Il nostro Paese è attanagliato dalla crescita zero. La crescita zero è
condivisa solo dalla Francia (malata con mali simili a quelli nostri)
che però annualmente raddoppia su di noi): più 1,4% contro il nostro
magro 0,7%: quindi finite le scuse su Brexit (che fino al 30 giugno non
può avere influenzato alcunchè: il Regno Unito è cresciuto al 2,2%
l’anno) o il terrorismo, rimane come unica ancora cui aggrapparsi la
trita storia dei vincoli europei.
La parola d’ordine è “flessibilità” ottenuta la quale il governo potrebbe varare una mano espansiva in grado di dare ossigeno alla nostra boccheggiante economia. Più nello specifico, sia della politica che delle imprese, si invoca una revisione del limite dell’1,8% al deficit pubblico concordato con la Commissione Europea per il 2017.
Dobbiamo porci due domande fondamentali: è vero che finora abbiamo patito più degli altri per colpa dell’austerità? E ci convengono queste mitiche politiche “espansive”?
Sotto il primo profilo è difficile affermare che la pubblica amministrazione abbia tirato la cinghia in Italia? Se prendiamo gli ultimi tre anni completi in Italia, dal 2013 al 2015, notiamo che la spesa pubblica ha rappresentato rispettivamente il 51%, il 51,2% e il 5,5% del Pil, una dinamica che non catalogherei come draconiana. Ed attenzione, insomma, dal 2013 se eliminiamo la spesa per interessi passivi, abbiamo addirittura aumentato un po’ la spesa che comunque nel triennio è piatta come l’olio. Anche a voler calcolare in modo diverso i famosi 80 euro (come diminuzione di tasse e non aumento di spesa come invece li considerano le statistiche Eurostat), il saldo finale, cioè il debito pubblico, non cambia (2,9% nel 2013, 3,0% nel 2014 e 2,6% nel 2015) a conferma che sulla flessibilità abbiamo già ottenuto parecchio, per la precisione l’1,7% negli ultimi tre anni (compreso il 2016 quando il disavanzo dovrebbe attestarsi sul 2,3% del Pil e, a quanto pare, non ne abbiamo tratto grandi benefici). Insomma, salvo che per il costo del debito, la spesa pubblica non cala di un grammo. E la ragione per cui a differenza dei mega deficit di Spagna, Regno Unito e Irlanda che, dopo aver dilatato la loro spesa nel 2010-2011, hanno intrapreso una via di rigore ed ora crescono che è una bellezza. Noi non possiamo farlo per la pesantezza del fardello del nostro debito che è il 132,7 % del nostro Pil e che pure quest’anno con ogni probabilità resterà allo stesso livello.
Insomma anche nel documento di programmazione economica e finanziaria si dice che se diamo l’impressione che non riusciamo a controllare il debito e per di più cresciamo poco si può creare una spirale negativa di percezione che aumenta i tassi richiesti dai creditori, il che aumenta il deficit e il debito e così via.
Insomma pensare di curare i mali italiani con la “flessibilità” è una pia illusione e dovremmo alla fine rendercene conto.
La parola d’ordine è “flessibilità” ottenuta la quale il governo potrebbe varare una mano espansiva in grado di dare ossigeno alla nostra boccheggiante economia. Più nello specifico, sia della politica che delle imprese, si invoca una revisione del limite dell’1,8% al deficit pubblico concordato con la Commissione Europea per il 2017.
Dobbiamo porci due domande fondamentali: è vero che finora abbiamo patito più degli altri per colpa dell’austerità? E ci convengono queste mitiche politiche “espansive”?
Sotto il primo profilo è difficile affermare che la pubblica amministrazione abbia tirato la cinghia in Italia? Se prendiamo gli ultimi tre anni completi in Italia, dal 2013 al 2015, notiamo che la spesa pubblica ha rappresentato rispettivamente il 51%, il 51,2% e il 5,5% del Pil, una dinamica che non catalogherei come draconiana. Ed attenzione, insomma, dal 2013 se eliminiamo la spesa per interessi passivi, abbiamo addirittura aumentato un po’ la spesa che comunque nel triennio è piatta come l’olio. Anche a voler calcolare in modo diverso i famosi 80 euro (come diminuzione di tasse e non aumento di spesa come invece li considerano le statistiche Eurostat), il saldo finale, cioè il debito pubblico, non cambia (2,9% nel 2013, 3,0% nel 2014 e 2,6% nel 2015) a conferma che sulla flessibilità abbiamo già ottenuto parecchio, per la precisione l’1,7% negli ultimi tre anni (compreso il 2016 quando il disavanzo dovrebbe attestarsi sul 2,3% del Pil e, a quanto pare, non ne abbiamo tratto grandi benefici). Insomma, salvo che per il costo del debito, la spesa pubblica non cala di un grammo. E la ragione per cui a differenza dei mega deficit di Spagna, Regno Unito e Irlanda che, dopo aver dilatato la loro spesa nel 2010-2011, hanno intrapreso una via di rigore ed ora crescono che è una bellezza. Noi non possiamo farlo per la pesantezza del fardello del nostro debito che è il 132,7 % del nostro Pil e che pure quest’anno con ogni probabilità resterà allo stesso livello.
Insomma anche nel documento di programmazione economica e finanziaria si dice che se diamo l’impressione che non riusciamo a controllare il debito e per di più cresciamo poco si può creare una spirale negativa di percezione che aumenta i tassi richiesti dai creditori, il che aumenta il deficit e il debito e così via.
Insomma pensare di curare i mali italiani con la “flessibilità” è una pia illusione e dovremmo alla fine rendercene conto.
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