lunedì 20 luglio 2020

“Modello Milano”, il pasto nudo della speculazione immobiliare

Il dualismo Nord/Sud è stato evidente nel decorso di questa epidemia, con una diffusione nettamente superiore al Nord piuttosto che al Sud.
Sergio Brenna, ex docente di urbanistica al Politecnico di Milano, risponde ad alcune domande e affronta alcune questioni rispetto al modello di sviluppo urbanistico e territoriale del nord Italia e in particolare di Milano, come anticipazione di quanto verrà sviluppato nel dibattito di mercoledì prossimo a Milano, sulla “questione settentrionale”.
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La crisi sanitaria da cui il Paese, e soprattutto la Lombardia, non è ancora uscita del tutto ha colpito in modo particolare le zone più altamente industrializzate e inquinate del Paese. Verosimilmente l’alta urbanizzazione del nord, e la necessità di concentrare un gran numero di esseri umani nei luoghi della produzione, sono state concause determinanti nel favorire la diffusione dei contagi. E altrettanto verosimilmente l’inquinamento, soprattutto nella pianura padana, è stato ed è un fattore di indebolimento delle difese naturali contro i virus. Il ruolo di una pianificazione urbanistica e di un modello di sviluppo industriale e territoriale vorace come quello della Lombardia, quanto ha inciso in questa dinamica?
Per quanto non si possa sostenere che ci sia una correlazione diretta tra storture nella pianificazione dell’uso del territorio e sviluppo della pandemia nelle regioni del Nord, credo si possano individuare alcuni punti di carattere urbanistico-insediativo che soprattutto nelle leggi regionali della Lombardia destro-leghista hanno posto ulteriori condizioni di facilitazione della sua diffusione e difficoltà di controllo.
Tra questi mi pare di poter indicare principalmente:
1) l’equiparazione tra spazi per servizi pubblici e servizi privati sostitutivi;
2) la conseguente riduzione quantitativa degli spazi pubblici di una regione che si pretende più ricca delle più avanzate economie europee, ma non sa essere altrettanto civile;
3) l’indifferenza funzionale delle scelte localizzative decise privatamente;
4) una riduzione del consumo di suolo, non solo molto più modesta e lenta degli obiettivi europei, ma senza una vera riduzione del peso insediativo cui invece si sta consentendo di concentrarsi senza limiti sul già urbanizzato.
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Parliamo della deregolamentazione della pianificazione urbanistica. Molte delle leggi regionali sulla riduzione del consumo di suolo hanno, tra cui quella della Lombardia, hanno promosso la fine del concetto di pianificazione e sdoganato la svendita del territorio ai costruttori. Il cosiddetto “Modello Milano” è stato ed è la punta di diamante dello sviluppo industriale ed urbano che premia la speculazione urbana in salsa green, la privatizzazione e la deregolamentazione del sistema pubblico…
Esattamente. Mi è capitato recentemente di ascoltare, in una trasmissione televisiva sulle “magnifiche sorti e progressive” del cosiddetto Modello Milano, la comune rivendicazione, da parte di esponenti di parti politiche che dovrebbero essere avverse, della bontà di un nuovo “rito ambrosiano”.
Questo dimenticando che quello “storico” degli anni ’50/’60 (imitato poi in diversi comuni del Paese) è consistito nell’ignorare la legge n. 1150/42, che richiedeva l’obbligo preventivo di un Piano regolatore generale, sostituendovi invece la prassi di contrattazioni “provvisorie” caso per caso, i cui contenuti ipocritamente avrebbero dovuto essere poi soggetti a conferma o rigetto in una futura pianificazione pubblica del Piano Regolatore Generale.
Ciò che una volta almeno si ammetteva essere un’ipocrita scappatoia arrangiata e formalmente provvisoria, oggi viene rivendicato come metodo stabile legalizzato dalla legislazione regionale e ratificato come legittimo persino da una recente sentenza del TAR sull’Accordo di Programma tra Comune di Milano e FS/Sistemi Urban,i in merito al riuso degli ex scali ferroviari.
Si sancisce così che, nei cosiddetti nuovi strumenti di pianificazione strategica, le leggi regionali possono autorizzare i Comuni a derogare dal rispetto delle normative minime inderogabili della legislazione nazionale.
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In questo modo, implicitamente, si ratifica che in Lombardia (ma anche in molte altre regioni del Nord e non solo) in campo urbanistico la molto discutibile “autonomia differenziata” è già in essere…
Basta poi continuare a votare leggi regionali a mio avviso in palese contrasto con la legislazione nazionale (in Lombardia, ad esempio, la L.R. 12/05 e la recente L. R. 18/19 sulla Rigenerazione Urbana: +20% sulle quantità edificatorie dei PGT, -60% sugli oneri urbanizzativi!) e il gioco è fatto. Non costa nulla a chi le approva, non essendoci pericolo che il Governo o il Parlamento, tramite l’Avvocatura dello Stato, le impugni per violazione delle proprie prerogative, e i cittadini in dissenso sugli esiti di queste procedure molto spesso o non si vedono riconosciuta la legittimazione a impugnare via via le mille deroghe in esse contenute o – quando ciò viene ammesso – difficilmente hanno le risorse economiche per continuare ripetutamente a farlo.
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E in tutto ciò che fine fa la questione della riduzione del consumo di suolo?
In tutto ciò c’è una palese deformazione dell’obiettivo di una riduzione del consumo di nuovi suoli (in Lombardia rinviato sine die dopo che la L.R. n. 31/2014 aveva indicato ritmi di riduzione ben più blandi di quelli già vigenti Germania e coi quali ben difficilmente si sarebbe potuto giungere al consumo di suolo zero al 2050, come indicato dalle direttive europee) non solo perché rimane il dubbio di fondo sulla reale efficacia di questo strumento nelle mani di un’amministrazione regionale che, prima con Formigoni, poi con Maroni, ora con Fontana, ha voluto connotarsi con lo slogan “ognuno padrone a casa propria“.
Ossia la logica che ha portato a far approvare piani urbanistici di durata solo quinquennale (cioè senza alcuna visione di lungo periodo) da parte di ciascun Comune e praticamente senza più alcun controllo di area vasta; ma soprattutto perché il tema correlato della “rigenerazione urbana”, cioè della concentrazione dei nuovi interventi edificatori su aree già urbanizzate, suscita più di una legittima preoccupazione.
Innanzitutto per la genericità ed indeterminazione di obiettivi e strumenti con cui dovrà attuarsi; e poi per la riduzione degli standard pubblici, riportati dalla Legge Regionale 12/2005 al livello minimo inderogabile dei 18 mq/abitante del 1968 e questo in una Regione che per sviluppo economico ama appunto paragonarsi e confrontarsi con quelle più sviluppate della Germania, ma non sa imitarne il livello di dotazioni pubbliche e di tutela ambientale.
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Insomma la tanto decantata “eccellenza lombarda” in verità è uno esercizio di retorica che lascia buchi pesantissimi sul territorio…  In verità nel modello Milano non arriva (e non intende arrivare) nemmeno lontanamente vicino ai livelli della dotazione di spazi pubblici come invece in altre regioni competitor (come ad esempio la Baviera). La restrizione degli spazi fisici pubblici da un lato, e privatizzazione del territorio è una storia politica di lunga data….
Si. Si noti che la Lombardia – che con la prima legge urbanistica regionale approvata in Italia, la L.R. n. 51/75, aveva portato gli standard minimi per spazi pubblici di quartiere a 26,5 mq/abitante, mentre le realtà urbane europee si spingono a prevedere 50 mq/abitante e oltre. Insomma, la Lombardia che si proclama più ricca delle altre regioni italiane e persino più della ricca Baviera, non sa essere altrettanto civilmente sviluppata in tema di dotazioni di spazi pubblici!
Anche la durata quinquennale e non ripetibile dei vincoli di uso pubblico, stabilita a botta calda dal Parlamento dopo la sentenza choc della Corte Costituzionale del 1968 (ricordo in Facoltà di Architettura i TazeBao che a caratteri cubitali strillavano”Urbanistica incostituzionale !”), potrebbe motivatamente essere rimessa in discussione da una visione progressista oggi sempre più evanescente.
La sentenza della Corte Costituzionale, infatti, chiedeva solo un termine temporale ai vincoli di uso pubblico, anziché la durata a tempo indeterminato di ogni genere di vincolo prevista per i PRG nella Legge 1150/42. Se si considera però che Piani Regolatori della Legge del 1865 duravano ben 25 anni e i Piani Attuativi degli attuali PRG/PGT ne durano tuttora 10, non si vede perché in linea di principio non si potrebbe tornare a proporre una simile durata, sicuramente più congrua a quella delle dinamiche urbane.
Questa riflessione non sarebbe completa se non ci si soffermasse anche su altri limiti della Legge Ponte. La 1150/42 prevedeva, infatti, che dopo la redazione del PRG vi fosse un’ulteriore fase di pianificazione pubblica comunale, coi Piani Particolareggiati di Esecuzione: solo dopo il privato avrebbe potuto presentare i propri piani di lottizzazione, che avrebbero però avuto una valenza poco più che di riassetto catastale delle proprietà, in adeguamento alle indicazioni del piano attuativo pubblico.
La Legge Ponte, invece, dopo l’approvazione del PRG con le sue prescrizioni localizzative e quantitative affida direttamente ai Piani di lottizzazione privati il compito di configurare l’assetto urbano ed edificatorio, e il privato lo fa ovviamente tutelando soprattutto la facilità attuativa del prodotto edilizio che deve poi far fruttare. Certo, le quantità edificatorie e di spazi pubblici sono quelle del PRG, ma come distribuirle è in funzione del massimo rispetto dell’assetto fondiario esistente in modo da turbarlo il meno possibile e le cessioni di aree pubbliche sono spesso fatte in zone residuali e frazionate.
Addirittura si è andata affermando la consuetudine che coi progetti cosiddetti “innovativi” in deroga al piano urbanistico vigente – una volta contrattate pattiziamente le quantità edificatorie e altrettanto pattiziamente gli spazi pubblici da realizzarsi, in genere non più del 50%, in una sorta di spartizione mezzadrile, mentre il rispetto degli standard minimi inderogabili richiederebbe il 65-70% e oltre – l’attuatore privato possa liberamente scegliere le funzioni (residenza, terziario, commercio; inutile pensare ad attività produttive oggi non più ritenute remunerative in ambito urbano) con cui dare attuazione all’intervento, secondo le convenienze di mercato che via via si vanno manifestando.
E’ evidente che in questa concezione l’ordine dell’assetto insediativo e la compatibilità tra le funzioni è l’ultima delle preoccupazioni che passa per la testa agli amministratori pubblici.
Ai molti che oggi lamentano che la cosiddetta “ragioneria degli standard”, conseguente al DM 1444/68, sia limitativa della libertà di fantasia progettuale, ricordo che nella mia esperienza di assessore ho visto discutere animatamente nei Consigli comunali quali fossero i limiti entro cui si potesse concedere di “monetizzare” le quantità di spazi pubblici da cedere per “far tornare i conti” delle norme imposte dal PRG, ma si discuteva di percentuali dell’1-2% e con valori assoluti di 500-1.000 mq.
È evidente, invece, che quando indici incongruenti “pattiziamente contrattati” negli strumenti urbanistici cosiddetti “innovativi” impongono la “monetizzazione” del 40-50% e oltre delle cessioni di aree pubbliche dovute, siamo di fronte a “convenzioni non urbanistiche” del tutto simili a quelle di prima della Legge Ponte e negli anni ’70-‘90 unanimemente deprecate, come lo erano quelle de Le mani sulla città, per rifarsi al bel film di testimonianza civile girato dal regista Francesco Rosi appunto nel 1963.
Si era già cominciato negli anni ’90 con i PII (Programmi integrati di intervento), PRU (Programmi di riqualificazione urbana), PRUSST (Programmi di riqualificazione urbana e sviluppo sostenibile del territorio) e con gli Accordi di programma, anche se per quasi vent’anni l’immobiliarismo tradizionale non aveva nemmeno osato credere alla possibilità di uno stravolgimento così totale della logica urbanistica che si era instaurata con la Legge Ponte 765/67 e con il relativo decreto attuativo DM 1444/68.
Poi è entrata in campo la grande finanza globalizzata, con la sua sterminata capacità di investimento su scommesse speculative di lungo periodo (aree pagate il doppio della rendita fondiaria corrente), e i Comuni col cappello in mano si sono resi complici nel cercare di raggranellare qualche briciola degli altrui grandi guadagni attesi.
Sulle grandi aree dismesse (ex aree fieristiche urbane, ex scali ferroviari di più o meno recente dismissione, ex caserme, ex insediamenti industriali) si sta procedendo come negli anni ’50/’60, quando a decidere dove, quanto e che cosa costruire era la convenienza economica di proprietà fondiarie e investitori immobiliari.
Con due aggravanti, però: 1) che oggi la dimensione fisica ed economico-temporale degli interventi proposti ai Comuni è enormemente accresciuta dalla dimensione finanziaria globalizzata e da quella delle aree in corso di dismissione d’uso (fabbriche, scali ferroviari, caserme, ecc.); 2) che allora i Comuni si dividevano tra quelli asserviti da Giunte compiacenti (Roma/Rebecchini, Napoli/Gava, Palermo/Ciancimino e giù giù per varie plaghe d’Italia) e quelli che si illudevano di poter beneficiare di qualche contropartita di utilità pubblica, moderandone le tendenze, pur senza una visione di pianificazione pubblica preventiva.
Oggi i Comuni, indipendentemente dall’orientamento politico, spesso pensano solo a facilitare le aspettative di investimento finanziario degli operatori, offrendosi di comparteciparvi con le aree di proprietà comunale (è accaduto a Milano con 100.000 mq comunali venduti a Hines/Catella, a Porta Nuova, e rischia di accadere di nuovo con quelle indotte dal nuovo stadio a S. Siro).
Solo così si spiega come possa essere accaduto che a Milano, su ex Fiera/Citylife e Porta Nuova, si sia arrivati da parte degli operatori finanziari a offrire alla rendita fondiaria proprietaria il doppio di quella corrente in operazioni immobiliari tradizionali e di più limitata estensione (1.800 €/mq slp pari – con quegli indici edificatori – a circa 2.000 €/mq di suolo contro gli 800-900 €/mq slp correnti in operazioni immobiliari tradizionali).
Qui a investire non sono più operatori immobiliari classici, che devono reperire i finanziamenti in banca e rientrare in tempi brevi per non fallire, ma direttamente le banche, le assicurazioni, i fondi pensione americani, i fondi sovrani mediorientali, ecc. che possono permettersi scommesse speculative di lunghissimo periodo e rischiare persino di perderle senza con ciò fallire.
Per quanto li si voglia “innovativamente” denominare con termini accattivanti, si tratta di fatto di “convenzioni non urbanistiche” del tutto analoghe a quelle pre-Legge Ponte/DM 1444.68 ma, appunto, in versione ed estensione 2.0 consentita da investimenti finanziari globalizzati.
Ve lo immaginate oggi vedere il Parlamento discutere e i governi cadere per quella quisquilia che sono vieppiù divenute, in epoca di finanza globalizzata, il governo del territorio e la rendita fondiaria che ne consegue?
Le modifiche legislative continuamente susseguitesi, che consentono ai Comuni di derogare sempre più ampiamente ai dettati minimi del DM 1444/68, che li dichiarava “inderogabili”, hanno continuato ad apparire qua e là in vari decreti omnibus e “milleproroghe”, prima con Berlusconi, poi con i vari Governi “tecnici” o di “emergenza”, e da ultimo persino il recentissimo Decreto Semplificazioni del Governo “alternativo” Conte-M5S-PD, senza che nessun parlamentare non dico lo mettesse in discussione, ma neppure se ne accorgesse.
E le sentenze dei TAR che prendono atto di ciò dichiarandolo perfettamente legittimo ne sono l’inevitabile conseguenza.
La questione urbanistica (e le sue conseguenze in termini di vivibilità e salubrità delle città e del territorio), ahimé, è totalmente scomparsa dall’orizzonte sia della politica che della società

venerdì 17 luglio 2020

L’immondo pasticcio su Autostrade, per evitare la revoca

I compromessi possono essere a volte necessari, e comunque si dividono sempre I buoni, pessimi o innumerevoli vie di mezzo.
Quello trovato dal governo su e con Atlanti per il futuro di Autostrade per l’Italia – Aspi, la società privata concessionaria di gran parte della rete autostradale di proprietà pubblica è un pasticcio immondo escogitato per salvare capra e cavoli: ossia la faccia della maggioranza di governo e i soldi dei Benetton.
Stando a quel che ha reso noto lo stesso governo, dopo una seduta fiume finita alla 5 di mattina, la concessione non viene revocata e resta ad Aspi. “In compenso” la quota azionaria in mano ai Benetton dovrà rapidamente scendere dall’88% attualeal 10% (che non dà diritto a un posto nel cda), al cui posto subentrerà prendendo il 51% Cassa Depositi e Prestiti, una società per azioni, controllata per circa l’83% da parte Ministero dell’economia e delle finanze e per circa il 16% da diverse fondazioni bancarie.
Sembra una semi-nazionalizzazione, ma non lo è affatto.
Il piano messo a punto dal ministro piddino Gualtieri prevede infatti la quotazione in Borsa della nuova Aspi senza più i Benetton (sganciata dalla holding Atlantia), sotto forma di public company ad azionariato diffuso esposta – come tutte le società per azioni di questo tipo – a scalate messe in atto da qualsiasi investitore finanziario (anche dagli stessi Benetton, ovviamente sotto altra “ragione sociale”).
L’operazione dovrebbe concludersi nell’arco di un anno, con una serie di corollari da realizzare nel frattempo.Autostrade per esempio dovrà intanto dovrà tagliare le tariffe più di quanto fino ad ora proposto (il 5%) e accettare di ridurre ulteriormente l’indennizzo previsto in caso di revoca delle concessioni.
Più generica e indeterminata, invece, la possibilità di rivedere prima o poi le clausole riguardanti le ipotesi di revoca per inadempimenti gravi.
Suona quindi come una battuta inoffensiva la “minaccia” del governo, secondo cui se Aspi non ottempererà a queste condizioni – concordate con la società – scatterà la revoca della concessione. Anche perché, da qui a qualche mese, chissà quale governo ci sarà e come la penserà in materia di concessioni pubbliche.
Il pessimo compromesso, dunque, salva la faccia solo a chiacchiere ai partiti della maggioranza. Qui lo scontro tra Pd e renziani da un lato e grillini dall’altro è stato sicuramente acceso, con i primi impegnati a difendere gli interessi dei Benetton e secondi nel cercare di portare a casa qualcosa che somigliasse a una “punizione” per la famiglia del “golfino”, al solo scopo di non peerdere un altro pezzo rilevante della propria credibilità.
A rimetterci pochissimo sono proprio i Benetton, primi responsabili della strategia “industriale” basata su risparmio nella manutenzione, aumento continuo dei pedaggi e massimizzazione dei profitti che ha prodotto il crollo di Ponte Morandi e un’infinità di problemi su tutta la rete autostradale.
Le loro azioni verrano comprate da Cdp, probabilmente al valore di mercato al momento del passaggio di proprietà. E dunque senza quella svalutazione drastica che sarebbe derivata da una scelta più radicale da parte del governo. “I mercati” l’hanno capito così bene che il titolo Atlantia, stamattina in Borsa, è schizzato in alto del 29,4%.
Soprattutto, questo imbroglio consente di mantenere inalterata la “privatizzazione” della gestione di infrastrutture pubbliche, costruite con fondi statali e affidate a privati rapaci perché ne ricavino un ingiusto profitto.
Una revoca sarebbe suonata come una vera nazionalizzazione, come una minaccia agli altri gestori di concessioni pubbliche (da Gavio a Toto, ecc) e in definitiva in una radicale correzione di rotta rispetto alle politiche neoliberiste degli ultimi 30 anni, unitariamente perseguite da centrosinistra e centrodestra.
In definitiva, si tratta di un altro insulto alle 43 vittime della strage di Ponte Morandi, ai loro familiari, alle famiglie che hanno perso la casa a causa di crollo-demolizione-ricostruzione.
Il che dà effettivamente la misura delle “qualità morali” di questo governo e dei partiti che lo compongono, così come della cosiddetta “opposizione” di centrodestra (che voleva, senza nasconderlo neanche troppo, il mantenimento dello statu quo in mano ai Benetton, munifici finanziatori di tutti i partiti presenti in Parlamento).
P.s. L’argomento tirato fuori dai giornali padronali, per cui non si poteva revocare la concessione perché questo avrebbe comportato la perdita del posto di lavoro per migliaia di dipendenti di Aspi è semplicemente falso. Un falso per cui si sono spesi i migliori ideologi degli interessi privati – pensiamo per esempio a Ferruccio De Bortoli, venerato opinionista di via Solferino e dei “salotti buonissimi” – contando sull’ignoranza diffusa e il silenzio complice dei sindacati concertativi (CgilCislUil).
Persino nei passaggi di proprietà tra società private, infatti, è previsto il mantenimento dei posti di lavoro e dei contratti in essere (“clausola sociale”). Impegni che naturalmente quasi tutte le neo-aziende poi disattendono, ma che comunque sono obbligatori per legge.
Il concetto semplice da capire è infatti: se anche la concessione viene revocata, non è che tutto il lavoro intorno alle autostrade (caselli, incasso pedaggi, manutenzione ordinaria, gestione delle emergenze di traffico, funzioni amministrative, ecc) improvvisamente si ferma.
I dipendenti, nel passaggio societario, restano al loro posto e con i loro stipendi. Specie se a subentrare è lo Stato, anziché uno squalo privato.
E infatti, in tutto il pasticciare notturno, dei dipendenti non si è preoccupato nessuno. Dovranno preoccuparsi loro, come sempre, quando alla fine della temporanea presa di controllo pubblica, torneranno sotto il comando di uno squalo più furbo.

lunedì 13 luglio 2020

Il teorema di Boeri: licenziare i vecchi per (non) dare lavoro ai giovani

Dobbiamo fare l’impossibile per permettere a queste generazioni sfortunate di recuperare.” L’ineffabile Tito Boeri lancia questo appello all’interno di uno dei suoi ultimi interventi che hanno a che vedere con le sorti del lavoro nei mesi a venire.
Il buon Boeri si dice in pena per il destino dei giovani, cioè di quella fascia del mondo del lavoro che a causa della cronica mancanza di adeguate attenzioni rischia di vedersi penalizzata più delle altre per via delle disastrose condizioni economiche nelle quali verseremo a causa del lockdown resosi necessario per affrontare la pandemia da Covid-19.
L’ex presidente dell’INPS, a tal proposito, sostiene che il blocco dei licenziamenti deciso dal Governo, che arriverà almeno fino a metà agosto, “concentra le riduzioni dell’occupazione interamente sui più giovani. A maggio il numero di occupati con meno di 24 anni era diminuito dell’11% rispetto a un anno prima. Metà dei posti di lavoro distrutti da Covid 19 coinvolgeva persone con meno di 35 anni, nonostante gli occupati in quella fascia d’età siano appena un quarto del totale”.
Il tutto alla luce del fatto che “non si era mai vista in Italia una recessione con andamenti così fortemente asimmetrici per fascia d’età e che ha un impatto così forte e immediato sul mercato del lavoro dei giovani, con riduzioni percentuali dei posti di lavoro superiori alle due cifre in solo tre mesi dall’inizio della crisi”.
Ci si potrebbe emozionare e addirittura commuovere dinanzi a una tale manifestazione di preoccupazione per il destino dei giovani, se non fosse che Boeri, pur sfoggiando un atteggiamento da buon padre di famiglia, sta in realtà dando legittimità teorica e una patina di buona fede a quello che i padroni, in maniera più diretta e gretta, già stanno facendo, cioè chiedere ulteriori razioni di precarietà.
Come abbiamo già avuto modo di vedere, infatti, si sta concretizzando un notevole sforzo da parte di diversi settori del mondo padronale italiano, sia dal punto di vista politico che mediatico, per far sì che le già risicate tutele rimaste ai lavoratori vengano ancor più compromesse.
L’obiettivo, neanche tanto difficile da scorgere, è quello di mettere in soffitta le pur blandissime e timide tutele previste dal cosiddetto “Decreto Dignità”.
Al di là degli attacchi diretti e serrati, la tirata di Boeri ci mostra che un’altra strada complementare presa dai nostrani propugnatori della precarietà è quella di una infingarda moral suasion all’insegna della compassione per i più giovani, a loro dire i più deboli tra i deboli.
Un altro chiaro esempio di tale modo di concepire le tutele del lavoro come un dannoso orpello quanto mai fuori posto all’interno della crisi corrente lo troviamo nell’intervento di Marco Pagano su Il Foglio. A suo dire la proroga del blocco dei licenziamenti e l’erogazione della cassa integrazione sono un inutile tentativo di rimandare l’inevitabile, ossia un drastico calo occupazionale, tanto che “il blocco dei licenziamenti spingerà le imprese a chiedere la CIG anche per lavoratori che esse non vogliono continuare a impiegare, e che licenzieranno non appena terminerà la proroga. Fino ad allora, l’aggiustamento dei livelli di occupazione si scaricherà solo sui dipendenti a tempo determinato, sotto forma di mancato rinnovo dei loro contratti”.
Insomma, non siamo troppo lontani da quella strategia per fornire sostegno alle politiche di austerità una volta passato il forte shock da Covid, strategia incentrata su ipocriti richiami alla questione ambientale e a quella dell’occupazione femminile.
Il martellante assedio contro i rimasugli di protezione dell’occupazione e dei redditi viene finanche tentato di far passare per sostegno caritatevole ai giovani.
Se a riguardo della complessiva aura di ipocrisia c’è ben poco da dire, molto di più può essere evidenziato sul ragionamento di fondo che dovrebbe dare vigore alle proposte appena riportate. I fragili pilastri del quadro dipinto sono fondamentalmente due.
Primo, vi sarà in ogni caso una inevitabile e drammatica crisi occupazionale, che il governo blocchi o meno i licenziamenti.
Secondo, i giovani all’interno di questo quadro sono inevitabilmente destinati a soccombere, dato che i più anziani godono di tutele di ben altro calibro.
Il primo punto sembrerebbe ineludibile: come si fa a non vedere la tempesta che ci attende all’orizzonte? In effetti, su di essa ci sono pochi commenti da poter fare. La caduta del PIL a fine anno avrà quasi sicuramente dimensioni bibliche, e questo non potrà che mettere a durissima prova il mercato del lavoro. Tuttavia, i destini dei più poveri e colpiti possono essere pianti solamente dopo che tutto il possibile per contrastare questo dramma sia stato fatto.
Sappiamo però benissimo che non è così: stretti tra la morsa della gabbia europea e della solita ingordigia padronale interna,  le prospettive per i lavoratori del Belpaese sono sempre più fosche. Degli stimoli fiscali dalla enorme portata necessaria a fronteggiare la crisi non c’è traccia.
Ed ecco quindi che, in altra veste, si ripropone la solita storiella sulla disoccupazione: si guarda il dato a valle, quando l’assenza di interventi rende certa una caduta dell’occupazione e si deve quindi ragionare a giochi fatti redistribuendo i posti disponibili fra una massa di senza lavoro, invece che a monte, dove l’intervento statale potrebbe drasticamente limitare questo allargarsi della disperazione.
Insomma, la disoccupazione ci viene presentata come un fatto naturale, di discendenza metafisica. E a quel punto, ci dice Boeri, l’unico ragionamento possibile è: chi ne paga le conseguenze? Ecco quindi la trovata geniale: facciamo pagare i vecchi.
Ed è qui che entra in gioco la “fase 2” del gioco sporco. Una volta chiusi i rubinetti della spesa statale a sostegno dell’occupazione, non resta che mettere uno contro l’altro due fronti di malcontenti: vecchi contro giovani.
Boeri ci dice che i primi sono più tutelati dei secondi. E cosa ci propone, quindi? Di garantire tutele, diritti e condizioni lavorative degne anche ai giovani? Giammai! Piuttosto rendiamo precari e carne da cannone anche i vecchi. Tuttavia, qui troviamo un elemento doppiamente doloso.
Primo, non vi alcuna evidenza che indichi come minori tutele per il mondo del lavoro si traducano in maggiore occupazione. Se questo i lavoratori già lo vivono quotidianamente sulla loro pelle da decenni, oggi abbiamo anche l’evidenza scientifica a sostenerlo con forza.
Secondo, tocca constatare come le puntate della mirabolante serie “Tito vs Tito” si arricchiscano di un nuovo avvincente episodio. Il buon Boeri non si lascia infatti scappare occasione per mettere in luce il suo costante doppiogiochismo. Un fulgido esempio lo avemmo nella discussione sull’effetto della riforma Fornero delle pensioni sull’occupazione.
Questa volta il buon Tito piange le sorti precarie dei giovani, ma quando si è trattato di incensare il Jobs Act del Governo Renzi queste paturnie non si erano manifestate, anzi.
Una volta di più, i novelli Giano Bifronte sembrano avere lo sguardo puntato in direzioni opposte. A ben vedere però, i loro occhi sono sempre ben fermi sulle tutele dei lavoratori, per le quali nutrono una ossessione senza fine.

martedì 7 luglio 2020

Francia, un rimpasto per salvare la pelle

A meno di due anni dalle elezioni presidenziali del 2022 il “rimpasto governativo” – la nuova composizione dell’esecutivo è stata comunicata alle sette di lunedì sera – è l’ennesimo tentativo di recuperare credibilità da parte del Presidente francese, specie dopo la batosta delle elezioni amministrative.
Macron gioca Macron per tentare di salvare la fine del suo Quinquennio”, titolava il primo commento a caldo del prestigioso quotidiano francese Le Monde, affidato a F. Frezzos.
In questi anni la disaffezione civica verso il voto dei francesi è cresciuta esponenzialmente, nonostante l’Esagono sia stato attraversato da movimenti che hanno fortemente “ri-politicizzato” la società.
L’astensionismo è passato dal 25,44% nel secondo turno delle presidenziali al 57,36% delle legislative, e dal 49,88% delle europee dello scorso anno al 58,6% del secondo turno delle elezioni amministrative.
Ormai la Francia è divenuta un regime censitario “post-rappresentativo”, dove le classi popolari, i giovani e le periferie praticamente non votano più. A Seine Saint-Denis per esempio – comune della ex “cintura rossa” parigina, persa dai comunisti in favore dei socialisti – l’astensione è stata del 67,5%, con punte dell’80% in alcuni quartieri – quasi due operai su tre, così come i giovani tra i 18 e 34 anni, non si è recato alle urne.
E questo è un fenomeno che ha riguardato anche comuni come Marsiglia, dove una composita lista di sinistra (“Printemps Marsailleise”) costruita attorno all’impegno militante di alcuni suoi animatori, con al centro alcune lotte importanti e vittoriose in città – contro il disagio abitativo e contro la partnership pubblico-privato nella scuola, per esempio – hanno posto fine a 25 anni di gestione clientelare della destra.
Nel corso di questi tre anni – dalla sue elezione il 7 maggio del 2017 – sono state numerose le defezioni di ministri anche di alto profilo in un governo che ha potuto contare su una solida maggioranza governativa – la creatura politica di Macron, LREM, aveva la maggioranza assoluta fino a poco tempo fa, oltre all’appoggio dei deputati di MoDem e UDI – e su una impalcatura istituzionale presidenzialista, che Macron ha interpretato da “monarca repubblicano”.
Come afferma Edwy Plenel di Mediapart: “il nostro presidenzialismo è un regime d’eccezione divenuto norma”, che fa di un uomo solo al comando l’arbitro in grado di fare e disfare senza alcun contrappeso, senza reale bilanciamento del suo operato, senza alcun vettore in grado di fare da cinghia di trasmissione per correggere la rotta.
Lui da un lato, rappresentante di un’oligarchia piuttosto opaca e sorda ai bisogni popolari, e dall’altra “le peuple”, che però non ha trovato un output politico adeguato, in grado di rappresentare l’estrema vivacità di ciò che si muove in piazza.
In questi tre anni l’agenda politica neo-liberista è sempre rimasta la stessa, nonostante il cambio di narrazione che ha cercato di adattarsi alle esigenze contingenti. In questa ultima trasformazione una maggiore enfasi sembra essere data alla questione ecologica – visto tra l’altro il “successo” dei verdi alle recenti elezioni amministrative – alla discriminazione razziale (tenendo conto delle le mobilitazioni avvenute anche in Francia dopo la morte di George Floyd), oltre all’attenzione al settore sanitario, mobilitato dalla primavera del 2019 e quasi subito tornato in piazza con la fine del “confinamento”.
Il tentativo di dare una parvenza di maggiore dialogo e concertazione dopo la “marea gialla”, in quello che voleva essere l’“Atto II” della sua Presidenza, girando pagina, è stato un flop, come ammettono candidamente gli analisti.
Il segno di Macron resta infatti ferocemente neo-liberista. Ne sono una prova le sue dichiarazioni sulla volontà di portare a compimento contestata la riforma pensionistica, osteggiata da un inedito sciopero ad oltranza da parte dei ferrovieri e di quelli della metro parigina durante l’ultimo inverno, da una serie di scioperi generali e da massicce mobilitazioni in tutto l’Esagono.
La “sinistra” di LREM avrebbe voluto un approccio più “dialogante”, su questo e su tutta una serie di dossier che in questa difficile congiuntura implicherebbero un nuovo “patto sociale”, ma che una Presidente senza consenso, che si appoggia ad una creatura politica non radicata e senza alcun corpo intermedio di riferimento, non può costruire.
Numerose sono le crisi che ha conosciuto la Presidenza Macron già prima dell’emergenza Covid-19; dall’“Affaire Benalla”, passando per il movimento dei Gilets Jaunes e giungendo alle mobilitazioni invernali contro la “pensione a punti”.
Più la sua popolarità è calata, più ha guardato “a destra”, in un distillato di politiche liberiste, torsione autoritaria e notevole spinta repressiva.
Come ha dichiarato lo stesso Macron alla stampa regionale prima del rimpasto. “credo che la direzione verso cui mi sono mi sono impegnato nel 2017 resti vera”.
Il cambiamento dell’esecutivo è avvenuto dopo le dimissioni presentate dal Primo Ministro E. Philippe, venerdì scorso, e  il quasi contestuale annuncio della nomina di Jean Castex per questa carica.
L’ex capo del governo, dopo la sua riconferma elettorale come sindaco di Le Havre, nel secondo turno delle elezioni amministrative la settimana precedente, aveva consegnato “a sorpresa” le dimissioni, accettate dal Presidente.
Philippe, che proveniva dal gaullismo – dall’UMP – era stato collaboratore di Alain Juppé e faceva parte di quella compagine di politici di LR entrati a far parte della compagine governativa senza prendere la tessera di LREM, all’inizio aveva il ruolo di “bilanciare a destra” l’immagine di un presidente che era stato ministro durante la precedente presidenza del socialista Hollande.
In realtà sempre più quadri gaullisti, nel corso del tempo, hanno rimpolpato le file governative.
Castex, si inserisce in questo solco, un anonimo funzionario di destra – tra l’altro ex stretto collaboratore di Sarkozy durante la sua presidenza – un tecnocrate proveniente dall’ENA, che i francesi hanno conosciuto per l’elaborazione del piano di “de-confinamento” a partire dall’11 maggio.
A differenza del suo predecessore ha preso la tessera di LREM, e sembra volere essere un elemento propulsivo e coagulante della maggioranza parlamentare, guidando questo tentativo di “riassembramento”.
Una figura destinata ad essere in secondo piano rispetto a Macron – un “collaboratore” è stata la definizione data dalla stampa – che infatti anticiperà il suo Primo Ministro parlando il 14 luglio, prima che questo possa esporre ai deputati il suo progetto governativo, come sarebbe prassi, soprattutto considerato che enfatizza il suo ruolo di esponente della “maggioranza governativa”.
Come scrivono C. Pietralunga e A. Lemane sul quotidiano francese Le Monde, il 3 luglio: “c’è limpressione di una messa sotto tutela, rinforzata dalla scelta, per dirigere la cabina del primo ministro, di Nicolas Revel (…) vicino a Macron”. Un fedelissimo che aveva già cercato di “piazzare” a Matignon, incontrando però il diniego di Philippe.
Macron quindi vuole tenere saldo in mano il timone, timoroso dei segnali di riconfigurazione del paesaggio politico; a sinistra lungo l’asse Partito Socialista (PS) e verdi (EELV), ma anche dei suoi possibili avversari a destra tra LR, anche se RN (Le Pen) ha dimostrato di abbaiare senza però mai mordere.
Sono 9 i nuovi ministri, compreso il Primo Ministro; ed escono dalla compagine governativa alcuni nomi di peso come  Castaner, Belloubet, Ndiaey, Pénicaud.
Il ministro dell’Interno C. Castaner è stato sostituito da G. armanin, dopo il suo arrivo a place Beauvau il 16 ottobre del 2018. Uomo vicino al Presidente, era stato nominato dopo le dimissioni a sorpresa di G. Collomb, ex-notabile socialista, due volte sindaco di Lione, che ha perso alle recenti elezioni amministrative.
Eric-Dupont Moretti, avvocato proveniente dalle file della società civile, diviene “guarda-sigilli”; alla cultura va la ex-gaullista (UMP) Roselyne Bachelot, mentre Barbara Pompili, ex “verde” passata a LREM, diviene ministra dell’ecologia.
Membri della società civile, ex gaullisti e centristi, esponenti padronali, sono i protagonisti di questo rimpasto “gattopardesco” di ministri e delegati con un tocco di “rosa”: sono infatti sei le nuove ministre.
La scelta di Moretti – che sostituisce Belloubet – è un gesto di distensione verso gli avvocati, fortemente mobilitati contro la riforma pensionistica, ma è una figura piuttosto esposta, mediaticamente divisiva e osteggiata dai magistrati.
Il Presidente dei ricchi si conferma tale. Sarà la piazza a decidere il suo destino, come per ogni monarca giunto al crepuscolo.

mercoledì 1 luglio 2020

Elezioni comunali in Francia, disfatta per Macron

Domenica 28 giugno si è svolto il secondo turno delle elezioni municipali in Francia, segnate dalla scarsa affluenza al voto con un un tasso d’astensione attorno al 60%.
Già durante il primo turno, il 15 marzo, meno di un elettore su due (il 44,3%) si era recato alle urne, contro il 63,5% delle precedenti elezioni municipali nel 2014.
Un astensione storica per questo tipo di elezioni locali, ma non per ciò che concerne la disaffezione al voto nella Francia recente, in cui il primo partito delle classi popolari è per così dire da tempo quello “astensionista”.
Alle elezioni europee della scorsa estate – sebbene si fosse registrato un aumento dei votanti – solo una persona su due, circa, si era recato alle urne, avvicinando la partecipazione del 1994 – al 52,7% – con un 8,3% in più rispetto 2014.
Tra il 1990 e il 2014, tra i paesi della UE, la Francia è stata in testa per il tasso medio di astensione (40%), decisamente avanti rispetto al gruppo mediano (Olanda, Spagna, Germania). Inoltre era il solo paese in cui la “non partecipazione” al voto ha conosciuto una progressione lineare.
Certamente ci sono delle ragioni “congiunturali” che contribuiscono a spiegare in parte l’astensione, come la situazione sanitaria e il lungo lasso di tempo tra i due turni, dovuto al lockdown; ma è innegabile che anche le elezioni comunali, per lungo tempo sfuggite al “dégagisme”, ne sono state travolte.
Tutti gli attori politici s’interrogano su questa crisi del sistema della rappresentanza e dei suoi tradizionali vettori ,che ora ha toccato l’unica istituzione della quinta repubblica che ne era stata risparmiata. C’è chi lo fa “strumentalmente” per coprire la propria débâcle (come LREM, l’organizzazione politica creata da Macron) o il proprio parziale insuccesso – come Marine Le Pen del RN (ex FN) – oppure in maniera più sincera, come Jean-Luc Mélenchon, leader di LFI. In un intervento diffuso su “You Tube” ha evocato un “un nulla civico”.
La massa del popolo francese è in guerra civica”, ha spiegato.
Un paradosso apparente vista la vivacità delle mobilitazioni che ha caratterizzato nell’ultimo anno la Francia, riprese subito dopo la fine del “Lock-down”.
Al primo turno delle elezioni presidenziali del 2017, proprio gli Insoumis.es erano riusciti in parte a colmare questo deficit di “rappresentanza” tra le classi popolari, sfiorando il 20% e giungendo ad un passo dal ballottaggio, offrendo un output politico in particolare alle mobilitazioni contro la “lois travaille” – il “job act” francese – voluta dal presidente socialista Hollande.
Sembra un secolo fa.
La LFI era riuscita insieme ad altre formazioni – tra cui il PCF – a dare vita ad un’opposizione “a geometria variabile”, che talvolta aveva incluso sia i socialisti che i verdi, ed a fungere da “delegato politico” dei vari movimenti che si sono fin qui succeduti: dai “gilets jaunes” alle recenti riforme contro la riforma pensionistica, così come a quelle del personale sanitario.
Non è pero riuscita a capitalizzare – così come la destra – il sentimento di sfiducia nei confronti dell’attuale compagine governativa ed in generale l’approfondirsi della frattura tra élite e classi popolari, né a darsi una struttura organizzativa che le permettesse di radicarsi.
Paradossalmente ha conosciuto una “parabola discendente” di cui è un sintomo la diluizione della propria presenza nelle elezioni municipali dentro coalizioni più ampie. A parte il ruolo di primo piano giocato a Marsiglia e che ha contribuito al successo di “Primetemps Marseilleise”, forse la nota più positiva dell’intero panorama elettorale per modalità di costruzione, programmi e capacità di interpretare una aspettativa di cambiamento.
La batosta per LREM è pesantissima, e dimostra come in questi tre anni la creazione politica di Macron non sia stata capace di radicarsi, nonostante alla sua creazione abbiano contribuito sia notabili locali del Partito Socialista – come il più volte ex sindaco di Lione e poi ministro, Gérard Collomb – sia membri della vecchia nomenclatura gaullista.
En Marche!” ha dilapidato ben presto il suo consenso, divenendo sempre più solo espressione delle classi medio-alte, e ha progressivamente “virato a destra”. A nulla è servita la sua alleanza in questo secondo turno con i gaullisti di Les Républicains di Laurent Wauquiez, che non ha sbarrato la strada all’“onda verde”.
Gli unici “successi” di quest’asse politico sono stati a Le Havre, dove il primo ministro E.Philippe ha conquistato la città, e a Tolosa…
A Parigi, dove è stata confermata Anne Hidalgo, la capolista di Lrem, Agnès Buzyn, ha fatto meno del 15% e non siederà in consiglio comunale; a Lione Collomb è stato sconfitto, così come a Strasburgo.
I verdi – EELV – sono i veri vincitori di questa competizione elettorale. I sindaci provenienti dalle loro fila sono stati spesso eletti con l’appoggio di ampie coalizioni – come a Tours, Bordeaux o Lione – o andando contro i socialisti, come a Strasburgo.
Sono sintomo della necessità di una transizione ecologica che è cresciuta in questi anni nel corso di importanti mobilitazioni specifiche e circoscritte, così come di più ampie mobilitazioni di massa – “gli scioperi per il clima”, prima del fenomeno Greta, erano nati in Belgio e Francia – ed una interessante convergenze nel corso della marea gialla sintetizzata dallo slogan. “fine del mese, fine del mondo: stessa lotta”.
Lo tsunami verde è la traduzione di questa spinta sul piano della rappresentanza politica locale. Qualcosa di analogo a ciò che è avvenuto in Germania ed in Belgio tra le giovani classi medie urbane scolarizzate.
Un risultato anche della pandemi,a come sembra suggerire J. Fourquet, direttore di un dipartimento dell’istituto di rivelazioni statistiche IFOP: “la griglia di lettura dell’epidemia si è costituita attorno all’ecologia, con degli interrogativi riguardo ai nostri modi di vita e di consumo che mettono troppo a dura prova i nostri ecosistemi”.
Il passaggio di fase è interessante, perché pone quello che era un “partito d’opinione” – EELV, conosciuto più che altro per gli exploit alle europee (avevano ottenuto il 13,5% circa alle ultime elezioni) e l’ambiguo politicismo della sua storica direzione – al governo di importanti amministrazioni che saranno il banco di prova concreto per le politiche ecologiche: Lione, Strasburgo, Bordeaux, Poitiers, Bencançons, Tours, Annecy, per non citare che i principali.
A Lione conquistano città e “area metropolitana”, in cui gestiranno 3 miliardi di budget di una delle più potenti collettività francesi che concentra su di sé affari sociali, infrastrutture ed alloggi.
Prima di conquistare Grenoble nel 2014 con Eric Piolle – confermato con ampissimo margine – i verdi non avevano mai governato una città con più di 100 mila abitanti, a parte Montreuil tra il 2008 ed il 2014.
Al suo interno si scontrano due orientamenti differenti: gli “autonomi” alla Y. Jadot, che preferiscono “correre da soli” e che possano vantare successi di questa strategia e deplorare le sconfitte altrui, e i “rassembleurs”, fautori di una strategia di coalizione che possono vantare successi importanti.
È abbastanza evidente la frattura generazionale tra la vecchia classe dirigente “ecologista” e le nuove generazioni di sindaci.
Sono divenuti il nuovo “ago della bilancia” a sinistra, come ha ben compreso il leader del PS O. Faure.
Qualcosa sta nascendo” – ha affermato il leader socialista – “un blocco sociale ed ecologista”.
I socialisti hanno dimostrato una certa “resilienza” in queste elezioni dopo una crisi, che sembrava irreversibile, successiva alla Presidenza Hollande, la diaspora in direzione di Macron di molti suoi esponenti e la mancata presentazione di un candidato nel 2017.
Confermano Parigi – esito per nulla scontato fino a poco tempo fa – e conquistano Lille sfidando gli ecologisti, e vincono – dopo essere giunti ad un accordo con i verdi al secondo turno – a Rennes e Nantes. Riconquistano dei comuni che erano loro bastioni, persi nel 2014, e ne conquistano di nuovi come a Nancy, od in ampie alleanze come a Montpellier.
Dopo l’exploit del 2014, la destra di LR conferma sostanzialmente le sue posizioni a livello locale, con due “pezzi da novanta” persi come Marsiglia – probabilmente – governata per 25 anni, Bordeaux e canta in parte vittoria.
È tre anni che inanelliamo sconfitte”, ha dichiarato Christian Jacob, patron di LR che ha parlato di “vittoria”. Ma sembra più il tentativo di dare un nuovo slancio ad un progetto politico le cui direttive a livello centrale sono sempre più cooptate da LREM.
L’ex FN, ora RN, conquista un comune importante come Perpignan, con più di 100 mila abitanti, ma subisce comunque sconfitte come a Lunel, Vauvert…
I numeri parlano chiaro e fanno terra bruciata su tutte le chiacchiere sul pericolo dell’“onda nera” di cui hanno straparlato a lungo i media nostrani.
Nel 2014 aveva conquistato 1438 seggi in 463 comuni, stavolta solo 840 in 258, e governeranno in meno di una decina di comuni.
Il PCF vede ridimensionato il successo del primo turno, come a Montreuil – nella prima periferia parigina – perdendo alcuni suoi bastioni storici come a Saint-Denis e Aubervilliers, ma riconquistando Bobigny, sempre nella regione parigina.
Un risultato, nel complesso, fatto più di ombre che di luci, in cui perdono a Le Havre ed Arles, oltre a Saint-Denis, le città più importanti di questa battaglia.
Sono più di 20 i comuni sopra i 3.500 abitanti “persi” dai comunisti, mentre sono una quarantina quelli conservati o conquistati.
Queste elezioni – che si concluderanno con un “terzo turno” tra gli eletti, a Marsiglia, che decideranno il futuro sindaco della seconda città dell’Esagono – ci consegnano un quadro complesso della società francese uscita dalla pandemia.
Un governo senza consenso; i vettori della politica, sia tradizionali che “nuovi” – tranne i verdi e alcune coalizioni politiche molto variabili – incapaci di catalizzare la disaffezione per l’establishment compresi, ai poli opposti, La France Insoumise e l’ex Front National – ora RN –, con un marcato scetticismo nei confronti della UE, come certifica un recente sondaggio condotto da un think tank del Consiglio Europeo citato dal “The Guardian”.
Il 58% degli intervistati in Francia pensa che l’UE sia stata irrilevante nella crisi pandemica – ponendo questo paese al primo posto per sfiducia nella UE – mentre il 61% dei francesi pensava, a fine aprile, che il proprio governo non fosse stato all’altezza nell’affrontare l’emergenza e si sentiva più disilluso rispetto a prima dell’arrivo del Covid-19.
Non proprio un dato incoraggiante un governo che si pone come perno fondamentale del rilancio dell’Unione.