lunedì 20 luglio 2020

“Modello Milano”, il pasto nudo della speculazione immobiliare

Il dualismo Nord/Sud è stato evidente nel decorso di questa epidemia, con una diffusione nettamente superiore al Nord piuttosto che al Sud.
Sergio Brenna, ex docente di urbanistica al Politecnico di Milano, risponde ad alcune domande e affronta alcune questioni rispetto al modello di sviluppo urbanistico e territoriale del nord Italia e in particolare di Milano, come anticipazione di quanto verrà sviluppato nel dibattito di mercoledì prossimo a Milano, sulla “questione settentrionale”.
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La crisi sanitaria da cui il Paese, e soprattutto la Lombardia, non è ancora uscita del tutto ha colpito in modo particolare le zone più altamente industrializzate e inquinate del Paese. Verosimilmente l’alta urbanizzazione del nord, e la necessità di concentrare un gran numero di esseri umani nei luoghi della produzione, sono state concause determinanti nel favorire la diffusione dei contagi. E altrettanto verosimilmente l’inquinamento, soprattutto nella pianura padana, è stato ed è un fattore di indebolimento delle difese naturali contro i virus. Il ruolo di una pianificazione urbanistica e di un modello di sviluppo industriale e territoriale vorace come quello della Lombardia, quanto ha inciso in questa dinamica?
Per quanto non si possa sostenere che ci sia una correlazione diretta tra storture nella pianificazione dell’uso del territorio e sviluppo della pandemia nelle regioni del Nord, credo si possano individuare alcuni punti di carattere urbanistico-insediativo che soprattutto nelle leggi regionali della Lombardia destro-leghista hanno posto ulteriori condizioni di facilitazione della sua diffusione e difficoltà di controllo.
Tra questi mi pare di poter indicare principalmente:
1) l’equiparazione tra spazi per servizi pubblici e servizi privati sostitutivi;
2) la conseguente riduzione quantitativa degli spazi pubblici di una regione che si pretende più ricca delle più avanzate economie europee, ma non sa essere altrettanto civile;
3) l’indifferenza funzionale delle scelte localizzative decise privatamente;
4) una riduzione del consumo di suolo, non solo molto più modesta e lenta degli obiettivi europei, ma senza una vera riduzione del peso insediativo cui invece si sta consentendo di concentrarsi senza limiti sul già urbanizzato.
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Parliamo della deregolamentazione della pianificazione urbanistica. Molte delle leggi regionali sulla riduzione del consumo di suolo hanno, tra cui quella della Lombardia, hanno promosso la fine del concetto di pianificazione e sdoganato la svendita del territorio ai costruttori. Il cosiddetto “Modello Milano” è stato ed è la punta di diamante dello sviluppo industriale ed urbano che premia la speculazione urbana in salsa green, la privatizzazione e la deregolamentazione del sistema pubblico…
Esattamente. Mi è capitato recentemente di ascoltare, in una trasmissione televisiva sulle “magnifiche sorti e progressive” del cosiddetto Modello Milano, la comune rivendicazione, da parte di esponenti di parti politiche che dovrebbero essere avverse, della bontà di un nuovo “rito ambrosiano”.
Questo dimenticando che quello “storico” degli anni ’50/’60 (imitato poi in diversi comuni del Paese) è consistito nell’ignorare la legge n. 1150/42, che richiedeva l’obbligo preventivo di un Piano regolatore generale, sostituendovi invece la prassi di contrattazioni “provvisorie” caso per caso, i cui contenuti ipocritamente avrebbero dovuto essere poi soggetti a conferma o rigetto in una futura pianificazione pubblica del Piano Regolatore Generale.
Ciò che una volta almeno si ammetteva essere un’ipocrita scappatoia arrangiata e formalmente provvisoria, oggi viene rivendicato come metodo stabile legalizzato dalla legislazione regionale e ratificato come legittimo persino da una recente sentenza del TAR sull’Accordo di Programma tra Comune di Milano e FS/Sistemi Urban,i in merito al riuso degli ex scali ferroviari.
Si sancisce così che, nei cosiddetti nuovi strumenti di pianificazione strategica, le leggi regionali possono autorizzare i Comuni a derogare dal rispetto delle normative minime inderogabili della legislazione nazionale.
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In questo modo, implicitamente, si ratifica che in Lombardia (ma anche in molte altre regioni del Nord e non solo) in campo urbanistico la molto discutibile “autonomia differenziata” è già in essere…
Basta poi continuare a votare leggi regionali a mio avviso in palese contrasto con la legislazione nazionale (in Lombardia, ad esempio, la L.R. 12/05 e la recente L. R. 18/19 sulla Rigenerazione Urbana: +20% sulle quantità edificatorie dei PGT, -60% sugli oneri urbanizzativi!) e il gioco è fatto. Non costa nulla a chi le approva, non essendoci pericolo che il Governo o il Parlamento, tramite l’Avvocatura dello Stato, le impugni per violazione delle proprie prerogative, e i cittadini in dissenso sugli esiti di queste procedure molto spesso o non si vedono riconosciuta la legittimazione a impugnare via via le mille deroghe in esse contenute o – quando ciò viene ammesso – difficilmente hanno le risorse economiche per continuare ripetutamente a farlo.
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E in tutto ciò che fine fa la questione della riduzione del consumo di suolo?
In tutto ciò c’è una palese deformazione dell’obiettivo di una riduzione del consumo di nuovi suoli (in Lombardia rinviato sine die dopo che la L.R. n. 31/2014 aveva indicato ritmi di riduzione ben più blandi di quelli già vigenti Germania e coi quali ben difficilmente si sarebbe potuto giungere al consumo di suolo zero al 2050, come indicato dalle direttive europee) non solo perché rimane il dubbio di fondo sulla reale efficacia di questo strumento nelle mani di un’amministrazione regionale che, prima con Formigoni, poi con Maroni, ora con Fontana, ha voluto connotarsi con lo slogan “ognuno padrone a casa propria“.
Ossia la logica che ha portato a far approvare piani urbanistici di durata solo quinquennale (cioè senza alcuna visione di lungo periodo) da parte di ciascun Comune e praticamente senza più alcun controllo di area vasta; ma soprattutto perché il tema correlato della “rigenerazione urbana”, cioè della concentrazione dei nuovi interventi edificatori su aree già urbanizzate, suscita più di una legittima preoccupazione.
Innanzitutto per la genericità ed indeterminazione di obiettivi e strumenti con cui dovrà attuarsi; e poi per la riduzione degli standard pubblici, riportati dalla Legge Regionale 12/2005 al livello minimo inderogabile dei 18 mq/abitante del 1968 e questo in una Regione che per sviluppo economico ama appunto paragonarsi e confrontarsi con quelle più sviluppate della Germania, ma non sa imitarne il livello di dotazioni pubbliche e di tutela ambientale.
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Insomma la tanto decantata “eccellenza lombarda” in verità è uno esercizio di retorica che lascia buchi pesantissimi sul territorio…  In verità nel modello Milano non arriva (e non intende arrivare) nemmeno lontanamente vicino ai livelli della dotazione di spazi pubblici come invece in altre regioni competitor (come ad esempio la Baviera). La restrizione degli spazi fisici pubblici da un lato, e privatizzazione del territorio è una storia politica di lunga data….
Si. Si noti che la Lombardia – che con la prima legge urbanistica regionale approvata in Italia, la L.R. n. 51/75, aveva portato gli standard minimi per spazi pubblici di quartiere a 26,5 mq/abitante, mentre le realtà urbane europee si spingono a prevedere 50 mq/abitante e oltre. Insomma, la Lombardia che si proclama più ricca delle altre regioni italiane e persino più della ricca Baviera, non sa essere altrettanto civilmente sviluppata in tema di dotazioni di spazi pubblici!
Anche la durata quinquennale e non ripetibile dei vincoli di uso pubblico, stabilita a botta calda dal Parlamento dopo la sentenza choc della Corte Costituzionale del 1968 (ricordo in Facoltà di Architettura i TazeBao che a caratteri cubitali strillavano”Urbanistica incostituzionale !”), potrebbe motivatamente essere rimessa in discussione da una visione progressista oggi sempre più evanescente.
La sentenza della Corte Costituzionale, infatti, chiedeva solo un termine temporale ai vincoli di uso pubblico, anziché la durata a tempo indeterminato di ogni genere di vincolo prevista per i PRG nella Legge 1150/42. Se si considera però che Piani Regolatori della Legge del 1865 duravano ben 25 anni e i Piani Attuativi degli attuali PRG/PGT ne durano tuttora 10, non si vede perché in linea di principio non si potrebbe tornare a proporre una simile durata, sicuramente più congrua a quella delle dinamiche urbane.
Questa riflessione non sarebbe completa se non ci si soffermasse anche su altri limiti della Legge Ponte. La 1150/42 prevedeva, infatti, che dopo la redazione del PRG vi fosse un’ulteriore fase di pianificazione pubblica comunale, coi Piani Particolareggiati di Esecuzione: solo dopo il privato avrebbe potuto presentare i propri piani di lottizzazione, che avrebbero però avuto una valenza poco più che di riassetto catastale delle proprietà, in adeguamento alle indicazioni del piano attuativo pubblico.
La Legge Ponte, invece, dopo l’approvazione del PRG con le sue prescrizioni localizzative e quantitative affida direttamente ai Piani di lottizzazione privati il compito di configurare l’assetto urbano ed edificatorio, e il privato lo fa ovviamente tutelando soprattutto la facilità attuativa del prodotto edilizio che deve poi far fruttare. Certo, le quantità edificatorie e di spazi pubblici sono quelle del PRG, ma come distribuirle è in funzione del massimo rispetto dell’assetto fondiario esistente in modo da turbarlo il meno possibile e le cessioni di aree pubbliche sono spesso fatte in zone residuali e frazionate.
Addirittura si è andata affermando la consuetudine che coi progetti cosiddetti “innovativi” in deroga al piano urbanistico vigente – una volta contrattate pattiziamente le quantità edificatorie e altrettanto pattiziamente gli spazi pubblici da realizzarsi, in genere non più del 50%, in una sorta di spartizione mezzadrile, mentre il rispetto degli standard minimi inderogabili richiederebbe il 65-70% e oltre – l’attuatore privato possa liberamente scegliere le funzioni (residenza, terziario, commercio; inutile pensare ad attività produttive oggi non più ritenute remunerative in ambito urbano) con cui dare attuazione all’intervento, secondo le convenienze di mercato che via via si vanno manifestando.
E’ evidente che in questa concezione l’ordine dell’assetto insediativo e la compatibilità tra le funzioni è l’ultima delle preoccupazioni che passa per la testa agli amministratori pubblici.
Ai molti che oggi lamentano che la cosiddetta “ragioneria degli standard”, conseguente al DM 1444/68, sia limitativa della libertà di fantasia progettuale, ricordo che nella mia esperienza di assessore ho visto discutere animatamente nei Consigli comunali quali fossero i limiti entro cui si potesse concedere di “monetizzare” le quantità di spazi pubblici da cedere per “far tornare i conti” delle norme imposte dal PRG, ma si discuteva di percentuali dell’1-2% e con valori assoluti di 500-1.000 mq.
È evidente, invece, che quando indici incongruenti “pattiziamente contrattati” negli strumenti urbanistici cosiddetti “innovativi” impongono la “monetizzazione” del 40-50% e oltre delle cessioni di aree pubbliche dovute, siamo di fronte a “convenzioni non urbanistiche” del tutto simili a quelle di prima della Legge Ponte e negli anni ’70-‘90 unanimemente deprecate, come lo erano quelle de Le mani sulla città, per rifarsi al bel film di testimonianza civile girato dal regista Francesco Rosi appunto nel 1963.
Si era già cominciato negli anni ’90 con i PII (Programmi integrati di intervento), PRU (Programmi di riqualificazione urbana), PRUSST (Programmi di riqualificazione urbana e sviluppo sostenibile del territorio) e con gli Accordi di programma, anche se per quasi vent’anni l’immobiliarismo tradizionale non aveva nemmeno osato credere alla possibilità di uno stravolgimento così totale della logica urbanistica che si era instaurata con la Legge Ponte 765/67 e con il relativo decreto attuativo DM 1444/68.
Poi è entrata in campo la grande finanza globalizzata, con la sua sterminata capacità di investimento su scommesse speculative di lungo periodo (aree pagate il doppio della rendita fondiaria corrente), e i Comuni col cappello in mano si sono resi complici nel cercare di raggranellare qualche briciola degli altrui grandi guadagni attesi.
Sulle grandi aree dismesse (ex aree fieristiche urbane, ex scali ferroviari di più o meno recente dismissione, ex caserme, ex insediamenti industriali) si sta procedendo come negli anni ’50/’60, quando a decidere dove, quanto e che cosa costruire era la convenienza economica di proprietà fondiarie e investitori immobiliari.
Con due aggravanti, però: 1) che oggi la dimensione fisica ed economico-temporale degli interventi proposti ai Comuni è enormemente accresciuta dalla dimensione finanziaria globalizzata e da quella delle aree in corso di dismissione d’uso (fabbriche, scali ferroviari, caserme, ecc.); 2) che allora i Comuni si dividevano tra quelli asserviti da Giunte compiacenti (Roma/Rebecchini, Napoli/Gava, Palermo/Ciancimino e giù giù per varie plaghe d’Italia) e quelli che si illudevano di poter beneficiare di qualche contropartita di utilità pubblica, moderandone le tendenze, pur senza una visione di pianificazione pubblica preventiva.
Oggi i Comuni, indipendentemente dall’orientamento politico, spesso pensano solo a facilitare le aspettative di investimento finanziario degli operatori, offrendosi di comparteciparvi con le aree di proprietà comunale (è accaduto a Milano con 100.000 mq comunali venduti a Hines/Catella, a Porta Nuova, e rischia di accadere di nuovo con quelle indotte dal nuovo stadio a S. Siro).
Solo così si spiega come possa essere accaduto che a Milano, su ex Fiera/Citylife e Porta Nuova, si sia arrivati da parte degli operatori finanziari a offrire alla rendita fondiaria proprietaria il doppio di quella corrente in operazioni immobiliari tradizionali e di più limitata estensione (1.800 €/mq slp pari – con quegli indici edificatori – a circa 2.000 €/mq di suolo contro gli 800-900 €/mq slp correnti in operazioni immobiliari tradizionali).
Qui a investire non sono più operatori immobiliari classici, che devono reperire i finanziamenti in banca e rientrare in tempi brevi per non fallire, ma direttamente le banche, le assicurazioni, i fondi pensione americani, i fondi sovrani mediorientali, ecc. che possono permettersi scommesse speculative di lunghissimo periodo e rischiare persino di perderle senza con ciò fallire.
Per quanto li si voglia “innovativamente” denominare con termini accattivanti, si tratta di fatto di “convenzioni non urbanistiche” del tutto analoghe a quelle pre-Legge Ponte/DM 1444.68 ma, appunto, in versione ed estensione 2.0 consentita da investimenti finanziari globalizzati.
Ve lo immaginate oggi vedere il Parlamento discutere e i governi cadere per quella quisquilia che sono vieppiù divenute, in epoca di finanza globalizzata, il governo del territorio e la rendita fondiaria che ne consegue?
Le modifiche legislative continuamente susseguitesi, che consentono ai Comuni di derogare sempre più ampiamente ai dettati minimi del DM 1444/68, che li dichiarava “inderogabili”, hanno continuato ad apparire qua e là in vari decreti omnibus e “milleproroghe”, prima con Berlusconi, poi con i vari Governi “tecnici” o di “emergenza”, e da ultimo persino il recentissimo Decreto Semplificazioni del Governo “alternativo” Conte-M5S-PD, senza che nessun parlamentare non dico lo mettesse in discussione, ma neppure se ne accorgesse.
E le sentenze dei TAR che prendono atto di ciò dichiarandolo perfettamente legittimo ne sono l’inevitabile conseguenza.
La questione urbanistica (e le sue conseguenze in termini di vivibilità e salubrità delle città e del territorio), ahimé, è totalmente scomparsa dall’orizzonte sia della politica che della società

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