SECONDO la suggestiva proposta della costituzionalista Lorenza
Carlassare, l’Italicum costituisce il “perno” della riforma
costituzionale Renzi-Boschi. Il suo scopo sarebbe infatti quello di
«verticalizzare il potere e gestirlo senza ostacoli e limiti da parte di
nessuno, cittadini compresi ». Tesi che è confermata, da un lato, dai
tempi di approvazione delle due leggi (prima l’Italicum e poi la riforma
costituzionale) e, dall’altro, dalla ritrosia di Matteo Renzi ad
accettare il suggerimento di giornalisti, imprenditori e banchieri, di
assegnare l’abnorme premio di maggioranza alla coalizione anziché alla
lista più votata. Se infatti l’Italicum è stato davvero pensato come il
perno della riforma costituzionale, assegnare il premio alla coalizione
anziché alla lista impedirebbe quella personalizzazione del potere, che
costituisce l’obiettivo di Renzi.
È bensì vero che il premio alla coalizione eviterebbe i diffusi timori nei confronti dell’“uomo solo al comando”, ma, a parte il fatto che questa sola modifica non eliminerebbe i vari vizi di legittimità che caratterizzano l’Italicum — su cui la Corte costituzionale è già stata ripetutamente chiamata a pronunciarsi — , ciò che non viene evidenziato nel dibattito in corso è che il costo del baratto (il Sì alla riforma costituzionale) sarebbe comunque eccessivamente elevato, quand’anche l’Italicum fosse radicalmente modificato.
La riforma costituzionale non solo viola i principi supremi della Costituzione, ma è addirittura confusa e pasticciata, come è testimoniato dai rilievi critici di ben 20 ex giudici costituzionali (10 ex presidenti e 10 ex vicepresidenti!) e dei più autorevoli costituzionalisti, che qui di seguito cercherò di sintetizzare.
Il Senato verrebbe eletto dai consigli regionali e non dal popolo, nonostante l’elettività “diretta” costituisca, per la Corte costituzionale (sentenza n. 1 del 2014), il fulcro della sovranità popolare. Ciò nondimeno eserciterebbe le funzioni sia legislativa sia di revisione costituzionale. Sarebbe composto da 95 senatori che, nel contempo, dovrebbero svolgere le funzioni di consigliere regionale o di sindaco — il che renderebbe praticamente impossibile il puntuale adempimento delle funzioni loro assegnate — e da cinque senatori nominati, per altissimi meriti, dal presidente della Repubblica per la stessa durata del capo dello Stato (sic!). Poiché la carica di senatore sarebbe connessa a quella di consigliere regionale o di sindaco, l’identità dei 95 senatori cambierebbe continuamente, una volta scaduti dalla carica di consigliere regionale o di sindaco. Inoltre, il Senato eleggerebbe, da solo, ben due giudici costituzionali, il che introdurrebbe nella Corte costituzionale una pericolosa logica corporativa.
Il Senato non avrebbe natura territoriale, come erroneamente si ritiene dai sostenitori del Sì. L’elezione da parte dei consigli regionali avrebbe infatti una generica natura politico-partitica, non essendo previsti né il vincolo di mandato né l’identico numero di senatori per ogni Regione: elementi necessari perché la rappresentanza sia davvero “territoriale”. Il “nuovo” articolo 55 afferma che «il Senato della Repubblica rappresenta le istituzioni territoriali » ma, a ben vedere, è un mero flatus vocis. Il Senato continuerebbe infatti ad operare come organo dello Stato. Quanto al procedimento legislativo, dai due tipi attualmente esistenti (quello normale e la conversione dei decreti legge) si passerebbe, con la “nuova” Costituzione, ad almeno otto procedimenti “formalmente” diversi, con il rischio di potenziali conflitti tra le Camere o addirittura di incostituzionalità delle leggi.
Nel rapporto Stato-Regioni, la riforma è tutta sbilanciata a favore del potere centrale. Le cinque Regioni a statuto speciale, alle quali non si applica la riforma, risulterebbero ingiustamente privilegiate, laddove le Regioni ad autonomia ordinaria verrebbero private della potestà legislativa concorrente, superficialmente accusata di essere la causa dell’immane contenzioso costituzionale Stato- Regioni. Nella riforma è infatti prevista la sola potestà legislativa esclusiva, sia per lo Stato in ben 51 materie, sia per le Regioni in una quindicina di materie prevalentemente organizzative. Conseguentemente, materie importanti quali la circolazione stradale, i lavori pubblici, l’industria, l’agricoltura e l’attività mineraria — di cui non si parla nella riforma — è dubbio che spetterebbero alle Regioni oppure allo Stato. Invece, materie tipicamente autonomistiche quali le politiche sociali, il governo del territorio e l’ambiente verrebbero irrazionalmente attribuite allo Stato.
Infine, quanto al sindacato parlamentare, mentre è stato eliminato il Senato come contropotere esterno, non vengono previsti contropoteri politici interni, in quanto il “nuovo” art. 64 si limita a rinviare la «disciplina lo statuto delle opposizioni » al futuro regolamento della Camera dei deputati. E poiché è noto che i regolamenti parlamentari sarebbero approvati a maggioranza assoluta dei componenti dell’assemblea, ne segue che se l’Italicum restasse in vigore, sarebbe la maggioranza governativa a regolamentare lo statuto delle opposizioni.
È bensì vero che il premio alla coalizione eviterebbe i diffusi timori nei confronti dell’“uomo solo al comando”, ma, a parte il fatto che questa sola modifica non eliminerebbe i vari vizi di legittimità che caratterizzano l’Italicum — su cui la Corte costituzionale è già stata ripetutamente chiamata a pronunciarsi — , ciò che non viene evidenziato nel dibattito in corso è che il costo del baratto (il Sì alla riforma costituzionale) sarebbe comunque eccessivamente elevato, quand’anche l’Italicum fosse radicalmente modificato.
La riforma costituzionale non solo viola i principi supremi della Costituzione, ma è addirittura confusa e pasticciata, come è testimoniato dai rilievi critici di ben 20 ex giudici costituzionali (10 ex presidenti e 10 ex vicepresidenti!) e dei più autorevoli costituzionalisti, che qui di seguito cercherò di sintetizzare.
Il Senato verrebbe eletto dai consigli regionali e non dal popolo, nonostante l’elettività “diretta” costituisca, per la Corte costituzionale (sentenza n. 1 del 2014), il fulcro della sovranità popolare. Ciò nondimeno eserciterebbe le funzioni sia legislativa sia di revisione costituzionale. Sarebbe composto da 95 senatori che, nel contempo, dovrebbero svolgere le funzioni di consigliere regionale o di sindaco — il che renderebbe praticamente impossibile il puntuale adempimento delle funzioni loro assegnate — e da cinque senatori nominati, per altissimi meriti, dal presidente della Repubblica per la stessa durata del capo dello Stato (sic!). Poiché la carica di senatore sarebbe connessa a quella di consigliere regionale o di sindaco, l’identità dei 95 senatori cambierebbe continuamente, una volta scaduti dalla carica di consigliere regionale o di sindaco. Inoltre, il Senato eleggerebbe, da solo, ben due giudici costituzionali, il che introdurrebbe nella Corte costituzionale una pericolosa logica corporativa.
Il Senato non avrebbe natura territoriale, come erroneamente si ritiene dai sostenitori del Sì. L’elezione da parte dei consigli regionali avrebbe infatti una generica natura politico-partitica, non essendo previsti né il vincolo di mandato né l’identico numero di senatori per ogni Regione: elementi necessari perché la rappresentanza sia davvero “territoriale”. Il “nuovo” articolo 55 afferma che «il Senato della Repubblica rappresenta le istituzioni territoriali » ma, a ben vedere, è un mero flatus vocis. Il Senato continuerebbe infatti ad operare come organo dello Stato. Quanto al procedimento legislativo, dai due tipi attualmente esistenti (quello normale e la conversione dei decreti legge) si passerebbe, con la “nuova” Costituzione, ad almeno otto procedimenti “formalmente” diversi, con il rischio di potenziali conflitti tra le Camere o addirittura di incostituzionalità delle leggi.
Nel rapporto Stato-Regioni, la riforma è tutta sbilanciata a favore del potere centrale. Le cinque Regioni a statuto speciale, alle quali non si applica la riforma, risulterebbero ingiustamente privilegiate, laddove le Regioni ad autonomia ordinaria verrebbero private della potestà legislativa concorrente, superficialmente accusata di essere la causa dell’immane contenzioso costituzionale Stato- Regioni. Nella riforma è infatti prevista la sola potestà legislativa esclusiva, sia per lo Stato in ben 51 materie, sia per le Regioni in una quindicina di materie prevalentemente organizzative. Conseguentemente, materie importanti quali la circolazione stradale, i lavori pubblici, l’industria, l’agricoltura e l’attività mineraria — di cui non si parla nella riforma — è dubbio che spetterebbero alle Regioni oppure allo Stato. Invece, materie tipicamente autonomistiche quali le politiche sociali, il governo del territorio e l’ambiente verrebbero irrazionalmente attribuite allo Stato.
Infine, quanto al sindacato parlamentare, mentre è stato eliminato il Senato come contropotere esterno, non vengono previsti contropoteri politici interni, in quanto il “nuovo” art. 64 si limita a rinviare la «disciplina lo statuto delle opposizioni » al futuro regolamento della Camera dei deputati. E poiché è noto che i regolamenti parlamentari sarebbero approvati a maggioranza assoluta dei componenti dell’assemblea, ne segue che se l’Italicum restasse in vigore, sarebbe la maggioranza governativa a regolamentare lo statuto delle opposizioni.
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