La
presidenza Trump, nei suoi comportamenti apparentemente irrazionali,
sta facendo emergere quale sia la reale condizione non solo dei diversi
imperialismi ma, a nostro vedere, il limite dello stesso Modo di
Produzione Capitalistico in questo frangente storico.
L’improvviso
riemergere dei dazi, che ricorda gli scenari precedenti alla seconda
guerra mondiale, la fine della centralità del dollaro e la competizione
tra le monete, l’accentuazione mondiale delle diseguaglianze sociali e
la dimensione globale di una recessione oggi ammessa da tutti, stanno
evidenziando, senza ombra di dubbio, i limiti attuali alla crescita
capitalistica dovuti alle difficoltà sempre maggiori di valorizzare la
grande massa di capitale finanziario che oggi è in circolazione per il
mondo.
La
sconfitta dell’URSS e del campo socialista alla fine del secolo scorso,
ha fatto ritenere che la storia fosse finita e che l’unico orizzonte
non poteva che essere il capitalismo come compimento ultimo dei destini
dell’umanità. La fine della Storia è stata, e in parte rimane, la
rappresentazione ideologica egemone che intendeva chiudere con il
comunismo ma soprattutto con la lotta di classe che ha percorso l’800 ed
il ‘900.
Le
tendenze che ora si stanno manifestando, in verità da oltre un
decennio, ci dicono che le contraddizioni insite nel MPC non vengono
superate, anzi si aggravano e si amplificano in modo direttamente
proporzionale alla pervasività dell’economia capitalista.
Nell’ultimo
trentennio, l’occidente capitalista a guida USA, ha ritenuto di avere
ormai l’intero mondo a disposizione e si è lanciato nella corsa ai
profitti investendo nelle aree non ancora subordinate all’economia di
mercato, in modi diversi Cina, India, Russia e paesi dell’Europa
dell’est, amplificando e velocizzando così il ciclo economico del
capitale.
Questo
ha prodotto un cambiamento delle condizioni economiche e sociali nelle
diverse aree, ma ha soprattutto portato ad uno sviluppo enorme delle
Forze Produttive, in particolare la produzione fondata sulle nuove e
nuovissime tecnologie, che è andato ben oltre i confini delle aree
imperialiste ed ora sta alla base dell’accentuata competizione globale
divenendo cosi un boomerang per l’occidente imperialista.
In
questo caso significa che gli enormi investimenti esteri realizzati
dagli anni ’90 in poi dai centri finanziari verso quelle che erano le
periferie produttive, hanno radicalmente cambiato gli assetti produttivi
di queste ultime, sviluppando processi scientifici, tecnologi,
finanziari ed economici, che gli permettono oggi di competere con chi ha
pensato che la Storia fosse finita.
La
Cina è indubbiamente l’esempio più eclatante di questo fenomeno, ma i
nuovi competitori nei vari settori economici e produttivi non sono solo
cinesi. Infatti l’aumento enorme di produttività, di prodotti e servizi
ottenuti attraverso l’uso intensivo della scienza e della tecnica, ha
ristretto gli spazi di crescita per il profitto, la caduta tendenziale
del saggio di profitto sta agendo concretamente, esattamente come
intuiva e documentava Marx già nell’Ottocento.
Tale
tendenza ha incrementato anche la competizione tra centri imperialisti,
come emerge chiaramente nelle relazioni USA/UE, ma ha dimostrato, ad
esempio, anche l’impotenza in cui si sta dibattendo la Gran Bretagna, il
paese imperialista per eccellenza, anche se da tempo in decadenza.
Questo
processo impetuoso di crescita è stato incentivato ed accompagnato
dall’uso spregiudicato della leva finanziaria che ha assunto dimensioni e
forme speculative mai viste prima storicamente. Infatti la vera, unica,
globalizzazione che si è avuta dagli anni ’90 è stata quella della
finanza, che tra investimenti produttivi, speculativi e nell’intreccio
con varie forme di illegalità si presenta come condizione materiale per
tutti gli attori in campo, i quali sono condannati a confliggere ed a
collaborare proprio a causa della dimensione finanziaria la quale,
crollando, non lascerebbe nessuno al riparo dal fallimento.
La
nascita delle criptomonete da parte di Stati e di multinazionali, è un
ulteriore tentativo di divincolarsi dagli attuali intrecci finanziari e
monetari, per trovare nuovi spazi di crescita dei singoli soggetti
privati e statuali. Questo intreccio pericoloso si è palesato nella
crisi finanziaria del 2007 che si è velocemente propagata dagli USA a
tutto il mondo ed ha rapidamente fatto cadere l’assioma religioso di
“più Mercato e meno Stato”. Gli istituti finanziari si sono salvati solo
grazie agli interventi degli Stati, che hanno trasferito ricchezze
ingenti dalle tasche dei cittadini alle casse delle Banche e dei fondi
di investimento.
C’è
poi un altro fattore di aumento della conflittualità internazionale ed è
quello militare. Siamo reduci da un periodo storico in cui
sostanzialmente solo due superpotenze – Usa e Urss – detenevano il
monopolio scientifico, nucleare e militare. Il crollo del muro di
Berlino ha rotto gli argini anche in questo campo. Dato che non c’era
più un nemico da battere, il settore militare ha ricevuto un ulteriore
spinta dallo sviluppo delle forze produttive che dal centro si sono
riversate nella periferia, incrementando non solo la produzione di merci
e servizi ma anche la produzione di nuovi armamenti. In questa
situazione un ruolo centrale lo svolge ancora l’arma nucleare, la quale
garantisce un’equa e “reciproca distruzione” tra i competitori nel caso
in cui si volessero riproporre le soluzioni alla crisi attraverso le
politiche militari messe in campo nella Prima e nella Seconda Guerra
Mondiale.
Quello che si configura oggi, a nostro modo di vedere, è una situazione di stallo nei rapporti di forza internazionali
che segnerà i prossimi anni, e che gli USA stanno vivendo come fine
della loro egemonia globale alla quale intendono opporsi in tutti i
modi, pena il declino e la fine del loro imperialismo come è avvenuto
per l’Inghilterra nel secolo scorso. Uno scenario del tutto in contrasto
con il sogno e il progetto del Nuovo Secolo Americano! Questa
condizione di stallo sta inoltre producendo situazioni paradossali e
contraddittorie. Valga come esempio il comportamento di Trump nelle
relazioni internazionali, nelle quali cambia continuamente sia i nemici
che i toni diplomatici, senza però tradurre mai le sue parole in fatti,
come sta ancora dimostrando lo scontro con l’IRAN.
Un
altro paradosso che emerge è che gli USA ultraliberisti applicano i
dazi e la Cina socialista si pronuncia per il libero mercato. E poi,
come già detto c’è il prima, durante e dopo della Brexit. Le stesse
politiche neoliberiste in America Latina, Brasile e Argentina, a
differenza degli anni ’70/’80 si sono rapidamente consumate riproducendo
quelle crisi che avevano chiuso negli anni ’90 il periodo golpista in
quella parte del mondo.
D’altra
parte anche i vincitori appaiono sconfitti dalla loro vittoria. La Nato
in quanto braccio armato dell’occidente, entra in crisi in un suo snodo
centrale come quello della Turchia, la quale ora compra missili
strategici dalla Russia, una decisione che in un’altra fase storica
avrebbe provocato un colpo di Stato, operazione realmente tentata ma
che, non a caso, è fallita.
Gli
imperialismi storici sono così dentro uno stallo che coinvolge anche i
nuovi competitori, a cominciare dalla Cina, la quale trova certamente un
limite alla sua crescita a causa dei blocchi commerciali decisi da
Trump, ma ne trova anche dalla forte spinta competitiva dell’Unione
Europea.
Questo
stallo generale però non riguarda solamente le relazioni economiche e
finanziarie internazionali, ma si riversa anche nella vita quotidiana
delle popolazioni. L’aumento della disoccupazione e della precarietà a
livello mondiale non sono un episodio congiunturale ma dipendono
dall’aumento della composizione organica di capitale che rende sempre
più superflua la presenza di forza lavoro nella produzione
capitalistica. Questa contraddizione ha un suo lungo percorso storico ma
ora, di fronte ai limiti materiali della crescita capitalista, si
manifesta per quello che è, cioè come una crisi di prospettive, una
crisi della civilizzazione capitalistica in tutti i suoi aspetti.
Contemporaneamente
gli effetti sociali relativi alle diseguaglianze ed alla crescita della
povertà, paradossalmente si fanno sentire materialmente e politicamente
soprattutto nei paesi imperialisti, dove le forze politiche borghesi
vivono una fase di sbando e di crisi di rappresentanza molto serio
essendo incapaci di dare una risposta alle storture del modo di
produzione.
Anche
la questione ambientale si amplifica dentro questa corsa alla
competizione globale che sta rompendo gli equilibri naturali del
pianeta, incrementando il riscaldamento globale che porta alla
trasformazione di intere aree geografiche. Eclatante è la vicenda degli
incendi in Brasile (ma non solo, sta accadendo anche in Siberia, in
Africa e in Asia), che nasce dalla necessità dei latifondisti brasiliani
rappresentati da Bolsonaro di mettere a produzione nuovi terreni per
essere più competitivi, a costo di distruggere una componente importante
per la vita sul pianeta come la foresta amazzonica.
Vivere
in una condizione di stallo strategico degli imperialismi non significa
che le contraddizioni non continuino a crescere ed a stressare
complessivamente la situazione finanziaria, economica e politica
internazionale. Anzi la pressione aumenta ma non ha ancora trovato uno
sbocco, anche perché nessuno dei contendenti si sente tanto forte
economicamente e militarmente da imporre la propria egemonia.
Su
quali scenari e quadranti potrà rompersi questo stallo non è semplice
individuarlo. Scontro militare tra Ovest ed Est? Implosione degli USA
sulle sue contraddizioni interne tra cui quella razziale della
maggioranza bianca “wasp” che teme di diventare minoranza? Crisi della
UE in quanto anello debole nella competizione interimperialista? Crisi
finanziarie, stagnazione e recessione di lungo periodo in quanto lo
stallo si può protrarre nel tempo senza soluzione?
È
difficile prevedere quale tendenza prevarrà ma è certo che occorre
sforzarsi di capire quale risoluzione imporrà i possibili nuovi rapporti
di forza, oppure se siamo dentro un “tunnel” dal quale per ora è
difficile uscirne in termini di un rinnovato quadro internazionale. Si
conferma e si attualizza quello che Gramsci scriveva dal carcere “La
crisi appunto consiste nel fatto che il vecchio muore ma il nuovo non
può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più
svariati”. Di fenomeni “morbosi” ne stiamo vedendo effettivamente
molti in questi anni di transizione, sulla quale la RdC ha promosso nel
dicembre 2016 un Forum nazionale di dibattito teorico e politico e
numerosi incontri di analisi della crisi. Se è vero che bisognerà
immaginarci il tipo di conflitto che potrà rimettere in discussione lo
stallo attuale, è anche vero che questa condizione ripresenta a tutto
tondo la necessità dell’alternativa sociale.
Sappiamo
bene che in Occidente parlare di transizione al socialismo, di lotta
per il comunismo viene interpretato e liquidato, grazie a potenti
campagne mediatiche, ideologiche e culturali sviluppate in questi anni
in maniera bipartisan da forze politiche e dai mass media, come un
atteggiamento velleitario e utopistico per un verso, minaccioso e
terroristico per un altro. Nonostante il discredito gettato
quotidianamente dai nostri nemici di classe sulle nostre idee forza la
situazione, per come si manifesta e per la dimensione che hanno assunto
le contraddizioni, rivela tutto il peso dell’assenza di un’alternativa
politica e statuale e pone dunque la necessità di una alternativa che non riusciamo ad esprimere con termini diversi da Socialismo e Comunismo.
Sappiamo anche che è una strada difficile e piena di rovine lasciate da
chi ha avuto la pretesa nel nostro paese di avere il monopolio di
questa prospettiva, tradendone i fini in ogni passaggio fatto negli
ultimi decenni, e ben prima della fine dell’URSS.
Come
d’altra parte non possiamo esimerci dall’analizzare e valutare il ruolo
dell’Unione Europea nel presente contesto internazionale. Nelle nostre
elaborazioni individuiamo correttamente l’analisi degli effetti
economici e sociali pesantemente regressivi prodotti dalla
riorganizzazione complessiva del capitalismo attorno alla dimensione
europea, egemonizzata ormai fin troppo chiaramente dalle forze
economiche e finanziarie del grande capitale multinazionale, soprattutto
ma non solo, da quelle concentrate in Francia e Germania. Su questo
stiamo lavorando analiticamente e politicamente da tempo, evidenziando
il degrado economico e sociale complessivo, che ora riguarda la stessa
Germania, e le diseguaglianze per settori economici ed aree geografiche
prodotte dalle politiche degli Eurocrati.
C’è
però un altro punto di vista da tenere presente, forse più rilevante, e
che parte dall’alto dell’analisi economica internazionale e dalle
dinamiche storiche che vanno oltre le contraddizioni di classe prodotte
dalla costruzione concreta dell’Unione Europea.
Questo riguarda il ruolo della UE come soggetto pienamente imperialista,
entrato a pieno titolo nella competizione globale che abbiamo cercato
di descrivere nella condizione di crisi e di stallo che la caratterizza.
Un soggetto che sotto le mentite spoglie democratiche ed umanitarie, lo
“stile di vita europeo” invocato dalla Von der Leyen, ha vinto tutte le
sue battaglie nonostante le previsioni – strumentalmente pessimistiche
ma in realtà funzionali – che ne preconizzavano il suo fallimento. La
nascita e la tenuta dell’Euro, gli interventi militari in Africa e Medio
Oriente, la recente sconfitta dei “sovranisti”, la crisi profonda della
Brexit, dimostrano come questa prospettiva, per ora vincente, vada ad
incrementare una conflittualità internazionale di tipo economico ma
anche militare, come stanno a dimostrare i progetti di costruzione
dell’esercito europeo nei quali la Francia, unica detentrice dell’arma
nucleare, svolge un ruolo di punta.
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