Può
sembrare curioso, in giorni monopolizzati dal voto in Umbria e dalle
sue indubbie conseguenze politiche per l’Italia, girare lo sguardo sulla
crisi dell’Unione Europea. I malevoli diranno: “ma c’avete la fissa…”
E invece ci sembra proprio che sia diventato impossibile capire perché il “malessere popolare” prende direzioni così folli (la Lega in Italia, Afd in Germania, Le Pen in Francia, ecc) se non si fanno i conti fino in fondo con la governance continentale, le politiche che questa ha imposto e che vorrebbe portare avanti senza grandi mutamenti, con i disastri provocati nelle economie e quindi nella “coesione sociale” dei diversi paesi.
Non solo di quelli euromediterranei, a questo punto, visto che anche la Germania è quasi ufficialmente in recessione.
La polarizzazione estrema del voto in Turingia – dove vincono la sinistra (non tanto) estrema con Die Linke e l’ultradestra più estrema con Afd – sono apparentemente in contraddizione con il voto umbro (tutto a destra, niente a sinistra, qualcosa – ma in tracollo – al centro).
La differenza ci sembra evidente: in Turingia (Germania Est, ex Ddr) è ancora viva la memoria di uno “stato sociale” magari non ricchissimo, ma certamente più egualitario della giungla liberista attuale, e c’è almeno un partito che dice di perseguire politiche sociali di redistribuzione, localmente guidato anche da dirigenti che non hanno rinnegato ogni cosa (non dappertutto è così, per la Linke).
In Italia, i presunti “eredi” di quella tradizione (nella vulgata popolare) sono invece diventati i più fedeli esecutori dell’ordoliberismo targato Bruxelles e Francoforte, tanto da rendere credibile la marea di balle sparate dai “sovranisti de noantri”, che abbaiano in campagna elettorale ma abbassano tutte le creste anti-europeiste quando invece vanno a Palazzo Chigi.
Fin qui, però, l’Unione Europea aveva tenuto il timone della baracca in modo abbastanza fermo da nascondere – o far sottostimare – i punti di crisi (riscrittura delle filiere produttive a beneficio dell’industria tedesca, precarizzazione del lavoro, salari bassi in tutta Europa, ecc), ponendo l’accento sui “benefici” teorici derivanti da una struttura continentale e ingigantendo/ridicolizzando (a ragione, persino) le tentazioni di ritorno allo staterello nazionale.
Senza che i nostri media mainstream ne diano qualche almeno vago accenno, invece, questa struttura sovranazionale sta incontrando difficoltà crescenti. Non tanto per l’opposizione popolare (confusa, distorta, strumentalizzata, dunque inefficace), quanto per la competizione interna tra strutture/filiere/apparati che trovano ancora un forte fondamento nazionale sotto la vernice della retorica “europeista”.
Il sempre sagace Guido Salerno Aletta, su Milano Finanza, ne fa un quadro sintetico ma lucidissimo. Squarci di realtà di mandare a mente, per sbeffeggiare quanti ancora si trascinano nella confusione tra “europeismo” e internazionalismo. O, più seriamente, per calcolare i rischi dell’evoluzione politica e sociale a medio termine.
Non c’è nulla di più pericoloso, infatti, di un sistema marcio che vorrebbe presentarsi come “unitario e benefico” nel mentre si vedono ormai apertamente gli effetti disastrosi della sua azione. E soprattutto si sentono, a livello popolare.
Magari è difficile – per molti – risalire dalla propria triste condizione particolare alle cause “generali e unitarie” che la provocano. Questo favorisce i truffatori politici, quelli che indicano falsi nemici (migranti, rom, “comunisti”, come ai tempi dei nazisti), ma solo o soprattutto dove i “progressisti”, “la sinistra”, i “rivoluzionari” non fanno seriamente il proprio mestiere. Tra il movimento dei Gilets Jaunes e le selfie-adunate salviniane la distanza è infinita.
Una crisi devastante gira ancora per tutto il mondo occidentale. In America Latina le cause e l’avversario (la destra al servizio degli Stati Uniti) sono chiari a milioni di persone. In Europa, sotto il tallone dell’Unione Europea, la “percezione” è più confusa, complice anche il “finto progressismo” di cui si ammantano le forze politiche tradizionali, conservatrici e tecnocratiche.
Ma chi non si rende conto della filiera del comando finisce per combattere contro se stesso, aiutando “i padroni” a mantenersi a galla.
Mentre a Bruxelles ed a Francoforte si celebrano i riti dell’addio, per accommiatarsi da chi in questi anni ha guidato la Commissione e la Bce, le preoccupazioni per il futuro dell’Unione si accrescono, malcelate.
Praticamente, le hanno votato a favore solo i rappresentanti di Renew Europe, il gruppo cui aderiscono i macronisti: i Popolari si sarebbero vendicati della scelta della von der Leyen come Presidente della Commissione, e quindi del veto che fu posto da Macron al mantenimento del tradizionale sistema dello spitzenkandidaten che avrebbe portato automaticamente alla designazione di Manfred Weber.
Ad essere indigesto è stato anche l’eccezionale peso del portafogli assegnatole, che spazia dal Mercato interno all’Industria della difesa, fino a quella digitale. Tante competenze, tanti soldi; forse troppi: ma era esattamente questo il senso dell’accordo raggiunto tra von der Leyen e Macron. Anche per il Presidente francese è stata un segnale pesante.
Occorrerà rimpiazzare anche le due candidature della romena Rovana Plumb, indicata per il portafoglio dei Trasporti, e dell’ungherese Laszlo Trocsanyi, in corsa per l’Allargamento, che sono state dichiarate “non in grado di esercitare le proprie funzioni conformemente ai trattati e al codice di condotta”.
Il nuovo candidato francese è Thierry Breton, che vanta una grande esperienza sia politica che manageriale. Aver ricoperto tanti incarichi societari potrebbe dar luogo a conflitti di interesse, ma anche Francia vuole in Europa un uomo di assoluta fiducia. I Commissari europei sembrano ormai altrettanti ministri, solo che hanno sede e soldi a Bruxelles.
Le pesanti condanne irrogate di recente ai dirigenti catalani che parteciparono alle iniziative indipendentiste di due anni fa hanno rinfocolato le tensioni. A Barcellona, si sono ripetute manifestazioni di piazza, cui hanno partecipato centinaia di migliaia di persone.
Anche in questo caso, emerge un tema di fondo che riguarda l’Unione. Se per un verso l’enfatizzazione dell’Europa delle Regioni e le iniziative transfrontaliere servono a frammentare l’unità politica statale e ad accelerare l’abbattimento delle frontiere nazionali, le azioni per la coesione si sono dimostrate assai poco efficaci. I divari economici e sociali sono aumentati, alimentando le richieste di autonomia nelle aree più ricche ed il senso di abbandono in quelle più povere.
Le tensioni con la Turchia riguardano anche lo sfruttamento di giacimenti nell’area marittima di Cipro, che viene rivendicata dalla Turchia: italiani e francesi, che operano per lo sfruttamento, dovrebbero ottenere la protezione dei rispettivi Paesi, forse anche militare. Il paradosso è che siamo tutti parte della Nato: un’alleanza che si sta dimostrando al suo interno assai fragile, proprio come l’Unione.
Anche in questa occasione, non è comparsa pubblicamente la figura dell’Alto rappresentante dell’Unione per la politica estera e la Sicurezza: ad un titolo tanto altisonante corrisponde un ruolo che è stato finora altrettanto poco efficace. Anche la costosissima rete diplomatica che l’Unione sta realizzando da anni rappresenta un lusso poco utile.
Non solo Westminster gli ha varato una legge che impone al governo l’obbligo di chiedere a Bruxelles un rinvio della data del recesso nel caso che non sia stato approvato un accordo, ma poi nel giro di quarantott’ore gli ha inflitto un ulteriore, duplice smacco. L’esame parlamentare della nuova ipotesi di accordo di recesso è stato sospeso.
Londra ha così ribaltato il suo stallo politico su Bruxelles, in modo a dir poco pirandelliano, inviando due missive: con una, redatta su carta bianca e non firmata, ha chiesto il rinvio del termine del recesso, adempiendo all’obbligo di legge; con l’altra, il Premier Johnson ha comunicato ufficialmente la propria contrarietà politica a qualsiasi rinvio.
Anche Bruxelles si è divisa: pur convenendo tutti sulla opportunità di concedere un rinvio, la Francia si è detta disponibile ad offrire solo una dilazione tecnica, di un mese, e non già fino al 31 gennaio 2020. In questo modo si darebbe lo stesso tempo sia a Westminster, per approvare l’ipotesi di accordo, che alla Presidente della Commissione Ursula von der Leyen per formare la nuova Commissione La Francia non vuole assolutamente rischiare che la Gran Bretagna rimanga ancora nell’Unione: ne va della strategia di ribilanciamento dei rapporti di forza con la Germania su cui si è impegnata a fondo.
La questione si è ulteriormente complicata dopo la decisione del Premier Johnson di chiedere a Westminster l’assenso per andare alle elezioni anticipate il prossimo 12 dicembre, proseguendo però nell’esame del nuovo schema di accordo fino al 5 novembre. E’ una mossa a sorpresa, di cui nessuno si fida, per ragioni opposte, tanto a Londra che a Bruxelles.
Intanto, per andare allo scioglimento anticipato, a Westminster serve la maggioranza dei due terzi, e quindi anche il voto favorevole dei Laburisti. Ma questi vogliono mantenere il vantaggio acquisito nei confronti di Johnson, ed essere sicuri di andare alle elezioni prima di votare di qualsiasi accordo con Bruxelles. Alle elezioni ci vogliono andare con le mani libere.
Ancora maggiore diffidenza circola a Bruxelles: fissando le elezioni inglesi al 12 dicembre, si scavalla la dilazione tecnica di un mese che la Francia è disposta a concedere per circoscrivere al massimo i tempi di approvazione dell’accordo da parte dell’Inghilterra. C’è chi ha il timore che dalle elezioni inglesi possa uscire una maggioranza dei Conservatori in grado di far passare la Hard Brexit, e chi al contrario teme una vittoria dei Laburisti, che interpreterebbero il voto popolare come un ribaltamento del risultato referendario ed a quel punto potrebbero chiedere la revoca del recesso della Gran Bretagna dall’Unione.
Aver usato come una clava contro la Gran Bretagna la decisione di uscire dall’Unione, rendendo il recesso quanto più doloroso possibile, fino al punto di provocare una crisi istituzionale a Londra, si sta trasformando in un rischio esistenziale per la stessa UE. Se la Brexit dovesse riuscire, al di là dei danni economici per tutti, i partner europei si dovranno ripartire un onere rilevantissimo di bilancio per mandare avanti l’Unione.
Per evitare un aumento delle contribuzioni nazionali, si dovrebbero ridurre le spese dell’Unione: una ipotesi completamente opposta rispetto alla strategia in atto, che mira ad aumentare le competenze e le dimensioni del bilancio dell’Unione, ad imitazione di qualsiasi Stato federale. La Germania ha già messo le mani avanti: di mettere mano al portafogli non ci pensa affatto.
Dopo le fanfare della Commissione uscente sulla prospettiva di una sovranità condivisa, conferendo nuovi poteri all’Unione, si torna mestamente al punto di partenza: ognun per sé.
E invece ci sembra proprio che sia diventato impossibile capire perché il “malessere popolare” prende direzioni così folli (la Lega in Italia, Afd in Germania, Le Pen in Francia, ecc) se non si fanno i conti fino in fondo con la governance continentale, le politiche che questa ha imposto e che vorrebbe portare avanti senza grandi mutamenti, con i disastri provocati nelle economie e quindi nella “coesione sociale” dei diversi paesi.
Non solo di quelli euromediterranei, a questo punto, visto che anche la Germania è quasi ufficialmente in recessione.
La polarizzazione estrema del voto in Turingia – dove vincono la sinistra (non tanto) estrema con Die Linke e l’ultradestra più estrema con Afd – sono apparentemente in contraddizione con il voto umbro (tutto a destra, niente a sinistra, qualcosa – ma in tracollo – al centro).
La differenza ci sembra evidente: in Turingia (Germania Est, ex Ddr) è ancora viva la memoria di uno “stato sociale” magari non ricchissimo, ma certamente più egualitario della giungla liberista attuale, e c’è almeno un partito che dice di perseguire politiche sociali di redistribuzione, localmente guidato anche da dirigenti che non hanno rinnegato ogni cosa (non dappertutto è così, per la Linke).
In Italia, i presunti “eredi” di quella tradizione (nella vulgata popolare) sono invece diventati i più fedeli esecutori dell’ordoliberismo targato Bruxelles e Francoforte, tanto da rendere credibile la marea di balle sparate dai “sovranisti de noantri”, che abbaiano in campagna elettorale ma abbassano tutte le creste anti-europeiste quando invece vanno a Palazzo Chigi.
Fin qui, però, l’Unione Europea aveva tenuto il timone della baracca in modo abbastanza fermo da nascondere – o far sottostimare – i punti di crisi (riscrittura delle filiere produttive a beneficio dell’industria tedesca, precarizzazione del lavoro, salari bassi in tutta Europa, ecc), ponendo l’accento sui “benefici” teorici derivanti da una struttura continentale e ingigantendo/ridicolizzando (a ragione, persino) le tentazioni di ritorno allo staterello nazionale.
Senza che i nostri media mainstream ne diano qualche almeno vago accenno, invece, questa struttura sovranazionale sta incontrando difficoltà crescenti. Non tanto per l’opposizione popolare (confusa, distorta, strumentalizzata, dunque inefficace), quanto per la competizione interna tra strutture/filiere/apparati che trovano ancora un forte fondamento nazionale sotto la vernice della retorica “europeista”.
Il sempre sagace Guido Salerno Aletta, su Milano Finanza, ne fa un quadro sintetico ma lucidissimo. Squarci di realtà di mandare a mente, per sbeffeggiare quanti ancora si trascinano nella confusione tra “europeismo” e internazionalismo. O, più seriamente, per calcolare i rischi dell’evoluzione politica e sociale a medio termine.
Non c’è nulla di più pericoloso, infatti, di un sistema marcio che vorrebbe presentarsi come “unitario e benefico” nel mentre si vedono ormai apertamente gli effetti disastrosi della sua azione. E soprattutto si sentono, a livello popolare.
Magari è difficile – per molti – risalire dalla propria triste condizione particolare alle cause “generali e unitarie” che la provocano. Questo favorisce i truffatori politici, quelli che indicano falsi nemici (migranti, rom, “comunisti”, come ai tempi dei nazisti), ma solo o soprattutto dove i “progressisti”, “la sinistra”, i “rivoluzionari” non fanno seriamente il proprio mestiere. Tra il movimento dei Gilets Jaunes e le selfie-adunate salviniane la distanza è infinita.
Una crisi devastante gira ancora per tutto il mondo occidentale. In America Latina le cause e l’avversario (la destra al servizio degli Stati Uniti) sono chiari a milioni di persone. In Europa, sotto il tallone dell’Unione Europea, la “percezione” è più confusa, complice anche il “finto progressismo” di cui si ammantano le forze politiche tradizionali, conservatrici e tecnocratiche.
Ma chi non si rende conto della filiera del comando finisce per combattere contro se stesso, aiutando “i padroni” a mantenersi a galla.
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Europa, perchè il puzzle va in pezzi
Guido Salerno Aletta – Milano FinanzaMentre a Bruxelles ed a Francoforte si celebrano i riti dell’addio, per accommiatarsi da chi in questi anni ha guidato la Commissione e la Bce, le preoccupazioni per il futuro dell’Unione si accrescono, malcelate.
Lotte di potere a Bruxelles
Salta di un mese l’insediamento della nuova Commissione europea, che era previsto per il 1° novembre. La Presidente Ursula von der Leyn non è riuscita a completarne l’iter di formazione, per via dello smacco clamoroso che ha subìto da parte del Parlamento europeo, che ha bocciato a scrutinio segreto la candidatura francese di Sylvie Goulard, fortemente sostenuta dal Presidente Emanuel Macron e Ministro della Difesa dell’attuale governo.Praticamente, le hanno votato a favore solo i rappresentanti di Renew Europe, il gruppo cui aderiscono i macronisti: i Popolari si sarebbero vendicati della scelta della von der Leyen come Presidente della Commissione, e quindi del veto che fu posto da Macron al mantenimento del tradizionale sistema dello spitzenkandidaten che avrebbe portato automaticamente alla designazione di Manfred Weber.
Ad essere indigesto è stato anche l’eccezionale peso del portafogli assegnatole, che spazia dal Mercato interno all’Industria della difesa, fino a quella digitale. Tante competenze, tanti soldi; forse troppi: ma era esattamente questo il senso dell’accordo raggiunto tra von der Leyen e Macron. Anche per il Presidente francese è stata un segnale pesante.
Occorrerà rimpiazzare anche le due candidature della romena Rovana Plumb, indicata per il portafoglio dei Trasporti, e dell’ungherese Laszlo Trocsanyi, in corsa per l’Allargamento, che sono state dichiarate “non in grado di esercitare le proprie funzioni conformemente ai trattati e al codice di condotta”.
Il nuovo candidato francese è Thierry Breton, che vanta una grande esperienza sia politica che manageriale. Aver ricoperto tanti incarichi societari potrebbe dar luogo a conflitti di interesse, ma anche Francia vuole in Europa un uomo di assoluta fiducia. I Commissari europei sembrano ormai altrettanti ministri, solo che hanno sede e soldi a Bruxelles.
Spagna, tra elezioni politiche e tensioni a Barcellona
Il prossimo 10 novembre, la Spagna tornerà alle urne: sono le seconde elezioni in sette mesi e le quarte in quattro anni, un caso senza precedenti in Europa. Il Psoe, nonostante la maggioranza relativa ottenuta sotto la guida di Pedro Sànchez, non riesce a formare un governo aggregando Unidos Podemos, che è guidata da Pablo Iglesias. Costui non si lascia sedurre dalle poltrone e pone continuamente condizioni in materia di difesa delle classi deboli e dei lavoratori che i Socialisti ritengono eccessive. Un sistema politico frammentato, con posizioni inconciliabili tra loro, è l’eredità degli anni della crisi.Le pesanti condanne irrogate di recente ai dirigenti catalani che parteciparono alle iniziative indipendentiste di due anni fa hanno rinfocolato le tensioni. A Barcellona, si sono ripetute manifestazioni di piazza, cui hanno partecipato centinaia di migliaia di persone.
Anche in questo caso, emerge un tema di fondo che riguarda l’Unione. Se per un verso l’enfatizzazione dell’Europa delle Regioni e le iniziative transfrontaliere servono a frammentare l’unità politica statale e ad accelerare l’abbattimento delle frontiere nazionali, le azioni per la coesione si sono dimostrate assai poco efficaci. I divari economici e sociali sono aumentati, alimentando le richieste di autonomia nelle aree più ricche ed il senso di abbandono in quelle più povere.
Crisi in Romania
Nella disattenzione generale, da mesi c’è grande tensione a Bucarest. Vecchi equilibri di potere sono saltati, creando una situazione di pericolosa incertezza anche istituzionale. E’ un Paese fondamentale sul piano geopolitico, oltre ad essere molto rilevante dal punto di vista economico. Mentre in Polonia ed in Ungheria si consolidano le rispettive leadership sovraniste, la Romania consuma quella stabilità che negli scorsi anni le aveva consentito una crescita sostenuta. E’ un brutto varco, nello scacchiere orientale.Adesione all’Ue di Albania e Macedonia
Nessun allargamento, per ora. Se ne riparlerà a maggio, quando si svolgerà una conferenza generale sui Balcani occidentali. Non è affatto casuale che, nell’ultimo Consiglio, sia stata la Francia ad opporsi all’ingresso di Albania e Macedonia del nord nell’Unione: deve bloccare la germanizzazione strisciante di tutta l’area, che Berlino considera da sempre il suo “giardino di casa”. L’asse franco-tedesco, sul piano geopolitico, non esiste: ognuno aspira ad una propria egemonia, e contrasta quella altrui.Turchia e Cipro: l’inesistente politica estera dell’Unione
L’ingresso delle truppe turche nel nord della Siria ha provocato reazioni quanto mai diverse: l’Italia ha convocato subito l’Ambasciatore turco, rinviando alla sede europea la decisione sull’embargo alla vendita di armi. Francia e Germania hanno agito con maggiore cautela: fermandosi ad un appello a fermare l’offensiva. Sul piano concreto, si sono poi limitate a sospendere le vendite future dei soli armamenti utilizzabili in questo genere di operazioni, soluzione in qualche modo poi seguita dall’Italia. La cautela tedesca risponde alla minaccia turca di aprile i campi profughi che ospitano centinaia di migliaia di persone fuggite dal conflitto siriano. Si sarebbe riaperta la rotta dell’emigrazione che attraversa i Balcani, per giungere in Germania. Per Angela Merkel sarebbe stato un disastro.Le tensioni con la Turchia riguardano anche lo sfruttamento di giacimenti nell’area marittima di Cipro, che viene rivendicata dalla Turchia: italiani e francesi, che operano per lo sfruttamento, dovrebbero ottenere la protezione dei rispettivi Paesi, forse anche militare. Il paradosso è che siamo tutti parte della Nato: un’alleanza che si sta dimostrando al suo interno assai fragile, proprio come l’Unione.
Anche in questa occasione, non è comparsa pubblicamente la figura dell’Alto rappresentante dell’Unione per la politica estera e la Sicurezza: ad un titolo tanto altisonante corrisponde un ruolo che è stato finora altrettanto poco efficace. Anche la costosissima rete diplomatica che l’Unione sta realizzando da anni rappresenta un lusso poco utile.
Gran Bretagna, sulla Brexit ancora più confusione
L’atmosfera è sempre più avvelenata. Nessuno sa né come, né quando avverrà il recesso dall’Unione. Il Premier Boris Johnson si è dovuto rimangiare la promessa di far uscire comunque la Gran Bretagna dall’Unione il prossimo 31 ottobre, con o senza accordo.Non solo Westminster gli ha varato una legge che impone al governo l’obbligo di chiedere a Bruxelles un rinvio della data del recesso nel caso che non sia stato approvato un accordo, ma poi nel giro di quarantott’ore gli ha inflitto un ulteriore, duplice smacco. L’esame parlamentare della nuova ipotesi di accordo di recesso è stato sospeso.
Londra ha così ribaltato il suo stallo politico su Bruxelles, in modo a dir poco pirandelliano, inviando due missive: con una, redatta su carta bianca e non firmata, ha chiesto il rinvio del termine del recesso, adempiendo all’obbligo di legge; con l’altra, il Premier Johnson ha comunicato ufficialmente la propria contrarietà politica a qualsiasi rinvio.
Anche Bruxelles si è divisa: pur convenendo tutti sulla opportunità di concedere un rinvio, la Francia si è detta disponibile ad offrire solo una dilazione tecnica, di un mese, e non già fino al 31 gennaio 2020. In questo modo si darebbe lo stesso tempo sia a Westminster, per approvare l’ipotesi di accordo, che alla Presidente della Commissione Ursula von der Leyen per formare la nuova Commissione La Francia non vuole assolutamente rischiare che la Gran Bretagna rimanga ancora nell’Unione: ne va della strategia di ribilanciamento dei rapporti di forza con la Germania su cui si è impegnata a fondo.
La questione si è ulteriormente complicata dopo la decisione del Premier Johnson di chiedere a Westminster l’assenso per andare alle elezioni anticipate il prossimo 12 dicembre, proseguendo però nell’esame del nuovo schema di accordo fino al 5 novembre. E’ una mossa a sorpresa, di cui nessuno si fida, per ragioni opposte, tanto a Londra che a Bruxelles.
Intanto, per andare allo scioglimento anticipato, a Westminster serve la maggioranza dei due terzi, e quindi anche il voto favorevole dei Laburisti. Ma questi vogliono mantenere il vantaggio acquisito nei confronti di Johnson, ed essere sicuri di andare alle elezioni prima di votare di qualsiasi accordo con Bruxelles. Alle elezioni ci vogliono andare con le mani libere.
Ancora maggiore diffidenza circola a Bruxelles: fissando le elezioni inglesi al 12 dicembre, si scavalla la dilazione tecnica di un mese che la Francia è disposta a concedere per circoscrivere al massimo i tempi di approvazione dell’accordo da parte dell’Inghilterra. C’è chi ha il timore che dalle elezioni inglesi possa uscire una maggioranza dei Conservatori in grado di far passare la Hard Brexit, e chi al contrario teme una vittoria dei Laburisti, che interpreterebbero il voto popolare come un ribaltamento del risultato referendario ed a quel punto potrebbero chiedere la revoca del recesso della Gran Bretagna dall’Unione.
Aver usato come una clava contro la Gran Bretagna la decisione di uscire dall’Unione, rendendo il recesso quanto più doloroso possibile, fino al punto di provocare una crisi istituzionale a Londra, si sta trasformando in un rischio esistenziale per la stessa UE. Se la Brexit dovesse riuscire, al di là dei danni economici per tutti, i partner europei si dovranno ripartire un onere rilevantissimo di bilancio per mandare avanti l’Unione.
Per evitare un aumento delle contribuzioni nazionali, si dovrebbero ridurre le spese dell’Unione: una ipotesi completamente opposta rispetto alla strategia in atto, che mira ad aumentare le competenze e le dimensioni del bilancio dell’Unione, ad imitazione di qualsiasi Stato federale. La Germania ha già messo le mani avanti: di mettere mano al portafogli non ci pensa affatto.
Dopo le fanfare della Commissione uscente sulla prospettiva di una sovranità condivisa, conferendo nuovi poteri all’Unione, si torna mestamente al punto di partenza: ognun per sé.
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