lunedì 30 dicembre 2019

L’odio di classe in cifre, da conoscere

Il conto della crisi si è scaricato su salari e stipendi, non sulla capacità delle imprese di generare ricchezza».
Apre così un articolo di due giorni fa pubblicato sul Il Sole 24 Ore online, a firma Barbara Ganz, dove si da conto di una ricerca pubblicata dalla Fondazione Claudio Sabattini sui bilanci di tutte le aziende attive con più di 50 dipendenti nel territorio dell’autonomia differenziata (nell’area di Milano per la Lombardia, di Reggio Emilia per l’Emilia Romagna e il Veneto) nei settori delle «attività metallurgiche, la fabbricazione di prodotti in metalli (esclusi macchinari e attrezzature), la fabbricazione di computer, prodotti di elettronica e ottica, la fabbricazione di apparecchiature elettriche, la fabbricazione di macchinari e apparecchiature nca, la fabbricazione di autoveicoli, rimorchi e semirimorchi, la fabbricazione di altri mezzi di trasporto, la riparazione e installazione di macchine e apparecchiature».
La ricerca, commissionata dalla Fiom veneta, mostra dei risultati che sono l’esempio di una delle espressioni con cui si manifesta l’“odio di classe”: in Veneto, gli utili aziendali nel periodo 2010-2018 sono cresciuti del 100%, i salari tre volte meno (+37%); se invece si fa riferimento al triennio che va dal 2015 al 2018 – in pratica dal Jobs Act in poi – il profitto padronale è cresciuto del 40%, i salari di appena il 5%.
Che questo sia un segreto di Pulcinella, almeno per i lettori del nostro giornale, dovrebbe essere oramai chiaro. Periodicamente infatti diamo notizia di studi che riportano questa situazione, peraltro spesso pubblicati da quelle istituzioni che di certo non hanno nessun ruolo nell’ipotesi di cambiamento del paese (come Mediobanca o Istat).
Ma l’importanza di questa nuova prova è data dal fatto che i) il 2020 sarà l’anno di scadenza del contratto nazionale per i metalmeccanici (il settore maggiormente interessato dalla ricerca), e che ii) questa sia stata commissionata dalla Fiom-Cgil.
Antonio Silvestri, segretario proprio della Fiom-Cgil Veneto, si affretta allora a precisare che il modello di sviluppo veneto è «basato su bassi salari e scarsi investimenti, con il profitto unico riferimento ricercato perseguendo la via bassa della competitività, basata sullo sfruttamento e sulla precarietà», mentre Luca Trevisan, della segreteria nazionale, sottolinea che questo dovrà «entrare nella discussione in sede di rinnovo del Ccnl».
Fate il palio con le dichiarazioni pre-natalizie di Landini («il 2020 sarà un anno di lotta, serve un nuovo Statuto dei lavoratori»), condite con il ruolo che la Cgil ha avuto nel massacro del Lavoro negli ultimi anni – di comune accordo sia con la Cisl&Uil sia con la Confindustria, sempre nel perimetro dell’Ue, come dimostrano il “Patto per la fabbrica” e quello “per l’Europa” – e sembra di essere entrati immediatamente in campagna elettorale per le prossime politiche. Le quali, seppur previste di norma per il 2023, con lo spettro del Mes e le dimissioni del ministro Fioramonti sembrano (il dubbio è d’obbligo) avvicinarsi un po’ di più.
Si potrebbe almeno pensare, come spesso assumono i modelli economici propinati nelle accademie del “mondo occidentale”, che l’impresa abbia reinvestito tutti i propri utili, favorendo lo sviluppo tecnologico e perciò la produttività del lavoro (più output ottenuti per ogni unità di lavoro impiegata) e la competitività sul mercato internazionale (di prezzo o di qualità di prodotto).
E invece no, perché come riporta Ganz «l’indagine mostra anche come questa ricchezza non si stata neppure utilizzata per investimenti». Detta altrimenti, con questo livello di salari l’imprenditorie non ha nessuna necessità (di volontà neanche a parlarne) di giocarsi la partita “contro la merce” delle imprese concorrenti (partita che richiederebbe al minimo investimenti in ricerca e sviluppo così come in formazione dei, o assunzione di nuovi, dipendenti, con conseguente aumento dei salari per via delle maggiori competenze da remunerare): per assicurarsi la sua quota di profitto punta invece sul plusvalore assoluto.
Per coloro che facessero notare come in realtà i salari siano di fatto aumentati, rispondiamo che nelle statistiche riportate dal Sole sembra si tenga conto (non si escludono, topcodare nel linguaggio accademico) di quelli di quadri e dirigenti di grado più alto. La loro esclusione avrebbe invece ridotto di molto il tasso di crescita perché, come mostra il grafico di seguito su uno studio basato in Usa sul rapporto stipendio/ salario tra dirigenti e operai, la differenza di remunerazione del primo è arrivata, nel 2015, a un valore medio di 275 volte il secondo.

Questo significa che in termini di valore assoluto per contratto la maggior quota di crescita sarebbe appannaggio di un numero minoritario di lavoratori, e non dei tanti con contratto da operaio o al massimo da impiegato.

La scorsa settimana è stato rinnovato il Ccnl dei medici: dopo 10 anni di attesa, aumento di 200 euro lordi al mese, ed è stato talmente soddisfacente (eufemismo) che già si parla del prossimo. Come anticipato, nel 2020 sarà la volta dei metalmeccanici, così come dei lavoratori della logistica e del terziario, per un totale secondo il Cnel di 4 milioni (6 se si aggiunge moda, ambiente, cooperative sociosanitarie ed edilizia) di dipendenti che andranno a scadenza.
Landini lancia un nuovo “Statuto dei lavoratori”. Un brivido ci pervade su cosa potrebbe significare, considerando l’immobilismo dei maggiori confederali quando si trattò di smantellare l’art. 18 di quello attuale. Di salario minimo, Potere al Popolo e Usb a parte (i tentennamenti dei Cinque stelle arrivano perfino alle loro proposte, con il ministro Catalfo che prima presenta su questo un progetto di legge, poi dichiara che Germania e Italia sono sempre più vicine in ambito di politiche del lavorodo you remember Piano Hartz?), nessuna traccia.
«L’indagine mostra una realtà che i lavoratori conoscono bene e che hanno provato sulla loro pelle: la crisi l’hanno pagata interamente loro» afferma sempre Silvestri. Vuoi vedere che l’“indignazione di circostanza” è di nuovo fumo negli occhi?

martedì 24 dicembre 2019

Salvini mi ricorda qualcuno… Ah, ecco chi!

Stando all’opposizione, anziché appollaiato sulla poltrona di ministro dell’interno, Salvini tempesta sicuramente un po’ meno. Anche lo stile, sempre tendente al “Truce”, è per forza di cose un po’ diverso, meno assertivo, meno “petto in dentro e panza in fuori”…
Qualche giorno fa, incredibile a dirsi, ha addirittura proposto la formazione di un “comitato di salvezza nazionale”. Ossia un governo con tutti dentro, guidato se necessario persino da Mario Draghi…
Eppure, nonostante l’abito dimesso e la sostanziale moderazione delle posizioni politiche da neoppositore, in ambito sedicente “democratico” si continua a sventolare lo straccio Salvini come il nuovo Duce che trascina dietro di sé una “marea nera”, il fascismo alle porte, e così via.
Di sicuro il protagonismo politico di mr. Mojito si è nutrito di un linguaggio da osteria, con battutacce da parcheggiatore abusivo e esplicite strizzatine d’occhio all’immaginario fascista (dal “me ne frego” al “molti nemici, molto onore”). Immaginarlo nuovamente al governo del paese, dopo 14 mesi sinceramente dimenticabili, non è il massimo per nessuno. Soprattutto per le orecchie delle persone “perbene”…
Ma basta questo per turarsi il naso e concedere il milionesimo “voto utile” a bande concorrenti di malfattori e maneggioni che hanno fatto a pezzi lo stato sociale (alternandosi al governo con Berlusconi e gli amici di Salvini, nonché con la Meloni “ministro della gioventù”)? Basta questo per dimenticare “mafia capitale” e il sostanziale azzeramento del Pd capitolino sotto una valanga di mandati di cattura? Basta questo per chiudere gli occhi sulla maxiretata in Calabria, che ha fatto altrettanto? O i frequenti rapporti tra Pd e Casapound?
Certo, l’ormai probabile tracollo dei Cinque Stelle – a loro volta sommersi da “poltronismo acuto”, ansie di non rielezione, faide interne, legalitarismo d’accatto, proclami di un giorno (o anche meno), ecc – ci rimette di fronte per il trentesimo anno o giù di lì alla rinascita del “bipolarismo imperfetto”. Ossia in quella situazione per cui teoricamente l’offerta politica è piuttosto varia (almeno sei-sette formazioni con buone probabilità di superare le soglie di sbarramento da loro stesse disegnate), ma in realtà si riduce a solo due possibilità. Per nulla o quasi differenti tra loro.
Nonostante gli sforzi, nessuno è ancora riuscito a spiegarci perché Salvini sarebbe più pericoloso di Marco Minniti rispetto al fenomeno dell’immigrazione disperata (in gommone attraverso il Canale di Sicilia), visto che gli accordi con il capo degli scafisti (a giorni alterni anche capo della “guardia costiera libica”), quel “Bija” ricercato dall’Onu ma ospitato dal ministero dell’interno italiano, sono stati firmati dal secondo e riconfermati da primo.
E nessuno, per restare in tema, è riuscito a spiegarci la “profonda differenza” tra i due in materia di repressione di piazza e libertà d’azione per le molteplici polizie, stando all’analisi dei rispettivi “decreti sicurezza” (sempre un po’ più infami, ma lungo una direttrice condivisa).
In particolare, nessuno è riuscito a spiegarci perché – sempre in fatto di repressione – Macron sarebbe “democratico” e lo pseudo-leader leghista invece un pericolo per la democrazia… A noi sembrano nei fatti due pericoli identici, anche se utilizzano linguaggi diversi. Ma noi siamo abituati a giudicare gli esseri umani soprattutto per quel che fanno, non per quel che dicono di sé…
Stabilito quel che andava stabilito sul piano pratico (perfetta identità neoliberista e forcaiola tra Macron, Salvini e Pd), occupiamoci pure della “cultura” diffusa dal Truce. Che ha ovviamente una grossissima responsabilità nello sdoganamento di un linguaggio e una mentalità becera, ottusa nella misura in cui promette soluzioni “semplici”, di quelle che possono venire in mente proprio a chiunque, per problemi così complessi che anche degli scienziati potrebbero andare in difficoltà (due esempi per tutti: il drammatico calo demografico della popolazione “autoctona” e le migrazioni intercontinentali a causa di guerre, crisi economiche e climatiche).
Eppure, nel Truce che si gonfia e blatera sentiamo spesso una nota – greve, certo… – che appartiene per intero alla più trita “anima italica”. Quella nota per cui la fanfaronata da guerriero slitta in un attimo nel vittimismo da operetta.
Un esempio? Quando ha spiegato di aver ricevuto un avviso di indagine per “sequestro di persona” a proposito della nave Gregoretti, chiunque ha potuto notare una profonda differenza di tono rispetto a quando sbeffeggiava il magistrato che – da ministro dell’interno in carica – aveva richiesto l’autorizzazione a procedere per l’analogo caso della nave Diciotti (in entrambi i casi si trattava di navi della marina militare italiana, non di imbarcazioni private impegnate in missioni autodeterminate).
E tutti hanno avvertito una mezza incrinatura nella voce che recitava “rischio quindici anni di carcere”. Come se stavolta non fosse proprio convintissimo di farla franca (ci sentiamo di rassicurarlo: non gli accadrà neanche questa volta).

giovedì 19 dicembre 2019

L'”odio padronale”, sull’Huffington Post

Combattere l’odio”… L’establishment “democratico” ha lanciato da mesi una campagna politica e mediatica che gira compulsivamente intorno a questo termine, con parecchi problemi di identificazione. Che vuol dire? Con chi ce l’hanno?
La prima risposta, la più semplice, è ufficiale: con la destra sguaiata, a cominciare da Matteo Salvini. Cui però non vengono addebitate le allucinanti prese di posizione (sui migranti, la cannabis light, le invocazioni alla madonna che fanno saltare sulla sedia pure i vescovi, ecc), ma “il linguaggio” attraverso cui le veicola. Poi basta che il Truce si mostri per un giorno “responsabile”, mentre invoca un “comitato di salvezza nazionale” magari capitanato da Mario Draghi, e tutto rientra nella normalità.
Però la campagna contro “l’odio” continua e investe sempre nuovi soggetti (chi critica Israele e sostiene la causa dei palestinesi, chi prova a spiegare che “i padroni” non sono affatto “persone perbene”, chi appoggia “stati canaglia” come il Venezuela e Cuba, di tutto un po’…).
Poi capita che uno dei capifila della campagna “contro l’odio” – La Stampa di Torino, prima venduta dagli Agnelli a Debenedetti e poi ricompata insieme a tutto il gruppo Repubblica-L’Espresso – se esca con un articolo gonfio d’odio (di classe) contro i poveri ridipinti come “bestie”. E che giustamente Giorgio Cremaschi li castighi da par suo
Un caso isolato? Una smarronata casuale di un giornalista poco disintossicato dalla “cura” contro l’odio?
Non pare. Ci è capitato nello stesso giorno di leggere sull’Huffington Post Italia – veicolato online da Repubblica, stesso gruppo, stessi padroni – due articoli completamente opposti.
Il primo, di Teresa Marchesi, fin da titolo ci è risultato simpatico e “vicino”: Ci voleva il compagno Ken Loach per raccontare i corrieri dell’e-commerce: i nuovi schiavi senza padrone. Un recensione empatica dell’ultimo film del tenacissimo regista inglese (Sorry we missed you, ossia “ci dispiace, ti abbiamo licenziato”), da sempre schierato senza se e senza ma con gli sfruttati.
Un pezzo che coglie davvero il cuore della questione del lavoro nell’”economia delle piattaforme”: “Ken Loach registra il nuovo lessico delle società: non più ‘dipendente’ ma ‘prestatore di servizio’, non più salario ma ‘onorario’. ‘Non lavorerai per noi ma ‘con’ noi”, gli dicono. Una franchise: suona bene. Non c’è più un padrone a sfruttarti, ti sfrutti da solo. Perché il controllo computerizzato  che garantisce la tracciabilità ininterrotta dei plichi multa ogni intoppo ‘sull’ora di arrivo stimata’. Tutti hanno a bordo la bottiglia per pisciare. Se non lavori un giorno, anche soltanto un’ora, devi pagare qualcuno che ti sostituisca.”
Bene, applausi. Sinceri.
Appena più sotto, invece, ci sbate negli occhi pezzo che dire di destra padronale è poco, fin dal titolo: “La Francia degli scioperi senza fine. Tanto paga il sindacato”. Leggiamo, convinti di aver capito male, o magari sperando che il titolista non abbia colto il vero senso dello scritto.
Speranza delusa subito… “Arrivati al tredicesimo giorno di sciopero dei trasporti (contando anche i tre giorni di sciopero generale il 5, il 10 e il 17 dicembre) con il sindacato dei ferrovieri che minaccia di bloccare i treni di Natale e quello dei conduttori del metro e dei bus parigini (Rapt) che non vuole neanche sentir parlare (“C’est hors de question”, dicono) di “regimi speciali” (in pensione a 52 anni con assegni medi di 3.700 euro), ora comincia la battaglia dell’opinione pubblica in una Francia che si alza alle cinque del mattino per raggiungere in qualche modo il posto di lavoro ma che ha una paura boia di perdere i vantaggi di un sistema pensionistico ancora tutto retributivo, unico in Europa insieme con la Svezia.
Il gioco retorico è banale, sempre lo stesso: descrivere chi sciopera com un “privilegiato” e contrapporgli i poveretti che non riescono a raggiungere il posto di lavoro a causa della mobilitazione. I primi sarebbero “pochi”, i secondi quasi tutti. Anche l’astio contro il “metodo retributivo” di calcolo della pensione – lo stesso che c’era anche in Italia prima della “riforma Dini”, 1996, poi peggiorata da tutte le riforme successiva fino al golpe della Fornero – rientra nella normalità del pensiero neoliberista che trova insopportabile che le pensioni siano sufficienti per vivere. Magari c’è anche qualche falsità qua e là – in pensione a 52 anni con assegni medi di 3.700 euro, per un ferroviere, ancorché francese, sembrano decisamente troppi per esser veri – ma, insomma, mica si può essere troppo precisi, quando si scrive un’invettiva…
Già, perché il pezzo di Giuseppe Corsentino (che ci tiene a qualificarsi “giornalista da 40 anni”) è un’intemerata contro l’esistenza stessa dei sindacati. A cominciare ovviamente dalla “cassa di resistenza”, accantonata con le tessere di iscrizione dei lavoratori e altre attività economiche. Leggiamo:
Ma al tredicesimo giorno di sciopero c’è un’altra domanda, molto più semplice, in agenda: come fanno macchinisti, autisti (ma anche infermieri e insegnanti e dipendenti pubblici) a resistere a due, tre, dieci, quindici giorni di sciopero con la busta paga quasi azzerata dalle trattenute? 
La risposta sta in una piccola cifra – sette euro e 30 centesimi – che non è l’argent de poche dei nuovi rivoluzionari ma il rimborso che le confederazioni sindacali riconoscono ai loro iscritti in sciopero. Sette euro e 30 centesimi per ogni ora di astensione dal lavoro che, alla fine, fanno 50-60 euro al giorno. Quanto basta per resistere secondo le vecchie logiche novecentesche.”
La domanda che neanche passa per la testa al Corsentino è altrettanto semplice: ma che altro dovrebbe fare, un sindacato, per tutelare i propri iscritti quando non hanno altro modo di difendersi se non lo sciopero (con ovvia perdita sullo stipendio)? Calcolando che comunque, se “paga” i lavoratori, vede svuotarsi nella stessa misura anche la cassa…
Sì, certo, un sindacato contratta con la controparte, fa compromessi (quasi sempre pessimi, qualche volta discreti come sullo “Statuto dei lavoratori” nel 1970), qualche volta – se corrotto – “vende” la causa dei lavoratori in cambio di privilegi per la “struttura” (partecipazione a fondi pensione, enti bilaterali, ecc).
Ma la “cassa di resistenza” è il primo, più antico, più nobile degli strumenti organizzativi di un sindacato. Quello che consente, al di là della determinazione collettiva degli scioperanti, di resistere un minuto più del padrone. Perché, per ogni ora di sciopero, tra chi perde salario e chi perde una (piccola) quota di profitto, lo squilibrio è altissimo, e in qualche modo va ridotto…
L’odio antisindacale di Corsentino, insomma, è l’espressione diretta di un pensiero padronale che pretende che tutti i lavoratori stiano nella condizione dei disperati raccontati da Ken Loach: soli, senza alcuna tutela, possibilmente senza salario e persino “senza padrone” (formalmente; in pratica c’è, eccome!). Schiavi silenziosi, impossibilitati anche a resistere un solo minuto. Perché senza un’organizzazione di cui far parte, in qualche modo; senza dimensione, visione, forza, collettive.
La domanda che rimane a noi, dopo la lettura, è: ma come fanno due articoli così diversi a stare nello stesso giornale?
Anche la risposta è semplice: quello “vero” parla di relazioni industriali e rapporti di forza politici, di odio per la resistenza dei lavoratori; quello “umano” parla di cinema.
E tra realtà e immaginario, sapete anche voi cosa pensino davvero “i padroni”… Qualunque linguaggio usino, anche quello più “educato”, ci odiano.

mercoledì 18 dicembre 2019

Il secondo Brexit, lotte di classe in Francia e il “Che fare” che ci aspetta

In Inghilterra il mondo del lavoro soffre di una malattia che si direbbe incurabile. Miseria, precarità, angoscia, sentimento di abbandono.
Da 15 anni e più, sinistra e destra l’hanno spinto nel vicolo cieco del neoliberismo. Le politiche di austerità condotte dall’Unione Europea hanno sostenuto profitti colossali e la loro trasformazione in rendite speculative. In inghilterra, come in Francia o, ancora peggio in Italia o in Grecia si lavora con una pistola puntata dietro la schiena, o non si lavora affatto o in modo precario. Salari e prestazioni sociali si sciolgono come neve al sole.
Gli Stati si trasformano in Stati provvidenza per le multinazionali : miliardi di euro di regali senza l’ombra di una contropartita, esoneri fiscali che si aggiungono all’evasione fiscale. La politica dell’offerta ha creato una situazione di Keinesismo alla rovescia : La provvidenza va ai piu ricchi e l’austerità è riservata alla grande maggioranza, in una parola, al mondo del lavoro.
Le popolazioni europee le hanno provate tutte : Si è votato a destra e non ha funzionato, si è votato a sinistra idem con patate, si è provato con l’estrema sinistra (in Grecia), peggio ancora. C’è chi ha accusato Alexis Tsipras e i suoi amici di tradimento e c’è chi l’ha finalmente assolto dicendo che non poteva fare diversamente.
In realtà sinistra e estrema sinistra sono, oggi, unite come due dita della stessa  mano. Se tradimento c’è stato, esso va cercato in un’epoca piu remota. Bisognerebbe rimontare al periodo in cui gli  azionisti delle grandi imprese ( vi ricordate quando li si chiamava Capitale Avanzato ?) hanno lanciato un deal con i dirigenti dei partiti detti « progressisti », rottamando cosi il vecchio Stato clientelare, le sue banche, le sue imprese di Stato, e la sua moneta…Vi ricordate i buoni del tesoro al 12% al netto delle tasse ? Ebbene oggi , in cambio abbiamo il MES ovvero il furto organizzato dei risparmi popolari.
In inghilterra il 23 giugno 2016 i quartieri popolari, le vecchie città operaie, e una parte dei ceti medi pauperizzati danno una netta maggioranza all’uscita dall’Unione Europea. E il giorno del Brexit. Undici anni dopo il NO al referendum francese all’ ultimo trattato fondatore dell’Unione  Europea.
La classe operaia riconosce i suoi nemici e anche le loro gerarchie. L’Unione Europea è un’istituzione non democratica la cui funzione è di produrre l’ « Ordoliberismo » e dell’imporre  a tutti i membri dell’Unione. Si tratta in effetti di un’istituzione simile all’ FMI i cui « aggiustamenti strutturali »  creano miseria, guerre e migrazioni di massa nel mondo intero.
La reazione al Brexit è immediata e brutale. In Francia sono gli intellettuali di sinistra o ecologisti che reagiscono piu duramente. In una intervista, Daniel Cohn Bendit suggerisce addirittuea l’eventualità di non tener conto dei risultati elettorali perchè, cito : « Le peuple n’a pas toujours raison » (il popolo non ha sempre ragione)  !! Ma il Brexit esiste e bisogna che se lo tengano !
Il 12 dicembre 2019 il Brexit non è ancora applicato e gli inglesi sono chiamati a votare (elezioni legislative) per trovare una soluzione.
Jeremy Corbyn, nonostante  presenti un ambizioso programma sociale cade clamorosamente, i laburisti perdono persino nei loro bastioni tradizionali.  Cosa è successo? I proletari inglesi sono diventati ultradestri ? Il popolo vota l’ultradestra perché preso da improvvisa demenza populista ? Vogliono l’odio come in Italia, quando si vota Salvini o in Francia Marine Le Pen ? Certamente no : le grandi masse popolari capiscono che il Brexit è la condizione assolutamente necessaria perchè i programmi sociali si trasformino in realtà. Corbyn, spinto probabilmenta dall’ala Blairista, ha deciso di non rispettare il suffragio universale espresso nel 2016 e di ritornare al voto. In soldoni ha cercato di annullare il Brexit. Nessun programma di governo fondato sulla realizzazione dei bisogni popolari è applicabile all’interno dell’Unione Europea. E gli inglesi lo sanno. L’elezione del 12 dicembre è in realtà il secondo referendum sull’uscita dall’UE.
Venerdi 13 dicembre Jean Luc Melenchon afferma : « J’avoue que je ne suis pas étonné par le terrible revers électoral du parti travailliste et de Jeremy Corbyn. Il doit servir de leçon. »
( Confesso che non sono sorpreso da questa terribile sconfitta elettorale del partito laburista e di Jeremy Corbyn. Quello che è successo deve servirci di lezione.)
Questa frase pronuciata da Jean Luc Melenchon ha un valore tutto particolare. Rimontiamo un attimo nel tempo.
Il 29 Maggio 2005 La Francia dice no al trattato Europeo e blocca cosi sul nascere le modificazioni costituzionali necessarie all’avanzamento dell’UE.
Dopo una lunga campagna elettorale esaltante, alla quale ho personalmente partecipato, Jean Luc Melenchon, emerge in quanto lider indiscusso. Rompe col partito socialista, fervente europeista, e fonda il « Front de Gauche » insieme al PCF e altri piccoli gruppi di estrema sinistra, tutti uniti dal rifiuto del nuovo trattato.
Il 4 febbraio 2008 a Versailles ha luogo un vero colpo di stato soft. Le camere riunite (parlamento e senato) rimettono in discussione in maniera illegale il risultato del referendum annullando cosi la volontà del popolo, ottenendo la maggioranza qualificata del 65%. Hanno votato contro la decisione del popolo sovrano la destra, i socialisti sostenuti dai verdi e contro i comunisti. Una manifestazione di protesta davanti al castello di Versailles organizzata durante il voto viene caricata duramente dalla polizia.
Questa data ha un’importanza strategica : da quel giorno infatti,  sinistra e verdi abbandonano ufficialmente gli interessi del mondo del lavoro e si mettono al servizio del neoliberismo.
Durante le presidenze successive di Sarkozi(destra), Hollande(sinistra) e Macron(definito  « presidente degli ultra ricchi »), le condizioni di vita dei lavoratori, dei precari, dei poveri, ma anche di una buona parte dei ceti medi, si degradano sempre più. In Francia si respira un’aria pesante, la politica internazionale diventa sempre piu arrogante e neocoloniale.
I dirigenti francesi sono diventati addirittura piu atlantisti che i loro maestri americani : guerra e distruzione della Libia, tentativo neocoloniale in Siria, 14 paesi africani (la cosiddetta « Francafrique »), passano da una guerra civile all’altra, il tributo finanziario e di sangue pagato dai cittadini africani è immenso e provoca l’emigrazione coatta di centinaia di migliaia di africani. Cosi non si puo continuare !!
Il 10 febbraio 2016 Jean Luc Melenchon affonda  il « Front de Gauche », criticando la pratica dei comunisti che sembrano piu preuccupati di restare agganciati al treno della sinistra (in particolare ai loro cugini socalisti) che di rispondere alla situazione disastrosa che subiscono  le classi popolari e fonda la « La France Insoumise ». All’inizio questo nuovo movimento è formato da uno zoccolo duro  Repubblicano (inteso alla francese, cioè ugualitario, rivoluzionario e giacobino) al quale si aggiungono moltissimi comunisti usciti dal pcf, qualche socialista disgustato da François Hollande e da una parte di ecologisti altermondialisti ostili al trattato europeo.
Il successo è immediato c’è troppa voglia di rivoluzione, di rottura, di programmi radicalmente differenti. Soprattutto c’è voglia di sovranità. Sulla politica sociale, su quella internazionale sulla moneta, su tutto. Non c’è ombra di nazionalismo in questa rivendicazione.
I veri nazionalisti sono annidati nelle istituzioni dell’Unione Europea. L’UE è vista come una supernazione autoritaria, non democratica e al servizio del capitale finanziario mondiale e dell’imperialismo atlantico. Quando i militanti della FI parlano di sovranità parlano del controllo della moneta (politiche economiche e sociali) parlano di controllo dell’esercito (politiche di difesa della Repubblica), parlano di diplomazia (decidere con chi e soprattutto per che cosa creare  le necessarie cooperazioni internazionali).
Non so se Melenchon pensasse davvero di vincere le presidenziali del 2017.( nel 2012 alla testa del « Front de Gauche »aveva a totalizzato quasi il 12% percento dei suffragi). E’ arrivato (al primo turno) a soli 3 punti da Macron, ma solo al quarto posto. A partire da questa data qualche cosa si è rotta all’interno della FI :  i fantasmi dell’unione delle sinistre hanno cominciato a riapparire. Alcuni dirigenti della FI non nascondono più la nostalgia delle sinistre unite, anche se in realtà si tratterà di centro-sinistra, altri mettono qualche bemolle alla critica dell’UE, altri ancora se ne vanno o sono cacciati perchè al posto della sovranità repubblicana si parla sempre più ecologia puritana, comportamentale e sanfrontierista.
E’ in questo contesto fatto di indignazione, di voglia di qualche cosa di differente, di depressione vista l’impossibilita di bloccare la locomotiva dell’inegualgianza e dell’ingiustizia, ma anche di perplessità di fronte all’esplosione dell’ideologia ecologista che giudica il comportamento dell’uomo qualunque più grave di quello dei grandi responsabili dell’economia mondiale, che arrivano i « Gilets Jaunes ».
Bisogna dire che il governo di Macron non smette di mettere tutti sotto pressione. Da quando è stato eletto , non passa mese senza dover pagare qualche cosa di nuovo : tasse, labelli, ma anche diminuzione di questa o quella prestazione sociale. Ce n’è per tutti ! Deve riempire i buchi provocati dai regali offerti al grande patronato, presi evidentemente sui denari della nazione !!
Un bel giorno, il suo governo decide di abolire la tassa dei ricchi, l’ISF (impots sur les grandes fortunes).
Subito dopo, in seguito a una campagna demenziale contro i motori diesel, il governo annuncia un aumento sostanziale di questo carburante. Ora, il ricavato di questa nuova tassa è destinato non a opere di natura ecologica, ma a riempire il buco finanziario provocato dall’abrogazione dell’ISF.
300.000 gilet gialli (probabilmente molti di più) invadono le strade di Parigi e le gradi rotonde presenti in tutti gli incroci stradali. Macron, sbruffone di natura, annuncia : se avete qualche cosa da dire venitemi a cercare !!. Decine di migliaia si dirigono verso l’Eliseo al grido « Macron demission ».
La polizia reagisce duramente e riesce a fatica a respingere la presa dell’Eliseo.
Il regime ha paura, il ministro degli interni applica una politica repressiva degna di Augusto Pinochet : 11 morti, circa 4.500 accecati o feriti gravi e 10.000 arresti, di cui un terzo condannati a più di un anno di carcere.
Ma chi sono  questi « Gilets Jaunes » ?
La sinistra francese è completamente sgomenta : socialisti, verdi, qualche dirigente comunista e sindacale e persino qualche dirigente della FI denunciano una provocazione dell’ estrema destra.
La tenacia e le revendicazioni  dei Giles Jaunes chiudono quasi subito la bocca a questi controrivoluzionri professionisti.
Melenchon se ne accorge e non solo li sostiene, ma comincia a partecipare alle loro lotte. Cerca sicuramente di ricomporre la sua France Insoumise, ma è già troppo tardi.
Il 26 maggio 2019 la « France Insoumise » passa dal quasi 20% delle presidenziali a poco più del 6% alle europee. Sono parecchi milioni di voti, probabilmente finiti nell’astensione.
La lotta di classe e la difesa della sovranità Repubblicana ha lasciato il posto all’ecologia radicale, nella prospettiva dell’unione delle sinistre.
Un anno di manifestazioni dei « Gilets Jaunes » ha profondamente modificato la mentalità dei francesi. Se il numero dei manifestanti è certamente diminuito, sicuramente la paura della repressione ha avuto il suo peso, il consenso popolare è sempre molto forte. Le inchieste d’opinione hanno dimotrato che i gilets Jaunes sono molto sostenuti all’interno del mondo del lavoro , ma non solo.
Non c’è corporatismo nelle loro lotte, l’uguaglianza e la ridistrubuzione delle ricchezze sono sempre presenti nelle loro rivendicazioni. Molti sindacalisti di base (soprattutto della CGT) si uniscono a loro e partecipano alle assemblee dei « Ronds-points » (le rotonde stradali). La lotta di classe è di ritorno, le favole buoniste o allarmiste dell’ideologia neoliberista non pagano più.
E’ in questo contesto generale che il 5 dicembre è cominciata « La Grande Grève » contro la riforma delle pensioni.
Dal primo giorno (più di un milione e mezzo di manifestanti) si respira un’aria che ricorda i grandi scioperi del 1995, ma c’è ancora piu rabbia : si ha l’impressione che la riforma delle pensioni sia solo la scintilla che finirà per provocare l’incendio. Questo sciopero rischia di trasformarsi in movimento anti Macron, ma soprattutto anticapitalista e antiliberista. I dirigenti sindacali lo sanno bene e cercano di controllare la propria base.
Cosa succederà quando questo ciclo di lotte si esaurirà ? Rivedremo il ritorno delle sinistre unite, come dopo le lotte del 1995? Nel 1997 nacque il governo Jospin con tanto di ministri comunisti. L’integrazione nell’UE fu accelerata per diventare quasi irreversibile, le privatizzazioni dei servizi pubblici hanno battuto ogni record. Cinque anni dopo Jean Marie Le Pen si qualificava per il secondo turno delle presidenziali e l’astensione, nei quartieri operai, ha cominciato a salire.
Non so se nasceranno altri movimenti o partiti come è stato il caso per la France Insoumise, per Podemos in Spagna o per altri ancora. A dir la verità non penso che la riproduzione di queste esperienze siano oggi la cosa più importante.
Un altro modo di pensare la strategia, deve apparire. Ricordo spesso una vecchia intervista di Mario Tronti, nella quale evocava come come prospettiva del ciclo di lotte, la nascita di un embrione di Stato Operaio.
Pensiamo alla riconquista da parte dello Stato della sovranità monetaria e immaginiamo che la ratio del debito cambi completamente di natura : niente più debiti con i mercati finanziari privati in una moneta che loro appartiene, ma al contrario un debito contratto con  i propri cittadini  e la propria moneta per la creazione di nuovi posti di lavoro, sopprattuo nei servizi pubblici.
Immaginate di poter produrre la ricchezza necessaria per rendere possibile la riduzione  del tempo di lavoro e distruggere la precarità e la miseria, immaginate ancora il recupero della sovranità politica e diplomatica per potere quindi cominciare a produrre una cooperazione internazionale differente dal neocolonialismo attuale, immaginate infine di conquistare l’indipendenza politica e di permettre ad un’economia pianificata di imporre dei controlli reali sui disastri ambientali oggi prodotti dall’economia di mercato….
Chi ha sostenuto i « Gilets Jaunes » in Francia o il Brexit in Inghiltarra è a queste cose che pensa, non ai voli pindarici per ottenere una maggioranza in parlamento.

martedì 17 dicembre 2019

Tutti democristiani, in attesa di Draghi

La differenza tra Pd e Lega è light, molto light. Praticamente si riduce alla liberalizzazione della cannabis senza principio attivo….
La battuta sarà scontata, ma è d’obbligo all’indomani dell’approvazione della legge di stabilità da parte del Senato, in cui – a parte le dichiarazioni quacquaraquà alla telecamere, senza domanda – il massimo del contrasto visibile si è avuto appunto sulla “droga”. E che ciò avvenga in un Parlamento che non reggerebbe il minimo controllo antidoping dà la misura dell’ipocrisia.
Tutte le formazioni, del resto, sanno benissimo che questa legge finanziaria era l’unica che poteva passare al vaglio finale della Commissione Europea, e dunque era inutile affannarsi contestando i suoi pilastri, tanto valeva battagliare sulla minutaglia.
E silenzio totale sul fatto che il lavorio infinito per trovare qualche milioncino qua e là, da dedicare a “misure sociali” per platee ristrettissime, sia imparagonabile con la rapidità con cui è stato stanziato un miliardo per il salvataggio della Popolare di Bari. Salvare le banche, del resto, è la prima preoccupazione di tutti i cosiddetti “leader” (qualcuno forse ricorda ancora il caso di CrediEuroNord, la “banca padana” della Lega, salvata dalla Popolare di Lodi poi finita a sua volta nel tritatutto fallimentare).
Il governo giallorosè sembra avviato al redde rationem subito dopo le feste, avendo praticamente esaurito il compito per cui era nato (fare la legge di stabilità, bloccando l’aumento dell’Iva, che sarebbe stata una mazzata sui consumi, e dunque sul Pil, proprio mentre l’economia continentale è di fatto ferma).
Le sparate di Renzi, al di là delle parole e degli scopi (imperscrutabili, come tutte le “massonate”), il nervosismo dei Cinque Stelle (con Grillo chiamato ancora una volta a “blindare” Di Maio per evitare l’esplosione generale del gruppo dirigente), il quasi-silenzio del Pd (che ha come obbiettivo immediato conservare l’Emilia Romagna, a fine gennaio), sono tutti elementi che preparano l’ennesima crisi di governo.
Una situazione che dovrebbe far felici i fascioleghisti, comodamente seduti sui banchi dell’opposizione parolaia, intenti a racimolare altri facili consensi tra una battuta razzista e un’invettiva anti-femminista.
E invece, a sorpresa, il Truce uscito male dai mojito del Papeete, cambia completamente tattica, adottando quella che il vero “pensatore” della Lega – Giancarlo Giorgetti – va da tempo consigliando: recuperare un rapporto meno conflittuale con l’Unione Europea entrando nel Partito Popolare (al fianco della Merkel e dell’amico Orbàn, insomma), lavorare per un governo “istituzionale, “tecnico” e come volete chiamarlo.
La formula scelta da Matteo Salvini, alla fine, è stata quella – un po’ abusata – del “Comitato di salvezza nazionale”, supportata con una visione della realtà del paese opposta a quella che strombazzava quando faceva il vice-premier. «Stiamo vivendo un momento drammatico in cui tutti dovrebbero fermarsi, smetterla di far polemica. Chiediamo di sedersi tutti intorno a un tavolo a riflettere sui rischi che l’Italia sta vivendo. Se rischia di saltare una banca come la popolare di Bari e con i licenziamenti all’Ilva rischia di saltare un’intera Regione e con lei l’Italia».
Nessuno potrebbe dire “no” a un’ipotesi del genere a gennaio-febbraio, quando ci sarà da firmare il contratto-capestro del Mes e continuare a trattare, da una posizione di estrema debolezza, gli altri trattati inseriti nella “logica di pacchetto”, come l’Unione bancaria (gravata dalla richiesta tedesca di “ponderare il rischio” dei titoli di Stato mediterranei).
Si sente insomma l’eco in sottofondo delle migliaia di telefonate con cui da settimane banchieri e imprenditori stanno tempestando i “politici” nostrani, perché si rendano conto del baratro in cui rischia effettivamente di finire il Paese se si consegna disarmato a un dispositivo “europeo” che incentiva la speculazione ad aprire il fuoco contro bersagli precisi.
Ancora di più si sente il peso del contesto internazionale, con la vittoria di Johnson che rafforza una versione di destra della Brexit e il consolidamento di un’”area angloamericana” che erode la potenza della governance tedesca sulla Ue.
Di questa deriva filo-statunitense Salvini, o meglio la Lega, sono stati i referenti principali (“agganci” moscoviti a parte), almeno fin quando Steve Bannon ha insistito per trapiantare in Italia la sua “competenza” in fatto di manipolazione computazionale dell’opinione pubblica (mica penserete che “la Bestia” salviniana si sia “fatta da sola”, no?). Ma spingere troppo in questa direzione sarebbe comunque devastante, in un sistema di relazioni euro-atlantiche segnato dalla stagnazione economica che colpisce ormai tutti i soggetti, anche quelli più forti.
Ed ecco che, per far fronte a una situazione molto critica ed ancora più complessa – improvvisamente – anche Lui scopre che non serve a niente “semplificare” in slogan da osteria quattro scemenze acchiappavoti. Perché poi, quando pure dovessi prendere sul serio quei voti e cominciare a governare davvero, rischi che la stessa gente che avevi conquistato ti corra dietro per le strade.
La “svolta democristiana” di Salvini, insomma, ha solide radici sociali (banche ed imprese italiane) e necessita di ampi compromessi, sia sociali che economici. Proseguire sulla strada dell’austerità – come “chiede l’Europa” teutonica – richiede controllo di lavoratori, studenti, disoccupati e persino dei pensionati. Dunque della “collaborazione sindacale” che solo al Pd riesce di ottenere senza troppa fatica (ricordatevi del Jobs Act e dell’abolizione dell’art. 18…).
Aumentare le relazioni economiche con gli Usa, d’altronde, richiede tempo e un qualche accordo – anche di compromesso – con i rappresentanti delle filiere produttive più legate alle grandi imprese tedesche (tra Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, a proposito di “differenze light”…).
Tutto quel mondo grida insomma al “governo unitario”, in grado di sedare i conflitti e subordinare – più di sempre – il lavoro dipendente. Tutto quel mondo guarda a Mario Draghi (ex presidente della Bce, quindi a suo agio con i piani alti del potere europeo; ma anche ex vice-presidente di Goldman Sachs, e quindi molto ben visto anche sulla sponda Usa dell’Atlantico) come il più auspicabile dei futuri premier.
Tutti democristiani, insomma, in attesa del nuovo messia che salvi quel che resta del Paese spolpato dalle cazzate (privatizzazioni e liberalizzazioni firma di trattati suicidi, ecc) dei democristiani.
E anche il Truce, da navigato galleggiante della politichetta nostrana, modera improvvisamente il linguaggio, come sardina voleva, limitando alla stronzate light la sguaiataggine da osteria.

lunedì 16 dicembre 2019

Sardine: “Basta l’elemento di massa per generare conflitto sociale?”

Il movimento delle sardine, divenuto famoso fin dalla prima piazza bolognese, ha imposto una serie di questioni nel dibattito politico. Per valutare le caratteristiche che questo movimento assume non si può che analizzarne la funzione che svolge all’interno di questo contesto. Un’analisi che prende in considerazione le Sardine astraendole dalla società in cui si sviluppano non può che essere parziale e di conseguenza non può che portare a conseguenze politiche particolari e incapaci di cogliere le questioni più generali.
La domanda a cui vogliamo rispondere è: basta l’elemento di massa per generare conflitto sociale?
Guardando appunto alla società si deve prendere atto che – in Italia soprattutto – le mobilitazioni di massa si esprimono essenzialmente su tre questioni: quella dell’ambientalismo, quella di genere e quella dell’antifascimo/antirazzismo, intorno a questi tre “temi” effettivamente si riempiono le piazze.
Questo è sintomo di una certa disponibilità da parte di alcuni settori sociali a dedicarsi alla politica, ovvero a dedicare parte del proprio tempo – per quanto minimo in molti casi – a questioni che certamente ci toccano personalmente ma che necessariamente devono essere rappresentate collettivamente e quindi in piazza.
Il movimento delle Sardine coglie questo dato oggettivo ma come ogni movimento politico – essendo il prodotto della società in cui viviamo – non può che essere soggetto ai rapporti di forza esistenti, rapporti di forza che definiscono i caratteri e la forma politica che il movimento assume e di conseguenza la funzione che svolge realmente nella società.
Il contesto nel quale si sviluppa è certamente quello della crisi del modo di produzione capitalistico, una crisi che dura ormai da più di dieci anni e che ha ridotto i margini di redistribuzione della ricchezza. Quindi oggettivamente le classi popolari percepiscono che “si sta peggio di prima”.
Questo dato di fatto non fa altro che aumentare le contraddizioni nella società. Le contraddizioni di per se non si esprimono in maniera “pura” ma è l’azione delle soggettività organizzate che ne definisce la forma politica, ciò che non si può più negare è che il movimento delle Sardine è stato fondato da quattro portavoce che non si fanno problemi ad affermare “il centro-sinistra ci rappresenta bene”.
Non solo, Mattia Sartori ha tranquillamente preso parte alla manifestazione elettorale di Stefano Bonaccini, candidato Pd in Emilia Romagna, dove il movimento è nato in funzione anti-Lega. È quindi un fatto che una delle soggettività organizzate di riferimento sia il centro-sinistra.
Inoltre, se i media mainstream costruiscono una narrazione in cui esiste solo il dualismo PD/Lega, nel momento in cui si identificano i sovranisti con la Lega allora diventa naturale pensare che il soggetto capace di capitalizzare a livello elettorale sia proprio il PD. Ci sono altre soggettività all’interno del movimento? Certamente, in che rapporti di forza stanno con il PD? Agendo in un movimento con queste caratteristiche e a forte egemonia del PD è possibile rafforzarsi e quindi modificare i rapporti di forza?
Diamo uno sguardo alle parole d’ordine che il movimento ha sviluppato.
È sicuramente un movimento “morale” che, a partire da una piattaforma di “buoni sentimenti”, si oppone ai cosiddetti sovranisti e “populisti” nostrani.
Rivendicano il diritto di essere persone normali che amano la bellezza e la non violenza mentre cantano Com’è profondo il mare di Lucio Dalla. La contrapposizione si esprime solo sul piano verbale e infatti le Sardine chiedono alla politica di abbassare i toni, di eliminare l’odio, di ridurre al minimo le esternazioni di rabbia. Contestano la forma che la politica ha assunto in Italia grazie a Salvini ma non si dice una parola sulle politiche che ha condotto, anche perché sono in continuità con quelle del PD.
Quindi si può dire che sfrutta un dato morale e lo declina nella forma più utile al soggetto più forte in quel contesto, ovvero si rimuove ogni possibile “degenerazione” conflittuale e anzi si costruisce una narrazione nella quale il “conflitto” è il problema. La conseguenza naturale di questa operazione è l’affermazione che siamo tutti uguali, tra le Sardine non ci sono differenze. La questione delle Madamine SiTav nella piazza torinese ha messo in luce proprio questo, ovvero se le Madamine non rappresentano differenze nella forma che la manifestazione deve assumere allora possono tranquillamente stare in piazza.
Si vanno inoltre a definire alcuni elementi culturali che più che appartenere al popolo sono il riflesso diretto dell’egemonia borghese sulla società. Gli endorsement di Saviano e di Fazio hanno proprio la funzione di creare ad arte una divisione tra un “noi” e un “loro”, dove il “noi” sono gli illuminati, quelli che non si scompongono mai nemmeno di fronte alle atrocità di una società malata, mentre “loro”, quelli ignoranti, sono gli incompetenti, quelli che vengono strumentalizzati dalla paura e dalla demagogia, quelli accecati dall’odio.
Tanto che La Stampa, in un’analisi sulla piazza torinese, candidamente ammette “Nessuno di loro, per dire, spende una parola per Joker che si potrebbe immaginare come film di riferimento di una massa giovanile scesa nelle strade per rivendicare attenzione da un potere cinico e insensibile. Anzi, in tanti ironizzano sul suo successo: ‘Non l’ho ancora visto, sarà grave?’”. Insomma, un atteggiamento per nulla popolare e molto elitario: in questo senso le Sardine sono l’esatto opposto dei Gilet Gialli.
La funzione reale che questa forma politica sta svolgendo nella società è tutta ideologica, nel senso che è funzionale allo sviluppo di una falsa coscienza che rimuove le differenze tra i settori popolari che subiscono la crisi e coloro che la gestiscono a colpi di tagli al welfare.
Le sardine sono il brand – dalle sembianze buone e spontanee – della forza della concertazione nel nostro paese, anche questa uscita allo scoperto dopo le recenti dichiarazioni di Landini sulla necessità di un patto tra lavoratori, imprese e governo per rimettere in piedi il nostro paese. Alla faccia del facciamo come in Francia.
Salvini ha nel tempo sviluppato dei toni che soffiano sul fuoco delle contraddizioni reali di questa società, pur declinandole in maniera reazionaria la prateria poteva accendersi da un momento all’altro e così assistiamo al ritorno dei campioni dei “toni bassi”, i tecnici, come Mario Monti.
Il segno di quanto questa operazione sia ideologica ce lo danno le parole della Fornero, colei che ha intasato il mercato del lavoro con la legge sulle pensioni costringendo migliaia di giovani alla disoccupazione e alla precarietà ha affermato: “I giovani mostrano di avere capito la necessità delle riforme, che tutte le riforme non sono necessariamente giuste ma vanno fatte, e l’idea di cancellarle soltanto in nome ‘del buon tempo antico’ è sbagliata” e ancora: “hanno anche capito che la riforma delle pensioni era un tentativo di riequilibrare il bilanciamento economico, fortemente sbilanciato a scapito delle nuove generazioni”.
Tuttavia, lo ha detto sommessamente – com’è nel suo stile – e quindi le Sardine lo accettano. È chiaro che la forma che ha assunto il movimento delle Sardine permette la continuità delle politiche che hanno massacrato la popolazione, tutto sotto il segno della bandiera dell’Unione Europea.
Quindi stando dentro al movimento delle Sardine una forza politica che vuole portare avanti gli interessi delle classi popolari si rafforza o si indebolisce?
Qualcuno potrà dire che in fin dei conti se il movimento è democratico dovrà accettare le critiche ed è quindi possibile avanzare dei contenuti all’interno, non terrebbe conto però del fatto che la democrazia in questo contesto è solo formale. Infatti, tra le regole per stare insieme in piazza c’è questa: “Tutte le feste delle Sardine si sono svolte con sorrisi e serenità e sarà così anche la nostra. Se proprio qualche facinoroso vuol dire la sua, restate tranquilli, non reagite d’impulso, ma con distacco, le Forze dell’Ordine sono dalla nostra parte”. Chiediamolo ai Gilet Gialli da che parte stanno le Forze dell’Ordine.
E’ chiaro quindi che il movimento delle Sardine è uno dei tanti strumenti della pacificazione contro la nascita di conflitti in grado di rompere l’egemonia neoliberale e neoliberista nel nostro paese, nonché un’arma molto potente della ricomposizione della “sinistra” attorno alla paura del ritorno del fascismo: il fronte antifascista unito contro la Bestia è ancora una volta coniugato in senso negativo, mai per proposte sociali in opposizione alle imposizioni antipopolari della Troika e del capitale europeo.
Come insegnano Macron e la Merkel per dare stabilità politica ad un paese è necessaria la Grosse koalition socialisti/conservatori, ma questa alleanza in Italia significa un governo PD/Lega il ché mette a rischio il consenso di entrambi i partiti.
Il movimento delle Sardine recupera consensi sul terreno del centro-sinistra e finisce così per rispondere a una necessità delle classi dominanti, non solo in Emilia Romagna ma in tutto il paese.
Nel paese dell’ex-Ilva e di Alitalia, bombe sociali in grado di mettere in ginocchio il nostro paese, l’area politica che ruota attorno al PD continua ad utilizzare strumentalmente il radicamento sociale ereditato dal vecchio PCI ed a usare – sfruttando il mondo dell’associazionismo ad esso affine – le strutture giovanili e sindacali per far sì che tutto cambi, senza realmente cambiare nulla.
Nel frattempo si lascia alla Lega il rapporto con gli strati popolari che maggiormente sentono gli effetti della crisi e per questo non possono contenere la loro rabbia.
Si produce così quella contraddizione tipica del dualismo politico italiano in cui la sinistra dice di combattere contro la Bestia (ieri Berlusconi e oggi Salvini) mentre costruisce materialmente l’ipotesi reazionaria consegnando la rappresentanza politica delle classi popolari alla destra e condividendone con essa le politiche reali.
Come organizzazione politica giovanile non possiamo esimerci dal prendere atto che c’è una certa disponibilità da parte di alcuni settori sociali a mobilitarsi, che la Storia non è finita ma sta girando e l’America latina sta lì a dimostrarcelo.
Le Sardine ci dicono che per essere influenti nei movimenti è necessario organizzarsi, se però mancano gli spazi politici utili a mantenere il rapporto con i settori popolari l’organizzazione non può che indebolirsi e il nemico rafforzarsi.
La fase politica che stiamo vivendo ci impone un salto di qualità sul piano della dialettizzazione con la realtà ma nessuna scorciatoia può salvarci dall’obbligo di provare a costruire altro, cioè una rappresentanza autonoma e indipendente degli interessi della nostra “gente”, a partire dalle nuove generazioni nate e cresciute nella crisi.
Questo è il nostro compito, è la Storia che ce lo richiede.

giovedì 12 dicembre 2019

Autonomia differenziata. Una riorganizzazione della governance capitalista nel nostro paese

Tra le molteplici definizioni del capitalismo quelle che sembrano più efficacemente definirne la natura, nell’attuale fase storica del suo dominio, attengono alla funzione di estensione, moltiplicazione ed approfondimento sistematico delle diseguaglianze. Un accrescimento delle contraddizioni connaturato all’incessante movimento di valorizzazione capitalistica in nuovi ambiti -territoriali, produttivi, settoriali, – che concorre alla definizione di nuovi e funzionali sistemi di relazioni anche di natura politica e istituzionale.
Il trentennio che segue la fine dell’esperienza sovietica e del sistema dei paesi socialisti dell’Est-Europa è all’origine dell’attuale fase del modello di accumulazione, che attraverso una impetuosa crescita della dimensione economico- finanziaria, la cosiddetta globalizzazione, con un processo di centralizzazione dei capitali in poli geo-economici, ha innescato una nuova fase della competizione capitalistica. Alle nostre latitudini, la costruzione della Unione Europea, sulle spoglie della Comunità Economica Europea espressione del sistema di relazioni post-bellico del blocco occidentale, congegnato in un sistema di trattati di matrice ordo-liberista a sostegno del baricentro finanziario, economico e produttivo collocato nell’area  Nord-Europea, Germania in testa, si pone come portato della riorganizzazione dell’intero sistema di relazioni dell’Europa  Occidentale, strutturato come polo competitivo sovranazionale compreso nello sviluppo delle forze produttive e nelle filiere della valorizzazione.
I vincoli esterni, la perdita di margini crescenti di autonomia economica e sovranità nazionale, imposti dall’appartenenza alla Unione Europea e dall’ingresso nell’Euro sono la base interpretativa delle trasformazioni sociali, economiche, politiche ed istituzionali che hanno investito il nostro paese, con l’apporto di un acceleratore delle dinamiche rappresentato dalla crisi sistemica e di sovrapproduzione di capitali che con la sua esplosione del 2008 ha direttamente investito l’emisfero geo-economico della U.E. sotto le spoglie di crisi del debito sovrano. Il porre al centro della dinamica economica e finanziaria, secondo quanto previsto dal sistema dei trattati alla base della costruzione della U.E., la “sostenibilità” del debito pubblico è stata la chiave di volta per approfondire le gerarchie interne all’Eurozona, a partire dalla distinzione tra paesi core del processo di costruzione della U.E., Francia e Germania, e paesi periferici progressivamente ridotti al ruolo di mercato interno dei paesi esportatori di merci e capitali.
La lettura delle vicende interne al nostro paese non possono prescindere, dunque, dal processo di integrazione nel polo Europeo. Ciò a cui abbiamo fondamentalmente assistito nell’ultimo trentennio è stato una imponente riconversione di un intero apparato economico produttivo alla nuove condizioni del processo di accumulazione, trainate dalle produzioni ad alta composizione organica di capitale, tecnologicamente avanzate, collocate nei paesi dominanti della U.E. e funzionali al modello mercantilista teutonico. Un modello che ha attraversato incontrastato l’intera formazione economico-sociale dei paesi U.E., fino all’attuale recrudescenza della competizione imperialistica tra poli innescata dalle politiche di recupero della egemonia economica e politica dell’imperialismo U.S.A. e foriera di nuove fibrillazioni economiche e politiche nei paesi del polo europeo.
Naturalmente un simile processo di portata storica, di cui abbiamo solo evidenziato alcuni tratti, è organico al processo di rimodulazione del dominio di classe, all’affermarsi nel nostro paese di una borghesia trans-nazionale che nel sistema di relazioni del polo europeo trova ed apporta linfa  alla competizione, sia interna, tra le componenti nazionali, territoriali e produttive, che esterna nella competizione inter-imperialistica; oltre a definire, nel quadro di queste relazioni, il proprio peso specifico nella gerarchia  dei paesi U.E..
L’integrazione dell’Italia nel processo di costruzione della U.E. sembra riproporre per intero il portato storico della borghesia nostrana, ossia, classe dominante priva di visione strategica nazionale.  Le politiche di gestione del debito pubblico poste a presidio della costruzione della U.E., si rivelano il grimaldello per una destrutturazione economica e produttiva, minando le condizioni imprescindibile per una politica industriale nazionale. Le privatizzazioni considerate il volano della modernizzazione neoliberista del nostro sistema industriale, pur assecondando la formazione di una borghesia organica ai processi di costruzione del polo europeo, attraverso l’alienazione di asset industriali strategici, spesso cannibalizzati dalle aziende acquirenti con sede nei paesi core della U.E. per liberarsi di pericolosi competitori, si è tradotta in un progressivo deterioramento delle capacità competitive nella gamma delle produzioni ad alta composizione organica. La dismissione di settori quali, ad esempio, l’informatica e le telecomunicazioni hanno privato il nostro paese della base produttiva di riferimento per i processi industriali legati allo sviluppo delle tecnologie ad alto contenuto di conoscenza , alla base della nuova frontiera tecnologico-produttiva digitale.
Insomma, le politiche di privatizzazione e di gestione del debito hanno rappresentato il combinato disposto di una progressiva ed inesorabile colonizzazione della struttura economica – produttiva del nostro paese. L’impossibilità di impostare politiche industriali in una visione di sistema-paese, per l’evidente sottrazione dei primari assets, base produttiva e sistema di finanziamento pubblico, sono dunque aspetto portante del declino del sistema di relazioni unitario che ha caratterizzato, sia pure in un contesto di profonde diseguaglianze territoriali tra Nord e Sud funzionali al modello dominante di accumulazione, un’intera fase storica della vita del paese. (fine prima parte)

martedì 10 dicembre 2019

La sfida del Manifesto laburista

Il 12 dicembre, cioè giovedì di questa settimana, ci saranno le elezioni politiche In Gran Bretagna.
Abbiamo seguito quest’inedita campagna elettorale sin dalla convocazione delle “snap election”.
Nel contributo precedente, oltre a dare un quadro dello stato dell’arte della competizione elettorale, caratterizzata dalla forte polarizzazione tra Conservatori da un lato e Laburisti dall’altro, abbiamo analizzato dettagliatamente i contenuti dei primi due capitoli del Manifesto del Labour, dopo averne dato una sintetica visione d’insieme
Torneremo ad occuparci, prima delle elezioni, delle ultimi fasi della campagna elettorale, ora analizziamo la seconda parte del programma laburista.

Affrontare la povertà e l’ineguaglianze

I labouring poor sono un fenomeno che caratterizza l’attuale società britannica. Mentre le retribuzioni non hanno ancora raggiunto i livelli pre-crisi, i dividendi degli azionisti sono “schizzati” in cielo.
Così, mentre le classi subalterne sono state coinvolte in una spirale di indebitamento a causa dei bassi salari e dall’aumento complessivo del costo della vita, la parte più ricca ha potuto prosperare indisturbata.
Delle 14,3 milioni di persone in povertà, nove milioni vivono in famiglie dove almeno un adulto lavora. I salari reali sono ancora più bassi di quelli percepiti prima dell’avvento della crisi, mentre i dividendi pagati agli azionisti sono aumentati dell’85%”
Il Labour vuole introdurre un salario minimo di almeno 10 sterline l’ora, dai 16 anni in su, ed un reddito di base universale.
Oltre a questo costituirà un Inclusive Ownership Funds (IOFs), rendendo i lavoratori proprietari di almeno il 10% delle aziende, con una distribuzione equa dei dividendi; per i quali è previsto un tetto, con una parte che servirà per finanziare il fondo per la transizione climatica Climate Apprenticeship Fund.
Aumentare il potere dei lavoratori attraverso l’organizzazione sindacale e la contrattazione collettiva è uno dei cardini del Manifesto, con una serie articolata di proposte che compongono due pagine del programma. In ambito governativo, per restituire parola ai lavoratori, verrà istituito un Ministero per i diritti dell’occupazione (Ministry for employment Rights).
La filosofia con cui il Labour si approccia alla questione è ben spiegata nel preambolo delle proposte:
Siamo fieri delle conquiste del movimento sindacale nel dare alle persone una voce nei posti di lavoro attraverso la contrattazione collettiva. Non è solo una parte della nostra storia, ma è parte del nostro futuro. Solo cambiando i rapporti di forza in favore dei lavoratori otterremmo salari decenti, sicurezza e dignità al lavoro.
Il prossimo governo laburista trasformerà la vita delle persone in meglio attraverso la più grande estensione dei diritti dei lavoratori nella storia!
Il progetto di riduzione dell’orario di lavoro è radicale.
In un decennio ridurremo la media della settimana lavorativa full-time a 32 ore, senza perdita di salario, basata sull’aumento di produttività
Sono i sindacati la maggior garanzia per un miglioramento della condizione lavorativa.
Sindacati forti sono il mezzo migliore e più efficiente per i diritti al lavoro. Il Labour introdurrà un nuova, unificata Agenzia di Protezione dei Lavoratori” (Workers Protection Agency).
Il Labour riscriverà le regole complessive della politica industriale, promuovendo una mentalità che liberi dalle esigenze a corto termine degli azionisti, implementando il potere decisionale effettivo dei lavoratori in azienda, destinando un terzo dei posti nel board a direttori eletti dai lavoratori, “perché quando coloro che dipendono da una azienda hanno voce nella sua gestione, la ditta generalmente fa meglio e dura maggiormente”.
Allo stesso modo verranno introdotti criteri protezionistici per tutelare la base industriale della Gran Bretagna, prevenendo soggetti che ne minano la solidità con take-over ostili o il dissanguamento degli asset.
Le politiche dei Conservatori hanno penalizzato la componente femminile della popolazione. “Più dell’85% del peso dei tagli dei Conservatori e dei Lib Dem è ricaduto sulle spalle delle donne
Il Labour creerà un nuovo Dipartimento per le Donne e le Eguaglianza, con un Segretario di Stato full-time ed una nuova Commissione Nazionale per le Donne.
Un attenzione particolare è rivolta a promuovere una parità di salario effettiva, l’abolizione delle discriminazioni attuali, la piaga delle violenze domestiche e degli abusi sessuali sul lavoro…
Razzismo e discriminazioni in genere saranno priorità dell’agenda governativa, promuovendo una cultura inclusiva che valorizzi le differenze e attui una vera realizzazione dei diritti civili.
Un paragrafo consistente è dedicato alla “comunità LGBT”, perché la politica dei Conservatori è stata piuttosto deficitaria nel rimuovere gli elementi di discriminazione.
Sulle politiche migratorie e sulla condizione dei rifugiati il Manifesto è chiaro, eliminando le storture del passato.
Porremo fine alla detenzione indefinita, passeremo in rassegna le alternative alle condizioni inumane dei centri di detenzione, e chiuderemo Yarl’s Wood e Brook House.”
Con una politica di tutela dei rifugiati.
La sicurezza sociale per ciò che riguarda la presa in cura delle persone è stata minata dalle politiche dei Tories in differenti aspetti, che hanno fatto diventare la povertà un fenomeno endemico, rendendo strutture pubbliche come la DWP più orentate a “perseguitare” le persone che non ad aiutarle.
Nelle parole delle Nazioni Unite, la rete della sicurezza sociale in Gran Bretagna “è stata deliberatamente rimossa e sostituita con un etica persecutoria e di sostanziale mancanza di cura”.
Una delle piaghe che affligge il Regno Unito è la povertà infantile, che il Labour intende prendere di petto: “metteremo fine al fatto che 300.000 bambini vivono in povertà”.
Tutti i “soggetti deboli” sono stati colpiti, compresi i portatori di handicap.
Sugli anziani le politiche dei Conservatori sono state devastanti: “400.000 pensionati sono stati spinti nella povertà e una generazione di donne nate negli Anni Cinquanta hanno visto cambiare la loro età pensionabile senza una giusta comunicazione. Questo tradimento ha lasciato milioni di donne senza il tempo necessario per fare piani alternativi – con conseguenze personali talvolta devastanti.”
La questione abitativa è uno dei cardini della politica laburista, visti i connotati di vera emergenza che ha assunto. Le conseguenze della politica abitativa dei Tories negli ultimi 10 anni sono devastanti ed hanno come simbolo del loro fallimento la tragedia di Greenfell Tower.
Ci sono meno case nuove per l’affitto a canone sociale, un milione di inquilini in più costretti all’affitto dai privati. 900.000 giovani in meno che possiedono una casa, più del doppio costretti a dormire in strada”. Il Labour creerà un nuovo Dipartimento per le Politiche Abitative, rinnoverà Home England, facendola diventare una agenzia in cui gli eletti locali siederanno nei posti di comando.
La soluzione più idonea per l’emergenza abitativa è identificata nella costruzione di case popolari – 150.000 l’anno – con una governance adeguata dei processi di “gentrificazione” e un ribilanciamento dei rapporti di forza inquilino/proprietario.
Più di 11 milioni di persone affittano da un proprietario privato” e soffrono lo strapotere dei proprietari di casa, per non parlare della piaga dei “tenza-tetto”, tra cui ci sono 125.000 bambini.
Il Labour vuole cambiare la “cornice” istituzionale come prodotto di un processo costituente, e propende per la sostituzione della Camera dei Lords con un Senato che rappresenti i territori.
In generale il processo di de-centralizzazione dei poteri e di maggiore partecipazione delle istituzioni locali nei processi decisionali è auspicata, si coniuga con un maggiore autonomia garantita agli Stati dell’Unione.

L’ultima parola sulla Brexit

Il Labour constata il fallimento dei Conservatori nella conduzione delle trattative sulla Brexit, e giudica l’accordo raggiunto da Boris Johnson peggiore di quello raggiunto da Theresa May.
Allo stesso tempo si oppone ad una No-deal Brexit, vista come una minaccia di cui si potrebbe avvantaggiare solo l’amministrazione nord-americana – in specie per la privatizzazione del Sistema Sanitario Nazionale -, e propone di dare l’ultima parola ai cittadini, che saranno chiamati ad esprimersi sull’accordo che sarà raggiunto, predisponendo le basi giuridiche per la realizzazione del voto vincolante dei britannici su questa delicata questione.
Il Referendum proposto non sarà una messa in discussione di quello effettuato nel 2016, ma una sua implementazione.
I perni dell’accordo sulla Brexit, in caso di vittoria laburista, sarebbero l’unità commerciale della Gran Bretagna per “proteggere” il settore manifatturiero britannico e permettere al paese di beneficiare degli accordi commerciali GB-UE, prospettando uno stretto allineamento con il Mercato Unico.
Promuovere gli standard adottati dalla GB sui diritti dei lavoratori, i consumatori e la protezione dell’ambiente come soglia minima sulla quale non giocare al ribasso, continuare la cooperazione in aree vitali con le agenzie e programmi finanziati della UE, una chiara vocazione a continuare la cooperazione in materia di sicurezza poliziesca.
Il Labour assicura in ogni caso di tutelare le garanzie per i tre milioni di cittadini UE che vivono in GB per lavorare e vivere nel Regno Unito, così come vuole garantire il milione e più di britannici che vivono nel Vecchio Continente.
In caso di permanenza nella UE, la Gran Bretagna non accetterà lo status quo, a cominciare dalle politiche di austerity che sono state portate avanti fin qui, propugnando per un “riformismo radicale” imperniato su gangli vitali su cui si basa la politica del Labour.
Se le persone decideranno di lasciare l’UE, un governo laburista lavorerà in maniera costruttiva con la UE su interessi vitali di mutuo interesse e il per beneficio reciproco della Gran Bretagna e dell’Unione Europea. Ma lasceremo la UE. La cosa più importante, con un governo laburista, avrete l’ultima parola sulla Brexit.”

Un nuovo internazionalismo

Il Labour vuole promulgare un War Powers Act “per garantire che nessun primo ministro possa bypassare il Parlamento per attuare una azione militare convenzionale”. Condurre un audit “sull’impatto dell’eredità coloniale britannica”, incrementare gli sforzi diplomatici britannici per la pace e la tutela del clima. Il riconoscimento di alcuni crimini dell’Impero britannico.
Intende promuovere una politica attiva dei diritti umani, invertendo il corso della vendita di armi a regimi repressivi, considerando che dal giugno 2017 i ministri Conservatori hanno firmato con loro più di “2 miliardi di vendita di armi”.
Propende per la sospensione immediata della vendita delle armi all’Arabia Saudita, utilizzate nel conflitto yemenita, e ad Israele, che le usa contro i palestinesi. “Condurre una riforma root-and branch del nostro regime di export di armi, affinché i ministri non possano più chiudere un occhio rispetto alle armi fabbricate in Gran Bretagna usate per colpire civili innocenti”.
Una politica internazionale attiva nei confronti delle popolazioni discriminate ed una diplomazia climatica attiva, insieme alla prevenzione dei conflitti e la promozione della pace sono tra gli obiettivi del “nuovo internazionalismo” del Labour, a cominciare dalla risoluzione del conflitto israeliano-palestinese.
Questo dovrebbe verificarsi all’interno di una risoluzione che propenda per i “due Stati”, rimuova il blocco sui Territori, l’occupazione e le colonie.
Un governo laburista riconoscerà immediatamente lo stato della Palestina”, viene detto espressamente, suscitando le ire della lobby sionista.
Una riforma dell’ONU e l’incremento dei fondi per le operazioni di Peacekeeping dell’ONU, rispettando gli impegni nella NATO sono alcuni assunti programmatici
Il rinnovo del Trident nuclear deterrent e la promozione di un mondo libero da armi nucleari.
Il Labour vuole comunque confermare la spesa del 2% del PIL per le forze armate, tutelando il settore dell’industria militare, a partire dal navale e dall’aerospazio.
Una politica di sostegno attivo di tipo “non caritatevole” né imperiale nei confronti del Sud Globale, tesa a porre al centro i bisogni dei più, rispetto ai privilegi dei pochi, in particolare in sostegno delle organizzazioni sindacali, dei movimenti di donne ed in direzione della giustizia climatica, l’accesso al cibo e ai farmaci concludono gli obiettivi dichiarati delle 107 pagine del programma.