venerdì 10 dicembre 2021

La Troika al Quirinale

 Una crisi costituzionale è il momento in cui le molte differenze – o aperte contraddizioni – tra la “costituzione reale” e quella “formale” di un Paese non sono più mediabili dal normale gioco politico.

In primo luogo perché poteri neanche previsti dall’impianto costituzionale originario sono diventati così forti e pervasivi da non tollerare più il vecchio abito “formale”, e premono senza più molti limiti per farsene cucire addosso uno nuovo, adatto alle proprie esigenze.

In secondo (e di conseguenza) perché i partiti politici non esistono di fatto più, liquefatti – nella propria funzione e ruolo – proprio da quei poteri che hanno scavato gallerie destabilizzanti nel vecchio edificio costituzionale, a forza di “ritocchi” che ne hanno compromesso la struttura.

Molti ricordano la “riforma del Titolo V” – responsabilità assoluta del Pd, o come si chiamava allora quella banda criminale – che ha “regionalizzato” molte competenze dello Stato centrale, a cominciare dalla sanità pubblica. 

L’effetto promesso era una “maggiore vicinanza agli interessi dei cittadini”, il risultato concreto è stato l’opposto (con intere aree del territorio ormai prive di strutture ambulatoriali, ospedaliere, di medicina territoriale).

Un deserto voluto, in cui ha potuto svilupparsi la privatizzazione della sanità e della stessa “politica”, ridotta a complicità con interessi aziendali espliciti o anche innominabili.

Ma neanche quella riforma è stata fatale per la “Costituzione nata dalla resistenza”, per quanto privasse tutti noi di un diritto certo esigibile in egual misura in qualsiasi angolo del territorio nazionale.

Fatali sono state invece due altre “riforme” passate con l’approvazione pressoché unanime di tutte le bande presenti in Parlamento (464 sì, 0 no e 11 astenuti alla Camera, 255 sì, 0 no e 14 astenuti al Senato, in prima lettura).

Quella dell’articolo 81, che ora prevede: «Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico. Il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali. Ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri provvede ai mezzi per farvi fronte».

Si tratta dell’obbligo al pareggio di bilancio, che implica l’impossibilità di spendere in deficit per far fronte a situazioni di crisi e dunque vincola ogni possibile scelta politica – con qualsiasi maggioranza di governo – a rispettare un equilibrio ideale che nella realtà non esiste mai.

Ma ancor più decisiva e “distorcente” è la nuova versione dell’art. 119: “I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa, nel rispetto dell’equilibrio dei relativi bilanci, e concorrono ad assicurare l’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea.

L’”autonomia” di ogni istituzione della Repubblica italiana, ad ogni livello, è quindi subordinata per Costituzione alle decisioni “superiori” della UE. Una subordinazione che fissa – come si vede con le 528 “condizionalità” del recovery Fund – non soltanto i limiti di bilancio entro cui si possono prendere decisioni diverse, ma anche le priorità nelle decisioni di spesa e di entrate fiscali.

Con queste due norme “costituzionalizzate” l’autonomia del Paese è stata di fatto annullata. Possiamo mettere insieme una squadra per vincere i campionati europei in qualsiasi sport, ma non si può più scegliere quale destino, quali obiettivi, quali priorità sociali vogliamo soddisfare.

Sono vincoli politici imposti per via economica e con la forza dei trattati internazionali (non sottoponibili a referendum!), che inchiodano per sempre le scelte di qualsiasi governo futuro (anche “socialista”, in astratto) al ricettario classico del neoliberismo senza .sfreni adottato come marchio di fabbrica nella UE.

Ma se la politica è vincolata, è chiaro che la presenza di partiti tra loro diversi è un lusso che non ci si può più permettere. Ognuno dovrà e potrà promettere in campagna elettorale solo quello che effettivamente può fare (nulla o quasi, sulle questioni economiche essenziali, decise preventivamente dalla UE) o qualcosa di abbastanza shoccante sulle questioni che costano poco (diritti civili sì o no, trattamento dei migranti, sia regolari che non, politiche securitarie… robetta così, insomma). 

Poi, certo, si può promettere la luna in qualsiasi campo. Ma dopo dieci anni – tanti ne sono passati da quest’ultima riforma costituzionale, fatta su ordinazione durate il governo di Mario Monti – è chiaro anche per un terrapiattista che si tratta solo di chiacchiere.

Ma una classe politica che non ha più la possibilità di decidere nulla sulle questioni strategiche  – politiche economiche e industriali, alleanze militari o diplomatiche, ecc – inevitabilmente decade al livello dell’amministrazione di condominio. Con le “qualità”, la “lungimiranza”, l’”autonomia decisionale” e persino lo stile linguistico di un’assemblea di condominio.

E’ a questo punto che arriva l’investitura di Mario Draghi come monarca pro tempore del vicereame d’Italia. E’ stato un componente fondamentale della Troika che ha distrutto la Grecia con un “esperimento” che doveva valere come monito per tutti i 27 paesi della Ue. A lui non c’è necessità di spiegare pazientemente cosa va fatto e cosa va distrutto….

L’arco temporale da assicurare sono i sei anni di durata del Recovery Fund (con le misure racchiuse nel Pnrr), con impegni che richiedono grande “stabilità” nella governance, altrimenti la “rivoluzione reazionaria neoliberista” prevista da quelle norme fissate in Trattati verrebbe messa a rischio.

Casualmente, questo arco temporale coincide quasi completamente con il nuovo settennato della Presidenza della Repubblica. Ed è meglio, molto meglio, per i poteri multinazionali ed “europeisti”, che il loro esponente Mario Draghi continui a guidare “la transizione” da quello scranno.

Non si può infatti rischiarlo in una normale competizione elettorale (nel 2023, a fine legislatura), perché la società spaventata e incazzosa potrebbe facilmente rovesciare anche su di lui il livore per un impoverimento crescente di cui non si vede il fondo né la fine. Potrebbe insomma fare la fine di Mario Monti, alle elezioni del 2013.

Dal Quirinale, invece, potrebbe continuare a formare governi – con chiunque e/o tutti dentro – per assicurare la continuità di una politica subordinata alle decisioni europee, ovvero del capitale multinazionale qui basato.

L’istituto della Presidenza ha del resto perso, nel corso degli anni, molte delle sue caratteristiche “notarili”, di puro rispetto formale delle decisioni politiche del Parlamento. Le antiche “esternazioni” di Francesco Cossiga furono probabilmente la prima manifestazione di questo mutamento di ruolo che è venuto consolidandosi negli anni. Ma sono nulla rispetto a quello che hanno poi fatto i suoi successori (Ciampi, Scalfaro, Napolitano, Mattarella), che hanno deciso quali governi potevano esser composti e quali invece stoppati, quali sostenuti e quali logorati.

Mario Draghi avrebbe insomma una lunga serie di precedenti cui appoggiarsi per mascherare quella che in ogni caso è una forzatura costituzionale verso il presidenzialismo di fatto.

Con due differenze importanti. 

Draghi al Quirinale significa mettere in pratica un trasferimento palese di poteri e prerogative dal Parlamento alla Presidenza della Repubblica. Rinviando alla prossima legislatura il compito di “formalizzare” questa trasformazione del Presidente in “super-capo del governo”, con una specifica “riforma costituzionale”.

I “precedenti” di protagonismo presidenziale sono stati in fondo tutti “necessitati” dall’impossibilità politica – in determinati momenti – di trovare soluzioni efficaci per tenere insieme interessi sociali in parte di dimensioni “nazionali” e vincoli europei.

L’insediamento di Re Draghi dovrà invece segnare una svolta decisa in direzione della prevalenza dell’”Europa”, come da art. 119.

Per far questo, però, bisognerà fare un’altra piccola serie di forzature costituzionali, alcune delle quali raccolte in un articolo dell’ultra-draghiana Repubblica, che vi riproponiamo. Ma, come detto all’inizio, se tra Costituzione Reale e Costituzione Formale si viene a creare una discrasia violenta, è sempre il potere della realtà a prevalere, scrivendo un “nuovo testamento” che gli stia a pennello.

E’ un golpe dei Palazzi, naturalmente. Una Restaurazione, contro ogni possibile – e necessaria – Rivoluzione. Che mette fuorilegge non tanto Keynes, quanto la Resistenza.

martedì 23 novembre 2021

Se L’Unione Europea si fa superstato e manda in soffitta il “soft power”

 A che punto è il processo di centralizzazione dei poteri decisionali in Unione Europea? Le tendenze e le controtendenze che via via stanno agendo sulle resistenze degli stati nazionali, vedranno nascere un organismo complesso capace di competere a livello globale con gli altri giganti come Usa e Cina? E tale organismo potrà assumere le forme inedite di un superstato con caratteristiche imperialiste?

Su queste domande e su una decostruzione complessiva del Recovery Plan che intende conformare un gigantesco processo di ristrutturazione (e destrutturazione) a livello europeo, si è discusso sabato e domenica scorsi a Bologna nel forum organizzato dalla Rete dei Comunisti.

Più di 120 persone, in larghissima parte giovani, hanno seguito con una attenzione che indubbiamente colpisce, tutte e tre le sessioni dei lavori.

I lavori del Forum hanno visto alternarsi relazioni e contributi al dibattito seguendo la traccia indicata nella relazione introduttiva che ha ricalcato il documento di convocazione del forum.

Diverse relazioni hanno approfondito la decostruzione del Recovery Plan europeo e del Pnrr italiano (Della Porta, Pollio, Grasso, Cararo) analizzandone gli assi strategici e le conseguenze sul piano economico/sociale, ambientale, politico/militare. 

Altre relazioni hanno analizzato il “dispotismo europeo” che ormai pare ispirare il sistema decisionale costruito intorno agli apparati politici e finanziari (Russo) e il processo che ha portato all’esercito europeo (Russo Spena), un’altra ha ricostruito le dimensioni della competizione monetaria tra i grandi blocchi (Vasapollo), una relazione ha messo a fuoco la crisi di egemonia degli Usa e il tentativo della Ue di riempire il buco (Piccioni). 

Infine la relazione conclusiva ha attualizzato – alla luce dei nuovi scenari – la proposta di un’area euromediterranea(ispirata all’Alba latinoamericana) come alternativa alla gabbia dell’Unione Europea e momento di passaggio in un processo di transizione economico/sociale/monetario e di cooperazione internazionale, in antagonismo al colonialismo e alla Nato (Marchetti).

Diversi i contributi alla discussione: da Giorgio Cremaschi all’economista Ernesto Screpanti, da Matteo Giardiello dell’ex Opg a Max Gazzola di Spread.it agli studenti di Cambiare Rotta.

Gli spunti, le analisi ma anche le prime conclusioni, consentono di ricavare una visione organica del processo in corso nell’Unione Europea e delle sue ambizioni nella competizione inter-imperialista che si va ormai delineando chiaramente.

Le relazioni saranno ben presto a disposizione in un numero monografico di Contropiano rivista che diventerà l’occasione per nuovi incontri e approfondimenti.

mercoledì 10 novembre 2021

La destra europea e il “fascismo libertario”

 Il conglomerato transnazionale – in cui è raggruppato il complesso industriale, militare e digitale – non conosce differenze politiche quando si tratta di aumentare il proprio potere. Oggi parte dei suoi interessi sono racchiusi nel fascismo libertario. 

La sua ascesa si veste di un discorso nazionalista, omofobo, razzista, xenofobo e anti-islamista. È vero, non tutti condividono questa ideologia al cento per cento.

La Lega Nord, guidata da Matteo Salvini in Italia, o il Fronte Nazionale – ribattezzato Raggruppamento Nazionale – guidato da Marine Le Pen in Francia, marcano le distanze con la fuorilegge Alba Dorata in Grecia o con i suoi omologhi nell’ex Europa dell’Est. 

Tuttavia, la loro presenza non è più marginale. Oggi rappresentano un’alta percentuale di elettori. Sono diventati imprescindibili per formare i governi e sono presenti nei municipi, nei Parlamenti e nelle comunità autonome.

L’ideologia neofascista si ricompone sotto un discorso libertario. Tra i nuovi nomi possiamo citare Éric Zemmour in Francia o Giorgia Meloni in Italia. La destra si sta allineando verso posizioni totalitarie radicate in un individualismo esacerbato. Il suo obiettivo: mettere le libertà individuali in cima alle proprie rivendicazioni.

Tuttavia, non è nemmeno necessario creare nuove organizzazioni, il fascismo libertario si annida nella destra conservatrice e nei partiti liberali. I loro punti di unione rendono completamente sfumata la differenza tra fascismo di destra e libertario. 

Per verificarlo, prendiamo l’esempio della neopresidente della Comunità di Madrid, la “popolare” Isabel Díaz Ayuso. Tra le sue frasi, per non dimenticare la sua rivendicazione libertaria, possiamo citare: “né stati di allarme, né confinamenti“, “bisogna imparare a convivere con il virus“,  “se si spinge troppo su ristoranti e bar, alla fine il contagio va alle case“, “i cittadini, non potendo fumare, non comprendendo le regole, finiscono per recarsi nelle proprie abitazioni“, “è un crimine, in Catalogna, con il clima che hanno, tenere tutto chiuso, avere persone ferme nelle loro case“, “libertà o comunismo“.

Il fascismo libertario non ha bisogno di essere in maggioranza, e nemmeno di diventare un partito alla vecchia maniera hitleriana o fascista, la sua funzione è un’altra: far pendere l’ago della bilancia ed essere la chiave per le forze conservatrici per governare senza contrappeso, prestando il loro appoggio ai governi di minoranza. 

I casi più eclatanti: Estonia, Finlandia, Slovacchia, Slovenia, Austria, Romania, Moldavia o Lituania. In Spagna, Vox ha facilitato il ritorno al governo del Partito Popolare in due comunità autonome: Madrid e Andalusia. Il cosiddetto “cordone sanitario” è un eufemismo. Solo in Germania si mantiene e le ragioni sono ovvie.

Nel 2021, anno di pandemia, 15 partiti neofascisti di 14 paesi hanno firmato un patto in cui sottolineano la loro preoccupazione per la battuta d’arresto nella difesa dei “valori della famiglia” e dell'”identità nazionale”, l’adozione delle leggi Lgbt e, in particolare, della riduzione delle libertà individuali a causa del decalogo sanitario Covid-19. 

Tra i suoi firmatari Viktor Orban, Santiago Abascal, Giorgia Meloni, dei fascisti Fratelli d’Italia, Matteo Salvini, il polacco Jaroslav Kaczynski e Marine Le Pen. La sua forza risiede in un falso appello a tutela dei diritti politici presuntamente violati dopo l’applicazione dei protocolli Covid.

L’esempio più eclatante è l’assalto, lo scorso 9 ottobre, alla sede della Confederazione Generale Italiana del Lavoro, per protestare contro la richiesta del certificato di vaccinazione per partecipare a tutte le attività pubbliche.

Così, il fascismo libertario potenzia, crea o si incista nei movimenti negazionisti, antivaccini, antimaschera, contro il passaporto Covid, 5G, pro vita, antiaborto, antifemministi e così via. Cioè tutto ciò che è considerato riguardare ed essere di competenza dell’individuo e non dello Stato.

La libertà diventa un campo di battaglia da cui emerge un discorso che penetra nell’immaginario collettivo, al di là delle distinzioni di classe.

Le istruzioni sono semplici: “Nessuno deve dirmi cosa devo o non devo fare! Sono libero di andare ovunque! Non ho bisogno che qualcuno controlli la mia vita! I miei diritti non possono essere calpestati in nome dello Stato! Con la mia libertà non si negozia! Gli immigrati mi tolgono il lavoro!” 

In questo contesto si indicono manifestazioni e si organizzano eventi in cui si manifesta il desiderio di vivere senza legami.

I cosiddetti “botellones”, concentrazioni di centinaia o migliaia di persone che bevono in parchi pubblici, piazze o spiagge, all’insegna del motto “Viva la libertà!” sono generalizzati nei fine settimana. E sotto lo stesso enunciato aumentano le proteste dei negazionisti in Italia, Francia, Spagna, Gran Bretagna o Germania.

Un discorso semplice, ma persuasivo. Il fascismo libertario si espande e si pone al vertice del desiderio di soddisfazione personale, indipendentemente dal bene comune e dall’interesse generale.

La nascita e l’ascesa del fascismo libertario in tempi di crisi pandemica e di un capitalismo che si contorce per reinventarsi nella sua forma digitale, trova i suoi argomenti nel campo delle emozioni, dei sentimenti e della paura. 

La miscela esplosiva di questi fattori indica il pericolo che ci minaccia. La lotta contro il fascismo libertario presuppone l’unione delle forze per combattere il capitalismo e le sue maschere.

venerdì 5 novembre 2021

Draghi contro il reddito di cittadinanza e i più poveri

 Draghi attacca il Reddito di Cittadinanza, USB: la vergogna di chi vuole recuperare risorse colpendo i più poveri

La legge di Bilancio del 2022 contiene un pesante attacco al Reddito di Cittadinanza. L’operazione del governo Draghi ha due precisi obiettivi: ridurre le risorse destinate a questa misura, anche contenendo il numero dei beneficiari, e obbligare gli stessi ad accettare qualsiasi proposta di lavoro, anche se a diverse centinaia di chilometri da dove vivono.

Solo qualche mese fa, a luglio 2021, l’INPS aveva fornito i dati sull’efficacia della misura. Nel XX Rapporto Annuale dell’Istituto, il presidente Tridico aveva chiarito che almeno i due terzi della platea dei beneficiari è composta di persone lontane dal mondo del lavoro e quindi inoccupabili.

Si tratta di persone con difficoltà psichiche e fisiche (circa 450mila), oppure minori (1milione e 350mila), oppure anziani (200mila percepiscono la pensione di cittadinanza) e che quindi per tutti loro il RdC va considerato come un reddito minimo, utile a favorirne l’inclusione sociale, invece che una misura che serve a proiettarli nel mondo del lavoro.

Eppure tutta la retorica che accompagna le modifiche introdotte dalla legge di Bilancio si concentra proprio sulla presunta inefficacia che il RdC avrebbe dimostrato come misura di inserimento lavorativo.

Da qui la scelta odiosa di ridurre a due le proposte di lavoro che, se rifiutate, porterebbero alla decadenza del beneficio nonché la progressiva riduzione dal sesto mese in poi della somma percepita a fronte del rifiuto della prima proposta.

Invece di cogliere il dato macroscopico fornito dall’INPS, che ha segnalato come accanto al RdC sia stato fondamentale l’utilizzo di uno strumento aggiuntivo, il Reddito di Emergenza, introdotto con la pandemia, che è servito a coprire 1milione e 300mila persone in più (dati INPS di settembre 2021)  che non potevano accedere al RdC ma che erano comunque in condizioni di grandissima sofferenza e che scadrà a dicembre 2021, il governo Draghi si preoccupa di obbligare i percettori di RdC ad accettare lavori a basso reddito, anche part-time a tre mesi e a grande distanza dalla propria abitazione.

Nel caso della prima proposta fino a 100 chilometri e a 1ora e 40 minuti di distanza, nel caso della seconda in tutto il territorio nazionale.

C’è poi una crescente insistenza verso le amministrazioni locali affinché utilizzino a titolo gratuito, fino a 8 ore settimanali, i percettori di RdC. Nella manovra c’è un preciso riferimento al fatto che i Comuni sono obbligati ad utilizzare almeno un terzo dei percettori di reddito residenti nel proprio territorio, con la specifica che si tratta di un’attività che “non è assimilabile ad una prestazione di lavoro subordinato o parasubordinato e non comporta, comunque, l’instaurazione di un rapporto di pubblico impiego con le amministrazioni pubbliche”.

Qui c’è la diabolica persistenza di quanto già realizzato da decenni in tutto il paese: come già con gli LSU, come con gli APU campani, come con i tirocinanti calabresi e una infinita serie di forme di lavoro precario a salari da fame in tutta la penisola, si continua a sopperire ai buchi di organico nelle attività in capo alle amministrazioni pubbliche facendo ricorso al lavoro sottopagato (ora addirittura gratuito), con la clausola che questa persone mai potranno rivendicare un lavoro stabile.

C’è un mare di lavoro utile e stabile nella P.A. di cui ha bisogno il paese e che potrebbe dare una prospettiva dignitosa a chi vive di RdC ed è in condizione di lavorare. E invece si preferisce condannare alla precarietà cronica decine di migliaia di persone, privandole finanche del diritto ad essere considerati dei lavoratori.

Una vergogna che solo la lotta ha permesso di cancellare, come ci hanno dimostrato le migliaia di lavoratori LSU finalmente assunti dopo anni di durissime battaglie, e che ora anche i tirocinanti calabresi stanno conducendo con altrettanta efficacia.

La platea dei percettori di RdC, che il reddito di emergenza ha dimostrato essere fortemente sottodimensionata, verrà sottoposta ad un controllo minuzioso e invasivo: un autentico paradosso nel paese dell’evasione fiscale, dove sfuggono ad ogni controllo miliardi di introiti di aziende e società finanziarie.

Un accanimento contro i poveri che mira a colpevolizzare chi è in difficoltà e che si aggiunge alla vergogna della tessera attraverso la quale viene erogato il RdC, che vincola i beneficiari all’acquisto di generi specifici e che ha un forte senso stigmatizzante.

L’attacco al RdC è parte di una guerra che il governo Draghi conduce contro i poveri.

Nel paese con i salari più bassi, davanti ad un fortissimo aumento delle tariffe, in prossimità dello sblocco generale dei licenziamenti, una misura come quella del RdC andrebbe fortemente potenziata ed allargata e invece la si riduce. Per combattere le disuguaglianze forse il primo obiettivo è quello di liberarsi del governo Draghi.

mercoledì 3 novembre 2021

Il Commissario Quirinalizio

 I giochi politici in questo paese non contano più nulla. Con grande dispiacere dei giornalisti di punta, abituati da almeno 30 anni a vivere di pettegolezzi e “retroscena”. Però non sanno far altro, e quindi insistono nel praticare l’unico sport che conoscono.

Il “pezzo forte” della settimana sono le parole di Giancarlo Giorgetti, ministro dello sviluppo economico e testa pensate della Lega “di governo”. Presentando l’annuale “libro di Bruno Vespa”, ha fulminato i presenti prospettando una soluzione per il rebus-Quirinale di cui ben pochi osano parlare apertamente: Già nell’autunno del 2020 le dissi che la soluzione sarebbe stata confermare Mattarella ancora per un anno. Se questo non è possibile, va bene Draghi” che “potrebbe guidare il convoglio anche da fuori. Sarebbe un semipresidenzialismo de facto”. 

Lasciamo perdere le questioni personali, di cui nulla sappiamo, vista la nostra lontananza da certi giri. E vediamo cosa significherebbe istituzionalmente e soprattutto sul piano europeo e/o dei “mercati”.

Comunque la si giri, la formula di Giorgetti esplicita un bisogno della classe dominante (non solo italiana): non toccare nulla nell’attuale governance del Paese. Mattarella al Quirinale e Draghi a Palazzo Chigi garantiscono soprattutto l’Unione Europea e i mercati finanziari (hanno, come si dice, “grande credibilità internazionale”).

La Costituzione formale è un limite abbastanza superabile. Il “bis” temporaneo al Quirinale è già stato sperimentato con Giorgio Napolitano, per lo stesso motivo, dunque non sarebbe una forzatura istituzionale ma solo una scelta “poco opportuna”. E quindi chissenefrega…

Ma questa soluzione ha il difetto di valere soltanto per un anno, quello che separa l’elezione del nuovo Capo dello Stato dalle elezioni politiche del 2023.

Per “mettere in sicurezza” il Pnrr, e le “riforme strutturali” imposte dall’Unione Europea come condizione vincolante per l’erogazione delle successive rate del Recovery Fund, serve sicuramente più tempo, visto che il relativo cronoprogramma arriva al 2026.

La classe dirigente non può insomma rischiare che tra un anno e mezzo ci sia un Parlamento inattendibile quanto quello attuale, senza alcun personaggio di statura internazionale, magari con una maggioranza – come quattro anni fa – poco in linea con gli standard richiesti dai “mercati”.

C’è da dire che neanche i cosiddetti “partiti” presenti nell’attuale Parlamento hanno alcun desiderio di ritrovarsi a dover decidere tra attuazione delle chiacchiere elettorali (prometteranno come sempre di tutto e il contrario di tutto), con l’unico effetto – sicuro come la morte – dello spread in volo verso vette ineguagliabili. Con le conseguenze che abbiamo imparato a conoscere e in assenza della “rate” su cui si sta facendo conto.

Dunque l’attuale governance di “garanzia europea” va mantenuta almeno per i prossimi cinque anni.

Per far questo Mario Draghi è al momento ancora insostituibile. Ma appare difficile che possa tornare ad essere, dopo le elezioni, di nuovo premier senza un’investitura popolare. La quale a sua volta appare davvero improbabile, viste le lacrime e il sangue che cominciano a far capolino tra le nebbie che circondano sia la “legge di stabilità” che, soprattutto, le “riforme”. Lacrime e sangue che tra un anno e mezzo sarebbero decisamente più evidenti di oggi.

Già dieci anni fa l’operazione fatta con un altro Mario, Monti in quel caso, fu un flop clamoroso che aprì le porte alla breve e scorbutica stagione del “populismo” (equamente diviso tra “vaffa” e razzismo).

Dunque servirebbe il bis dell’operazione che ha portato Draghi a Palazzo Chigi, come se le elezioni non fossero nel frattempo avvenute e con tutti i cosiddetti partiti che entrano nella compagine governativa solo per obbedire al “grande illuminato”.

I rischi sono evidenti. Quanti oggi strizzano l’occhio a questa ipotesi, a risultati elettorali definiti, potrebbero avere la tentazione di giocare diversamente (perché rafforzati o indeboliti dall’esito). Scombinando le attese internazionali e complicando il percorso delle “riforme” con altre “pensate” impreviste, come lo sono in parte state quota 100 e il reddito di cittadinanza.

Più semplice, invece, se Mario Draghi fosse stato nel frattempo “elevato” alla massima carica. Potrebbe esercitare il suo ruolo in modo molto forte – anche queste forzature sono già state fatte, da Cossiga in poi, e da Mattarella stesso quando diede l’incarico a Cottarelli, indicato da nessuno – assumendo di fatto anche la parte di primo ministro, magari figurativamente lasciata a Daniele Franco (attuale ministro dell’economia) o altra figura equivalente pescata nel vivaio della Banca d’Italia.

In effetti sarebbe un semipresidenzialismo di fatto. Un’anticipazione della riforma costituzionale che, a bocce ferme, non può essere neanche ipotizzata (tantomeno realizzata in soli 121 mesi).

Al di là dei piagnistei dei “difensori della Costituzione formale” – sono 100 anni quasi esatti dalla repubblica di Weimar, e si sa com’è finita – una simile forzatura risponde a un’esigenza per nulla “nazionale”. 

La classe dirigente attuale – imprenditoriale e non – non ha infatti più alcun limite nei confini, vissuti alla pari di quelli regionali o provinciali (si bada alla differenza di regole locali, cercando quella più vantaggiosa per sé, ma senza alcun “disegno di sviluppo” particolare). 

Tenere inchiodata l’attuale governance – centrata su Draghi – è un problema di efficienza nella realizzazione di una nuova divisione del lavoro tra paesi europei. Gli interessi della classi popolari, i bisogni, le speranze delle nuove generazioni, non possono trovare alcun posto (se non nella retorica, tipo quella “per i giovani” quando si parla di pensioni o debito pubblico).

La presidenza della Repubblica, da questa angolatura, diventa una carica che deve forzatamente essere assunta da un “commissario europeo”, con compiti anche operativi (che la Costituzione italiana non prevede, ma chissenefrega…).

Un Commissario Quirinalizio. Che anche simbolicamente restituisce l’immagine di un paese commissariato e in vendita. Come la Grecia dopo la capitolazione dell Tsipras I…

martedì 26 ottobre 2021

Tassare le multinazionali ma…

 L’Italia ha tassato alcuni servizi digitali erogati da imprese multinazionali di grandi dimensioni. Una “web tax” rivolta soprattutto ai giganti della rete come Google e Facebook.

Ma…

la tassazione prevedeva il 3% dei profitti su alcuni servizi digitali, e guarda caso, ha fruttato allo Stato una somma di “soli” 233 milioni di euro. Una somma “bassa” solo se rapportata ai profitti impressionanti delle multinazionali del web, ma utili a essere spesi per molti dei servizi pubblici che da tempo sono carenti.

Logica avrebbe voluto, che il governo intervenisse con un correttivo al rialzo, e invece, l’Italia come altri Paesi che avevano preso la medesima misura, ha deciso di abrogarla.

Sì… avete capito bene!

Un accordo con gli USA prevede che dal 2023 la tassazione ora in vigore venga abrogata in virtù dell’introduzione di una nuova tassa globale sulle multinazionali big tech.

Le multinazionali, dunque, dovranno pagare una imposta.

Ma…

nulla sappiamo sull’entità e sulla forma che assumerà questa imposta, mentre sappiamo che una parte dei profitti saranno tassati nel paese in cui la multinazionale opera, e gli USA hanno già promesso ingenti sgravi fiscali.

Non solo: sappiamo anche che la nuova global tax almeno in un primo momento sarà a carico dello Stato, infatti le multinazionali, invece di pagare verranno risarcite della parte di prelievo fiscale superiore a quanto le aziende hi-tech avrebbero pagato se l’intesa sulla global minimum tax fosse entrata in vigore prima.

Evidentemente, la nuova tassa sarà più vantaggiosa, un vero e proprio regalo degli Stati alle multinazionali del web.

Vogliamo un sistema fiscale equo e una tassazione vera dei profitti di chi si arricchisce grazie alla manodopera sparsa in tutto il mondo. Dobbiamo batterci perché questi profitti vengano restituiti alla collettività!

venerdì 22 ottobre 2021

Aumentano i poveri, e il Governo attacca il Reddito di Cittadinanza

 Nell’ultimo anno quasi due milioni di persone, nel nostro Paese, si sono rivolte a un centro della Caritas per avere un pasto caldo, un posto dove dormire o fare una doccia. Di queste, circa la metà è considerato un ‘nuovo povero’, cioè una persona la cui condizione materiale è peggiorata drammaticamente nell’ultimo anno.

Donne (soprattutto con bambini) e giovani tra i 18 e i 34 anni sono tra le categorie più ferocemente colpite. Sono i numeri drammatici che si possono leggere nell’ultimo Rapporto Caritas sulla povertà e l’esclusione sociale in Italia.

Dei nuovi poveri, uno su quattro è un lavoratore, il 18% sono pensionati, e solamente uno su cinque è beneficiario del Reddito di Cittadinanza (RdC). Con tempismo perfetto, il Governo Draghi sta discutendo in questi giorni di tagliare le risorse stanziate per questa misura.

I dati Istat ci raccontano, anche, che circa due milioni di famiglie, pari a 5,6 milioni di persone, si trovano in una situazione di povertà assoluta: si tratta di soggetti indigenti, che non raggiungono una soglia di spesa sufficiente a garantire i bisogni essenziali, a testimonianza di una situazione diffusa di sofferenza estrema.

La cifra supera gli 8 milioni di persone se facciamo invece riferimento alle persone che versano in una situazione di ‘forte disagio economico’. Nonostante la pandemia abbia lasciato in eredità un milione di indigenti in più, il semplice reperimento di 200 milioni di euro per finanziare il RdC da qui a fine anno, una goccia infinitesimale nel bilancio dello Stato, è servito da scintilla per far partire l’assalto alla diligenza, con la Lega e Italia Viva a scagliarsi contro quello che la loro anima gemella Giorgia Meloni ha definito ‘metadone di Stato’.

Qualche numero può servire a fornire il contesto: il numero di nuclei familiari beneficiari di almeno una mensilità di RdC era di circa un milione nel 2019; negli ultimi due anni questo numero è aumentato fino ai circa un milione e 700 mila dei primi otto mesi del 2021.

Di pari passo è aumentato anche l’ammontare di risorse necessario a finanziare la misura, dai poco più di 7 miliardi annui pensati originariamente fino ai quasi 9 miliardi richiesti dalla situazione di crisi che stiamo attraversando da un anno e mezzo. Se le risorse per l’anno corrente sono infine state reperite, l’attenzione si sposta ora sul 2022, per cui mancano all’appello ancora circa 800 milioni di euro.

Il fronte è, però, più ampio, e tutte le anime della variegata maggioranza che sostiene il Governo Draghi, con gradi maggiori o minori di ferocia (compresi il segretario del PD Enrico Letta e il presidente del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte), concordano sulla necessità di riformaremodificare e aggiornare il RdC, un giro di parole che vuol dire tagliare le risorse dedicate a questa misura e/o rendere le condizioni di accesso più stringenti e penalizzanti. Si parla, infatti, di una decurtazione di un miliardo di euro da effettuare in tempi rapidi, un taglio che dovrebbe poi raddoppiare a regime.

Ingrediente indispensabile di tutte le argomentazioni addotte a supporto di un tale intervento è il vecchio e banale mito della scarsità delle risorse, che recita più o meno così: ci sono molte cose importanti da realizzare, urgenti e prioritarie, come ad esempio la riforma fiscale o la riforma degli ammortizzatori sociali.

Per poter fare ciò, servono soldi, e i soldi – prosegue il mito – non crescono sugli alberi: se spendi un euro in più da una parte, in ossequio ai trattati europei, ne devi spendere uno in meno da un’altra. Un ragionamento particolarmente curioso in questi mesi, trascorsi nell’ebrezza indotta dalla narrazione di una valanga di miliardi in arrivo a cascata dall’Europa solidale.

Un ragionamento, oggi e sempre, completamente privo di senso economico, dato che uno Stato può serenamente aumentare i propri livelli di spesa semplicemente decidendo di farlo, contribuendo in tal maniera, tra l’altro, ad aumentare il reddito nazionale e il benessere della popolazione.

Cosa farebbe, quindi, un Governo che volesse rispettare il mantra delle risorse scarse? Secondo i dati forniti dall’INPS, due terzi dei beneficiari del RdC non sono ‘occupabili’, per ragioni anagrafiche (soggetti disoccupati ma prossimi al pensionamento) o a causa di bassi livelli di istruzione.

Ecco, quindi, che il taglio dovrebbe ricadere quasi interamente sulle spalle dei circa 1,2 milioni di percettori, un terzo della platea totale, che sono invece reputati ‘idonei’ a partecipare al mercato del lavoro, e pertanto arruolabili dalle imprese.

Le idee che filtrano e che sarebbero allo studio rappresentano perfettamente l’idea di un RdC da usare come arma di ricatto e di pressione al ribasso su salari e diritti: assegno decurtato dopo che si rifiuta un lavoro e che va a scalare nel tempo, obbligo di accettare contratti anche di due mesi fino alle suggestioni dell’ex presidente dell’INPS Tito Boeri di un RdC differenziato su base geografica, di un ammontare minore nelle regioni del sud.

Il Reddito di Cittadinanza, fin dalla sua nascita, presentava numerose insidie. È innegabile, però, che abbia fornito, soprattutto nell’ultimo anno e mezzo, una forma di sussistenza minima per un grande numero di nuclei familiari schiacciati dalla crisi. Il messaggio che il Governo Draghi vuole lanciare, però, è forte e chiaro: se reddito deve essere, che sia minimo e solamente per chi, altrimenti, morirebbe direttamente di fame.

Per tutti gli altri, deve diventare un altro, ennesimo strumento con cui spostare i rapporti di forza a favore della classe padronale e spingere per ottenere salari più bassi e condizioni lavorative peggiori.

Mentre i media continuano a dirci quanto il Governo dei competenti sia all’opera per spendere al meglio i fiumi di denaro del PNRR, l’esecutivo va avanti per la sua strada fatta di riforme liberiste volte a smantellare gli ultimi baluardi di stato sociale presenti nel nostro Paese.

È in questa prospettiva che va letta la discussione in seno alla maggioranza circa la possibile riforma del Reddito di Cittadinanza, sempre meno considerato un sussidio e sempre più visto come una misura da associare alla riforma degli ammortizzatori sociali, il cui corollario principale siano le politiche attive del lavoro.