mercoledì 31 agosto 2016

La disperazione degli USA e il ritorno di Kissinger

L’élite anglo-statunitense appare molto preoccupata dai neocon (Bush/Clinton) ancora incapaci di fermare, o anche rallentare, la Russia. Sono sempre più seccati dagli impotenti e isterici Rambo guerrafondai neocon di sinistra e di destra appollaiati su Hillary Clinton. L’élite anglo-statunitense cerca una via d’uscita e, evitando di mostrare disperazione, cerca di resuscitare il leale servitore Henry Kissinger. Invece delle minacce inefficaci dei clintoniani (Ashton Carter, John Allen, Leon Panetta, Michael Morell, ecc), tale élite cerca di rivivere la strategia del lento avvelenamento utilizzata da Kissinger negli anni ’70. Kissinger, ai loro occhi, ottenne tre grandi successi con la sua distensione “amichevole”:
1) indebolire e minare, progressivamente ma inesorabilmente, la Russia,
2) dividere Russia e Cina
3) neutralizzare l’influenza russa in Medio Oriente
La politica aggressiva feroce e squilibrata dei neocon è riuscita a vanificare i successi geostrategici di Kissinger. In un certo senso, è una fortuna per l’umanità, prova della capacità diplomatica di Vladimir Putin e chiara indicazione della stupidità rapace della dirigenza Clinton/Bush. Per profitto ha venduto alla Russia la corda per impiccarla. Ma ora l’élite anglo-statunitense sa che il gruppo, la mafia, l’istituzione a cui ha dato le chiavi della macchina, ha creato una situazione mortale per il suo dominio. L’economia degli Stati Uniti è indebolita dall’esplosione del saccheggio finanziario, al punto che anche la capacità bellica è a repentaglio. E l’élite sa che la Russia e i suoi alleati non cederanno al feroce ma isterico e vacuo assalto ideato dagli stupidi criminali di guerra neocon. Questa volta non ci sarà una vile guerra fasulla come quella contro l’Iraq o la Libia. Questa volta ci sarà una vera guerra nucleare. E l’élite anglo-statunitense è pronta ad iniziare qualsiasi guerra contro un nemico capace di difendersi, sebbene sia terrorizzata da una guerra vera in cui rischia di perdere. Sa, inoltre, che nonostante le avventure militari e le attuali spese militari, gli Stati Uniti sono sempre più isolati. Sa che, nonostante gli investimenti nella propaganda goebbelsiana, la NATO non è la bacchetta magica che si sognava. Mentre l’economia reale dei Paesi che l’ospitano viene dissanguata, la struttura della NATO non è più capace di adempiere la sua missione, che era: “Tenere fuori i russi, dentro gli americani e gli europei sotto”. I recenti sviluppi in Turchia mostrano, per la prima volta, che un colpo di Stato sponsorizzato da NATO/USA è fallito. Ora, la Turchia segue una nuova traiettoria politica e un nuovo campo geostrategico. Anche se è difficile prevedere con assoluta precisione cosa accade, è chiaro che un processo di progressiva disgregazione del dominio anglostatunitense è iniziato e potrebbe progredire molto velocemente e molto drammaticamente. La possibilità che la Turchia lasci la NATO, de jure o de facto, è contemplata da molti osservatori competenti. Una relazione militare informale con Russia, Cina (e Iran!) è già un dato di fatto. La nota rete d’influenza statunitense nominalmente gestita da Fetullah Gulen viene smantellata non solo in Turchia, ma anche in Azerbaigian e si ritiene sia indebolita e neutralizzata in tutte le aree turcofone, cioè sul fianco meridionale dell’ex-Unione Sovietica. Queste aree avrebbero dovuto essere il bastione “occidentale” contro la Russia, ma diventano rapidamente il contrario.
Eltsin-Clinton La lezione turca viene studiata molto attentamente da molti Paesi. Partendo dalla leadership della Bulgaria che preferì vigliaccamente il suicidio economico quando la beniamina di Hillary Clinton, Victoria Nuland, chiese di annullare il gigantesco gasdotto South Stream della Russia. La lezione turca è studiata nei Balcani, Medio Oriente, Nord Africa e naturalmente Europa. La decisione inglese della Brexit, anche se chiaramente dettata da considerazioni intelligenti, realpolitik di sopravvivenza “per combattere un altro giorno”, rientra tra queste lezioni e probabilmente fu un incentivo per esercito ed élite turche per il colpo di Stato di Gulen. E così il decrepito Kissinger viene di nuovo presentato sulla scena pubblica dalle élite che sperano di poter di nuovo ricorrere al trucco della “distensione”. Vi sono seri dubbi che la Russia ci caschi nemmeno per un secondo. Nonostante i molti “amici” della Russia che a gran voce raccontano a Putin: guarda, guarda quanto è buono Kissinger, rappresenta la fazione dei buoni in occidente. Firma un accordo con lui e tutto andrà bene. Molto probabilmente la Russia tratterà il “fattorino” con estremo rispetto formale, arriverà anche a discutere e negoziare per forma. Ma non potrà mai lasciare che la sua strategia sia condizionata dalle promesse dell’uomo della distensione. Non ci sarà un altro Gorbaciov, né uno Eltsin. Anzi, al contrario. Forse non ci sarà nemmeno un Medvedev nel futuro della Russia. Il 4 febbraio Kissinger era a Mosca per un discorso presso il Fondo Gorchakov, a spiegare perché rappresenti l’alternativa allo scontro, e a presentare il suo piano per tornare ai bei vecchi tempi, cioè a quando la Russia venne… regalmente sabotata. Vedasi il discorso completo.
Il 19 agosto, il Dottore ritorna sulla stessa solfa in una intervista a Jacob Heilbrunn per la rivista National Interest. E’ molto eloquente del disagio presso i padroni di Kissinger. Da una parte, il vecchio factotum di Wall Street dice parole che, secondo lui, saranno gradite a Mosca (critica l’atteggiamento contro la Russia dei neocon), dall’altro non può spiegare con franchezza che la sua strategia della distensione negli anni ’70 e le sue “belle parole” nel 2016 hanno lo stesso scopo: distruggere la Russia! Gli viene chiesto: “la distensione ha giocato un ruolo fondamentale nell’eliminare l’Unione Sovietica, no?” La risposta di Kissinger: “Questo è il mio punto di vista. Abbiamo usato la distensione come strategia bellica contro l’Unione Sovietica“.
Vedasi il seguente scambio:
Heilbrunn: avevo dimenticato che c’era riuscito. Alla fine, però, la distensione ebbe un ruolo fondamentale nell’eliminare l’Unione Sovietica, no?
Kissinger: Questo è il mio punto di vista. Abbiamo usato la distensione come strategia bellica contro l’Unione Sovietica.
Heilbrunn: Sono stupito che ciò non abbia più attenzione in Europa, questa è l’opinione comune, che la distensione fosse essenziale per ammorbidire l’Europa orientale e l’Unione Sovietica, abbandonando la memoria della seconda guerra mondiale, mentre negli Stati Uniti ne abbiamo una visione trionfalistica.
Kissinger: Beh, c’è l’idea che Reagan iniziasse il processo con il suo discorso sull’Impero del Male che, a mio parere, avvenne nel momento in cui l’Unione Sovietica era già sulla via della sconfitta. Eravamo impegnati in una lotta a lungo termine, generando molte analisi concorrenti. Ero sulla linea dura dell’analisi, ma sottolineai anche le dimensioni diplomatiche e psicologiche. Dovevamo condurre la guerra fredda da una posizione in cui non fossimo isolati e in cui avessimo la miglior base per guidare conflitti inevitabili. Infine, avemmo l’obbligo particolare di trovare un modo per evitare il conflitto nucleare, dato che minacciava la civiltà. Cercammo una posizione per essere pronti a usare la forza quando necessario, ma sempre nel modo per poterlo esibire chiaramente come ultima risorsa. I neoconservatori hanno una visione più assolutista. Reagan usò il lasso di tempo a disposizione con notevole abilità tattica, anche se non sono sicuro che tutto fosse previsto. Ma l’effetto fu estremamente impressionante. Credo che la distensione ne fu il preludio indispensabile.
Heilbrunn: L’altra realizzazione monumentale era ovviamente l’apertura alla Cina. Che ne pensa oggi?
Kissinger: La riduzione del ruolo sovietico in Medio Oriente, non fu da meno.
Heilbrunn: Giusto, e salvare Israele nella guerra del ’73 inviando armi.
Kissinger: Erano collegati.
Heilbrunn: La Cina è la nuova Germania guglielmina di oggi? Richard Nixon, poco prima di morire, disse a William Safire che era necessario aprire alla Cina, ma che creammo un Frankenstein.
Kissinger: Di un Paese che per tremila anni dominava la regione si può dire abbia una realtà intrinseca. L’alternativa sarebbe stata mantenere per sempre la Cina collusa con l’Unione Sovietica, e quindi far divenire l’Unione Sovietica, avanzato Paese nucleare, potenza dominante sull’Eurasia con la connivenza statunitense. Ma la Cina presenta intrinsecamente una sfida fondamentale per la strategia statunitense.

martedì 30 agosto 2016

La Germania: il Ttip è morto. Cremaschi: merito del Brexit

La notizia è volata anche sui media mainstream, telegiornali compresi: dopo Donald Trump, anche il numero due del governo tedesco, Sigmar Gabriel, leader dell’Spd che sorregge la super-coalizione (larghe intese) guidata da Angela Merkel, “boccia” senza appello il famigerato Ttip, cioè il Trattato Transatlantico sul commercio Usa-Ue sviluppato in anni di trattative segrete, condotte a porte chiuse dai responsabili delle principali 1500 lobby statunitensi ed europee, dietro il paravento della Casa Bianca e della Commissione Europea. Trattato che, come trapelato, avrebbe messo fine alle storiche garanzie europee sulla salute, la qualità dell’agricoltura, la sicurezza del cibo e le tutele sul lavoro, autorizzando le multinazionali a “piegare” al loro volere – con pensanti sanzioni – qualsiasi governo si opponesse al loro business. Sarebbe stata la fine dello Stato di diritto, sotto molti aspetti. Ma ora l’incubo sembra dissolversi: «Il governo tedesco dichiara morto il Ttip, grazie alla Brexit», scrive Giorgio Cremaschi, ricordando tra l’altro che il governo Renzi «era il più servile verso il terribile trattato», da approvare a scatola chiusa. Motivo in più per «votare No alla sua controriforma costituzionale».
Il vicepremier della Germania Gabriel, socialdemocratico, ha dichiarato che il Ttip non si farà più, scaricando le responsabilità del fallimento del trattato sulle eccessive pretese degli Stati Uniti, per le loro multinazionali, scrive Cremaschi sulla sua pagina Sigmar Gabriel, numero due della MerkelFacebook. «La verità è che dopo la Brexit i negoziati per il Ttip non sono neppure cominciati. Doveva esserci una sessione decisiva proprio alla fine di giugno e il nostro ministro Calenda si era sperticato sulla necessità di giungere ad un accordo. Il governo Renzi si era mostrato il più servile, il più colonizzato d’Europa». Francia e Germania invece «avevano già frenato sull’intesa». Ma il precedente accordo tra Canada e Ue, con molti dei contenuti del Ttip, «spingeva comunque verso il disastro». Poi, «per fortuna il popolo britannico ha votato No alla Ue ed è saltato tutto: grazie alla Brexit si sono fermati, a dimostrazione che il voto britannico è stato un grande segnale positivo per la libertà e i diritti dei popoli».
Certo non è finita, ammette Cremaschi. Ma «il liberismo sfrenato del Ttip era troppo favorevole agli interessi delle multinazionali Usa: per questo quelle tedesche e francesi alla fine hanno festeggiato il suo fallimento». Ma questo, aggiunge l’ex leader sindacale Fiom, non vuol dire che «le aggressioni al lavoro, allo stato sociale e all’ambiente in Europa finiranno». I poteri economici e finanziari della Ue (e i loro politici di complemento) «continueranno a fare danni finché i popoli europei non li fermeranno». Intanto, però – grazie alla Brexit – «una catastrofe è stata evitata», sintetizza Cremaschi. «Ora dobbiamo evitarne un’altra: la distruzione della nostra Costituzione». Il fronte del Sì al referendum «è fatto dalle stesse forze e interessi che erano favorevoli al Ttip e che avevano demonizzato la Brexit». Sconfiggerli «sarà un passo avanti per l’Italia e l’Europa», visto che «i No dei popoli fanno bene alla democrazia».

lunedì 29 agosto 2016

Italia, crescita zero

Il nostro Paese è attanagliato dalla crescita zero. La crescita zero è condivisa solo dalla Francia (malata con mali simili a quelli nostri) che però annualmente raddoppia su di noi): più 1,4% contro il nostro magro 0,7%: quindi finite le scuse su Brexit (che fino al 30 giugno non può avere influenzato alcunchè: il Regno Unito è cresciuto al 2,2% l’anno) o il terrorismo, rimane come unica ancora cui aggrapparsi la trita storia dei vincoli europei.
La parola d’ordine è “flessibilità” ottenuta la quale il governo potrebbe varare una mano espansiva in grado di dare ossigeno alla nostra boccheggiante economia. Più nello specifico, sia della politica che delle imprese, si invoca una revisione del limite dell’1,8% al deficit pubblico concordato con la Commissione Europea per il 2017.
Dobbiamo porci due domande fondamentali: è vero che finora abbiamo patito più degli altri per colpa dell’austerità? E ci convengono queste mitiche politiche “espansive”?
Sotto il primo profilo è difficile affermare che la pubblica amministrazione abbia tirato la cinghia in Italia? Se prendiamo gli ultimi tre anni completi in Italia, dal 2013 al 2015, notiamo che la spesa pubblica ha rappresentato rispettivamente il 51%, il 51,2% e il 5,5% del Pil, una dinamica che non catalogherei come draconiana. Ed attenzione, insomma, dal 2013 se eliminiamo la spesa per interessi passivi, abbiamo addirittura aumentato un po’ la spesa che comunque nel triennio è piatta come l’olio. Anche a voler calcolare in modo diverso i famosi 80 euro (come diminuzione di tasse e non aumento di spesa come invece li considerano le statistiche Eurostat), il saldo finale, cioè il debito pubblico, non cambia (2,9% nel 2013, 3,0% nel 2014 e 2,6% nel 2015) a conferma che sulla flessibilità abbiamo già ottenuto parecchio, per la precisione l’1,7% negli ultimi tre anni (compreso il 2016 quando il disavanzo dovrebbe attestarsi sul 2,3% del Pil e, a quanto pare, non ne abbiamo tratto grandi benefici). Insomma, salvo che per il costo del debito, la spesa pubblica non cala di un grammo. E la ragione per cui a differenza dei mega deficit di Spagna, Regno Unito e Irlanda che, dopo aver dilatato la loro spesa nel 2010-2011, hanno intrapreso una via di rigore ed ora crescono che è una bellezza. Noi non possiamo farlo per la pesantezza del fardello del nostro debito che è il 132,7 % del nostro Pil e che pure quest’anno con ogni probabilità resterà allo stesso livello.
Insomma anche nel documento di programmazione economica e finanziaria si dice che se diamo l’impressione che non riusciamo a controllare il debito e per di più cresciamo poco si può creare una spirale negativa di percezione che aumenta i tassi richiesti dai creditori, il che aumenta il deficit e il debito e così via.
Insomma pensare di curare i mali italiani con la “flessibilità” è una pia illusione e dovremmo alla fine rendercene conto.

venerdì 26 agosto 2016

Nucleare: costoso e rischioso, sfatiamo (ancora) tutti i miti sulla convenienza

Le rinnovabili stanno compiendo la loro rivoluzione, il futuro sarà all’insegna della mobilità sostenibile, dell’energia pulita e della lotta ai cambiamenti climatici.
Come s’inserisce il nucleare in questo scenario? Per Angelo Baracca, docente emerito di Fisica Teorica dell'Università di Firenze e autore di numerose pubblicazioni su questo tema, in un’intervista sfata alcuni luoghi comuni.
Il ritorno al nucleare conviene? Secondo Baracca no, anzi, è evidente la necessità di abbandonarlo definitivamente.

L’impiego civile del nucleare non contribuisce affatto alla riduzione del gas serra e del CO2: ecco uno dei miti che Baracca sfata, una fandonia in realtà sfatata da vent’anni.
“Vero è che nello stadio attuale di sviluppo […] le emissioni complessive sono inferiori rispetto ad altre fonti di energia, ma […] se potessero svilupparsi massicci programmi nucleari lo sfruttamento di minerali più poveri di uranio porterebbe ad un aumento delle emissioni complessive”, afferma.
E i rischi connessi al ritorno del nucleare sono tutt’altro che pochi, al contrario di quanto affermano i sostenitori dell’atomo, che spesso minimizzano. Le centrali anche durante l'esercizio normale rilasciano emissioni radioattive. E’ stato registrato nelle popolazioni che vivono nelle zone prossime alle centrali nucleari un aumento di vari tipi di malattie, tra le quali tumori.
Le centrali portano con sé poi uno dei problemi che le rinnovabili non presentano, quello dello smaltimento delle scorie. Come fa notare Baracca, “nessun Paese ha ancora realizzato un deposito nazionale definitivo per i residui radioattivi. Decine di migliaia di tonnellate di combustibile esaurito si accumulano pericolosamente in piscine. Ormai solo la Francia esegue il ritrattamento, producendo, altre a scorie radioattive pericolosissime, ulteriore plutonio”.
Impossibile, infine, non parlare di incidenti. C’è la probabilità di un incidente grave ogni 7-8 anni. Solo questo dovrebbe spingere ad uno sviluppo delle rinnovabili sostenuto ancora dai governi, invece che un dibattito sul ritorno del nucleare, che peraltro non è conveniente, dice Baracca:
“L'energia nucleare non è competitiva, mentre i costi delle rinnovabili sono in picchiata. I tempi di costruzione delle centrali si allungano, i costi lievitano e grandi capitali devono essere immobilizzati per tempi lunghi e non prevedibili”.

giovedì 25 agosto 2016

Terremoto: in Italia il 70% delle costruzioni viola le regole antisismiche

Gli sfollati sono migliaia, 1.500 solo nelle Marche. E per la gestione di questa emergenza saranno utilizzati i primi soldi che saranno stanziati oggi dal consiglio dei ministri. Per i costi della ricostruzione vera e propria, invece, è ancora presto. Il ministro delle Infrastnitture Graziano Delrio dice che al momento «non è possibile indicare una cifra precisa». Servirà tempo. Ma è utile ricordare che per il terremoto dell’Aquila, per alcuni aspetti simile a quello di ieri, la spesa complessiva programmata fino al 2029 ammonta a 13,7 miliardi di euro. Dopo ancora, forse, sarà il momento delle decisioni per rendere più sicuri gli edifici, si legge su “il Corriere della Sera“.
In Italia il 70% delle costruzioni non è antisismico
O meglio non è progettato per resistere alla «scossa di riferimento», quella che può tornare in media ogni 475 anni. Non c’è una regola unica per tutto il territorio nazionale: la forza del terremoto di riferimento varia di chilometro in chilometro. Il punto è che devono essere costruiti in modo da resistere a questa scossa solo gli edifici nuovi. Per quelli esistenti non c’è alcun obbligo. Ed è questo il vero problema per un territorio fatto dai centri storici antichi, di case che si tramandano di generazione in generazione. La nostra bellezza, la nostra debolezza. «In Giappone una botta così arriva una volta al mese e loro, sulla sicurezza, sono diventati i primi al mondo», dice Massimo Forni, capo del laboratorio di ingegneria sismica e prevenzione dell’Enea, l’agenzia nazionale per le nuove tecnologie. «Mentre da noi – continua – succede ogni cinque anni, Tutte le volte piangiamo, promettiamo. Ma poi ci dimentichiamo e lasciamo perdere».
Oggi la metà delle scuole italiane non rispetta le regole
Dopo il terremoto che distrusse la scuola di San Giuliano di Puglia, nel 2002, è scattato l’obbligo di «analisi di vulnerabilità» per tutti gli edifici pubblici. Ma ancora oggi la metà delle scuole italiane non rispetta le regole. Il vero punto interrogativo, però, sono le case private. Nel 2002 — ricorda Armando Zambrano, presidente del Consiglio nazionale degli ingegneri — proprio la Regione Lazio approvò una legge che rendeva obbligatorio il fascicolo di fabbricato, documento che imponeva un esame di tutti i fabbricati esistenti per sapere almeno in che condizioni erano. Ma la norma è stata poi bocciata da TAR e Consiglio di Stato, fermando tutto. E allora, per la sicurezza, restano due strade. La prima, più volte scartata, è l’assicurazione obbligatoria. Oggi è volontaria e rarissima: meno dell’1% dei 33 milioni di case ha una polizza del genere. L’alternativa, che il governo sta studiando, è rafforzare gli sconti fiscali per chi fa una ristrutturazione anti sismica.

mercoledì 24 agosto 2016

Per Londra, la propaganda è un'arte

Come tutte le guerre, quella contro la Siria dà luogo a una valanga di propaganda. E l'argomento dei bambini è sempre in auge.
Così, all'inizio della guerra, il Qatar voleva dimostrare che la Repubblica, lungi dal servire l'interesse generale, disprezzava il Popolo. La petro-dittatura ha allora trasmesso sulla sua catena televisiva Al-Jazeera la leggenda dei bambini di Deraa, torturati dalla polizia. Per illustrare la crudeltà del suo avversario, il Qatar precisava che erano state loro strappate le unghie. Naturalmente, nonostante le proprie ricerche, nessun giornalista ha trovato traccia alcuna di questi bambini. La BBC ha pur trasmesso l'intervista con due di loro, ma avevano ancora le unghie.
Siccome il mito era inverificabile, il Qatar ha poi lanciato una nuova storia: quella di un bambino, Hamza Ali Al-Khateeb (13 anni), che sarebbe stato torturato e castrato dalla polizia del "regime". Questa volta si disponeva un'immagine probante. Tutti potevano vedere un corpo senza sesso. Peccato! L'autopsia dimostrava che il corpo era stato conservato male, che si era fermentato e gonfiato. Il ventre nascondeva il sesso del bambino, che stava ancora lì.
In questa rivista, Sir Arthur Conan Doyle immagina l'arresto di una spia tedesca da parte di Sherlock Holmes. Lo scrittore lavorava per l'Ufficio della propaganda di guerra.
Alla fine del 2013, i britannici si son fatti carico della guerra di propaganda. Essi dispongono di una lunga esperienza in questo campo e sono considerati gli inventori della propaganda moderna, durante la prima guerra mondiale, con l'Ufficio della propaganda di guerra. Una delle caratteristiche dei loro metodi consiste nel ricorrere sempre agli artisti, perché l'estetica neutralizza lo spirito critico. Nel 1914, reclutarono i grandi scrittori dell'epoca - come Arthur Conan Doyle, HG Wells o Rudyard Kipling - per pubblicare testi che attribuissero dei crimini immaginari al nemico tedesco. Poi, reclutarono i proprietari dei loro principali giornali affinché riprendessero le informazioni immaginarie dei loro scrittori.
Quando gli statunitensi ripresero il metodo britannico nel 1917 con il Comitato dell'Informazione Pubblica, studiarono più precisamente i meccanismi di persuasione, con l'aiuto di una star del giornalismo come Walter Lippmann e dell'inventore della moderna pubblicità, Edward Bernays (il nipote di Sigmund Freud). Ma persuasi dal potere della scienza, si scordarono l'estetica.
All'inizio del 2014, l'MI6 britannico ha creato la società Innovative Communications & Strategies (InCoStrat) [Comunicazione e strategie innovative] a cui dobbiamo per esempio i magnifici loghi dei gruppi armati, dal più "moderato" al più "estremista". Questa società, che ha uffici a Washington e a Istanbul, ha organizzato la campagna per convincere gli europei a raccogliere 1 milione di profughi. Ha realizzato la fotografia del giovane Aylan Kurdi, annegato su una spiaggia turca, ed è riuscita in appena due giorni a farla riprendere unanimemente dai principali quotidiani atlantisti in tutti i paesi della NATO e del Consiglio di cooperazione del Golfo.
Ogni anno, prima della guerra, un centinaio di persone morivano annegate sulle spiagge turche, me nessuno ne parlava. E soprattutto, solo i giornali scandalistici mostravano cadaveri. Ma quella fotografia era così ben fatta ...
Così come avevo fatto notare che un corpo non può essere rigettato dal mare perpendicolarmente alle onde, il fotografo ha in seguito spiegato di aver spostato il cadavere per le esigenze della fotografia.
La foto del piccolo Omran Daqneesh (5 anni), in un'ambulanza di Aleppo-Est è dunque accompagnata da un video. I due supporti visivi consentono di raggiungere sia la stampa scritta sia le televisioni. La scena è così drammatica che una presentatrice della CNN non ha potuto impedirsi di piangere nel vederla. Naturalmente, una volta che si riflette, il bambino non è preso in carico da soccorritori che gli prestino primi soccorsi, bensì da dei figuranti (i c.d. «White Helmets», trad. "Caschi Bianchi") che lo fanno adagiare di fronte all'obiettivo.
Gli sceneggiatori britannici fanno del bambino solo quel che loro interessa per realizzare le proprie immagini. Secondo la Associated Press, la fotografia è stata scattata da Mahmud Raslan, che si vede anche nel video. Tuttavia, secondo il suo account di Facebook, egli risulta essere membro di Harakat Nur al-Din al-Zenki (sostenuto dalla CIA, che gli ha fornito missili anti-carro BGM-71 TOW). Sempre secondo il suo account di Facebook, confermato da un altro video, è stato lui personalmente - il 19 luglio 2016 - a sgozzare un bambino palestinese, Abdullah Tayseer Al Issa (12 anni). Tuttavia Mahmud Raslan non ha tenuto il coltello del carnefice, ma con Umar Salkho ha condannato a morte Abdullah Tayseer al-Issa e ha organizzato la sua esecuzione pubblica.
Le leggi europee disciplinano rigorosamente il ruolo dei bambini nella pubblicità. Evidentemente, non si applicano alla propaganda di guerra

martedì 23 agosto 2016

Pil congelato: Renzi costretto a scontro con Ue

Il Pil congelato su base trimestrale nel periodo aprile-giugno costringe il governo Renzi ad andare allo scontro frontale con Bruxelles sui conti pubblici. Questo perché gli ultimi dati macro che certificano una crescita anemica della terza economia dell’area euro rendono sempre più difficile il mantenimento degli impegni presi in materia di rientro del deficit. Spagna e Portogallo sono state risparmiate, ma questo non significa che all’Italia verrà consentito di spendere per gli investimenti come il premier spera.
Anche per questioni di popolarità a sei mesi di tempo dal confronto con l’Unione Europea per ottenere margini di flessibilità sui conti pubblici per il 2016 e un piano di salvataggio per Mps e il settore bancario in crisi, il governo si ritrova punto e a capo. Anziché rispettare gli impegni e ottenere il via libera a circa 13,6 miliardi di deficit ulteriore, Padoan e Renzi sembrano propensi invece a chiedere alla Ue il permesso di sforare ancora una volta.
Rispetto a sei mesi fa molto è cambiato. Oggi infatti le necessità di liquidità e il bisogno di smaltire i crediti deteriorati di Mps – il Tesoro è il primo socio con il 4,02% del capitale – e in seconda battuta di Unicredit sono impellenti. Come spiega bene Il Fatto Quotidiano “in caso di fallimento del complesso piano di salvataggio privato annunciato a fine luglio, per ricapitalizzare la banca sarà necessario un intervento dello Stato con soldi pubblici. Non prima di aver imposto perdite ad azionisti e obbligazionisti subordinati, a meno di non riaprire anche su questo le trattative con i partner europei”.
Governo al bivio, incognita salvataggio Mps
I dati sul pil del secondo trimestre non solo rendono impossibile de facto il raggiungimento dell’obiettivo di crescita dell’1,2% contenuto nel Documento di economia e finanza (Def), ma rendono anche molto più costoso ridurre il rapporto tra deficit e Pil all’1,8% e quello tra debito pubblico e Pil dal 132,7 al 132,4%. È stata la Commissione europea a chiedere di centrate tali obiettivi, come contropartita offerta a maggio in cambio della flessibilità concessa per il 2016, che doveva essere un anno di transizione prima del rilancio economico.
Ma in matematica, si sa, se il denominatore è più basso del previsto, il rapporto tende ad aumentare e per contenerlo servono più risorse. Il debito galoppante salito su nuovi recod si può ridurre in termini assoluti con l’operazione delle privatizzazioni. Ma sul deficit Renzi non si può permettere misure di contenimento. Per farlo andrebbero prelevate risorse alle “misure espansive”, ossia al taglio dell‘Ires, che a questo punto certamente non verrà anticipato, agli incentivi fiscali per investimenti e ricerca – che il governo conta di inserire nella prossima legge di Bilancio.
Il premier e il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan sono con le spalle al muro e non resta loro altro da fare che giocare la carta dello scontro frontale. Nel weekend di Ferragosto La Repubblica ha attribuito al premier il seguente concetto cardine delle sue politiche future: “Non saranno dei vincoli europei a mandare l’Italia per la terza volta in recessione”.
La manovra recessiva è fuori discussione. “Abbiamo già ottenuto molta flessibilità, intendiamo chiederne ancora, tutta quella possibile”, ha anticipato il ministro dello Sviluppo Carlo Calenda a La Stampa, definendo “sbagliata” la decisione dell’Ecofin di concedere solo una volta (e l’Italia le ha appunto ottenute per quest’anno) le attenuanti che aprono la strada asconti sul risanamento.
Salta l’anticipo al 2017 del taglio Irpef
Renzi vorrebbe tutto: mantenere il rapporto tra deficit e Pil intorno al 2,3% anziché ridurlo all’1,8% per poter avere lo spazio di manovra per gli interventi sulle pensioni. La differenza vale circa 8 miliardi, che verrebbero utilizzati per finanziare le voci di uscita della prossima manovra. La Repubblica ieri ha ipotizzato che la cifra possa arrivare fino a 10 miliardi di euro, se il tasso deficit/pil venisse fissato al 2,4%.
Sarebbero soldi importanti per un governo che vista la crescita zero del Pil fatica a trovarne. L’anticipo al 2017 del taglio dell’Irpef (in calendario per il 2018) è sicuramente saltato, perché – come dice anche il Fatto Quotidiano – “anticiparlo non è più proponibile, e si riducono i margini per gli interventi sulle pensioni (anticipo dell’uscita dal lavoro, ampliamento della no tax area e della platea che riceve laquattordicesima, scivolo per i lavoratori precoci e per chi ha svolto mestieri usuranti).
“Quando la crescita rallenta, bisogna parlare meno di misure redistributive sulle pensioni e più di misure fiscali a favore di investimenti e lavoro”, ha avvertito già in passato il viceministro dell’Economia Enrico Zanetti.
Dopo il trilaterale tra Renzi, Hollande e Merkel, i due capi di Stato di Francia e Germania, le prime due potenze economiche e politiche dell’area euro, il governo è attesto a settembre da un negoziato delicato e caldo con l’Ue. Il tutto un paio di mesi prima dell’attesissimo referendum costituzionale che potrebbe decidere il futuro dell’Italia e dell’intera Europa.

lunedì 22 agosto 2016

“Renzi è un bluff. E l’Imu su seconde case ammazza immobiliare”

Bocciata in toto la politica economica del governo Renzi. Un governo che, secondo l’economista Riccardo Puglisi, docente universitario e responsabile economico di Italia Unica, non solo non fa la spending review, ma si è basata finora sull’ “idiozia elettorale” del bonus degli 80 euro. E una politica economica che si sarà anche tradotta nell’abolizione dell’IMU sulla prima casa, ma che nonostante ciò sta distruggendo il mercato immobiliare italiano, con la stessa Imu altissima sulle seconde case e terze case“.
Si combatte nell’area del programma Omnibus, in onda su La7, il dibattito tra Puglisi e Valentina Castaldini, portavoce nazionale del Ncd. Un dibattito in realtà fittizio, dal momento che i tentativi di Castaldini di difendere a spada tratta l’operato del governo non fanno altro che peggiorare le cose.
Così Puglisi:
“Io penso che dal punto di vista della politica economica Renzi sia un bluff, sostanzialmente. La sua politica economica da subito è partita da diagnosi sbagliate e le soluzioni per diagnosi sbagliate possono essere giuste solo per un caso straordinario. Il problema è negli investimenti, ma si sapeva già, nel senso che è nei dati. Le esportazioni vanno bene, molte imprese italiane sono brave a esportare. Ma che ha fatto il governo? Ha cacciato 9 miliardi di euro in una grossa idiozia elettorale come gli 80 euro, che sono un bonus strano, solo per certi tipi di reddito”.
Non manca l’ironia:
“Io ricordo sempre con tanto affetto l’onorevole Picierno (Pd, ndr), che, durante la campagna elettorale per le Europee, sostenne che, secondo il Censis, gli 80 euro avrebbero aumentato i consumi del 15%, cioè una cosa fantasmagorica. Da lì creai il termine “piciernile” per indicare il 15%, che è questa nuova unità statistica”.
Tornando al bonus tanto sbandierato dal premier:
“Gli 80 euro vengono da qualche parte. Cosa ha fatto il governo? Il governo chiede – altra neolingua del governo che viene utilizzata in questi giorni, mesi, anni – la flessibilità all’Unione europea. Mi viene uno sconforto terrificante per le generazioni future in Italia. E questo perché flessibilità 2 – ipotesi di nuova richiesta flessibilità – significa una cosa sola: vuol dire deficit. Il governo Renzi non fa la spending review perchè non ha alcuna intenzione di farla, fa la spending review sui commissari, mandandone a casa due su tre: dunque, come finanzia questi bonus? Li finanzia con deficit, che viene chiamato nelle slide di Renzi flessibilità Ue. Ma il punto è che se io devo finanziare qualcosa in deficit, e così spendo qualcosa con soldi che non ci sono, non lo faccio con un bonus che va ai consumi, quando i problemi sono gli investimenti, ma faccio deficit per finanziare gli investimenti pubblici, faccio qualcosa che valga per il futuro, faccio qualcosa per le infrastrutture”.
Interviene Castaldini, menzionando l’abolizione dell’Imu sulla prima casa: una mossa che si rivela tatticamente sbagliata, dal momento che il tentativo dell’esponente di Ncd di salvare l’immagine del governo fallisce, e anche miseramente. Puglisi, dati alla mano, chiede e risponde:
“Quant’è il gettito dell’Imu totale? Lo sa? Sono 20 miliardi di euro. Voi siete dei disgraziati: togliete l’Imu sulla prima casa e su tutto il resto ammazzate. Sta dicendo delle castronerie megagalattiche, roba da bocciare a un esame di Scienze delle Finanze, che io peraltro insegno”.
E ancora:
“L’altra idiozia fatta dal governo Renzi, solo più piccola perchè vale 3 miliardi e mezzo di euro e non 9 miliardi come nel caso dei bonus è questa: creare una discriminazione micidiale tra la prima casa e tutto il resto, per cui si creano effetti paradossali, folli, di cui gli italiani si accorgono benissimo come questa: possiedo una maggione da 700 metri quadri che vale come prima casa e pago zero. Ho ereditato una piccola casetta dai nonni in campagna, che non è la mia prima casa, pago l’Imu, che è l’Imu di molti (…) e l’Imu sulle seconde e terze case, altissima, sta ammazzando il mercato immobiliare (…) “
Perchè, questo?
“Andate a fare un giro per le città per vedere quante vendite ci sono: si tratta delle seconde e terze case che vengono messe in vendita, perchè la gente si è rotta le scatole di fare il bancomat del governo”.

lunedì 15 agosto 2016

Sacchetti per la spesa illegali: nella grande distribuzione sono ancora molti

Ogni volta che entro in un supermercato (e spesso anche in un normale negozio al dettaglio), specie quelli che incrocio nei luoghi vicino al mare e durante l’estate, mi faccio sempre le stesse domande: Perché ci sono ancora tanti sacchetti di plastica per infilare i prodotti acquistati? Ne abbiamo davvero bisogno? Sbaglio o ci sono delle norme che ne vietano l’uso, almeno nella versione più inquinante? Secondo una recente indagine di Legambiente su 26 campioni di sacchetti di bioplastica prelevate in tutta Italia, ben 6 ,circa il 23%, sono risultati illegali. Ovvero non presentano quelle caratteristiche di materiale biodegradabile e compostabile, come previsto dalle legge approvata prima in sede europea e poi dal parlamento nazionale. Sono illegali. E li paghiamo, tra i 5 e 15 centesimi ciascuno. Il record di questa autentica truffa ai danni dei consumatori, purtroppo, si registra in particolare nelle regioni meridionali, Campania, Basilicata, Puglia e Calabria. Mentre gli shopper fuorilegge sono scomparsi dai punti vendita della grande distribuzione in Lombardia e in Veneto. Perché questa odiosa differenza territoriale? Forse i venditori del Nord sono più corretti e i consumatori del Sud più distratti?
UTILIZZO SACCHETTI DI PLASTICA IN ITALIA -
In attesa che qualcuno si decida a fare controlli più severi, restiamo dei grandi consumatori di shopper: ne facciamo fuori, a spese nostre, 181 a testa nell’arco di un anno, e in tutta Europa 8 miliardi di sacchetti di plastica per la spesa finiscono nella spazzatura. O, peggio, nelle discariche, laddove uno shopper compostabile e biodegradabile può essere smaltito anche con i rifiuti umidi.
SACCHETTI PER LA SPESA ILLEGALI -
Il danno dei sacchetti illegali è anche di natura economica. L’industria italiana, infatti, è molto avanzata nel settore della chimica verde e ha tutto l’interesse alla crescita e al consumo di shopper a norma secondo la legge nazionale ed europea. Il sacchetto inquinante, al contrario, è come un prodotto contraffatto dai cinesi: produce concorrenza sleale. Infine un consiglio a chi fa la spesa con frequenza: ricordatevi della vecchia busta della nonna da portare con voi. È sempre la migliore soluzione, e la più economica.

giovedì 11 agosto 2016

Italicum, Renzi rischia alla Consulta

Davvero solo la Consulta può togliere le castagne dal fuoco del governo e salvare l’incauto apprendista di Rignano? Si chiacchiera in modo troppo maldestro sulle questioni costituzionali. E si ritiene che sia di poco conto, dal punto di vista politico e istituzionale, un nuovo pronunciamento della Corte costituzionale a segnalare elementi di illegittimità di sicuro presenti nella legge elettorale. Il carattere grottesco del chiacchiericcio quotidiano raggiunge il culmine con l’assunto che, proprio rilevando l’incostituzionalità dell’Italicum, la Consulta dà un bel soccorso al governo. Che questo aiuto indiretto sia in effetti l’auspicio di antiche cariche istituzionali, di esponenti del governo ecc. non cambia la sostanza del problema e semmai aggrava la percezione della gravità del decadimento della cultura politica.
Il dato politico e istituzionale cui è difficile sfuggire è questo. Il capo del governo ha avuto il mandato di scrivere la nuova legge elettorale per rimediare a una grave crisi di sistema apertasi con la dichiarazione dell’incostituzionalità del Porcellum. Egli non può in alcun modo gioire se la Consulta censura la manutenzione sulla tecnica elettorale imposta manu militare emulando nelle procedure illiberali gli architetti della legge truffa.
In una democrazia decente un parlamento delegittimato nella sua composizione che non rimuove le condizioni formali del proprio originario deficit, e anzi sforna una tecnica elettorale dai redivivi profili di incostituzionalità, aprirebbe una devastante crisi di regime. Solo in Italia da una tragedia costituzionale di tale entità antichi custodi e novelli statisti traggono motivo di esultanza.
Una bocciatura sia pure parziale della Consulta non può cadere indifferente sul governo. Renzi ha posto più volte la fiducia per accelerare l’approvazione della sua riforma, l’ha dipinta come una conquista straordinaria, che tutti al mondo invidiano e avrebbero presto imitato per il suo tocco di genialità nel risolvere l’enigma della governabilità al calar della sera.
Nelle fasi più cruente dello scontro, Renzi dichiarava: «Non c’è cosa più democratica di mettere la fiducia: se passa, il governo va avanti altrimenti va a casa. Cosa c’è di più democratico di chi rischia per le proprie idee. È tempo del coraggio non di rimanere attaccati alla poltrona». Sperare che un ritocco sollecitato dalla Consulta possa autorizzare a tornare indietro, per la semplice paura che vinca il M5S, è impossibile e costoso. Sarebbe l’equivalente di una crisi di regime, con pratiche devianti che sono più da sistemi precari come la Tunisia o l’Egitto che non da democrazia europea, seppur malata.
Il governo che ha già forzato troppo su regole essenziali della repubblica deve solo aspettare la sentenza della Consulta e se sarà negativa, come ragione giuridica vorrebbe, dovrà prendere la responsabilità politica dell’accaduto. Un esecutivo nato nell’emergenza che ha imposto con prove inaudite di forza una legge elettorale ritenuta incostituzionale non ha l’autorevolezza politica e la legittimità etica per restare al potere un giorno in più. Una legislatura aggredita dalla grave macchia della illegittimità originaria della composizione dei suoi organi di rappresentanza, e che non sana la sua ferita iniziale, ma anzi reitera la manipolazione illiberale delle regole, deve estinguersi e con un provvedimento condiviso ripristinare il quadro minimale della legalità costituzionale. Altro che aiutino del giudice delle leggi che spinge Renzi a una nuova manomissione

mercoledì 10 agosto 2016

REFERENDUM, RENZI CI METTE LE FIRME. NON LA DATA

Giovedì scorso, 4 agosto, ventisei giudici di Cassazione dell’ufficio centrale per il referendum hanno ammesso anche l’ultima richiesta di referendum sulla riforma costituzionale, quella depositata dal comitato del Sì e accompagnata da 579mila firme di cittadini. La notizia è stata ufficializzata ieri con un comunicato stampa. Sia il comitato per il Sì che la raccolta delle firme sono un’idea di Renzi e del suo consigliere americano Jim Messina, ragione per cui ieri il presidente del Consiglio si è variamente compiaciuto: «Questa è una sfida di un popolo. Dipende da ciascuno di noi, non da uno solo», ha scritto. Registro assai diverso da quello con il quale aveva lanciato la campagna, quando spiegava che «chi vota no mi odia». Il referendum ci sarebbe stato in ogni caso, perché la riforma costituzionale è stata votata in parlamento con una maggioranza ridotta e perché la richiesta era già stata presentata dai parlamentari e accolta dalla Cassazione, il 6 maggio.
Anche l’esito positivo della (veloce) verifica della Cassazione sulle firme era cosa nota, questo giornale ne aveva scritto l’indomani, venerdì 5 agosto. La lettura dell’ordinanza offre però un dettaglio importante: il numero di firme verificate come effettivamente valide dai giudici è appena sufficiente ad autorizzare la richiesta di referendum: 504.387, la soglia minima essendo fissata a 500mila. L’iniziativa di Renzi, dunque, è salva per un pelo. Il che aggiunge dubbi in quanti avevano già notato il «miracolo» delle firme per il Sì che si producevano in assenza di banchetti destinati a raccoglierle. Due cose in effetti colpiscono. La prima è la scarsissima percentuale di firme scartate dalla Cassazione. Nel caso delle ultime proposte di referendum abrogativo arrivate alla suprema corte con le firme necessarie, quelle dei radicali sulla giustizia nel 2013 e quella di Parisi, Di Pietro e Segni contro il Porcellum nel 2011, la percentuale di sottoscrizioni ritenute non valide è stata dal 25% nel primo caso e del 55% nel secondo. Nel caso delle firme «renziane» la percentuale di scarti è stata appena del 12%. Il controllo cartolare è durato venti giorni, mentre negli altri casi i giudici hanno avuto a disposizione due mesi. Sorprendenti sono anche i numeri che i segretari regionali del Pd hanno dato sulla raccolta firme, nel tentativo di mettersi in buona luce con il segretario. 50mila firme in Toscana, 25mila in Calabria, 17mila in Sardegna e nelle Marche sono numeri che possono sembrare alti ma che per chi ha pratica di raccolta firme non consentono in genere di raggiungere il quorum. Ad esempio in Toscana (come in altre regioni) il comitato per l’abrogazione dell’Italicum ha raccolto praticamente lo stesso numero di firme, pur non essendo riuscito a raggiungere nel complesso le 500mila necessarie. Per rispondere a questi dubbi, alimentanti anche dalla vicenda del rimborso che ora spetterà al comitato del Sì, potrebbe essere utile una pubblicazione delle firme depositate e certificate. Ma il 20 luglio scorso la Cassazione ha risposto di no al costituzionalista Fulco Lanchester che con i radicali ha chiesto l’accesso agli atti. No perché l’ufficio centrale per il referendum non è una «amministrazione pubblica» ma «un organo giurisdizionale».
Anche Renzi alimenta la confusione sui numeri. Nell’esultare, ieri ha scritto che il suo Sì alla riforma è sostenuto da «quasi 600mila firme, circa il triplo degli altri». Gli «altri» sono quelli del comitato del No ma in realtà lo scarto con le «loro» 316mila firme è assai minore, non è neanche del doppio. Soprattutto, Renzi continua a evitare la comunicazione più attesa, quella della data del referendum. La legge non prevede tempi di attesa, il governo da oggi ha 60 giorni di tempo per convocare il referendum (a sua volta da tenersi tra il 50esimo e il 70esimo giorno successivo al decreto di indizione, firmato dal capo dello stato). Se Renzi farà trascorrere invano questa settimana, il referendum costituzionale non potrà più essere fissato il 2 ottobre, come pure lui ha detto (anche in tv) di desiderare. Se farà passare tutto il mese di agosto, il referendum slitterà inevitabilmente a novembre. E se voteremo quasi a dicembre non sarà per evitare inopportuni incroci con la sessione parlamentare di bilancio. Ci sarebbe tutto il tempo per anticipare la presentazione alla camera della legge di stabilità, il punto è che Renzi non è più di questa idea. «A ottobre ci divertiremo», ripeteva ancora a fine giugno quando leggeva sondaggi diversi e assicurava di voler votare «il prima possibile». Adesso ha bisogno di un colpo d’ala per cercare di vincere, e cercherà di piazzarlo nella finanziaria.

martedì 9 agosto 2016

LAVARE TROPPO IL CAPITALE PORTA ALLA GUERRA MONDIALE

La Convenzione del Partito Democratico (quello a denominazione di origine controllata, non le imitazioni nostrane) si è conclusa con la scontata consacrazione della candidatura di Hillary Clinton, e, soprattutto, con il previsto calo di brache da parte di Bernie Sanders, il candidato danneggiato dalle frodi della dirigenza del partito a favore della Clinton. Sanders ha lanciato un appello all’unità del partito attorno alla candidatura Clinton ed ha giustificato la propria sottomissione con la necessità di fronteggiare il pericolo rappresentato dal candidato repubblicano, il “bullo” Donald Trump. D’altra parte, visti gli intrighi perpetrati nei confronti di Sanders, la stessa candidatura di Trump si espone al sospetto di costituire soltanto un’ulteriore mistificazione a favore della Clinton, contrapponendole l’unico candidato disponibile sulla piazza che sia più impresentabile di lei. Il risultato è che non solo si premia la Clinton per aver barato, ma addirittura la si santifica come se fosse la nuova Giovanna d’Arco chiamata a salvare il mondo dalla minaccia Trump.
Ai sostenitori di Sanders rimane anche un altro dubbio, forse più inquietante: visto che Sanders ha rivelato alla fine di non essere un vero candidato anti-establishment, che bisogno c’era di farlo fuori con dei trucchi? Ne potrebbe venir fuori una sorta di paradosso: a volte imbrogliare è necessario perché non si capisca che imbrogliare non era davvero necessario, cioè che un candidato vale l’altro, perché tanto non è mica il presidente a comandare.
Con la sua consueta protervia, la Clinton ha cercato di rovesciare la vicenda delle frodi a proprio favore, accusando Putin di essersi inserito con le sue spie nel sistema informatico del Partito Democratico. Ammesso che fosse vero - e probabilmente non lo è -, la filosofia della Clinton consiste evidentemente nel considerare colpevole non chi commette le frodi, ma chi aiuta a scoprirle. Quando qualcuno ha accusato la CIA di aver confezionato in funzione anti-Putin i “Panama Papers”, cioè il dossier sui conti nelle società offshore, nessuno dei media occidentali ha ritenuto di considerare le accuse contro la CIA più rilevanti di quelle contro Putin, come invece sta accadendo adesso per le presunte intromissioni russe nel sistema del Partito Democratico. Tra l’altro nei “Panama Papers” Putin non è mai nominato, perciò i media sono arrivati a lui per proprietà transitiva, dato che vi erano i nomi di magnati russi. Cosa ti può fare l’amore per la verità. Per screditare Putin forse sarebbe stato più attendibile ricordare più spesso che egli ha ricevuto la cittadinanza di quella entità extra-territoriale che è la City londinese, cioè la suprema lavanderia del capitale.
Strano poi che negli USA ci si sia scandalizzati tanto per le società offshore, dato che un “rispettabile” Stato americano come il Delaware è per l’appunto un paradiso fiscale che ha adattato la propria legislazione in funzione delle società offshore. Paradisi fiscali non sono soltanto sperdute isole dei Caraibi o loschi emirati arabi, ma Paesi di serie A. Viene quasi il sospetto che tra le intenzioni recondite della pubblicazione dei “Panama Papers” vi fosse quello di screditare un paradiso fiscale ormai sgamato come Panama per accreditare nuove lavanderie del capitale più titolate e protette come il Delaware.
Lavare/riciclare il denaro costituisce attualmente una delle attività principali, poiché nella mobilità i capitali si ripuliscono e si rigenerano. Non si tratta solo di coprire il denaro di provenienza illecita, ma anche di provenienza lecita. Ad esempio, la Banca Centrale Europea sta concedendo alle banche europee prestiti considerevoli a tassi di interesse zero, con l’unica condizione che i fondi vengano impiegati per aprire credito alle imprese locali.
Per aggirare questo vincolo ed esportare il denaro appena ricevuto, le banche non devono fare altro che prestare quel denaro a società con sede in Italia ma che a loro volta siano azioniste di società offshore, dato che nessuna legislazione lo vieta. In tal modo si perde ogni traccia della fonte originaria dei soldi. L’offshore non serve solo a ripulire il denaro del narcotraffico e ad eludere il fisco, ma anche a celare una delle massime vergogne del capitalismo, cioè che il capitale ha la sua origine nella spremitura del contribuente, cioè nei finanziamenti che gli Stati elargiscono alle imprese ed alle banche magari col pretesto di “salvarle”. Dopo le centinaia di miliardi elargiti direttamente dagli Stati, o tramite quella finzione che è il MES o Fondo “Salva-Stati” (in realtà salva-banche), le banche sono ancora in crisi. Le banche italiane sono più nel mirino di altre, ma la tempesta finanziaria sembra non salvare nessuno.
In nome della mobilità dei capitali si sta assistendo ad un suicidio politico degli Stati. Sino a qualche decennio fa l’esportazione dei capitali era un reato penale, mentre oggi gli Stati, attraverso i fondi europei, finanziano apertamente l’esportazione dei capitali. In altri termini, il lavoratore paga le tasse per finanziare la delocalizzazione dell’impresa di cui è dipendente, cioè finanzia il proprio licenziamento. Come è potuto accadere? Il problema è che lo Stato non esiste: in parte è una superstizione, in parte è un’astrazione giuridica, ma soprattutto è uno pseudonimo delle lobby finanziarie.
L’altro problema è che le imprese e le banche stesse sembrano oggi patire l’eccesso di mobilità dei capitali, tanto che stanno cedendo l’iniziativa a quelle nuove creature mostruose (sviluppatesi proprio in funzione del lavaggio dei capitali) che sono gli “hedge fund”, risultati al centro della speculazione che oggi colpisce i titoli bancari. Dato che in inglese “hedge” significa siepe, verrebbe da dire: “il buio oltre la siepe”.
La scelta di abolire qualsiasi ostacolo alla circolazione dei capitali è stata spacciata come un incentivo allo sviluppo, mentre al contrario si è risolta in una cronica depressione dell’economia reale a vantaggio di una speculazione finanziaria sempre più distruttiva e caotica. Per rimettere ordine nella finanza occorrerebbe rilanciare l’economia reale, un risultato che si può raggiungere soltanto limitando la mobilità dei capitali e consentendo investimenti pubblici. In altre parole, sarebbe necessario lasciare che il denaro pubblico rimanga tale, senza essere “lavato”. Ma da quest’orecchio l’oligarchia statunitense non ci sente, poiché una ripresa dell’economia mondiale comporterebbe un ulteriore sviluppo dei cosiddetti “BRICS”, ed in particolare della Russia. Gli Stati Uniti oggi rappresentano solo un quinto dell’economia mondiale e non intendono scendere al di sotto di questa soglia di garanzia per la loro posizione dominante. Secondo settori dell’oligarchia finanziaria statunitense il caos finanziario dovrebbe quindi trovare il suo sbocco “naturale” in una guerra contro la Russia. Non sorprende perciò che si punti sulla Clinton, non perché sarà lei a decidere, ma perché con il suo look nevrastenico potrà abituare l’opinione pubblica all’idea di una guerra mondiale.

lunedì 8 agosto 2016

Causa ingiusta: Hiroshima e Nagasaki

il presidente Obama non ha chiesto scusa per l’attacco nucleare degli Stati Uniti che distrusse la città di Hiroshima il 6 agosto 1945, nella recente visita alla città. Invece, ha invitato vacuamente al coraggio di “diffondere la pace e perseguire un mondo senza armi nucleari”, evitando chiaramente qualsiasi riferimento specifico al motivo per cui gli Stati Uniti decisero di bruciare oltre 100000 giapponesi, sermonando, “Riflettiamo sulle forze terribili scatenate in un passato non così lontano. Piangiamo i morti… le loro anime ci parlano e ci chiedono di guardarci dentro. Per chiarire chi siamo e cosa potremmo diventare“, un esercizio retorico che in sostanza è pari al poco più infame “cose che accadono” di Donald Rumsfeld. Settanta anni dopo la seconda guerra mondiale, a quanto pare gli attacchi nucleari su Hiroshima e Nagasaki sono ancora una questione evasa e giustificata dai funzionari degli Stati Uniti come l’unico modo per porre fine alla guerra e salvare vite statunitensi. Per indicare le omissioni di Obama, mi rivolgo allo storico Gar Alperovitz. Il suo libro del 1995, The Decision to Use the Atomic Bomb and the Architecture of An American Myth, è il resoconto definitivo sul perché Hiroshima fu distrutta, e come la storia ufficiale che giustifica tale decisione sia stata fabbricata successivamente e promulgata dalla dirigenza della sicurezza nazionale. Come spiega, la bomba non solo non salvò vite di statunitensi, ma in realtà avrebbe causato la morte inutile di migliaia di militari degli Stati Uniti.
Cominciamo con la domanda fondamentale: era necessario sganciare la bomba su Hiroshima, per costringere alla resa il Giappone e, quindi, salvare vite statunitensi?
Assolutamente no. Almeno, ogni traccia di prova che abbiamo indica fortemente non solo che non era necessario, ma che era già noto che fosse inutile. Questo fu il parere dei vertici dei servizi segreti e militari. C’era l’intelligence che da aprile 1945, e ribadendolo di mese in mese fino al bombardamento di Hiroshima, che la guerra sarebbe finita quando i sovietici sarebbero entrati in guerra (e che) i giapponesi si sarebbero arresi se l’imperatore avesse mantenuto almeno un ruolo onorario. L’esercito statunitense aveva già deciso (di voler) mantenere l’imperatore perché voleva servirsene dopo la guerra per controllare il Giappone. Praticamente tutti i principali dati militari sono ora disponibili, e la maggior parte quasi subito dopo la guerra ed è sorprendente, se si pensa a tal proposito, che dicano che il bombardamento fu del tutto inutile. Eisenhower lo disse in diverse occasioni. Lo disse il Presidente degli Stati Maggiori Riuniti, Ammiraglio Leahy, anche capo di gabinetto del presidente. Curtis LeMay, responsabile del bombardamento convenzionale del Giappone (lo disse pure). Sono tutte dichiarazioni pubbliche. E’ degno di nota che i leader militari lo fecero pubblicamente, contestando la decisione del presidente poche settimane dopo la guerra, alcuni pochi mesi dopo. In realtà, pensandoci oggi, lo s’immaginerebbe? E’ quasi impossibile pensarlo.1aayGli Stati Uniti vollero mai l’intervento dei sovietici?
Ecco quello che successe. Non sapendo se la bomba avrebbe funzionato o meno, i leader degli Stati Uniti furono preavvisati che la dichiarazione di guerra sovietica, combinata con l’assicurazione che l’imperatore poteva restare in qualche modo senza potere, avrebbe posto fine alla guerra. Ecco perché a Jalta (il vertice del febbraio 1945 tra Roosevelt, Stalin e Churchill) implorammo disperatamente i sovietici ad entrarvi, e decisero di farlo entro tre mesi dalla fine della guerra in Europa. L’intelligence degli Stati Uniti aveva già detto che ciò avrebbe concluso la guerra, motivo per cui ne cercammo il coinvolgimento prima che la bomba fosse testata. Dopo di ché, gli Stati Uniti cercarono disperatamente di far finire la guerra prima che arrivassero.
E’ possibile che la leadership degli Stati Uniti evitasse azioni che provocassero la resa, pur di mantenere la situazione in modo d’avere la scusa per usare la bomba?
Ora punta sulla più delicata di tutte le domande. Non possiamo provarlo, ma sappiamo che il consiglio del presidente, che praticamente contava tutti i vertici militari e politici, l’assicurarono che i giapponesi probabilmente si sarebbero arresi all’inizio dell’estate 1945, secondo i rapporti dell’intelligence di aprile. Lo dissero in quel momento, mentre molti massimi responsabili suggerirono al sottosegretario di Stato (Joseph) Grew, per esempio, e al segretario alla Guerra (Henry) Stimson, come la guerra potesse benissimo concludersi presto, anche prima dell’intervento dei sovietici.
I leader degli alleati riunitisi a Potsdam, a fine luglio, rilasciarono nella dichiarazione di Potsdam i termini della resa dei giapponesi. Nel suo libro, si discute del tentativo di includervi le necessarie garanzie di preservare l’imperatore. Che successe?
Scritto nel testo originale, il comma dodici della Dichiarazione di Potsdam essenzialmente assicurava i giapponesi che l’imperatore non sarebbe stato deposto e (sarebbe) rimasto similmente al re o alla regina d’Inghilterra, senza alcun potere. Fu una raccomandazione di tutto il governo, ad eccezione di Jimmy Byrnes. Byrnes fu il principale consigliere del presidente in materia, era il segretario di Stato. Non c’è dubbio che abbia seguito la decisione alla base di ciò. Fu anche il rappresentante personale del presidente al comitato ad interim che studiò se usare la bomba. Fu l’uomo direttamente responsabile, in questo caso. Tutti pensavano che la guerra sarebbe finita una volta che fosse stata emessa, e sapevano che la guerra sarebbe continuata se eliminavano il comma dodici, e Jimmy Byrnes lo tolse con l’approvazione del presidente.
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Perchè non possiamo collaborare con mutua fiducia?
Quindi fu uno sforzo deliberato per prolungare la guerra?
Penso che sia vero, ma non si può dimostrarlo. I Joint Chiefs of Staff, di fronte al blocco di Byrnes, spinsero lo Stato maggiore inglese a chiedere a Churchill di contattare Truman scavalcando Byrnes, per cercare di convincerlo a rimettere il comma, e Churchill lo fece. Ma Truman non cedette, seguendo il consiglio di Byrnes. Fu un momento straordinario.
Qual è stata la giustificazione per Nagasaki?
Ebbene, si affermò che si trattava di decisione automatica. Fu deciso di usare le bombe quando erano pronte. Credo che gli scienziati, e poi anche i militari, Groves in particolare, volessero testare la seconda. C’è un altro motivo che penso probabilmente pesasse. L’Armata Rossa era entrata in Manciuria l’8 agosto, e Nagasaki fu bombardata il 9 agosto. L’intero fulcro decisionale dei vertici, cioè Jimmy Byrnes consigliere del presidente, in quel momento… non era più usare o meno la bomba… ma far finire la guerra il più velocemente possibile, mentre l’Armata Rossa avanzava in Manciuria. Il collegamento logico tra ciò e “Perché continuare con Nagasaki?” o meglio “perché non su sospeso“, è impossibile con la documentazione attuale, ma non c’è dubbio che il sentimento e lo stato d’animo dei vertici decisionali era “come porre fine a questa cosa il più dannatamente veloce possibile?” Un contesto in cui la decisione di colpire Nagasaki era presa, o meglio, neanche discussa.
La linea ufficiale, che abbiamo, che la bomba salvò diverse vite e che i giapponesi avrebbero combattuto fino all’ultimo uomo, ecc., si consolidò abbastanza rapidamente. Come lo spiega?
La rivista Harper’s giocò un ruolo importante. Pubblicò ciò che era fondamentalmente un articolo disonesto dall’ex-ministro della Guerra Henry Stimson. Vi erano crescenti critiche dopo la guerra, infatti, avviate dai conservatori, non dai liberali che difesero Truman, arrivando poi da militari e alcuni scienziati, e quindi da certi leader religiosi, fino all’articolo del New Yorker di John Hersey “Hiroshima”. C’erano così tante critiche nel 1946 che la leadership pensò che andassero fermate, e quindi spinse l’ex-segretario alla Guerra Stimson a difenderla con forza. In realtà, fu scritto da McGeorge Bundy (in seguito consigliere della sicurezza nazionale negli anni del Vietnam), e fecero sì che la rivista Harper’ lo pubblicasse (nel febbraio 1947). L’articolo divenne notissimo nel Paese e fu la base di articoli di giornali e radio al momento. Penso che sia corretto dire che spense le critiche per due decenni.
Beh, possiamo considerare questa intervista un atto di espiazione. Era importante per la politica estera degli Stati Uniti convincere il Paese e il mondo che non fece una brutta cosa, ma una buona per porre fine alla guerra e salvare vite umane?
Sì, su due livelli. Hiroshima e Nagasaki non erano obiettivi militari. Ecco perché non furono attaccate, perché erano in fondo nella lista delle priorità. Allora, cosa c’era? Piccoli impianti militari. I giovani erano in guerra, e chi si erano lasciati alle spalle? Come minimo circa 300000 persone, prevalentemente bambini, donne e vecchi, persone che furono distrutte inutilmente. È una straordinaria sfida morale alle posizioni degli Stati Uniti e dei vertici che presero tali decisioni. Se non giustificavano tale decisione in qualche modo, erano pesantemente criticabili, e giustamente.
Se Obama non aveva intenzione di chiedere scusa per la bomba di Hiroshima, cosa avrebbe dovuto dire?
Sarebbe stato un bene che il presidente andasse oltre le parole, agendo mentre era in città. Un buon inizio sarebbe stato annunciare la decisione di non spendere 1 miliardo di dollari per le armi nucleari di nuova generazione e loro vettori. E poteva invitare la Russia e altre nazioni nucleari a partecipare ai negoziati in buona fede, richiesti dal trattato di non proliferazione nucleare per ridurre radicalmente gli arsenali nucleari

venerdì 5 agosto 2016

Libia, Pinotti: “Italia pronta a concedere le basi

Il Governo è pronto a valutare positivamente un’eventuale richiesta di uso delle basi e dello spazio aereo se fosse funzionale a una più rapida e efficace conclusione dell’operazione in corso” da parte degli Stati Uniti contro l’ISIS in Libia, ha dichiarato il ministro della Difesa Roberta Pinotti, aggiungendo che tale operazione “non ha finora interessato l’Italia né logisticamente né per il sorvolo del territorio nazionale”.
Ciò non basta tuttavia a spegnere le numerose perplessità sull’opportunità di questa scelta, soprattutto considerando che nel 1986 il governo Craxi negò a Donald Reagan l’uso delle basi in Italia per l’Operazione Colorado Canyon che portò al bombardamento di Tripoli e Bengasi da parte dell’aviazione statunitense ed inglese. Il governo Renzi cerca di mantenere una politica multivettoriale, che lo vede stringere rapporti con più paesi e potenze anche in contrasto tra loro, ma ciò inevitabilmente è destinato ad un certo punto a tradursi nella necessità di operare una tardiva e dolorosa scelta di campo, in questo caso a favore di Washington.
Sarebbe stato molto più saggio tentare di riaffermare lo storico ed ormai dimenticato ruolo dell’Italia come di rilevante potenza nell’ambito mediterraneo, mediando una soluzione più equilibrata tra gli Stati Uniti e paesi come l’Egitto e la Russia per individuare una strategia indubbiamente più appropriata ed efficace con cui debellare il Califfato.

giovedì 4 agosto 2016

Jobs Act: il grande bluff con il trucco

È ormai possibile tirare le somme dell’operazione Jobs Act e incrementi occupazionali che è stata, nell’ultimo biennio il cuore politico e pubblicitario del governodi Matteo Renzi.
Che il Jobs Act in sé considerato consiste solo in una sistematica distruzione dei diritti che assicuravano dignità ai lavoratori italiani, è ormai chiaro a tutti perché, con la pratica abolizione dell’art. 18 dello Statuto, i lavoratori sono ormai privi di difesa., contro ogni tipo di sopraffazione.
Ci si è chiesti però se questa umiliazione avesse – come a sempre ha sostenuto il patronato – il pur discutibile vantaggio di una maggiore occupabilità, ossia di una maggior propensione dei datori di lavoro ad assumere lavoratori perché ormai resi malleabili.
Per sostenere questa deteriore ed infondata tesi il governo Renzi ha pensato di ricorrere ad un (costosissimo) trucco che gli avrebbe consentito poi di menare gran vanto: si trattava di dotare i nuovi contratti di lavoro a tempo indeterminato (ma senza garanzia dell’art. 18) di un incentivo economico davvero poderoso, così drogando al massimo le assunzioni nel periodo subito successivo al Jobs Act ossia nell’anno 2015.
E’ stata, dunque, varata la decontribuzione, in forza della quale il datore che avesse assunto nell’anno 2015 lavoratori con il «nuovo» contratto di lavoro a tempo indeterminato avrebbe ricevuto, per il triennio successivo uno sgravio contributivo fino ad 8.060,00 annui per un totale così di ben euro 24.000 per ogni assunzione. Ma appunto solo per i contratti conclusi nell’anno 2015, perché per quelli conclusi nel 2016 il regalo si sarebbe più che dimezzato.
L’unica condizione posta dalla legge era che il lavoratore da assumere non avesse già avuto un contratto di lavoro a tempo indeterminato negli ultimi sei mesi precedenti, perché altrimenti, come ovvio, tutti sarebbero ricorsi a licenziamenti immediatamente seguiti dalle assunzioni con l’incentivo. La decontribuzione veniva invece concessa se il lavoratore avesse prima lavorato con contratto precario (es: a termine, di apprendistato, di collaborazione a progetto) perché queste trasformazioni sarebbero state il fiore all’occhiello del governo Renzi accreditato come grande protagonista – della lotta al precariato.
Ben presto questa «storica impresa» si è rivelata un semplice bluff con il crollo delle assunzioni a tempo indeterminato appena trascorso l’anno d’oro 2015, ma quello che pochi sanno è che non si è trattato solo di un immenso dispendio di denaro pubblico senza adeguati risultati, ma, piuttosto, di un immenso furto di denaro pubblico perché consapevolmente versato, nei casi di trasformazioni di rapporti precari, a datori di lavoro i quali, 9 volte su 10 erano evasori e contravventori passibili di multe e recuperi contributivi da parte dell’Inps.
In secondo luogo vogliamo segnalare al lettore che la decontribuzione demagogica del governo ha dovuto drenare risorse per il suo «regalo agli evasori», ha dovuto abrogare il principale vero incentivo all’occupazione, che funzionava bene da oltre 20 anni, ossia quello previsto dall’art 8 l. 407/1990 per disoccupati e cassa integrati da più di 24 mesi.
Procediamo, però, con ordine: nel corso del 2015 si sono registrati 1,4 milioni di nuovi rapporti a tempo indeterminato incentivati ma, con quasi 500.000 trasformazioni di contratti a termine e quasi 100.00 di contratti di apprendistato, oltre alle trasformazioni di centinaia di migliaia di co.co.pro. (collaborazioni a progetto) figura giuridica abrogata dal 01.01.2016.
Proprio queste trasformazioni sono state le occasioni del rande furto di cui tra poco si dirà, dopo aver ricordato che nel 2016, quando la decontribuzione è stata ridotta per i contratti di quest’ultimo anno da 8.060 a 3.250 e la sua durata decurtata da 36 a 24 mesi. Allora è arrivato il risveglio dalla sbornia: infatti secondo l’Inps nei primi quattro mesi del 2016 si è avuta una diminuzione rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente addirittura del 78% dei contratti a tempo indeterminato mentre tornavano cosi a dominarlo i contratti precari e a termine e addirittura vouchers, forma di mercificazione definitiva del lavoro umano.
Il bluff così è stato scoperto ma non ancora il reato che esso nascondeva e che ora denunciamo: il fatto è che le molte centinaia di migliaia di trasformazioni dei contratti precari (delle tre principali tipologie del contratto a termine, apprendistato e a progetto) nascondevano una circostanza peraltro notissima agli operatori del mercato del lavoro, e cioè che essi erano quasi sempre irregolari. Infatti o mancava una causale precisa (contratti a termine), o mancava l’insegnamento (apprendistato), o mancava in realtà il progetto (co.co.pro.) con la conseguenza che per legge quei rapporti dovevano essere considerati già tutti a tempo indeterminato fin dal loro inizio. Per conseguenza non poteva essere concessa dall’Inps la decontribuzione connessa alla loro apparente trasformazione nei nuovi contratti a tutele crescenti perché, come detto, la stessa Legge 190/2014 vietava di concedere la decontribuzione con riguardo ai lavoratori che già fossero (in realtà) a tempo indeterminata nei sei mesi precedenti.
Quello che scandalizza, allora, è che l’Inps il quale era, per l’innanzi, ben attento a perseguire i rapporti precari irregolari, andando alla loro caccia e dichiarandoli a tempo indeterminato, cosi da poter recuperare la relativa contribuzione, sia improvvisamente convertito con l’arrivo del Jobs Act e della L.190/2014 al ruolo di pacifico e innocuo «ufficiale pagatore». Così da concedere, in automatico tutte le decontribuzioni richieste per le supposte trasformazioni di rapporti o precari invece di fare ciò che doveva fare, ossia una attentissimo screening o vaglio dei contratti precari in via di trasformazione, per escludere quelli irregolari, dai quali, era già sorto fin dal principio un rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
Quante sono state le trasformazioni fasulle? Difficile dirlo, naturalmente, ma ammesso che potessero essere anche solo 8 su 10 e cioè 500.000 circa in tutto, il danno ovvero furto di denaro pubblico può essere calcolato in miliardi di euro, tra gli 8 e 10 nell’arco del triennio. Ognuno può d’altro canto calcolare da sé le varie ipotesi quantitative, ricordando che la decontribuzione triennale per ogni contratto del 2015 è di 24.000.
Può essere che nessuna centrale sindacale senta il bisogno di portare queste semplicissime riflessioni ad una Procura della Corte dei Conti o anche della Magistratura penale?
E’ veniamo al secondo importante profilo: l’incentivazione dell’occupazione è uno dei punti più delicati della disciplina del mercato del lavoro può facilmente dar luogo ad effetti distorsivi. Ma su un concetto vi è un accordo unanime: che l’incentivazione più importante è quella che aiuti a reinserire nel circuito lavorativo chi ne è uscito da un tempo ormai cosi lungo da far temere una emarginazione definitiva.
A questo provvedeva l’art. 8 della Legge 407 /1990, il quale concedeva a chi avesse assunto a tempo indeterminato un disoccupato o cassaintegrato da più di 24 mesi, una decontribuzione per tre anni al 100% se l’imprenditore operante del centro sud o di qualifica artigiana e del 50% negli altri casi. La grande utilità della misura è testimoniata dalla circostanza che è durata per ben 25 anni fin quando Renzi l’ha abolita per finanziare le sue trasformazioni fasulle di contratti precari irregolari.
Decisamente la normativa del lavoro del governo Renzi e degli altri governi liberisti che l’hanno preceduto, scritta sotto dettatura di Confindustria, merita soltanto di essere abrogata e rifatta da capo a fondo

mercoledì 3 agosto 2016

Referendum, le bugie di Renzi

«Spero che il referendum si faccia il 2 ottobre», ha detto Matteo Renzi all’inizio di giugno in tv (Rai2). «Fosse per me lo farei subito», ha chiarito un mese dopo, sempre in diretta (Sky). Al contrario, il presidente del Consiglio sta cercando di spostare «la madre di tutte le battaglie» (definizione ancora sua) il più tardi possibile. Che è molto tardi, in teoria si può arrivare fino al 18 dicembre. Per non aprire le urne proprio sotto l’albero di Natale, al presidente del Consiglio andrebbe bene, adesso, l’ultima domenica di novembre, il 27. Quasi due mesi dopo i precedenti annunci. Cerca però di presentare questo rinvio come conseguenza naturale dei tempi tecnici e dell’incrocio con la legge di stabilità. Non si può votare durante la sessione di bilancio, spiegano Renzi e i suoi.
«A ottobre ci divertiremo», diceva il presidente del Consiglio quando ancora immaginava che il Sì potesse vincere facilmente il referendum costituzionale. Ora, non prevedendo più risate, sta cercando di azzerare la campagna elettorale per farla ripartire su basi completamente diverse dopo l’estate e soprattutto dopo una legge di stabilità che dovrebbe concedere nuove mance elettorali. Ora sostiene di non aver mai voluto personalizzare il voto sulla Costituzione, eppure è stato sempre lui a dire che «può votare no solo chi mi odia»
Se davvero le sue preoccupazioni fossero di ordine istituzionale, per evitare l’incrocio tra il referendum e la sessione di bilancio ci sarebbe tutto il tempo di votare prima che il parlamento cominci ad esaminare i conti. È vero, la legge impone al governo di presentare la stabilità alle camere (quest’anno si comincerà da Montecitorio) entro il 15 ottobre (e prima ancora i documenti andranno inviati a Bruxelles). Ma il governo Renzi l’anno scorso ha fatto arrivare la legge di stabilità in senato solo il 25 ottobre. Fino ad allora nemmeno le commissioni hanno visto un cifra. A ottobre 2016 ci sono dunque ben tre domeniche in cui si potrebbe andare a votare per il referendum prima che la manovra, con le sue annunciate elargizioni, impegni il parlamento: il 9, il 16 e il 23 di quel mese.
La legge concede al governo la possibilità di rimandare il consiglio dei ministri (che convoca il referendum) fino a 60 giorni dopo la comunicazione della Cassazione che le richieste di referendum sono regolari. La possibilità, non l’obbligo. Quanto alla comunicazione della Cassazione, questa sarebbe già arrivata non fosse per le firme che il Pd ha presentato in extremis. I giudici stanno discutendo se è il caso di sottoporle a immediata verifica o se si può soprassedere. Ne parleranno ancora dopodomani, giovedì. Se decidessero di procedere con la verifica delle firme, potrebbero ufficializzare il loro via libera al più tardi il 14 agosto. Anche allora se Renzi volesse essere di parola – «fosse per me voterei subito» – potrebbe convocare il consiglio dei ministri in tempi brevi, entro la fine di agosto, per votare prima della sessione di bilancio.
Ma giovedì i giudici della Cassazione potrebbero anche chiudere la questione, decidendo che non ha senso aspettare il conteggio delle firme dal momento che le richieste di referendum presentate dai parlamentari sono state già accolte. E così, convenienze governative a parte, il referendum potrebbe essere indetto per ottobre (dal presidente della Repubblica, che firma un decreto del governo) già la prossima settimana. Non c’è nulla di tecnico dietro la decisione di Renzi di allungare la campagna elettorale.

martedì 2 agosto 2016

Bologna, 2 agosto 1980

Il 2 agosto 1980, alle ore 10,25, una bomba esplose nella sala d'aspetto di seconda classe della stazione di Bologna.
Lo scoppio fu violentissimo, provocò il crollo soccorsidelle strutture sovrastanti le sale d'aspetto di prima e seconda classe dove si trovavano gli uffici dell'azienda di ristorazione Cigar e di circa 30 metri di pensilina. L'esplosione investì anche il treno Ancona-Chiasso in sosta al primo binario.
Il soffio arroventato prodotto da una miscela di tritolo e T4 tranciò i destini di persone provenienti da 50 città diverse italiane e straniere.
Il bilancio finale fu di 85 morti e 200 feriti. (testimonianze di Biacchesi e da "Il giorno")
La violenza colpì alla cieca cancellando a casaccio vite, sogni, speranze.
Maria Fresu si trovava nella sala della bomba con la figlia Angela di tre anni. Stavano partendo con due amiche per una breve vacanza sul lago di Garda. Il corpicino della piccola, la più giovane delle vittime, venne ritrovato subito. Solo il 29 dicembre furono riconosciuti i resti della madre.
Marina Trolese, 16 anni, venne ricoverata all'ospedale Maggiore, il corpo devastato dalle ustioni. Con la sorella Chiara, 15 anni, era in partenza per l'Inghilterra. Le avevano accompagnate il fratello Andrea, e la madre Anna Maria Salvagnini. Il corpo di quest'ultima venne ritrovato dopo ore di scavo tra le macerie. Andrea e Chiara portano ancora sul corpo e nell'anima i segni dello scoppio. Marina morì dieci giorni dopo l'esplosione tra atroci sofferenze.
Torquato Secci, impiegato alla Snia di Terni, venne allertato dalla telefonata di un amico del figlio Sergio, Ferruccio, che si trovava a Verona. Sergio lo aveva informato che a causa del ritardo del treno sul quale viaggiava, proveniente dalla Toscana, aveva perso una coincidenza a Bologna e aveva dovuto aspettare il treno successivo.
Poi non ne aveva più saputo nulla.
Solo il giorno successivo, telefonando all'Ufficio assistenza del Comune di Bologna, Secci scoprì che suo figlio era ricoverato al reparto Rianimazione dell'ospedale Maggiore.
"Mi venne incontro un giovane medico, che con molta calma cercò di prepararmi alla visione che da lì a poco mi avrebbe fatto inorridire", ha scritto Secci, "la visione era talmente brutale e agghiacciante che mi lasciò senza fiato. Solo dopo un po' mi ripresi e riuscii a dire solo poche e incoraggianti parole accolte da Sergio con l'evidente, espressa consapevolezza di chi, purtroppo teme di non poter subire le conseguenze di tutte le menomazioni e lacerazioni che tanto erano evidenti sul suo corpo".
Nel 1981 Torquato Secci diventò presidente dell'Associazione tra i familiari delle vittime della strage.
La città si trasformò in una gigantesca macchina di soccorso e assistenza per le vittime, i sopravvissuti e i loro parenti.
soccorsiI vigili del fuoco dirottarono sulla stazione un autobus, il numero 37, che si trasformò in un carro funebre.
E' lì che vennero deposti e coperti da lenzuola bianche i primi corpi estratti dalle macerie.
Alle 17,30, il presidente della Repubblica Sandro Pertini arrivò in elicottero all'aeroporto di Borgo Panigale e si precipitò all'ospedale Maggiore dove era stata allestita una delle tre camere mortuarie.
Per poche ore era circolata l'ipotesi che la strage fosse stata provocata dall'esplosione di una caldaia ma, quando il presidente arrivò a Bologna, era già stato trovato il cratere provocato da una bomba.
Incontrando i giornalisti Pertini non nasconse lo sgomento: "Signori, non ho parole" disse,"siamo di fronte all'impresa più criminale che sia avvenuta in Italia".
Ancora prima dei funerali, fissati per il 6 agosto, si svolsero manifestazioni in Piazza Maggiore a testimonianza delle immediate reazioni della città.
Il giorno fissato per la cerimonia funebre nella basilica di San Petronio, si mescolano in piazza rabbia e dolore.
Solo 7 vittime ebbero il funerale di stato.

lunedì 1 agosto 2016

Barattare la Carta con un mini-Italicum

SECONDO la suggestiva proposta della costituzionalista Lorenza Carlassare, l’Italicum costituisce il “perno” della riforma costituzionale Renzi-Boschi. Il suo scopo sarebbe infatti quello di «verticalizzare il potere e gestirlo senza ostacoli e limiti da parte di nessuno, cittadini compresi ». Tesi che è confermata, da un lato, dai tempi di approvazione delle due leggi (prima l’Italicum e poi la riforma costituzionale) e, dall’altro, dalla ritrosia di Matteo Renzi ad accettare il suggerimento di giornalisti, imprenditori e banchieri, di assegnare l’abnorme premio di maggioranza alla coalizione anziché alla lista più votata. Se infatti l’Italicum è stato davvero pensato come il perno della riforma costituzionale, assegnare il premio alla coalizione anziché alla lista impedirebbe quella personalizzazione del potere, che costituisce l’obiettivo di Renzi.
È bensì vero che il premio alla coalizione eviterebbe i diffusi timori nei confronti dell’“uomo solo al comando”, ma, a parte il fatto che questa sola modifica non eliminerebbe i vari vizi di legittimità che caratterizzano l’Italicum — su cui la Corte costituzionale è già stata ripetutamente chiamata a pronunciarsi — , ciò che non viene evidenziato nel dibattito in corso è che il costo del baratto (il Sì alla riforma costituzionale) sarebbe comunque eccessivamente elevato, quand’anche l’Italicum fosse radicalmente modificato.
La riforma costituzionale non solo viola i principi supremi della Costituzione, ma è addirittura confusa e pasticciata, come è testimoniato dai rilievi critici di ben 20 ex giudici costituzionali (10 ex presidenti e 10 ex vicepresidenti!) e dei più autorevoli costituzionalisti, che qui di seguito cercherò di sintetizzare.
Il Senato verrebbe eletto dai consigli regionali e non dal popolo, nonostante l’elettività “diretta” costituisca, per la Corte costituzionale (sentenza n. 1 del 2014), il fulcro della sovranità popolare. Ciò nondimeno eserciterebbe le funzioni sia legislativa sia di revisione costituzionale. Sarebbe composto da 95 senatori che, nel contempo, dovrebbero svolgere le funzioni di consigliere regionale o di sindaco — il che renderebbe praticamente impossibile il puntuale adempimento delle funzioni loro assegnate — e da cinque senatori nominati, per altissimi meriti, dal presidente della Repubblica per la stessa durata del capo dello Stato (sic!). Poiché la carica di senatore sarebbe connessa a quella di consigliere regionale o di sindaco, l’identità dei 95 senatori cambierebbe continuamente, una volta scaduti dalla carica di consigliere regionale o di sindaco. Inoltre, il Senato eleggerebbe, da solo, ben due giudici costituzionali, il che introdurrebbe nella Corte costituzionale una pericolosa logica corporativa.
Il Senato non avrebbe natura territoriale, come erroneamente si ritiene dai sostenitori del Sì. L’elezione da parte dei consigli regionali avrebbe infatti una generica natura politico-partitica, non essendo previsti né il vincolo di mandato né l’identico numero di senatori per ogni Regione: elementi necessari perché la rappresentanza sia davvero “territoriale”. Il “nuovo” articolo 55 afferma che «il Senato della Repubblica rappresenta le istituzioni territoriali » ma, a ben vedere, è un mero flatus vocis. Il Senato continuerebbe infatti ad operare come organo dello Stato. Quanto al procedimento legislativo, dai due tipi attualmente esistenti (quello normale e la conversione dei decreti legge) si passerebbe, con la “nuova” Costituzione, ad almeno otto procedimenti “formalmente” diversi, con il rischio di potenziali conflitti tra le Camere o addirittura di incostituzionalità delle leggi.
Nel rapporto Stato-Regioni, la riforma è tutta sbilanciata a favore del potere centrale. Le cinque Regioni a statuto speciale, alle quali non si applica la riforma, risulterebbero ingiustamente privilegiate, laddove le Regioni ad autonomia ordinaria verrebbero private della potestà legislativa concorrente, superficialmente accusata di essere la causa dell’immane contenzioso costituzionale Stato- Regioni. Nella riforma è infatti prevista la sola potestà legislativa esclusiva, sia per lo Stato in ben 51 materie, sia per le Regioni in una quindicina di materie prevalentemente organizzative. Conseguentemente, materie importanti quali la circolazione stradale, i lavori pubblici, l’industria, l’agricoltura e l’attività mineraria — di cui non si parla nella riforma — è dubbio che spetterebbero alle Regioni oppure allo Stato. Invece, materie tipicamente autonomistiche quali le politiche sociali, il governo del territorio e l’ambiente verrebbero irrazionalmente attribuite allo Stato.
Infine, quanto al sindacato parlamentare, mentre è stato eliminato il Senato come contropotere esterno, non vengono previsti contropoteri politici interni, in quanto il “nuovo” art. 64 si limita a rinviare la «disciplina lo statuto delle opposizioni » al futuro regolamento della Camera dei deputati. E poiché è noto che i regolamenti parlamentari sarebbero approvati a maggioranza assoluta dei componenti dell’assemblea, ne segue che se l’Italicum restasse in vigore, sarebbe la maggioranza governativa a regolamentare lo statuto delle opposizioni.