Il
dualismo Nord/Sud è stato evidente nel decorso di questa epidemia, con
una diffusione nettamente superiore al Nord piuttosto che al Sud.
Sergio
Brenna, ex docente di urbanistica al Politecnico di Milano, risponde ad
alcune domande e affronta alcune questioni rispetto al modello di
sviluppo urbanistico e territoriale del nord Italia e in particolare di
Milano, come anticipazione di quanto verrà sviluppato nel dibattito di mercoledì prossimo a Milano, sulla “questione settentrionale”.
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La
crisi sanitaria da cui il Paese, e soprattutto la Lombardia, non è
ancora uscita del tutto ha colpito in modo particolare le zone più
altamente industrializzate e inquinate del Paese. Verosimilmente l’alta
urbanizzazione del nord, e la necessità di concentrare un gran numero di
esseri umani nei luoghi della produzione, sono state concause
determinanti nel favorire la diffusione dei contagi. E altrettanto
verosimilmente l’inquinamento, soprattutto nella pianura padana, è stato
ed è un fattore di indebolimento delle difese naturali contro i virus.
Il ruolo di una pianificazione urbanistica e di un modello di sviluppo
industriale e territoriale vorace come quello della Lombardia, quanto ha
inciso in questa dinamica?
Per
quanto non si possa sostenere che ci sia una correlazione diretta tra
storture nella pianificazione dell’uso del territorio e sviluppo della
pandemia nelle regioni del Nord, credo si possano individuare alcuni
punti di carattere urbanistico-insediativo che soprattutto nelle leggi
regionali della Lombardia destro-leghista hanno posto ulteriori
condizioni di facilitazione della sua diffusione e difficoltà di
controllo. Tra questi mi pare di poter indicare principalmente:
1) l’equiparazione tra spazi per servizi pubblici e servizi privati sostitutivi;
2) la conseguente riduzione quantitativa degli spazi pubblici di una regione che si pretende più ricca delle più avanzate economie europee, ma non sa essere altrettanto civile;
3) l’indifferenza funzionale delle scelte localizzative decise privatamente;
4)
una riduzione del consumo di suolo, non solo molto più modesta e lenta
degli obiettivi europei, ma senza una vera riduzione del peso
insediativo cui invece si sta consentendo di concentrarsi senza limiti
sul già urbanizzato.
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Parliamo
della deregolamentazione della pianificazione urbanistica. Molte delle
leggi regionali sulla riduzione del consumo di suolo hanno, tra cui
quella della Lombardia, hanno promosso la fine del concetto di
pianificazione e sdoganato la svendita del territorio ai costruttori. Il
cosiddetto “Modello Milano” è stato ed è la punta di diamante dello
sviluppo industriale ed urbano che premia la speculazione urbana in
salsa green, la privatizzazione e la deregolamentazione del sistema
pubblico… Esattamente. Mi è capitato recentemente di ascoltare, in una trasmissione televisiva sulle “magnifiche sorti e progressive” del cosiddetto Modello Milano, la comune rivendicazione, da parte di esponenti di parti politiche che dovrebbero essere avverse, della bontà di un nuovo “rito ambrosiano”.
Questo dimenticando che quello “storico” degli anni ’50/’60 (imitato poi in diversi comuni del Paese) è consistito nell’ignorare la legge n. 1150/42, che richiedeva l’obbligo preventivo di un Piano regolatore generale, sostituendovi invece la prassi di contrattazioni “provvisorie” caso per caso, i cui contenuti ipocritamente avrebbero dovuto essere poi soggetti a conferma o rigetto in una futura pianificazione pubblica del Piano Regolatore Generale.
Ciò che una volta almeno si ammetteva essere un’ipocrita scappatoia arrangiata e formalmente provvisoria, oggi viene rivendicato come metodo stabile legalizzato dalla legislazione regionale e ratificato come legittimo persino da una recente sentenza del TAR sull’Accordo di Programma tra Comune di Milano e FS/Sistemi Urban,i in merito al riuso degli ex scali ferroviari.
Si sancisce così che, nei cosiddetti nuovi strumenti di pianificazione strategica, le leggi regionali possono autorizzare i Comuni a derogare dal rispetto delle normative minime inderogabili della legislazione nazionale.
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In
questo modo, implicitamente, si ratifica che in Lombardia (ma anche in
molte altre regioni del Nord e non solo) in campo urbanistico la molto
discutibile “autonomia differenziata” è già in essere…
Basta
poi continuare a votare leggi regionali a mio avviso in palese
contrasto con la legislazione nazionale (in Lombardia, ad esempio, la
L.R. 12/05 e la recente L. R. 18/19 sulla Rigenerazione Urbana: +20%
sulle quantità edificatorie dei PGT, -60% sugli oneri urbanizzativi!) e
il gioco è fatto. Non costa nulla a chi le approva, non essendoci
pericolo che il Governo o il Parlamento, tramite l’Avvocatura dello
Stato, le impugni per violazione delle proprie prerogative, e i
cittadini in dissenso sugli esiti di queste procedure molto spesso o non
si vedono riconosciuta la legittimazione a impugnare via via le mille
deroghe in esse contenute o – quando ciò viene ammesso – difficilmente
hanno le risorse economiche per continuare ripetutamente a farlo.
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E in tutto ciò che fine fa la questione della riduzione del consumo di suolo?
In tutto ciò c’è una palese deformazione dell’obiettivo di una riduzione del consumo di nuovi suoli (in Lombardia rinviato sine die
dopo che la L.R. n. 31/2014 aveva indicato ritmi di riduzione ben più
blandi di quelli già vigenti Germania e coi quali ben difficilmente si
sarebbe potuto giungere al consumo di suolo zero al 2050, come indicato
dalle direttive europee) non solo perché rimane il dubbio di fondo sulla
reale efficacia di questo strumento nelle mani di un’amministrazione
regionale che, prima con Formigoni, poi con Maroni, ora con Fontana, ha
voluto connotarsi con lo slogan “ognuno padrone a casa propria“.
Ossia
la logica che ha portato a far approvare piani urbanistici di durata
solo quinquennale (cioè senza alcuna visione di lungo periodo) da parte
di ciascun Comune e praticamente senza più alcun controllo di area
vasta; ma soprattutto perché il tema correlato della “rigenerazione
urbana”, cioè della concentrazione dei nuovi interventi edificatori su
aree già urbanizzate, suscita più di una legittima preoccupazione.
Innanzitutto
per la genericità ed indeterminazione di obiettivi e strumenti con cui
dovrà attuarsi; e poi per la riduzione degli standard pubblici,
riportati dalla Legge Regionale 12/2005 al livello minimo inderogabile
dei 18 mq/abitante del 1968 e questo in una Regione che per sviluppo
economico ama appunto paragonarsi e confrontarsi con quelle più
sviluppate della Germania, ma non sa imitarne il livello di dotazioni
pubbliche e di tutela ambientale.
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Insomma
la tanto decantata “eccellenza lombarda” in verità è uno esercizio di
retorica che lascia buchi pesantissimi sul territorio… In
verità nel modello Milano non arriva (e non intende arrivare) nemmeno
lontanamente vicino ai livelli della dotazione di spazi pubblici come
invece in altre regioni competitor (come ad esempio la Baviera). La
restrizione degli spazi fisici pubblici da un lato, e privatizzazione
del territorio è una storia politica di lunga data….
Si.
Si noti che la Lombardia – che con la prima legge urbanistica regionale
approvata in Italia, la L.R. n. 51/75, aveva portato gli standard
minimi per spazi pubblici di quartiere a 26,5 mq/abitante, mentre le
realtà urbane europee si spingono a prevedere 50 mq/abitante e oltre.
Insomma, la Lombardia che si proclama più ricca delle altre regioni
italiane e persino più della ricca Baviera, non sa essere altrettanto
civilmente sviluppata in tema di dotazioni di spazi pubblici!
Anche
la durata quinquennale e non ripetibile dei vincoli di uso pubblico,
stabilita a botta calda dal Parlamento dopo la sentenza choc della Corte
Costituzionale del 1968 (ricordo in Facoltà di Architettura i TazeBao
che a caratteri cubitali strillavano”Urbanistica incostituzionale !”),
potrebbe motivatamente essere rimessa in discussione da una visione
progressista oggi sempre più evanescente.
La
sentenza della Corte Costituzionale, infatti, chiedeva solo un termine
temporale ai vincoli di uso pubblico, anziché la durata a tempo
indeterminato di ogni genere di vincolo prevista per i PRG nella Legge
1150/42. Se si considera però che Piani Regolatori della Legge del 1865
duravano ben 25 anni e i Piani Attuativi degli attuali PRG/PGT ne durano
tuttora 10, non si vede perché in linea di principio non si potrebbe
tornare a proporre una simile durata, sicuramente più congrua a quella
delle dinamiche urbane.
Questa
riflessione non sarebbe completa se non ci si soffermasse anche su
altri limiti della Legge Ponte. La 1150/42 prevedeva, infatti, che dopo
la redazione del PRG vi fosse un’ulteriore fase di pianificazione
pubblica comunale, coi Piani Particolareggiati di Esecuzione: solo dopo
il privato avrebbe potuto presentare i propri piani di lottizzazione,
che avrebbero però avuto una valenza poco più che di riassetto catastale
delle proprietà, in adeguamento alle indicazioni del piano attuativo
pubblico.
La
Legge Ponte, invece, dopo l’approvazione del PRG con le sue
prescrizioni localizzative e quantitative affida direttamente ai Piani
di lottizzazione privati il compito di configurare l’assetto urbano ed
edificatorio, e il privato lo fa ovviamente tutelando soprattutto la
facilità attuativa del prodotto edilizio che deve poi far fruttare.
Certo, le quantità edificatorie e di spazi pubblici sono quelle del PRG,
ma come distribuirle è in funzione del massimo rispetto dell’assetto
fondiario esistente in modo da turbarlo il meno possibile e le cessioni
di aree pubbliche sono spesso fatte in zone residuali e frazionate.
Addirittura
si è andata affermando la consuetudine che coi progetti cosiddetti
“innovativi” in deroga al piano urbanistico vigente – una volta
contrattate pattiziamente le quantità edificatorie e altrettanto
pattiziamente gli spazi pubblici da realizzarsi, in genere non più del
50%, in una sorta di spartizione mezzadrile, mentre il rispetto degli
standard minimi inderogabili richiederebbe il 65-70% e oltre –
l’attuatore privato possa liberamente scegliere le funzioni (residenza,
terziario, commercio; inutile pensare ad attività produttive oggi non
più ritenute remunerative in ambito urbano) con cui dare attuazione
all’intervento, secondo le convenienze di mercato che via via si vanno
manifestando.
E’
evidente che in questa concezione l’ordine dell’assetto insediativo e
la compatibilità tra le funzioni è l’ultima delle preoccupazioni che
passa per la testa agli amministratori pubblici.
Ai molti che oggi lamentano che la cosiddetta “ragioneria degli standard”, conseguente al DM 1444/68, sia limitativa della libertà di fantasia progettuale,
ricordo che nella mia esperienza di assessore ho visto discutere
animatamente nei Consigli comunali quali fossero i limiti entro cui si
potesse concedere di “monetizzare” le quantità di spazi pubblici da
cedere per “far tornare i conti” delle norme imposte dal PRG, ma si
discuteva di percentuali dell’1-2% e con valori assoluti di 500-1.000
mq.
È
evidente, invece, che quando indici incongruenti “pattiziamente
contrattati” negli strumenti urbanistici cosiddetti “innovativi”
impongono la “monetizzazione” del 40-50% e oltre delle cessioni di aree
pubbliche dovute, siamo di fronte a “convenzioni non urbanistiche” del
tutto simili a quelle di prima della Legge Ponte e negli anni ’70-‘90
unanimemente deprecate, come lo erano quelle de Le mani sulla città, per rifarsi al bel film di testimonianza civile girato dal regista Francesco Rosi appunto nel 1963.
Si
era già cominciato negli anni ’90 con i PII (Programmi integrati di
intervento), PRU (Programmi di riqualificazione urbana), PRUSST
(Programmi di riqualificazione urbana e sviluppo sostenibile del
territorio) e con gli Accordi di programma, anche se per quasi vent’anni
l’immobiliarismo tradizionale non aveva nemmeno osato credere alla
possibilità di uno stravolgimento così totale della logica urbanistica
che si era instaurata con la Legge Ponte 765/67 e con il relativo
decreto attuativo DM 1444/68.
Poi
è entrata in campo la grande finanza globalizzata, con la sua
sterminata capacità di investimento su scommesse speculative di lungo
periodo (aree pagate il doppio della rendita fondiaria corrente), e i
Comuni col cappello in mano si sono resi complici nel cercare di
raggranellare qualche briciola degli altrui grandi guadagni attesi.
Sulle
grandi aree dismesse (ex aree fieristiche urbane, ex scali ferroviari
di più o meno recente dismissione, ex caserme, ex insediamenti
industriali) si sta procedendo come negli anni ’50/’60, quando a decidere dove, quanto e che cosa costruire era la convenienza economica di proprietà fondiarie e investitori immobiliari.
Con
due aggravanti, però: 1) che oggi la dimensione fisica ed
economico-temporale degli interventi proposti ai Comuni è enormemente
accresciuta dalla dimensione finanziaria globalizzata e da quella delle
aree in corso di dismissione d’uso (fabbriche, scali ferroviari,
caserme, ecc.); 2) che allora i Comuni si dividevano tra quelli
asserviti da Giunte compiacenti (Roma/Rebecchini, Napoli/Gava,
Palermo/Ciancimino e giù giù per varie plaghe d’Italia) e quelli che si
illudevano di poter beneficiare di qualche contropartita di utilità
pubblica, moderandone le tendenze, pur senza una visione di
pianificazione pubblica preventiva.
Oggi
i Comuni, indipendentemente dall’orientamento politico, spesso pensano
solo a facilitare le aspettative di investimento finanziario degli
operatori, offrendosi di comparteciparvi con le aree di proprietà
comunale (è accaduto a Milano con 100.000 mq comunali venduti a
Hines/Catella, a Porta Nuova, e rischia di accadere di nuovo con quelle
indotte dal nuovo stadio a S. Siro).
Solo
così si spiega come possa essere accaduto che a Milano, su ex
Fiera/Citylife e Porta Nuova, si sia arrivati da parte degli operatori
finanziari a offrire alla rendita fondiaria proprietaria il doppio di
quella corrente in operazioni immobiliari tradizionali e di più limitata
estensione (1.800 €/mq slp pari – con quegli indici edificatori – a
circa 2.000 €/mq di suolo contro gli 800-900 €/mq slp correnti in
operazioni immobiliari tradizionali).
Qui
a investire non sono più operatori immobiliari classici, che devono
reperire i finanziamenti in banca e rientrare in tempi brevi per non
fallire, ma direttamente le banche, le assicurazioni, i fondi pensione
americani, i fondi sovrani mediorientali, ecc. che possono permettersi
scommesse speculative di lunghissimo periodo e rischiare persino di
perderle senza con ciò fallire.
Per quanto li si voglia “innovativamente” denominare con termini accattivanti, si tratta di fatto di “convenzioni non urbanistiche”
del tutto analoghe a quelle pre-Legge Ponte/DM 1444.68 ma, appunto, in
versione ed estensione 2.0 consentita da investimenti finanziari
globalizzati.
Ve
lo immaginate oggi vedere il Parlamento discutere e i governi cadere
per quella quisquilia che sono vieppiù divenute, in epoca di finanza
globalizzata, il governo del territorio e la rendita fondiaria che ne
consegue?
Le
modifiche legislative continuamente susseguitesi, che consentono ai
Comuni di derogare sempre più ampiamente ai dettati minimi del DM
1444/68, che li dichiarava “inderogabili”, hanno continuato ad apparire
qua e là in vari decreti omnibus e “milleproroghe”, prima con
Berlusconi, poi con i vari Governi “tecnici” o di “emergenza”, e da
ultimo persino il recentissimo Decreto Semplificazioni del Governo
“alternativo” Conte-M5S-PD, senza che nessun parlamentare non dico lo
mettesse in discussione, ma neppure se ne accorgesse.
E le sentenze dei TAR che prendono atto di ciò dichiarandolo perfettamente legittimo ne sono l’inevitabile conseguenza.
La
questione urbanistica (e le sue conseguenze in termini di vivibilità e
salubrità delle città e del territorio), ahimé, è totalmente scomparsa
dall’orizzonte sia della politica che della società
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