e da sei elicotteri che poi dovevano tornare in Iraq? In Iraq o in Turchia che è a 5 minuti di volo ed è un Paese con basi Usa e Nato?
Un racconto che fa acqua da tutte le parti: forse a Trump il Pentagono ha dato informazioni monche perché non si fida”.
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Ditelo a Trump: il Medio Oriente non è Hollywood e avanza un nuovo ordine

Alberto Negri – il manifesto
L’inaffidabile racconto hollywoodiano di Trump sulla fine di al Baghdadi. In Medio Oriente intanto si profila un nuovo ordine dopo gli anni dominati dalle milizie e dagli attori non statuali
C’era una volta… in Siria, anzi a Hollywood, ma questa volta non c’è Tarantino alla regia e il copione fa acqua da tutte le parti. Anche i russi del ministero della Difesa smentiscono Trump: non abbiamo mai aperto nessuno spazio aereo agli americani.
Oltre al racconto di Trump sull’uccisione del capo dell’Isis – con battute inventate da lui visto che nella “situation room” della Casa Bianca non c’era neppure l’audio – è il momento di chiedersi cosa stia accadendo in una regione dove la mappa geopolitica è rapidamente cambiata nel giro di due settimane.
Ma il racconto di Trump merita qualche sottolineatura. In particolare la sua descrizione del Califfo che urla e piange nel tunnel dove si è fatto esplodere. In primo luogo «un codardo», come dice lui, non si fa saltare in aria. E poi è un falso. Non solo le immagini che ha visto Trump erano senza audio, ma non ha potuto seguire neppure quelle nel tunnel perché i video dei soldati sono stati consegnati solo dopo la conferenza stampa. Ma Trump, con fervida immaginazione, ha inventato i dettagli della morte di Al Baghdadi, imbarazzando anche il capo del Pentagono Mark Esper.
I testimoni siriani parlano di tre ore di raid e bombardamenti: non è stato un blitz, ma una battaglia. Fatta da chi e come? Da un aereo Usa e da sei elicotteri che poi dovevano tornare in Iraq con 70 minuti di volo? Oppure in Turchia, che è a 5 minuti di volo ed è un Paese con basi Usa e Nato?
Un racconto non credibile: forse a Trump il Pentagono ha dato informazioni monche perché non si fida. È non si fidano i russi che controllano i cieli siriani con jet, radar e contraerea. Il portavoce ministero della Difesa russo Igor Konashenkov ha dichiarato che Mosca «non è in possesso di prove affidabili sulla morte del leader dell’Isis», sottolineando che coloro che riferiscono della partecipazione dei russi all’operazione – ovvero lo stesso Trump – hanno riportato dettagli sbagliati, alimentando dubbi sul raid.
In Medio Oriente intanto si profila un nuovo ordine dopo gli anni dominati dalle milizie e dagli attori non statuali. L’Isis al culmine della sua espansione tra Siria e Iraq dominava un territorio vasto come l’Italia con un popolazione di 10-12 milioni, mentre altri dovevano sottostare comunque ai gruppi affiliati ad Al Qaida o ad altre bande jihadiste.
La stessa area di Idlib, ai confini con la Turchia, dove oggi è prevalente il gruppo qaidista Hayat Tahrir al Sham (ex Al Nusra), in concorrenza con l’Isis, conta un paio di milioni di abitanti. Mentre le milizie curde hanno dovuto abbandonare sotto i colpi di Erdogan un territorio strategico con città per loro decisive, sostituiti da turchi, milizie filo-Ankara, russi e soldati di Assad tornati in forze in un’area dove non c’erano da anni.
Ora queste milizie, islamiste e non, devono tornare sotto il cappello dello stato siriano, turco o iracheno. La Turchia è chiamata da Putin e dall’Iran a rispettare i patti di Astana, restituire Idlib a Damasco e farsi carico dei jihadisti che ha già in parte incorporato nelle milizie anti-curde schierate nella «fascia di sicurezza»: il Rojava abbandonato dagli americani.
E a proposito di foreign fighter dell’Isis sono centinaia quelli europei detenuti nella Siria settentrionale, territorio il cui futuro è assai incerto. I governi europei, riluttanti a riportarli a casa cercano, come ha fatto Macron con l’Iraq, di processarli e condannarli morte nella regione. Esiste ora il rischio che molti possano sfuggire e anche l’Europa prima o poi dovrà riprenderseli.
A guidare il processo di «ritorno all’ordine» statuale non sono gli Usa e tantomeno l’Europa, ma il capo del Cremlino. Uno schema che potrebbe replicarsi in Libia dove Putin, con egiziani ed Emirati, sostiene Haftar, mentre Erdogan appoggia con le armi Al Sarraj alleato degli italiani. Ma L’Italia militarmente non conta, quindi dovrà negoziare anche con Putin per stabilizzare la Libia, visto che gli alleati europei e americani, come si vedrà anche alla conferenza di Berlino, non tengono conto alcuno delle istanze nostrane.
L’altro protagonista mediorientale è Assad che si conferma l’ultimo raìs arabo, erede di quel partito Baath dato per morto e sepolto con la fine di Saddam Hussein in Iraq nel 2003.
Porta a casa un successo anche l’Iran: ogni rafforzamento di Assad è un punto a favore della repubblica islamica, i cui alleati sono stati messi in difficoltà dalle rivolte popolari in Iraq e nel Libano degli Hezbollah.
La mezzaluna sciita è quindi chiamata a una nuova prova di sopravvivenza anche se è stato fatto fuori un nemico mortale come Al Baghadi. Ma sono altri i due nemici che oggi agitano le piazze arabe, oltre le barriere settarie, più insidiosi e quasi imbattibili: l’ingiustizia sociale e la corruzione.
Ditelo a Trump che il Medio Oriente non è Hollywood.

lunedì 28 ottobre 2019

La morte di Al Baghdadi, forse stavolta è vera

L’operazione sarebbe avvenuta in modo ancora non rivelato, probabilmente con l’intervento di elicotteri e commandos. Secondo le stesse fonti Usa, Al Baghdadi si sarebbe fatto esplodere con un giubbotto da kamikaze, portando con sé anche un paio di mogli.
Sui resti si starebbero conducendo i test del dna per verificare con certezza l’indentità dei cadaveri. Il capo dell’Isis era stato uno dei prigionieri a Guantanamo, quindi le agenzie di “sicurezza” degli Usa dispongono del suo dna originale.
Il resto è nella nebbia.
Fonti siriane, irachene e iraniane, presenti sul terreno (e che dispongono probabilmente di informatori all’interno della sacca di Idlib) confermano la morte di Al Baghdadi.
Quindi dovrebbe essere vera, visto che non corre certamente buon sangue tra loro e gli Usa.
Se così è, bisogna dire che Al Baghdadi ha percorso l’esatta traiettoria già compiuta a suo tempo da Osama Bin Laden, ucciso in un compound militare pakistano, controllato dai servizi segreti di quel paese (la Dina). Da alleato a nemico, da foraggiato a ricercato (ma fino ad un certo punto), e infine ucciso senza lasciare traccia.
Insomma, bisogna “fidarsi” di quel che dice il Pentagono così come ci si fida nell’accettare dollari come corrispettivo di qualche merce.
Se così, si conferma che è la Turchia – nell’area – ad assicurare la libertà operativa di un gran numero di gruppi jihadisti ufficialemente considerati “terroristi” dalla Nato e altri paesi occidentali. La “stranezza” sta nel fatto che la Turchia fa parte della Nato, così come il Pakistan è un caposaldo della presenza Usa tra India e Iran.
Gli interrogativi sulle ragioni di questa uccisioni possono coprire un vasto arco di “dietrologie”, anche di segno opposto.
Le uniche cose che ci sembrano indubbie riguardano l’abitudine statunitense ad eliminare le prove delle proprie porcate in vari teatri di guerra “sporca”. Lo fanno maldestramente, spesso, ma lo fanno sempre. Per restare solo alla Siria di questi anni, ricordiamo il bombardamento di un “cementificio”, usato dall’Isis in collaborazione con Francia e Gran Bretagna, subito dopo il ritiro delle truppe occidentali da quella zona.
Se, dopo anni, gli Usa si sono decisi a sbarazzarsi dell’ingombrante ex alleato, assicurandosi di farlo restare per sempre in silenzio, significa che gli equilibri nell’area stanno profondamente cambiando.
E’ noto che la Turchia è diventato un membro “alieno” della Nato. Prima per aver firmato contratti di acquisto di missili russi (anziché statunitensi), poi per aver stretto con Putin il “patto di Sochi” per controllare congiuntamente il Rojava, neutralizzando sia l’invasione turca che l’autonomia dei curdi.
In questo quadro, una serie di forze – fin qui utilissime nel tentativo di destabilizzare la Siria e mandare Assad a raggiungere Gheddafi e Saddam – diventano obbiettivamente un problema. E se la maggior parte di queste forze non sono né conosciute né credibili al di fuori di un cerchio ristretto, l’Isis e Al Baghdadi sono/erano invece una possibile “fonte interessante”.
Stante il mutamento di quadro intervenuto in quell’area, insomma, la morte del capo dell’Isis sarebbe una ciliegina sulla torta dell’accordo geopolitico tra grandi potenze e attori locali. Dunque, stavolta sembra più credibile dei precedenti annunci simili.

venerdì 25 ottobre 2019

La guerra delle monete. Zuckerberg abbassa le penne, dollaro in affanno

Il lancio di “Libra” la criptovaluta di Facebook, sarà effettuato solo dopo l’autorizzazione delle autorità statunitense ha fatto sapere Mark Zuckerberg intervenuto davanti alla commissione Servizi finanziari del Congresso Usa. “La politica monetaria è di competenza delle banche centrali, non di Libra. L’associazione Libra non ha intenzione di competere con le valute sovrane o di entrare nell’arena della politica monetaria”.
Il Dipartimento del Tesoro americano ha incontrato esponenti e funzionari di Facebook, e gli ha “fatto sapere” che i loro piani per il lancio della criptovaluta Libra sono prematuri. Inutile dire che il titolo di Facebook a Wall Street è arrivato a perdere il 2,26% a causa dell’ampliamento dell’indagine antitrust nei confronti della piattaforma e dell’avvertimento del Dipartimento del Tesoro Usa.
Il Sole 24 Ore sottolinea come “I grandi partner finanziari sono pronti a sfilarsi dal re dei social network – o meglio dall’ultimo, ambiziosissimo progetti del gruppo, nell’immagine e nella sostanza: la criptovaluta globale Libra. Secondo quanto riportato dal Wall Street Journal, Libra starebbe incassando importanti defezioni tra i suoi alleati: numerosi giganti della finanza – da Visa a Mastercard e non solo – potrebbero tirarsi indietro dal piano di dare vita a un network globale per un sistema di pagamenti fondato sulla nuova divisa digitale ideata da Fb.
Che cosa segnala questo rapido “Rise and Fall” della criptomoneta di Facebook? Segnala che la guerra delle e tra le monete sta diventando un campo di battaglia durissimo e frontale nella competizione globale interimperialista nel XXI Secolo.
La nascita delle criptomonete da parte di Stati e di multinazionali, è un ulteriore tentativo di divincolarsi dagli attuali intrecci finanziari e monetari, per trovare nuovi spazi di crescita dei singoli soggetti privati e statuali. Questo intreccio pericoloso si è palesato nella crisi finanziaria del 2007 che si è velocemente propagata dagli USA a tutto il mondo” è scritto nel documento di convocazione del Forum su “Lo stallo degli imperialismi” che la Rete dei Comunisti ha organizzato a Roma per sabato 26 ottobre (ore 10.00 al centro congressi Cavour).
Ma tra la guerra delle monete configura ormai una competizione a tutto campo tra un numero crescente di Stati che intendono sganciarsi dall’egemonia del dollaro – e stanno agendo di conseguenza – e gli Stati Uniti che vorrebbero impedire con ogni mezzo il declino degli strumenti della loro egemonia globale durata quasi sessanta anni. Il ricorso ai dazi e alla guerra commerciale è il tentativo di rispondere al fatto che ormai solo il 40% dei pagamenti internazionali avviene ancora in dollari. Una moneta da anni non più ancorata a beni reali (oro, petrolio etc.) ma esclusivamente imposta al mondo su base “fiduciaria” – e garantita più dalla minaccia del Pentagono che dall’economia reale – viene rimessa pesantemente in discussione dai nuovi competitori emergenti: dalla Russia alla Cina, dall’Unione Europea a potenze regionali come Iran o Turchia, o da paesi apertamente antagonisti all’imperialismo Usa come il Venezuela.
E’ lo scenario da incubo che i Neocons statunitensi puntavano a scongiurare sin dal 1992 (riaffermato poi nel Project per a New American Century nel 2000) e che invece si è via via delineato nelle relazioni internazionali del XXI Secolo, evidenziando quel declino Usa ampiamente intellegibile nella contraddittoria amministrazione Trump.
In passato situazioni come queste sono state affrontate con la guerra e con ben due guerre mondiali. Oggi questa soluzione non è a portata di mano di nessuna potenza imperialista. La presenza e la diffusione di armamenti nucleari, pone ormai il rapporto tra costi e benefici di una guerra su un terreno non ragionevolmente quantificabile, se non quello della “alternativa del diavolo” descritta nel libro di Forsyth.
Quello che si configura oggi, a nostro modo di vedere, è una situazione di stallo nei rapporti di forza internazionali che segnerà i prossimi anni, e che gli USA stanno vivendo come fine della loro egemonia globale alla quale intendono opporsi in tutti i modi, pena il declino e la fine del loro imperialismo come è avvenuto per l’Inghilterra nel secolo scorso” sottolinea il documento della RdC per la discussione nel Forum di sabato prossimo. “Uno scenario del tutto in contrasto con il sogno e il progetto del Nuovo Secolo Americano! Questa condizione di stallo sta inoltre producendo situazioni paradossali e contraddittorie”.
Siamo dunque dentro una crisi di sistema, quello capitalista, che non riesce a trovare le vie d’uscita. Le vecchie sono impraticabili, le nuove stentano a delinearsi. E’ una situazione che rende di straordinaria pertinenza quanto scriveva Gramsci dal carcere indicando che: La crisi appunto consiste nel fatto che il vecchio muore ma il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”.
Ma la funzione delle soggettività rivoluzionarie non è certo quella dei meri osservatori di quanto accade. Se un sistema dominante è in crisi, una alternativa torna a rendersi necessaria. “Nonostante il discredito gettato quotidianamente dai nostri nemici di classe sulle nostre idee forza la situazione, per come si manifesta e per la dimensione che hanno assunto le contraddizioni, rivela tutto il peso dell’assenza di un’alternativa politica e statuale e pone dunque la necessità di una alternativa che non riusciamo ad esprimere con termini diversi da Socialismo e Comunismo” chiosa il documento della RdC che prepara il forum di sabato a Roma. Strada in salita sicuramente, ma non per questo da continuare a rimuovere dall’azione politica, sociale, sindacale e internazionale. Al contrario.

giovedì 24 ottobre 2019

I “patrioti” ucraini e la terra rastrellata dai monopoli stranieri

Unione Europea, abolizione dei visti, aiuti umanitari, finanziamenti: l’Ucraina nazi-golpista proclama dal 2014 tali “conquiste”, per cercare di giustificare la propria bancarotta economica e sociale, ma soprattutto militare, in Donbass.
Ma, sin dall’inizio si sapeva che tali “conquiste” avevano un prezzo: un prezzo che i cittadini ucraini hanno cominciato da subito a pagare, in termini di imposizioni di FMI, Banca Mondiale, UE, apripista dei concreti interessi occidentali nel paese.
Se prima del 2014 gli ucraini subivano le conseguenze della guerra per bande oligarchiche, occupate a spartirsi i resti del patrimonio sovietico, dopo il golpe neonazista, a questo, si sono aggiunti anche i debiti contratti a occidente.
Una delle cambiali che stanno venendo a scadenza (tra un anno esatto; ma già tra due settimane, è atteso a Kiev il “sopralluogo” del FMI) è quella della privatizzazione dei terreni ancora “di nessuno”, dettata dal FMI. Terreni ricchi, che fanno gola soprattutto ai monopoli agro-alimentari stranieri (statunitensi, britannici, russi, cinesi, olandesi, ecc.), che intanto, per aggirare le pastoie locali, possono benissimo “limitarsi” a imporre produzioni, seminativi, rotazioni, agli agricoltori locali.
Non a caso, l’Ucraina è uno dei pochissimi paesi al mondo ancora ricco di un’enorme estensione di terre nere molto fertili (si parla dell’8,7% mondiale) associate a un clima temperato, ideale per l’agricoltura. Oggi, circa 28 milioni di ettari sono in mano privata, suddivisi tra piccole o medie aziende locali, ma soprattutto accaparrati da grossi investitori, a loro volta controllati da trust stranieri (che così aggirano la moratoria sull’acquisto di terra: ad esempio, già nel 2015 l’americana Cargill deteneva oltre il 5% della più grossa holding agricola ucraina, la UkrLandFarming), mentre rimangono al demanio 14 milioni di ettari.
Con l’ulteriore, inevitabile, concentrazione fondiaria, gran parte della popolazione agricola – circa ¼ di quella totale – diverrebbe “superflua”. Ciò, indipendentemente dal fatto che, se oggi molti ucraini lavorano come braccianti nei campi polacchi o rumeni, per salari (quasi) polacchi o rumeni, la terra privatizzata, in mano alle grosse imprese ucraine o straniere, riporterebbe in “patria” quei braccianti: ovviamente, a ghiotti – per il padrone – salari ucraini.
Aleksandr Khaldej ricorda su iarex.ru che, a livello planetario, il 33% del suolo fertile è praticamente già inutilizzabile, a causa del passato cattivo sfruttamento; ciò non fa che accrescere gli appetiti non solo stranieri, ma anche dei clan regionali, sulla terra ucraina. La lotta a coltello tra famelici privatizzatori è così aspra che, già da diverso tempo, sono fermi alla Rada ben cinque disegni di legge diversi, ognuno dei quali patrocinato da altrettante cordate affaristiche, spinte sicuramente anche da “sponsor” stranieri.
Proprio ieri, uno dei leader della frazione parlamentare “Piattaforma d’opposizione” (secondo partito alla Rada, con 44 deputati, dietro ai 252 del partito presidenziale “Servo del popolo”) Jurij Bojko, ha chiesto un referendum sul tema. Né Banca Mondiale, né speculatori stranieri, ha detto Bojko, devono prender parte all’elaborazione del disegno di legge; “la terra è l’unica risorsa rimasta alla gente. Aprire la terra al mercato, senza un referendum, è un delitto contro il proprio popolo”. Ma sarà problematico controllare chi si nasconda dietro chi.
Detto questo, oggi gli ucraini sembrano comunque più preoccupati della storia che del presente. Pare abbia suscitato “sdegno” a Kiev il rifiuto della commissione parlamentare tedesca di accogliere la petizione avanzata dalla “comunità ucraina di Monaco”, affinché il Bundestag riconoscesse come “genocidio del popolo ucraino”, la carestia degli anni 1932-’33 che, dai tempi di Stepan Bandera e dei propagandisti goebbelsiani, viene definita “holodomor”.
Alla base della decisione del Bundestag pare siano in realtà non motivazioni di coerenza storica – la carestia, infatti, fu indotta dalla gravissima siccità del 1931, che colpì, più e peggio dell’Ucraina, vaste aree di Russia, Caucaso, Kazakhstan – ma limitati calcoli di bottega: Berlino teme che, una volta riconosciuto il “holodomor” – che’ i neo-banderisti imputano alla “malvagità di Stalin” – poi Kiev possa chiedere alla Germania stessa nuove riparazioni di guerra. I media ucraini, nota topwar.ru, sono così sdegnati, che accusano le autorità tedesche di “posizioni apertamente anti-ucraine, il che indica il continuo avvicinamento tra Berlino e Mosca“.
“Posizioni anti-ucraine” che Kiev imputa ora addirittura anche ai padrini yankee: ai neo-nazisti di “Azov” non è andata giù che una quarantina di congressisti USA abbiano chiesto al Dipartimento di Stato di inserire il reggimento nella lista delle “organizzazioni terroristiche straniere”, parlando di connessioni tra “Azov” e Brenton Tarrant, il terrorista australiano autore della sparatoria a Christchurch, in Nuova Zelanda, nel marzo scorso, vantatosi di essersi addestrato in Ucraina con “Azov”. Dopo di che, gli autori delle sparatorie a Powey, in California, e El Paso, in Texas, hanno dichiarato di essere stati influenzati dall’attacco di Christchurch: la “connessione tra ‘Azov’ e gli attacchi terroristici in America è ovvia “, affermano i deputati.
I nazisti rispondono che questo sarebbe un “attacco alla sovranità ucraina e alla sua sicurezza statale”, dal momento che, dicono, “Azov” è inquadrato nella Guardia nazionale, agli ordini del Ministero degli interni e dello Stato maggiore; la qual cosa, nota news-front.info, a loro parere li dovrebbe rendere quegli “eroi” dei mostri morali meno abietti.
Mica come “Pravyj Sektor” o la “Legione georgiana”, che dal 2015 al 2017 hanno contato nelle proprie file assassini e disertori – quali gli yankee Craig Lang e Alex Zwiefelhofer – “abili arruolati” per l’aggressione ucraina, insieme a riconosciuti mercenari georgiani che, con il benestare ufficiale di Tbilisi, sono inquadrati da cinque anni nelle bande naziste. Benché, quanto a fascisti stranieri, lo stesso reggimento “Azov” possa vantare anche italici camerati, come quelli che, pochi mesi fa, disponevano di un razzo aria-aria, da usarsi non certo contro qualche fascio-leghista governativo. Tutti, in compagnia di fascisti o islamisti da Russia, repubbliche caucasiche o centro-asiatiche ex sovietiche, wahhabisti ceceni o ingusci, veterani dei raggruppamenti islamisti mediorientali, che hanno fatto o fanno la spola tra Siria, Turchia e Ucraina.
Insomma, l’Ucraina golpista, con tutti gli annessi e connessi orpelli “ideologici” banderisti, va bene fintanto che i “patrioti” gridano solo contro la “aggressione russa” e servono gli interessi occidentali; per il resto, anche a ovest, di loro cominciano a esserne stanchi.

mercoledì 23 ottobre 2019

Spagna, la puzza del franchismo

Tra le innumerevoli manifestazioni, blocchi stradali e iniziative di lotta di questi giorni, domenica si è diffuso a Barcelona l’appello a recarsi alla succursale del governo spagnolo muniti di sacchi di immondizia e di rifiuti per far sentire la puzza del franchismo che sprigiona il cosiddetto regime del ’78, nato in seguito all’autoriforma del fascismo spagnolo.
Nonostante si tratti di un semplice aneddoto, se ne possono trarre alcune riflessioni. Il processo eminentemente politico al quale il Tribunale Supremo ha sottoposto gli indipendentisti catalani, le decine di aggressioni ai giornalisti di cui si è resa protagonista la polizia e l’uso indiscriminato delle pallottole di gomma hanno spinto un numero crescente di osservatori a denunciare la persistenza di vizi antichi nelle attuali istituzioni statali.
È il caso della deputata portoghese Joana Mortágua (del Bloco de Esquerda), che ha affermato: “Madrid rischia di rimanere dal lato sbagliato della storia. Sembra che la Spagna non abbia imparato niente né da mezzo secolo di dittatura, fondata su un ferreo spagnolismo, né dalla repressione violenta delle realtà nazionali. Il castiglianismo, che fu l’arma dell’aristocrazia, ora è utilizzato per servire gli interessi dell’elite economica in una Spagna unica diretta da Madrid”.
Invece di essere messo al bando, il nazionalismo spagnolo viene oggi usato senza risparmio, anche al di fuori della sua area di provenienza. Secondo la deputata portoghese “è inevitable scorgere in questo atteggiamento sia il fatto che la democrazia non ha imparato la lezione, sia l’avvicinamento del PSOE allo spagnolismo più reazionario, che ha sempre caratterizzato i partiti di destra. Comunque si guardi la questione, il governo spagnolo non può negare la deriva autoritaria”.
Una deriva che si evidenzia dalle rivelazioni dell’avvocato di Alerta Solidaria Xavier Pellicer, il quale denuncia i maltrattamenti subiti da un giovane militante dei Comitati di Difesa della Repubblica detenuto il 23 settembre e tuttora in carcere.
Secondo l’associazione antirepressiva, Ferran Jolis non soltanto ha subito maltrattamenti psicologici ma probabilmente è stato anche drogato: il giovane infatti non ricorda alcuni momenti della prigionia, dove è stato portato e cosa è accaduto. Jolis ha finalmente potuto parlare con il proprio avvocato questa settimana, dopo essere stato assistito da un legale nominato d’ufficio per un mese, periodo nel quale è stato tenuto in isolamento.
Non si tratta di un caso isolato. Secondo Benet Salellas, ex deputato della CUP e avvocato di alcuni giovani detenuti nel corso delle manifestazioni della scorsa settimana a Barcelona, una propria cliente è stata incriminata dalla Policia Nacional con prove false e identiche a quelle a cui i funzionari statali sono ricorsi per arrestare anche altri manifestanti. In particolare, alla giovane in questione sarebbero state introdotte nella borsa delle biglie di ferro che non gli appartenevano. Una pratica poliziesca assai in auge in epoca precostituzionale.
Salellas denuncia anche una serie di difficoltà supplementari che la Policia Nacional riserva agli avvocati e ne denuncia un atteggiamento volto a influenzare i giudici: la dichiarazione di un suo assistito davanti al tribunale di Girona è avvenuta alla presenza di due agenti incappucciati, fatto “che genera e esprime di per sé una situazione di eccezionalità che non si addice alla realtà del nostro paese e che inquina tutto ciò che accade in sala, perché il giudice e il fiscal che accettano la situazione (della quale mi sono evidentemente lamentato) vengono contagiati da questo contesto di eccezionalità e finiscono per essere spinti a proporre e ad adottare misure che normalmente non prenderebbero”.
Salellas fa notare anche che la fiscalia ha chiesto per tutti i detenuti nelle manifestazioni della scorsa settimana il carcere preventivo, secondo un’indicazione che sembra provenire direttamente dal governo e che è volta a spaventare e scoraggiare la partecipazione alle proteste.
La manovra del governo tende a instaurare un clima di emergenza che, nel nome della tutela dell’ordine costituito, finisce per calpestare i diritti civili e politici: ancora secondo Salellas, “è un contesto che ci porta molto indietro nel tempo”, e che è assai rischioso perché se “tutte le prove sopra una persona senza antecedenti, giovane, con un lavoro fisso, si riducono alla parola di un agente dei reparti antisommossa, allora il pericolo di imprigionare gente innocente è molto alto”.
Il bilancio della prima settimana di protesta consiste in 28 detenuti in carcere preventivo, 172 detenuti in seguito rilasciati, 593 feriti, tra i quali una giovane colpita alla testa permane in gravi condizioni e 4 persone hanno perso un occhio a causa delle pallottole di gomma. All’elenco si devono aggiungere 12 feriti a Madrid, in occasione della manifestazione internazionalista svoltasi sabato scorso nella capitale.
I tafferugli seguiti al corteo hanno spinto la presidente della Comunità Autonoma di Madrid, la popolare Isabel Díaz Ayuso, a dichiarare che si dovranno restringere le autorizzazioni a manifestare. Infine per parte delle forze dell’ordine ci sarebbe un poliziotto in gravi condizioni in seguito a un trauma cranico riportato negli scontri a Barcelona.
In questo contesto, la decisione del governo di rimuovere i resti del dittatore dal mausoleo del Valle de los Caidos, prevista per domani mattina, sembra una mera operazione di maquillage, i cui tempi sono stati accuratamente gestiti dal PSOE allo scopo di esibire nella prossima campagna elettorale almeno un argomento che consenta ai socialisti di marcare le distanze dal PP, da Ciudadanos e dal partito neofranchista Vox.
L’esumazione di Franco sarà trasmessa in diretta dalla televisione spagnola e un sacerdote, figlio del colonnello Tejero (il leader del fallito colpo di stato del 1981) celebrerà una messa. Nel frattempo, la protesta nelle piazze catalane prosegue, sia pure con un’intensità minore rispetto alla scorsa settimana.
Secondo La CUP e i CDR, la mobilitazione continua è l’unica prospettiva percorribile per uscire dal vicolo cieco nel quale lo stato spagnolo cerca di intrappolare il movimento indipendentista, in una riedizione repressiva che dovrebbe suonare come un avvertimento inquietante anche per tutti i soggetti e i movimenti che lottano per un’alternativa sociale e politica alla gabbia liberista forgiata dall’Unione Europea.

martedì 22 ottobre 2019

Patto di non aggressione URSS-Germania: l’algoritmo colpisce ancora

L’occasione più “ghiotta” è stato l’attacco turco nel nord della Siria. Su quella, il solerte algoritmo di feisbuc non ci ha “pensato” due volte ed è prontamente ricorso alla mannaia, come successo nei giorni scorsi per Contropiano, Dinamopress, Infoaut e altri siti, “colpevoli” di non voler tanto bene a Erdogan. Le guerre, quando si fanno, si fanno per bene: ci si preoccupa di avere una sola e unica voce in campo, quella di chi la guerra la scatena.
Succede così anche per le guerre non combattute (per ora), con le armi.
Era evidente che, quando lo scorso 19 settembre il parlamento europeo ha decretato, con il pronto “obbedisco” dei deputati italiani leghisti, fascisti, “democratici”, l’equiparazione di nazismo e comunismo, l’obiettivo non era certo, o quantomeno, non soltanto, una (con rispetto parlando) “rivisitazione storica”. I bravi eurodeputati gettano sì un’occhiata all’indietro, ma si occupano soprattutto di guardare avanti.
Se già da qualche anno in Polonia, nei Paesi baltici – tralasciamo il caso estremo dell’Ucraina nazi-golpista – si condannano persone che osino esibire in pubblico falce e martello, bandiere rosse o sovietiche, l’ignobile risoluzione di Bruxelles intenderebbe estendere un simile Ordnung anche agli altri paesi UE, vietando ideologia, simboli e monumenti comunisti.
In attesa che anche in Italia, zelanti Sindaci cambino i nomi alle migliaia di piazze e strade dedicate a partigiani comunisti (anche sovietici), o che i comunisti vengano messi fuori della legge borghese, l’indefesso algoritmo – o chi per lui – pensa bene di oscurare post in cui anche soltanto si dica di voler confrontare (presunti) falsi e (presunti) veri documenti dell’accordo di non aggressione tra Germania e URSS del 23 agosto 1939. Proprio quell’accordo con cui gli infami credono di poter mettere sullo stesso piano Germania hitleriana e Unione Sovietica, come pari responsabili dello scatenamento della Seconda guerra mondiale.
E dunque un semplice intervento di Aleksandr Sever, sul sito istoriki.su, ripreso da zen.yandex.ru, “non rispetta i nostri Standard della community” e quindi “non è visibile a nessun altro”, dal momento che lor signori hanno “creato questi standard per inibire pubblicità falsa, frodi e violazioni della sicurezza”, per impedire di “usare informazioni fuorvianti o non corrette”. Il post semplicemente scompare alla vista.
Si tratta, è vero, di un blocco temporaneo, appena un paio di giorni, ma che in ogni caso testimonia di come l’algoritmo sia “stranamente” sensibile a senso unico: oscura i temi che in qualche misura contraddicano la bibbia decretata a Bruxelles. Salvo poi essere in grado, tale sistema umano, di rendersi conto di “prendere abbagli” e quindi di “correggersi”… Beh, nemmeno a Bruxelles sono così cristianamente pronti a emendare i proprio sbagli!
In una molto estrema sintesi, cosa diceva la pubblicazione incriminata? Oltre a riprodurre i fac-simili dell’originale in lingua russa del cosiddetto “protocollo segreto” allegato al Patto di non aggressione (tra l’altro, pubblicati lo scorso agosto dal Ministero degli esteri russo, dato che sinora si conosceva soltanto la versione russa dell’originale in lingua tedesca), Sever si occupa di sbugiardare la rivista “Diletant”, già distintasi per aver pubblicato un falso manifesto riproducente nienetmeno che un “bombardamento tedesco-sovietico” su Londra.
Ora, invece, pare che sarebbero “tornati alla luce” degli “originali” del Patto Molotov-Ribbentrop: si diceva fossero andati tutti completamente distrutti in un bombardamento alleato, tranne il relativo microfilm, che poi sarebbe quello allegramente diffuso nel 1948 dal Dipartimento di Stato. Ora, invece, si dice che gli originali fossero sempre rimasti al sicuro negli archivi del Ministero degli esteri tedesco. Mah!
Sever mette in dubbio l’autenticità di parte dei documenti ora resi pubblici (lo hanno fatto per anni decine di storici, russi e non), basandosi sulle caratteristiche – timbro, sigillo, ceralacca, numeri di pagina, tipica bordatura dei fogli, ecc. – delle pagine riprodotte. Nulla di più. Lo scorso 14 agosto, la Società storica russa aveva presentato a Mosca il volume di materiali storici “URSS-Germania: 1932-1941”, sulla firma del Patto Molotov-Ribbentrop, messo a punto sulla base “Bollettino dell’Archivio presidenziale”. In esso vengono riprodotti anche i fac simili del Patto di non aggressione, per altro già ampiamente riportati anche nel libro “La coalizione anti-hitleriana. 1939 – formula di un fallimento”, pubblicato lo scorso aprile.
Nulla di nuovo, dunque; nulla di “eretico” nello scritto di Sever.
Ma all’algoritmo si è evidentemente impartito l’ordine di ridurre al silenzio ogni riferimento, esplicito o implicito, alla “verità rivelata” nella ignobile risoluzione del 19 settembre. Il prossimo, prevedibile passo, sarà forse quello di accusare la sola Unione Sovietica di aver scatenato la guerra e, una volta (disgraziatamente per qualcuno) vinta quella, di aver costretto gli USA a sganciare l’atomica sul Giappone. Guai a dubitarne.

lunedì 21 ottobre 2019

L’effetto dazi anche in Italia ed in Europa.

Dopo una considerevole tempesta mediatica che da mesi impazza nel tourbillon dell’informazione globale sono scattati i primi dazi all’Italia – da parte degli USA – nell’ambito del più generale ciclo dazi e varie penalità nei confronti dei paesi dell’Unione Europea.
Queste misure, a detta di Bankitalia, “riguarderanno una quota relativamente limitata delle esportazioni italiane verso gli Stati Uniti”, ma i cui “effetti indiretti potrebbero essere significativi”. Per gli esperti di Via Nazionale sarebbero colpite esportazioni italiane per 400 milioni di Euro, ma vanno considerati anche gli effetti “trasmessi attraverso l’interscambio con i nostri partner commerciali dell’area o mediante una possibile revisione dei piani delle imprese”.
Non è bastata la visita a Washington di Mattarella per ammorbidire la posizione di Trump il quale, nel dichiarare che “prenderà in considerazione le rimostranze dell’amico italiano”. ha aggiunto: “L’Europa ha approfittato enormemente degli Stati Uniti, ma posso rimediare a questa situazione molto facilmente”.
Subito dopo il Presidente USA si è appellato alla «reciprocità tra alleati», sia sul versante del commercio che su quello del rilancio della NATO, chiedendo all’ospite di aumentare i contributi all’Alleanza Atlantica.
L’Italia paga solo l’1% invece del 2% alla NATO, spero che aumenti le spese”, ha detto il capo della Casa Bianca. Questa specie di manfrina per evidenziare che se qualche elemento di flessibilità può essere concessa agli “amici italiani” sul versante della guerra commerciale questa, poi, dovrà essere compensata da un aumento delle spese militari ed una rinnovata fedeltà atlantista.
Ritorna, quindi, nella immanente dinamica del capitalismo internazionale, una misura – i dazi ed il loro corollario di provvedimenti protezionistici – che sembrava espunta dall’attuale dibattito finanziario ed economico tipico della globalizzazione e relegata alla stregua di un vecchio orpello della letteratura economica ottocentesca.
Anzi, a dimostrazione che le tensioni commerciali sono oramai un dato acquisito della contemporaneità capitalistica (competizione interimperialistica) il Fondo Monetario Internazionale, nelle settimane scorse, si è affrettato a tagliare le stime di crescita del PIL mondiale e di conseguenza anche quelle italiane che già mostravano indici e previsioni ridicole.
Infatti lo scorso 15 ottobre, all’apertura del meeting annuale del Fondo Monetario e della Banca Mondiale (World Economic Outlook 2019) è stato presentato un allarmato Rapporto dal titolo abbastanza netto e chiaro: “Manifattura globale in calo, barriere commerciale in aumento” il quale fotografa l’accresciuta tensione tra aree monetarie, potenze commerciali e blocchi valutari e registra una impennata nell’utilizzo, a larga scala, dello strumento dei dazi e del vero e proprio Protezionismo.
E’ evidente che siamo di fronte a convulsioni diplomatiche ed economiche, ben oltre la nostrana pacchiana guerra del parmigiano o del prosecco, le quali alludono sia ad una fase di ulteriori tensioni ma, soprattutto, ad una progressiva modifica delle gerarchie economiche planetarie. Il tutto dentro un contesto politico e geo/politico che presenta una larga banda di oscillazione che alterna fasi di accordo a periodi di minacce reciproche e tregue momentanee con altrettante esibizione/esternazione di toni ultimativi tra i vari competitori di questa sfida mondiale.
Si colloca in tale dinamica globale – con l’obiettivo di inquadrare la fase che stiamo attraversando e le conseguenze che si producono a vario titolo nei variegati campi della produzione e della riproduzione sociale – la riflessione che la Rete dei Comunisti sta sollecitando e che vedrà, nel prossimo Forum del 26 ottobre, a Roma, un interessante momento di confronto ed approfondimento tra i comunisti, i movimenti di lotta indipendenti e quanti sono interessati a discutere attorno a questi snodi teorici e pratici i quali non sono collocati, unicamente, nel cielo della teoria ma riverberano nella società e nelle agende politiche generali.
Una discussione che come caratteristica dello stile di lavoro della RdC riveste un immediato compito politico/pratico!
Dazi, guerre monetarie, politiche protezionistiche, competizioni economiche, politiche e militari sono atti e strumenti di un ciclo temporale (di cui non possiamo prevederne la durata) che abbiamo definito di “stallo degli Imperialismi”.
Chi conosce la nostra elaborazione teorica sa che – da marxisti – siamo distanti da ogni teorizzazione afferente ad improbabili “periodi di pace duratura sul piano globale” anzi la permanenza del corso della crisi strutturale del capitalismo conferma la tendenza generale allo “scontro tra potenze” con buona pace delle fumisterie ideologiche di chi intravedeva una “governance mondiale del capitalismo”.
Non possiamo però non registrare che – al momento – pur in presenza di un accumularsi di tutte le contraddizioni tipiche del modo di produzione capitalistico (nella sua maturità imperialistica) – il, relativo, riequilibrio delle forze, tra i vari predoni imperialisti, evidenzia una condizione che abbiamo definito “di stallo” in quanto non prevale ancora nettamente, nello scenario internazionale e nei vari quadranti di crisi, una egemonia unipolare (di “vecchio” o di “nuovo” tipo) a tutto tondo.
Ma il Forum “Lo stallo degli Imperialismi” (http://lnx.retedeicomunisti.net/2019/10/04/dazi-monete-e-competizione-globale-lo-stallo-degli-imperialismi/) a cui invitiamo a partecipare vuole essere anche una conferma che l’obiettivo strategico della costruzione dell’alternativa di società non è una sterile petizione di principio o una esortazione da libro dei sogni ma è una necessità moderna ed attuale.
La competizione globale, la guerra delle monete e l’uso dei dazi sono – prima di tutto – un elemento fondante delle politiche di attacco alle condizioni di vita dell’ umanità lavoratrice in un periodo storico in cui ogni “valenza progressiva della globalizzazione/mondializzazione dei mercati” ha esaurito, da tanto tempo, ogni anelito di progresso e di civiltà.
Avanza una profonda deriva antisociale mentre si moltiplicano, con una crescente e sorprendente velocità, le evidenze di regressione materiale e morale che questo sistema sta inducendo in ogni latitudine come drammaticamente è dimostrato dalla diffusa e crescente preoccupazione verso un possibile infarto ecologico del pianeta.
Il rilancio di ciò che continuiamo a chiamare lotta per il Socialismo e per il Comunismo resta per noi l’obiettivo strategico della riflessione che prospettiamo e proponiamo e fonda la nostra azione militante a tutto campo che sforziamo di delineare e sperimentare.

venerdì 18 ottobre 2019

Trump-Erdogan, un accordo tra sconfitti

Questa, diciamolo, ancora non si era vista. Un “accordo per il cessate il fuoco” che non riguarda una delle parti in conflitto, ma impegna – anche qui, solo a parole – quasi soltanto l’attaccante e una delle parti che si è appena ritirata dalla scena. Un po’ come “fare la pace” con i suoi alleati invece che con il nemico…

Quello tra Trump ed Erdogan, il giorno dopo, sembra più un escamotage per salvare la faccia ad entrambi che non un fatto vero, di quelli che cambiano lo scenario nell’area.
La posizione degli Usa, dopo il voltafaccia a l’abbandono degli “alleati” curdi nel Rojava, era diventata assolutamente non credibile per qualsiasi soggetto mediorientale. Lo si è visto con il frettoloso viaggio del segretario di Stato Pompeo in Israele, per rassicurare Netanyahu sul fatto che quel ritiro non significa un disimpegno totale degli Stati Uniti dall’area.
Dunque si poneva la necessità di far vedere che invece giocano ancora un ruolo “decisivo”.
Erdogan, invece, si trovava in un’empasse pericolosa, soprattutto per lui. Aveva scatenato un’offensiva militare dichiarando che sarebbe “andato fino in fondo”, grazie al ritiro Usa che in teoria doveva lasciare i curdi senza alcuna copertura (soprattutto aerea, oltre che diplomatica). Ma la resistenza curda e l’avanzata delle truppe russe e di Assad (e quelle filo-iraniane di Hezbollah) verso la linea del confine nord siriano ha di fatto ridotto la portata dell’attacco a solo alcune zone, pur bombardamento tutto quel che si muove (anche con armi chimiche, nel silenzio delle “democrazie occidentali”).
Dunque o rischiava uno scontro diretto con Russia, Assad e Iran, oppure doveva fermarsi e perdere la faccia all’interno del suo paese dopo aver acceso ancora una volta i fuochi del nazionalismo più acefalo. La “tregua” concordata con Trump lo solleva per il momento da questo rischio mentre, sul terreno, le milizie jihadiste da lui controllate e armate restano inchiodate nello scontro con i curdi; e, se pure fossero sterminate dai siriani e dai russi, non sarebbe Erdogan a doversi definire sconfitto.
Sul fronte opposto, è altrettanto ovvio che né Assad né la Russia hanno alcuna intenzione di trasformare la loro avanzata in conflitto vero e proprio (la Turchia, per quanto irritante soprattutto verso i propri alleati, è pur sempre un membro della Nato e potrebbe invocarne l’intervento). Dunque il compromesso implicito nell’”accordo” – ritiro delle milizie curde al di qua della “fascia di sicurezza” definita da Erdogan – può essere per il momento accettabile. In fondo hanno guadagnato terreno senza pagare alcun prezzo, né militare né diplomatico. Ci sarà tempo e modo di decidere altro…

Ed anche per i curdi – ancora una volta – non c’è alternativa. Non potevano restare soli contro l’attacco congiunto dell’esercito turco e dei tagliagole jihadisti, non possono chiedere ai nuovi “alleati” un impegno maggiore della semplice “protezione”. Dunque debbono definire – in parte a ragione, visto che con la loro resistenza hanno fortemente limitato l’avanzata delle “truppe di terra” turco-jihadiste – una “vittoria” il fatto che Erdogan debba fermarsi.
Poi c’è ovviamente la propaganda. Anche i turchi dicono di aver “ottenuto quel che volevamo”, anche se è qualcosa di molto diverso da quanto dichiarato. E Trump si autocompiace di aver impedito “milioni di morti”.
Resta fuori da ogni gioco l’Unione Europea, che ha perso forse l’ultima occasione per smarcarsi dagli Stati Uniti e avere un ruolo. Ma del resto, già da molti anni l’UE aveva fatto della Siria un proprio bersaglio e la situazione attuale è il frutto anche delle sue sozzure più folli.

Naturalmente questa non è una “data storica”, ma solo una tappa della lunghissima “guerra mondiale a pezzetti” che si sta giocando in Medio Oriente sulla pelle di chi ci vive.