Così
come dichiarato a suo tempo per Osama Bin Laden, anche i resti del capo
dell’Isis Al Baghdadi sarebbero stati dispersi in mare dopo essere
stato ucciso da un commando delle forze speciali Usa. A confermare
questa versione sono stati i vertici del Pentagono in una conferenza
stampa a cui ha partecipato il capo di stato maggiore interforze Usa
Mark Milley.
Ma la versione ufficiale di Trump e dei vertici militari statunitensi, non convince alcuni giornali inglesi e americani, dal ‘New York Times’ al ‘The Guardian’, che hanno pubblicato servizi e inchieste nelle quali si comincia a dubitare della ricostruzione fatta da Trump circa la morte di Abu Bakr al-Baghdadi.
Sono diversi i punti critici rilevati dal quotidiano New York Times, in particolare la descrizione del Califfo che urla e piange nel tunnel dove poi si è fatto esplodere.
Secondo il New York Times, infatti, le immagini alle quali hanno assistito Trump e i suoi collaboratori nella ‘situation room’ erano senza audio. Non solo, di Baghdadi braccato nel tunnel il presidente americano non ha potuto nemmeno vedere le immagini in diretta. Gli ultimi minuti di vita del leader dell’Isis, infatti, sono state riprese dalle telecamere installate sugli elmetti dei soldati americani che stavano facendo il blitz. Quei video però sono stati consegnati a Trump soltanto dopo la conferenza stampa.
Su una domanda specifica della Abc sul racconto cinematografico di Trump, il capo del Pentagono Mark Esper ha provato a tergiversare dicendo di essere all’oscuro di certi dettagli e di ritenere che il presidente abbia parlato con i militari sul campo per farsi dare tutte le informazioni.
Anche il britannico “The Guardian” decostruisce la versione fornita da Trump.
In Italia a sollevare apertamente dubbi è un veterano del giornalismo sul fronte come Alberto Negri, il quale si è dichiarato assai perplesso per alcune ‘incongruenze’ che emergerebbero dalla versione dei fatti fornita dal presidente americano. “Non c’era audio, non si vedeva quasi niente perché era notte – scrive Negri su Facebook – si distinguevano a stento le sagome degli attaccanti e dei jihadisti.
Ma Trump, grazie a una fervida immaginazione, è stato in grado di descrivere nei dettagli la morte di Al Baghdadi.
I russi non sono convinti, turchi e curdi lo assecondano, i siriani tacciono, se non per protestare contro l’annuncio di Trump di voler occupare i loro pozzi petroliferi. I testimoni in zona parlano di tre ore di battaglia, raid e bombardamenti: fatti da chi e come? Da un aereo Usa e da sei elicotteri che poi dovevano tornare in Iraq? In Iraq o in Turchia che è a 5 minuti di volo ed è un Paese con basi Usa e Nato?
Un racconto che fa acqua da tutte le parti: forse a Trump il Pentagono ha dato informazioni monche perché non si fida”.
L’inaffidabile racconto hollywoodiano di Trump sulla fine di al Baghdadi. In Medio Oriente intanto si profila un nuovo ordine dopo gli anni dominati dalle milizie e dagli attori non statuali
C’era una volta… in Siria, anzi a Hollywood, ma questa volta non c’è Tarantino alla regia e il copione fa acqua da tutte le parti. Anche i russi del ministero della Difesa smentiscono Trump: non abbiamo mai aperto nessuno spazio aereo agli americani.
Oltre al racconto di Trump sull’uccisione del capo dell’Isis – con battute inventate da lui visto che nella “situation room” della Casa Bianca non c’era neppure l’audio – è il momento di chiedersi cosa stia accadendo in una regione dove la mappa geopolitica è rapidamente cambiata nel giro di due settimane.
Ma il racconto di Trump merita qualche sottolineatura. In particolare la sua descrizione del Califfo che urla e piange nel tunnel dove si è fatto esplodere. In primo luogo «un codardo», come dice lui, non si fa saltare in aria. E poi è un falso. Non solo le immagini che ha visto Trump erano senza audio, ma non ha potuto seguire neppure quelle nel tunnel perché i video dei soldati sono stati consegnati solo dopo la conferenza stampa. Ma Trump, con fervida immaginazione, ha inventato i dettagli della morte di Al Baghdadi, imbarazzando anche il capo del Pentagono Mark Esper.
I testimoni siriani parlano di tre ore di raid e bombardamenti: non è stato un blitz, ma una battaglia. Fatta da chi e come? Da un aereo Usa e da sei elicotteri che poi dovevano tornare in Iraq con 70 minuti di volo? Oppure in Turchia, che è a 5 minuti di volo ed è un Paese con basi Usa e Nato?
Un racconto non credibile: forse a Trump il Pentagono ha dato informazioni monche perché non si fida. È non si fidano i russi che controllano i cieli siriani con jet, radar e contraerea. Il portavoce ministero della Difesa russo Igor Konashenkov ha dichiarato che Mosca «non è in possesso di prove affidabili sulla morte del leader dell’Isis», sottolineando che coloro che riferiscono della partecipazione dei russi all’operazione – ovvero lo stesso Trump – hanno riportato dettagli sbagliati, alimentando dubbi sul raid.
In Medio Oriente intanto si profila un nuovo ordine dopo gli anni dominati dalle milizie e dagli attori non statuali. L’Isis al culmine della sua espansione tra Siria e Iraq dominava un territorio vasto come l’Italia con un popolazione di 10-12 milioni, mentre altri dovevano sottostare comunque ai gruppi affiliati ad Al Qaida o ad altre bande jihadiste.
La stessa area di Idlib, ai confini con la Turchia, dove oggi è prevalente il gruppo qaidista Hayat Tahrir al Sham (ex Al Nusra), in concorrenza con l’Isis, conta un paio di milioni di abitanti. Mentre le milizie curde hanno dovuto abbandonare sotto i colpi di Erdogan un territorio strategico con città per loro decisive, sostituiti da turchi, milizie filo-Ankara, russi e soldati di Assad tornati in forze in un’area dove non c’erano da anni.
Ora queste milizie, islamiste e non, devono tornare sotto il cappello dello stato siriano, turco o iracheno. La Turchia è chiamata da Putin e dall’Iran a rispettare i patti di Astana, restituire Idlib a Damasco e farsi carico dei jihadisti che ha già in parte incorporato nelle milizie anti-curde schierate nella «fascia di sicurezza»: il Rojava abbandonato dagli americani.
E a proposito di foreign fighter dell’Isis sono centinaia quelli europei detenuti nella Siria settentrionale, territorio il cui futuro è assai incerto. I governi europei, riluttanti a riportarli a casa cercano, come ha fatto Macron con l’Iraq, di processarli e condannarli morte nella regione. Esiste ora il rischio che molti possano sfuggire e anche l’Europa prima o poi dovrà riprenderseli.
A guidare il processo di «ritorno all’ordine» statuale non sono gli Usa e tantomeno l’Europa, ma il capo del Cremlino. Uno schema che potrebbe replicarsi in Libia dove Putin, con egiziani ed Emirati, sostiene Haftar, mentre Erdogan appoggia con le armi Al Sarraj alleato degli italiani. Ma L’Italia militarmente non conta, quindi dovrà negoziare anche con Putin per stabilizzare la Libia, visto che gli alleati europei e americani, come si vedrà anche alla conferenza di Berlino, non tengono conto alcuno delle istanze nostrane.
L’altro protagonista mediorientale è Assad che si conferma l’ultimo raìs arabo, erede di quel partito Baath dato per morto e sepolto con la fine di Saddam Hussein in Iraq nel 2003.
Porta a casa un successo anche l’Iran: ogni rafforzamento di Assad è un punto a favore della repubblica islamica, i cui alleati sono stati messi in difficoltà dalle rivolte popolari in Iraq e nel Libano degli Hezbollah.
La mezzaluna sciita è quindi chiamata a una nuova prova di sopravvivenza anche se è stato fatto fuori un nemico mortale come Al Baghadi. Ma sono altri i due nemici che oggi agitano le piazze arabe, oltre le barriere settarie, più insidiosi e quasi imbattibili: l’ingiustizia sociale e la corruzione.
Ditelo a Trump che il Medio Oriente non è Hollywood.
Ma la versione ufficiale di Trump e dei vertici militari statunitensi, non convince alcuni giornali inglesi e americani, dal ‘New York Times’ al ‘The Guardian’, che hanno pubblicato servizi e inchieste nelle quali si comincia a dubitare della ricostruzione fatta da Trump circa la morte di Abu Bakr al-Baghdadi.
Sono diversi i punti critici rilevati dal quotidiano New York Times, in particolare la descrizione del Califfo che urla e piange nel tunnel dove poi si è fatto esplodere.
Secondo il New York Times, infatti, le immagini alle quali hanno assistito Trump e i suoi collaboratori nella ‘situation room’ erano senza audio. Non solo, di Baghdadi braccato nel tunnel il presidente americano non ha potuto nemmeno vedere le immagini in diretta. Gli ultimi minuti di vita del leader dell’Isis, infatti, sono state riprese dalle telecamere installate sugli elmetti dei soldati americani che stavano facendo il blitz. Quei video però sono stati consegnati a Trump soltanto dopo la conferenza stampa.
Su una domanda specifica della Abc sul racconto cinematografico di Trump, il capo del Pentagono Mark Esper ha provato a tergiversare dicendo di essere all’oscuro di certi dettagli e di ritenere che il presidente abbia parlato con i militari sul campo per farsi dare tutte le informazioni.
Anche il britannico “The Guardian” decostruisce la versione fornita da Trump.
In Italia a sollevare apertamente dubbi è un veterano del giornalismo sul fronte come Alberto Negri, il quale si è dichiarato assai perplesso per alcune ‘incongruenze’ che emergerebbero dalla versione dei fatti fornita dal presidente americano. “Non c’era audio, non si vedeva quasi niente perché era notte – scrive Negri su Facebook – si distinguevano a stento le sagome degli attaccanti e dei jihadisti.
Ma Trump, grazie a una fervida immaginazione, è stato in grado di descrivere nei dettagli la morte di Al Baghdadi.
I russi non sono convinti, turchi e curdi lo assecondano, i siriani tacciono, se non per protestare contro l’annuncio di Trump di voler occupare i loro pozzi petroliferi. I testimoni in zona parlano di tre ore di battaglia, raid e bombardamenti: fatti da chi e come? Da un aereo Usa e da sei elicotteri che poi dovevano tornare in Iraq? In Iraq o in Turchia che è a 5 minuti di volo ed è un Paese con basi Usa e Nato?
Un racconto che fa acqua da tutte le parti: forse a Trump il Pentagono ha dato informazioni monche perché non si fida”.
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Ditelo a Trump: il Medio Oriente non è Hollywood e avanza un nuovo ordine
Alberto Negri – il manifestoL’inaffidabile racconto hollywoodiano di Trump sulla fine di al Baghdadi. In Medio Oriente intanto si profila un nuovo ordine dopo gli anni dominati dalle milizie e dagli attori non statuali
C’era una volta… in Siria, anzi a Hollywood, ma questa volta non c’è Tarantino alla regia e il copione fa acqua da tutte le parti. Anche i russi del ministero della Difesa smentiscono Trump: non abbiamo mai aperto nessuno spazio aereo agli americani.
Oltre al racconto di Trump sull’uccisione del capo dell’Isis – con battute inventate da lui visto che nella “situation room” della Casa Bianca non c’era neppure l’audio – è il momento di chiedersi cosa stia accadendo in una regione dove la mappa geopolitica è rapidamente cambiata nel giro di due settimane.
Ma il racconto di Trump merita qualche sottolineatura. In particolare la sua descrizione del Califfo che urla e piange nel tunnel dove si è fatto esplodere. In primo luogo «un codardo», come dice lui, non si fa saltare in aria. E poi è un falso. Non solo le immagini che ha visto Trump erano senza audio, ma non ha potuto seguire neppure quelle nel tunnel perché i video dei soldati sono stati consegnati solo dopo la conferenza stampa. Ma Trump, con fervida immaginazione, ha inventato i dettagli della morte di Al Baghdadi, imbarazzando anche il capo del Pentagono Mark Esper.
I testimoni siriani parlano di tre ore di raid e bombardamenti: non è stato un blitz, ma una battaglia. Fatta da chi e come? Da un aereo Usa e da sei elicotteri che poi dovevano tornare in Iraq con 70 minuti di volo? Oppure in Turchia, che è a 5 minuti di volo ed è un Paese con basi Usa e Nato?
Un racconto non credibile: forse a Trump il Pentagono ha dato informazioni monche perché non si fida. È non si fidano i russi che controllano i cieli siriani con jet, radar e contraerea. Il portavoce ministero della Difesa russo Igor Konashenkov ha dichiarato che Mosca «non è in possesso di prove affidabili sulla morte del leader dell’Isis», sottolineando che coloro che riferiscono della partecipazione dei russi all’operazione – ovvero lo stesso Trump – hanno riportato dettagli sbagliati, alimentando dubbi sul raid.
In Medio Oriente intanto si profila un nuovo ordine dopo gli anni dominati dalle milizie e dagli attori non statuali. L’Isis al culmine della sua espansione tra Siria e Iraq dominava un territorio vasto come l’Italia con un popolazione di 10-12 milioni, mentre altri dovevano sottostare comunque ai gruppi affiliati ad Al Qaida o ad altre bande jihadiste.
La stessa area di Idlib, ai confini con la Turchia, dove oggi è prevalente il gruppo qaidista Hayat Tahrir al Sham (ex Al Nusra), in concorrenza con l’Isis, conta un paio di milioni di abitanti. Mentre le milizie curde hanno dovuto abbandonare sotto i colpi di Erdogan un territorio strategico con città per loro decisive, sostituiti da turchi, milizie filo-Ankara, russi e soldati di Assad tornati in forze in un’area dove non c’erano da anni.
Ora queste milizie, islamiste e non, devono tornare sotto il cappello dello stato siriano, turco o iracheno. La Turchia è chiamata da Putin e dall’Iran a rispettare i patti di Astana, restituire Idlib a Damasco e farsi carico dei jihadisti che ha già in parte incorporato nelle milizie anti-curde schierate nella «fascia di sicurezza»: il Rojava abbandonato dagli americani.
E a proposito di foreign fighter dell’Isis sono centinaia quelli europei detenuti nella Siria settentrionale, territorio il cui futuro è assai incerto. I governi europei, riluttanti a riportarli a casa cercano, come ha fatto Macron con l’Iraq, di processarli e condannarli morte nella regione. Esiste ora il rischio che molti possano sfuggire e anche l’Europa prima o poi dovrà riprenderseli.
A guidare il processo di «ritorno all’ordine» statuale non sono gli Usa e tantomeno l’Europa, ma il capo del Cremlino. Uno schema che potrebbe replicarsi in Libia dove Putin, con egiziani ed Emirati, sostiene Haftar, mentre Erdogan appoggia con le armi Al Sarraj alleato degli italiani. Ma L’Italia militarmente non conta, quindi dovrà negoziare anche con Putin per stabilizzare la Libia, visto che gli alleati europei e americani, come si vedrà anche alla conferenza di Berlino, non tengono conto alcuno delle istanze nostrane.
L’altro protagonista mediorientale è Assad che si conferma l’ultimo raìs arabo, erede di quel partito Baath dato per morto e sepolto con la fine di Saddam Hussein in Iraq nel 2003.
Porta a casa un successo anche l’Iran: ogni rafforzamento di Assad è un punto a favore della repubblica islamica, i cui alleati sono stati messi in difficoltà dalle rivolte popolari in Iraq e nel Libano degli Hezbollah.
La mezzaluna sciita è quindi chiamata a una nuova prova di sopravvivenza anche se è stato fatto fuori un nemico mortale come Al Baghadi. Ma sono altri i due nemici che oggi agitano le piazze arabe, oltre le barriere settarie, più insidiosi e quasi imbattibili: l’ingiustizia sociale e la corruzione.
Ditelo a Trump che il Medio Oriente non è Hollywood.
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