mercoledì 31 dicembre 2014

OBAMA X CHIUSURA DEL CARCERE DI GUANTANAMO

Mentre trascorrono i giorni di Natale, l’eventuale chiusura del carcere nella base navale di Guantanamo, a Cuba, si posiziona oggi come una delle principali sfide nell’agenda del presidente USA, Barack Obama.
Di fronte alla prospettiva di un Congresso all’opposizione in entrambe le camere, da gennaio, e dopo l’annuncio azioni esecutive catalogate come audaci in materia migratoria e di relazioni con Cuba, Obama ha lasciato alla ribalta – prima di partire per le Hawaii con la sua famiglia – la polemica intorno al centro di detenzione situato in territorio cubano occupato contro la volontà del governo dell’isola.
Il presidente ha firmato, la scorsa settimana, la legislazione che autorizza 585 miliardi di dollari per il Dipartimento della Difesa, ma ha inviato un messaggio al Campidoglio, nel quale ha osservato che il mantenimento in funzione della prigione di Guantanamo mina la sicurezza nazionale.
“Dobbiamo chiuderla”, ha detto Obama, che è tornato sul tema in un “talk show” alla CNN, durante il quale ha testimoniato che farà di tutto per raggiungere tale obiettivo.
1JxGMzDNRXK6zgBFmArouAL’inquilino della Casa Bianca ha messo in discussione le restrizioni al trasferimento dei detenuti in centri sul suolo USA e, a sua volta, è stato criticato per il trasferimento di questi ai loro paesi di origine.
Dal punto di vista del governante, le disposizioni del Congresso, su questo tema, potrebbero, in certe circostanze, violare il principio costituzionale della separazione dei poteri.
Pertanto, esortò ancora una volta i membri di ambo i partiti a lavorare per chiudere il tristemente celebre centro di detenzione (tenuto dal 2002), ciò che considera un “imperativo nazionale”.
Questa settimana si sono conosciute le dimissioni di Cliff Sloan, che negoziava la chiusura della detta prigione nella base di Guantanamo.
Secondo la stampa nordamericana, Sloan si è dimesso da inviato speciale del Governo per il trasferimento dei detenuti per la frustrazione per il ritardo del Pentagono nello spostarli dopo aver approvato le partenze.
Fonti vicine al funzionario hanno detto che solo pochi prigionieri erano stati liberati – quattro sono stati recentemente trasferiti in Afghanistan ed altri sono stati accolti in Uruguay – mentre altri sono inutilmente trattenuti.
Dallo scorso novembre sono stati trasferiti 17 prigionieri e l’amministrazione pensa ridurre la loro quantità a Guantanamo a meno di 100, al fine di fare pressione sul Congresso per revocare la legge che vieta il loro trasferimento negli USA.

martedì 30 dicembre 2014

Al Jobs Act non c’è fine

È con­fer­mato: il regalo di Natale del governo Renzi sarà un bel pacco pieno di licen­zia­menti. Ieri il pre­mier ha incon­trato il mini­stro del Lavoro Giu­liano Poletti, per met­tere a punto i decreti dele­gati che saranno varati al con­si­glio dei mini­stri (Cdm) di domani: «Al Cdm avremo tutto pronto», ha spie­gato Poletti uscendo dal con­fronto con il capo dell’esecutivo.
Il Jobs Act, quindi, avrà una sua prima decli­na­zione, e pro­prio sul fronte della parte più con­te­stata, quella che ha messo in sof­fitta l’articolo 18 per pas­sare al pre­ca­riz­zante «con­tratto a tutele cre­scenti». Non si cono­sce ancora il con­te­nuto del prov­ve­di­mento, e ieri è anzi tra­pe­lato — voce non smen­tita — che il governo sta­rebbe pen­sando ad auto­riz­zare il licen­zia­mento per «scarso rendimento».
Biso­gnerà capire se que­sta tipo­lo­gia — sem­pre che venga con­fer­mata l’intenzione — verrà inse­rita nell’ambito dei licen­zia­menti di carat­tere oggettivo/economico (il che sarebbe tec­ni­ca­mente più sem­plice, e non darebbe luogo, in forza della riforma stessa, al rein­te­gro) o invece in quelli disci­pli­nari (il che invece, visto che que­sti ultimi pre­ve­de­reb­bero in alcuni casi la rein­te­gra, com­pli­che­rebbe poi l’applicabilità). Ed è chiaro che un licen­zia­mento del genere, dovun­que lo inse­ri­sci, lasce­rebbe piena discre­zio­na­lità all’imprenditore.
Come sap­piamo con Mat­teo Renzi l’asticella del pos­si­bile si spo­sta sem­pre più verso l’hard, quindi pur­troppo c’è da temere di tutto: basti ricor­dare come fino all’estate il pre­mier insi­stesse ovun­que che l’articolo 18 non era tema di discus­sione, per poi ese­guire una bella gira­volta improv­visa a fine agosto.
I sin­da­cati per ora restano divisi sul da farsi. La Cisl pro­cede tran­quilla, e aspetta che tutto sia defi­nito per (even­tual­mente) pro­nun­ciarsi: «Non siamo abi­tuati a scon­tri pre­ven­tivi — dice la segre­ta­ria gene­rale Anna Maria Fur­lan — Siamo abi­tuati a veri­fi­care le leggi quando le abbiamo davanti. Il con­fronto non fini­sce qui. È fon­da­men­tale che il con­tratto a tutele cre­scenti dia rispo­ste al precariato».
Deciso a «resi­stere», come aveva già annun­ciato nel corso dello scio­pero gene­rale del 12 dicem­bre, è invece il segre­ta­rio gene­rale della Uil, Car­melo Bar­ba­gallo: «Dob­biamo dar vita a un’altra resi­stenza facendo bat­ta­glie sul merito di un Jobs Act e di una riforma del lavoro ini­que — ha spie­gato — Quello che non è riu­scito a fare Ber­lu­sconi lo sta facendo que­sto governo».
«La con­cer­ta­zione — ha pro­se­guito Bar­ba­gallo — non trova più spa­zio nella poli­tica dell’esecutivo, che invece si spreca in spot che spesso non cor­ri­spon­dono alla verità. L’intenzione di esten­dere i diritti a tutti i lavo­ra­tori, fino a prova con­tra­ria, è rima­sta sulla carta: l’articolo 18 è stato depo­ten­ziato, la faci­lità di licen­zia­mento è stata legit­ti­mata. Pro­vando a rele­gare il sin­da­cato e le parti sociali nell’angolo, annul­lando la con­trat­ta­zione nazio­nale e ridu­cendo il ruolo del sin­da­cato all’ambito aziendale».
«E non bastano — ha con­cluso il lea­der Uil — gli 80 euro, elar­giti peral­tro solo ad alcune cate­go­rie di lavo­ra­tori, dimen­ti­cando inca­pienti e pen­sio­nati. Que­sta riforma accon­tenta solo gli impren­di­tori, parla di licen­zia­menti e non di assun­zioni rese più facili. Tut­ta­via non per­diamo la spe­ranza che arrivi la con­vo­ca­zione per i decreti attuativi».
Né la Cgil, né la Fiom, ieri hanno fatto dichia­ra­zioni sul tema, ma nei giorni scorsi Susanna Camusso e Mau­ri­zio Lan­dini ave­vano spie­gato che la mobi­li­ta­zione sarebbe cre­sciuta: a mag­gior ragione se i decreti doves­sero essere peg­giori del previsto.
Even­tuali pro­te­ste sci­vo­lano a dopo le feste, con la pos­si­bi­lità per il governo — con il Paese in vacanza — di licen­ziare (la parola pare cadere a pen­nello) testi parec­chio spinti nei contenuti.
Pre­oc­cupa anche il capi­tolo inden­nizzi, che come è ormai noto, rischiano di essere molto infe­riori rispetto agli incen­tivi alle assun­zioni, ren­dendo quindi con­ve­niente per le imprese assu­mere per poi licen­ziare, senza sta­bi­liz­zare mai. La sot­to­se­gre­ta­ria al Lavoro Teresa Bel­la­nova ieri cer­cava di ras­si­cu­rare: «Sicu­ra­mente non ci sarà un peg­gio­ra­mento rispetto agli inden­nizzi attuali».
E intanto il pre­si­dente del Pd Mat­teo Orfini, per tenere buoni i pre­cari, ha pre­an­nun­ciato «un prov­ve­di­mento orga­nico sul lavoro auto­nomo», che con­terrà «diritti e tutele». Aggiun­gendo poi che nelle pros­sime set­ti­mane ver­ranno fatti incon­tri con le asso­cia­zioni delle par­titeIVA.

lunedì 29 dicembre 2014

Sulle ragioni dell’apertura statunitense a Cuba

Sulla recentissima apertura statunitense a Cuba sono state architettate le ricostruzioni e le previsioni più fantasiose. Particolarmente interessanti, da questo punto di vista, sono state le ricostruzioni degli elementi più ideologizzati, in particolare a sinistra, che hanno visto in questo avvenimento un tradimento nei confronti della causa. Ora, secondo noi, sarebbe più opportuno valutare tutta la faccenda da un punto di vista più pragmatico che ideologico.
In questi cinquant’anni il quadro geopolitico latinoamericano si è fortemente evoluto, cambiando completamente faccia. Dagli Anni Sessanta fino agli Anni Novanta, quando Cuba in seguito al crollo dell’URSS ed allo scioglimento del Comecon fu costretta a varare il durissimo “periodo speciale”, L’Avana era solo una piccola monade isolata nel contesto latinoamericano, caratterizzato da paesi che salvo rare eccezioni limitate nel tempo e nello spazio erano tutti fedeli componenti del “cortile di casa” nordamericano. Poi sono arrivati i Chavez, i Lula, i Morales, i Correa, i Kirchner, a modificare in modo tangibile la fisionomia politica di un continente fino ad allora completamente in mano agli “yanqui”. E Cuba è diventata improvvisamente l’esempio da seguire, il riferimento morale di tutti questi nuovi governi socialisti e progressisti, con cui quest’ultimi stabilivano fruttuosi e profondi legami economici, politici, culturali e sanitari. Dalla fine degli Anni Novanta Cuba non è più sola.
Così, paradossalmente, sono oggi gli Stati Uniti a ritrovarsi soli ed isolati nelle Americhe. Se vogliono riavvicinarsi ai paesi latinoamericani, in particolare al Brasile che nel frattempo è diventato una quasi superpotenza, ed ancor più agli Stati membri dell’ALBA, devono giocoforza giocare la carta cubana, ovvero aprire a L’Avana, perchè per Brasilia, Caracas, Quito, La Paz e Buenos Aires essa rappresenta un esempio ed un punto non negoziabile.
Un altro punto, ancor più importante, è rappresentato dalle coraggiose riforme economiche che Cuba ha intrapreso negli ultimi anni e che col tempo la trasformeranno in un’economia socialista di mercato paragonabile al Vietnam ed alla Cina. Si tratta di un’occasione particolarmente ghiotta per l’economia americana, che a pochi chilometri dalle sue coste si ritroverebbe con un nuovo mercato tutto da esplorare, in crescita ed in grado di offrire un ambiente ricettivo per gli investimenti, in cui la stabilità politica ed il basso costo della manodopera costituiscono i due elementi più attrattivi.
Proprio come il Vietnam, la cui economia guardacaso è sempre più integrata con quella americana; e se gli Stati Uniti intrattengono solidi legami commerciali, finanziari e persino politici con Hanoi, ovvero con un paese con cui negli Anni Sessanta e Settanta hanno combattuto una dura guerra riportando un’ancor più dura sconfitta, perchè mai allora non dovrebbero intrattenerli anche con L’Avana? Solo perchè ci sono degli esuli a Miami sempre più male in arnese e sempre meno determinanti ai fini di una vittoria elettorale? La contropartita rappresentata dal commerciare e dall’investire in una Cuba sempre più economicamente “vietnamizzata” è decisamente molto più allettante.
Certo, poi possiamo pensare tutto quel che si vuole. Persino che gli Stati Uniti vogliano blandire Cuba sulla falsariga di quanto già avvenne con la Libia di Gheddafi, che passò dalle sanzioni allo sdoganamento dell’era Bush, con una sempre più viva integrazione economica con l’Occidente poi culminata nella rivoluzione colorata di Bengasi e nella guerra che ne seguì. Ma in quel caso la Libia non voleva dare tutto, ma solo una parte del pacchetto: gli Stati Uniti reagirono come sappiamo. Il risultato è sotto gli occhi di tutti, e certamente anche gli americani ne avranno tratto una lezione. Del pari, anche i vertici de L’Avana avranno compreso quali siano i rischi di certe aperture, e agiranno di conseguenza. Ma, al di là di tutto questo discorso, bisogna pur dire che la Libia, nel 2011, era sola, sganciata dalle principali superpotenze mondiali o comunque legata ad esse solo superficialmente; mentre Cuba ha dietro di sé un meccanismo di relazioni internazionali tale da scoraggiare qualsiasi tentazione di ricorrere all’uso dei bombardamenti.
Senza poi considerare che, se lo facessero, gli Stati Uniti si ritroverebbero con un drammatico ed immenso problema di “boat people” diretti verso le loro coste, in particolare verso la Florida, e che perderebbero tutto il resto dell’America Latina. Sarebbe davvero una mossa suicida. Cuba è davvero inattaccabile come il Vietnam o la Corea del Nord, che hanno ai loro confini la Cina. Ma, del resto, anche una semplice rivoluzione colorata basterebbe ad innescare simili conseguenze umanitarie ed internazionali: ed anche di questo gli Stati Uniti sono perfettamente consapevoli. E allora l’unica cosa che possiamo pensare è che, stavolta, finalmente abbiano fatto una scelta più dettata dal pragmatismo che non dall’ideologia

domenica 28 dicembre 2014

Regalo a sorpresa sotto l’albero di Renzi: Tito Boeri scelto come presidente dell’Inps.

Nel Consiglio dei Ministri prenatalizio il governo ha proceduto alla nomina di Tito Boeri a nuovo presidente dell’Inps. L’economista prende il posto di Tiziano Treu, che a ottobre era stato messo al posto di Vittorio Conti con la qualifica di commissario straordinario e il compito di riformare la governance dell’Inps e portare a compimento la fusione dell’istituto di previdenza con quelli dei lavoratori pubblici (Inpdap) e dello spettacolo (Enpals).
Tra le altre nomine, quella di Gerarda Pantalone, nuovo prefetto di Napoli. C’è da registrare anche il nuovo incarico del generale Tullio Del Sette, dal prossimo 10 gennaio comandante generale dell’Arma dei Carabinieri. Subentrerà al generale Leonardo Gallitelli. Il generale Claudio Graziano è invece il nuovo capo di stato maggiore della Difesa

LA NOMINA DI BOERI
Tito Boeri a capo della “nuova Inps”: è l’annuncio a sorpresa del premier Matteo Renzi. Il Cdm nomina un vero presidente dopo due commissari straordinari, prima Vittorio Conti e poi Tiziano Treu, a cui va il ringraziamento del premier. L’ultimo presidente era, infatti, stato Antonio Mastrapasqua, Milanese, classe 1958, Boeri è un’economista sempre attivo sulle tematiche legate al lavoro, anche attraverso il portale lavoce.info, da lui fondato. Il sito d’informazione economica che riporta il suo curriculum, in cui si ricorda come Boeri sia professore ordinario all’Università Bocconi (dove si è anche laureato), direttore della Fondazione Rodolfo Debenedetti, responsabile scientifico del festival dell’economia di Trento ed editorialista della Repubblica.
Nel suo curriculum vanta un dottorato in Economia alla New York University e un’esperienza di dieci anni, da senior economist, all’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (Ocse). E’ stato anche consulente del Fondo Monetario Internazionale (Fmi), della Banca Mondiale, della Commissione Europea e dell’Ufficio Internazionale del Lavoro. Sulla voce.info proprio quest’estate si è acceso il dibattito sulle pensioni d’oro. E tra gli interventi pubblicati anche quello firmato da Tito Boeri insieme a Fabrizio Patriarca e Stefano Patriarca, in cui si ipotizzava un “contributo di solidarietà” sul quel che rimane dal ricalcolo con il contributivo. Non solo, è stato anche tra gli ideatori del contratto a tutele crescenti.

sabato 27 dicembre 2014

Expo 2015 sarà un fallimento: 300 milioni di debiti

Expo è il grande esempio di come sprechi, corruzioni e infiltrazioni mafiose arrivino puntualmente in Italia in ogni evento o grande opera. Da studiare per chi vuole le Olimpiadi in Italia.
Grande evento del 2015, previsto fin dal 2006, assegnato all’Italia nel 2008, è subito diventato un’emergenza, come fosse una calamità naturale, un terremoto, un’inondazione, un’invasione di cavallette. Per tre anni (2008-2011) la politica perde tempo a litigare su chi comanda senza avviare neppure una gara. Nei tre anni successivi (2012-2014) si accorge di essere in terribile ritardo e allora via alle deroghe, in nome dell’emergenza. “Ben 82 disposizioni del codice degli appalti sono state abrogate con quattro ordinanze della presidenza del Consiglio”, si lamentava già il predecessore di Cantone, Sergio Santoro: “È emergenza perenne”. I risultati si sono visti.
Per infiltrazioni mafiose, la prefettura di Milano ha escluso, per ora, 46 aziende dai cantieri di opere connesse a Expo. Di queste, tre lavoravano direttamente sull’area dell’esposizione (Elios, Ventura, Ausengineering). Per reati come corruzione, turbativa d’asta, rivelazione di segreti e associazione a delinquere, sono scattate, sui quattro grandi appalti, quattro grandi inchieste, con arresti e accuse che hanno coinvolto il numero uno di Ilspa (Antonio Rognoni), oltre a manager di Expo spa (Angelo Paris, Antonio Acerbo, Andrea Castellotti) e di Arexpo, la società che possiede le aree (Cecilia Felicetti). L’impresa che ha avuto più successo nelle gare Expo, la Maltauro, ha ben tre appalti commissariati.
In questo clima, arriva anche la segnalazione della Corte dei conti: Expo 2015 Spa, nel 2013, ha chiuso l’esercizio con una perdita economica di 7,42 milioni di euro, 2,39 milioni in più rispetto al 2012. Una perdita, questa, riconducibile “in gran parte al pianificato aumento dei costi della produzione”. Il bilancio è in profondo rosso. E ora a Comune di Milano e Regione Lombardia restano sul gozzo (e sui bilanci futuri) oltre 300 milioni di debiti per terreni acquistati, dal destino incerto e che nessuno vuole comprare.
Chiude la Corte dei Conti: “Si rivela ora indispensabile, a pochi mesi dall’inaugurazione dell’Esposizione, che la società gestisca in modo incisivo e trasparente i problemi ancora presenti, tra i quali quelli conseguenti ai procedimenti giudiziari in corso, assicurando la legalità delle procedure di affidamento delle opere e dei servizi, al fine di salvaguardare, con il corretto impiego delle risorse impegnate, anche l’immagine del Paese nel contesto internazionale”.
Auguri, comunque vada Expo 2015 sarà un fallimento per tutti tranne che per la Mafia. E per favore nessuno parli di Olimpiadi….

venerdì 26 dicembre 2014

Gli USA e la UE sulla via di uno scontro con la Russia.

Gli Stati Uniti e l’Unione Europea dimostrano una vera “ansia” di confrontarsi con la Russia
Questo quanto scrive il noto analista britannico Peter Hitchens, vincitore del premio ” Orwell”, su una sua colonna del giornale “Daily Mail“.
Quegli europei i quali, dall’inizio del conflitto in Ucraina, credono che la Russia stia svolgendo il ruolo di aggressore, sono totalmente vittime di pregiudizi e di una distorsione della realtà.
A volte si ha la sensazione, scrive Hitchens, che molti europei vivano nel mondo fantastico del “Il Signore degli Anelli. “Noi consideriamo come valorosi quelli che combattono per l’Ucraina contro le forze oscure”. Tuttavia questa interpretazione è una stupidaggine, ritiene Hitchens.
A giudizio del giornalista, l’Occidente persegue in Ucraina puramente i suoi interessi concreti : 48 milioni di mano d’opera disponibile a basso costo, un accesso al Mar Nero, disponibilità di grandi riserve di carbone e di cereali.
Per iniziare, spiega l’analista, la UE ha speso centinaia di milioni di euro per appoggiare la società civile e le organizzazioni senza fini di lucro (ONG) in Ucraina, successivamente, rompendo tutte le regole della diplomazia, i politici europei hanno appoggiato i manifestanti di Maidan, quelli che richiedevano la firma dell’Accordo di Associazione tra la UE e l’Ucraina.
“Sembra che Washington, Bruxelles, Londra e l’Arabia Saudita abbiano una vera ansia per confrontarsi con la Russia. Si vedono sorrisi contenti per la caduta del rublo causata dal misterioso crollo dei prezzi mondiali del petrolio”, sostiene Hitchens.
Peter Hitchens sostiene che la pressione sulla Russia, in particolare la reticenza dell’Arabia Saudita nel voler ridurre le quote di petrolio, avvenga in parte per causa dell’appoggio dato da Putin al presidente siriano, Bashar al-Assad, la cui rimozione rappresenta l’obiettivo primario degli Stati arabi del Golfo, così come di Washington e dei suoi alleati europei.
La Cina: se la Russia lo necessita, presteremo tutta l’assistenza necessaria alla nostra portata
I ministri del governo cinese hanno offerto appoggio economico alla Russia in accordo con le capacità di Pekino. Un possibile ampliamento dell’accordo Russo-Cinese di intercambio finanziario (swap) in valute nazionali, non soltanto aiuterebbe a stabilizzare il rublo ma rafforzerebbe anche gli sforzi cinesi per fare dello yuan una moneta di riserva globale.
“Se la parte russa lo necessita, forniremo l’assistenza necessaria secondo le nostre possibilità”, questo è quanto ha affermato in conferenza stampa il ministro degli Esteri cinese Wang Yi, secondo quanto menzionato dal giornale “China Daily”.
Inoltre Wang Yi ha dichiarato che la Russia dispone delle capacità e della saggezza per superare le difficoltà esistenti nell’attuale situazione economica”. Il ministro cinese ha inoltre aggiunto che la Cina e la Russia si sono sempre reciprocamente appoggiate ed aiutate nelle recenti vicende economiche.
Allo stesso modo il ministro del commercio cinese, Gao Hucheng, ha affermato che l’espansione dell’utilizzo dei contratti di intercambio finanziario (swap) in valute nazionali ed un maggiore utilizzo dello yuan per il commercio bilaterale, avrebbe un impatto molto positivo nell’aiuto all’economia della Federazione Russa, come comunicato anche da Bloomberg.
Un movimento del genere potrebbe molto aiutare a stabilizzare il rublo, secondo gli esperti.Inoltre rafforzerebbe gli sforzi cinesi per fare dello yuan una moneta di riserva globale.
All’inizio di Ottobre, le autorità cinesi hanno chiuso la firma di un contratto “swap” cambiario, bilaterale con la Banca Centrale russa per un importo equivalente a 150.000 milioni di yuan (25.000 milioni di US. dollars), un accordo che può ampliarsi con il consenso di entrambe le parti.
Lo “swap” di valute apre il percorso per incrementare il commercio tra entrambi i paesi, nello stesso tempo opera come meccanismo difensivo di fronte al blocco dei conti russi in dollari in Europa e negli USA.

giovedì 25 dicembre 2014

Pranzi a Natale per chi è in difficoltà. "Ma i poveri ci sono tutto l'anno"

Famiglie, senza dimora, immigrati ma anche "nuovi poveri" come commercialisti, avvocati, padri separati che vivono in macchina. La crisi acuisce la povertà ma fa crescere anche la solidarietà: da Catania a Bologna le associazioni sono pronte ad accogliere chi vive in strada, chi si trova in una momentanea difficoltà economica e chi è solo. Nella consapevolezza di quanto sia difficile il momento da un punto di vista economico e nella speranza che iniziative di solidarietà come queste possano servire anche a far capire che la povertà dura tutto l'anno.
A Palermo quasi 800 persone in stato di povertà - adulti, giovani, stranieri e famiglie - siederanno a tavola per il pranzo di Natale, ricevendo anche un regalo, grazie a Caritas, Angeli della Notte e Comunità di Sant'Egidio. La crisi ha sicuramente accresciuto il numero di persone bisognose ma, secondo i rappresentanti delle realtà da sempre impegnate sul territorio non occorre scoraggiarsi, ma sforzarsi anche di trovare strade e strumenti nuovi di sostegno e di aiuto concreto.
A Catania la Comunità di Sant'Egidio organizza due pranzi per oltre 400 poveri per i senza dimora, poveri e 70 immigrati del Cara di Mineo per i senza dimora e i poveri dei quartieri più problematici. Insieme a loro quest'anno ci saranno anche 70 richiedenti asilo provenienti dal Cara di Mineo. utto questo grazie alla solidarietà di molti cittadini che stanno sostenendo in vario modo le iniziative e dei volontari, tra cui anche immigrati. Abramo: "Crescita esponenziale dei giovani desiderosi di dedicarsi ai più fragili".
A Bologna tutto è cominciato alla pizzeria Napoleone, dove per l’Epifania Lucio Dalla invitava i senzatetto bolognesi per un pasto caldo e una busta con 50 mila lire. Oggi quell’eredità è stata raccolta dal Circolo Arci Benassi di via Mazzini, che il prossimo 3 gennaio ospiterà il tradizionale pranzo di solidarietà organizzato dall’associazione Piazza Grande e dalla Caritas. Il 25 dicembre ‘Un Natale per chi è solo’, pranzo offerto da Camst (cooperativa bolognese che si occupa di ristorazione scolastica e aziendale) e realizzato in collaborazione con provincia, comune, quartieri San Vitale, Navile e San Donato, oltre a una serie di altri partner. Camerieri per l’occasione i ragazzi del Centro di giustizia minorile di Via del Pratello, circa 100 i volontari coinvolti. Negli ultimi 4 anni sottolinea la Caritas il numero delle persone indigenti è aumentato moltissimo, tante le nuove povertà: “Chiedono di partecipare avvocati, commercialisti. Lavoratori autonomi con stipendio regolare".
A Napoli, ci saranno anche molte famiglie, insieme a migranti e senza dimora, ai pranzi solidali organizzati in città per il Natale 2014. Lo rende noto la Caritas Diocesana, che promuove, come di consueto, una cena di solidarietà presso le sale arcivescovili di Napoli. Come sempre, insieme ai volontari del Servizio Civile e agli operatori che prestano aiuto ogni sera ai senza tetto e ai poveri della città, ci sarà anche il cardinale Crescenzio Sepe a servirli dall’antipasto al dolce. L’evento avrà luogo domenica 28 dicembre e coinvolgerà circa 400 persone, il doppio dell’anno scorso.Ma quella della Caritas non sarà l'unica iniziativa solidale per chi è in difficoltà.
Tra le persone in difficoltà e che si ritrovano a finire per strada ci sono sempre più italiani, costretti a vivere in condizioni di povertà estrema. Per loro c’è anche il pranzo di Natale offerto dalla Comunità di Sant’Egidio. Inoltre, la sera della vigilia di Natale e dell’ultimo dell’anno le cene saranno itineranti e raggiungeranno i senza dimora di Napoli a cui i volontari della Comunità di Sant’Egidio portano panini e pasti caldi durante tutto l’anno.

mercoledì 24 dicembre 2014

Verso una nuova visione della dipendenza strategica degli USA anche in Australia

Dopo le considerazioni sulla politica estera degli Stati Uniti d’America di Kissinger, Gorbaciov, Schreder, Kohl, l’ex Primo Ministro australiano Malcom Fraser scrive nel ‘National Interest’, bimestrale americano di politica internazionale, che “è giunto il momento per l’Australia di porre fine alla sua dipendenza strategica dagli USA.
Il rapporto con l'America, che è stato a lungo considerato come benefico, è diventato pericoloso per il futuro dell'Australia. Abbiamo effettivamente ceduto agli USA la possibilità di decidere quando l'Australia va in guerra. Anche se l'America fosse una potenza perfetta, questa posizione sarebbe comunque incompatibile con l'integrità dell’Australia che è una nazione sovrana. La situazione attuale non comporta semplicemente deferenza bensì sottomissione a Washington, uno stato di cose intollerabile per un paese il cui potere e la prosperità sono in aumento e i cui interessi nazionali impongono relazioni di cooperazione con i suoi vicini, compresa la Cina.”
Questa una parte dell’ampia analisi di Fraser.
“Come il recente venticinquesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino ci ricorda, la disgregazione dell'Unione Sovietica ha creato un mondo diverso, pieno di opportunità, in cui ci sarebbe stato molto spazio per la cooperazione tra le nazioni, grandi e piccole. Ma tutti i Presidenti USA hanno aderito all’illusione di onnipotenza americana.
Dopo il crollo dell'Unione Sovietica, l'Europa e gli Stati Uniti hanno scelto la strada sbagliata. NATO e Stati Uniti hanno scelto quello che si è rivelato essere il meccanismo più pericoloso e provocatorio, e hanno lavorato per includere gran parte dell'Europa orientale entro i confini della stessa NATO. Questo approccio ha ignorato la storia e le relazioni strategiche passate. I risultati parlano da soli.
Durante questi mesi abbiamo visto le turbolenze che hanno scosso l’Ucraina, portando anche all'annessione della Crimea alla Russia. Non c'è stata alcuna comprensione delle circostanze storiche. Si è trattato della continuazione della mentalità tipica della guerra fredda, con risultati drammatici. Questi eventi nel cuore dell’Europa rappresentano un grave problema strategico e hanno accresciuto attuali difficoltà tra l'Occidente e la Russia, con potenziali conseguenze molto gravi. La situazione attuale, quindi, rappresenta un fallimento della diplomazia statunitense, oltre che una mancata comprensione delle prospettive storiche.
Qualcosa di simile si può dire per il Medio Oriente. Col senno di poi, la guerra del 1991 in Kuwait è stato l'ultimo successo americano in Medio Oriente. Con le turbolenze in Libia e Yemen, le difficoltà in Turchia e in Egitto e i continui problemi in Iraq e la Siria, l'intera regione è più a rischio che mai. In effetti, l'America, si è impegnata in una nuova guerra aerea in Iraq e Siria. Ma il presidente Obama deve sapere che qualsiasi tipo di vittoria sullo Stato islamico non può essere raggiunta senza forze di terra efficace.
Ci viene detto che il nuovo governo dell’Iraq supererà le divisioni tra sunniti e sciiti ma non vi è ancora alcun segno a dimostrazione di ciò. In Siria, dove il massacro continua senza sosta, dove centinaia di migliaia di profughi cercano rifugio nei paesi vicini, la situazione è ancora più allarmante.
Gli USA stato troppo veloci ad assumere persone con ideali più alti per combattere un dittatore brutale. Quanta moderazione c'è davvero nell'opposizione cosiddetta"moderata"?
Gli eventi in Medio Oriente tra Israele e Palestina rappresentano un fallimento grottesco della diplomazia statunitense e una riduzione dell’influenza americana in tutto il mondo perché gli Stati Uniti (e, in effetti, l'Occidente in generale) interpretano la geopolitica attraverso i propri occhi senza prendere in esame le circostanze storiche in tutta la loro interezza.
Ci sono stati anche cambiamenti strategici significativi molto più vicini all’Australia, nel Pacifico e in tutto l’Oriente e il Sud-Est asiatico. Anche qui, abbiamo crescente tensione. Commentatori occidentali tendono a dire che l'ascesa della Cina e la sua potenza militare crescente sono al centro di tale tensione. Purtroppo, la percezione cinese e asiatica di ciò che sta accadendo spesso differisce dalle interpretazioni americane o australiane degli eventi.
Gli Stati Uniti hanno cercato di contrastare l'accumulo militare della Cina. Vale la pena di mettere questi temi in un contesto più ampio. Secondo lo Stockholm International Peace Research Institute, la spesa militare cinese nel 2013 corrisponde all’11% di quella americana. La spesa militare statunitense è il 37% della spesa mondiale. L'America non ha problemi militari ai suoi confini, ma sostiene di avere la responsabilità di tutto il mondo e la necessità di esercitare la forza in qualsiasi parte del globo. Tradizionalmente la Cina invece è stata, e continua ad essere, più preoccupata della propria regione. Ha una serie di situazioni d’instabilità ai suoi confini, problemi tra India e Pakistan, difficoltà con l'Iran e l'Iraq, per non parlare dell’imprevedibile Corea del Nord. Questi fattori offrono da soli una ragione alla Cina per avere una forza militare significativa, una ragione che gli Stati Uniti non hanno.
Molti hanno scritto circa la possibilità di una guerra tra la Cina e gli Stati Uniti. Il Giappone è diventato molto più nazionalista, con un crescente militarismo. Possiede forze militari già molto potenti, con una capacità di sviluppare, in breve tempo, armi nucleari a lungo raggio. Il Giappone rivendica le isole Senkaku e Diaoyu e gli Stati Uniti hanno recentemente affermato che la proria garanzia di difesa per il Giappone si estende a quelle isole, schierandosi così con il Giappone in quella specifica controversia. Tale atto è stato un grave errore strategico da parte degli Stati Uniti, perchè incoraggia l’aggressività del Giappone.
Un conflitto tra Cina e Giappone potrebbe facilmente portare a una lunga, estenuante guerra. Se nel corso di molti anni, gli Stati Uniti non hanno vinto in Vietnam, nonostante le risorse impegnate, come potrebbero verisimilmente vincere con la Cina? Se, inoltre, l'Australia dovesse essere coinvolta, diventeremo un alleato sconfitto di una superpotenza sconfitta. Tale risultato metterebbe l'Australia in una pessima situazione privandola di stati amici in tutta la regione. E, a differenza dell’America, non potremo rimanere all’esterno di una situazione che riguarda l'emisfero occidentale.”

martedì 23 dicembre 2014

Petrolio ai minimi storici, ma prezzo benzina ancora troppo alti.

"Il petrolio è ai minimi storici da 4 anni a questa parte, ma i prezzi della benzina sembrano non risentirne." - dichiarano Rosario Trefiletti ed Elio Lannutti.Sono ben 12 i centesimi di troppo sul prezzo attuale della benzina e ben 17 su quello del gasolio.
È questo ciò che emerge dalle comparazioni effettuate dall'O.N.F. - Osservatorio Nazionale Federconsumatori che, da anni, monitora l'andamento dei prezzi dei carburanti, delle quotazioni del petrolio e del cambio Euro Dollaro.
Per ritrovare valori simili delle quotazioni dobbiamo risalire a settembre 2010, quando benzina e gasolio erano distribuiti a prezzi notevolmente più bassi.
Ovviamente il calcolo tiene conto non solo dell'andamento del cambio, ma anche dell'aumento delle accise e dell'IVA.
Con tale sovrapprezzo le ricadute sulle tasche dei cittadini sono estremamente pesanti: secondo i nostri calcoli ammontano a ben +144 Euro annui quelle dirette, a +118 Euro annui quelle indirette (dovute all'impatto del costo dei carburanti sui prezzi dei beni di prima necessità che, nel nostro Paese, sono distribuiti per l'86% su gomma), per un totale di +262 Euro annui.
È indispensabile che il Governo intervenga prontamente per porre fine a questa situazione. Non è tollerabile questa lentezza nell'adeguamento dei prezzi, che avviene subito al rialzo e quasi mai al ribasso.
Su tali aumenti pesano anche le decisioni del Governo. È impressionante osservare, infatti, come sia aumentata l'accisa rispetto a 4 anni fa: passando da 0,56 cent al litro a 0,73 Euro al litro (per la benzina).
Per questo è fondamentale avviare misure tese al calmieramento dei prezzi, attraverso la completa liberalizzazione del canale di distribuzione e l'ampliamento della rete no-logo (presso la quale si risparmiano anche 8-9 centesimi al litro). È necessario inoltre evitare categoricamente qualsiasi nuovo aumento delle accise.

lunedì 22 dicembre 2014

Regioni, ipotesi accorpamento

Se l'idea così com'è stata concepita dai parlamentari Pd Roberto Morassut e Raffaele Ranucci andasse in porto, dovremmo prepararci a dire addio alla cartina dell'Italia così come la conosciamo oggi. Niente più Piemonte, Valle d'Aosta e Liguria: ecco l'Alpina. Arrivederci Marche, Abruzzo e Molise, nella nuova mappa della Penisola ci sarà un'unica grande macchia con il nome di Adriatica.

Fantascienza? Nient'affatto. La proposta di legge presentata alla Camera è realtà, e secondo quanto riporta oggi il Messaggero - si inserisce in un dibattito aperto direttamente dal presidente della Conferenza delle Regioni Sergio Chiamparino che - scrive il quotidiano - sarebbe favorevole a un accorpamento e avrebbe anzi chiesto al presidente Renzi un incontro urgente per discutere "di prospettive e ruolo delle Regioni". E siccome per i soli consigli regionali si spendono circa 1160 milioni di euro, dall'aggregazione potrebbero arrivare soltanto da questo capitolo risparmi per almeno 400 milioni di euro.

Ma vediamo come potrebbero cambiare le Regioni. A Nord, l'unica amministrazione a rimanere inalterata sarebbe la Lombardia. Al suo fianco, oltre all'Alpina, nascerebbe il Triveneto, unione di Veneto, Friuli-Venezia Giulia e Trentino-Alto Adige. Al centro Italia, l'Emilia guadagnerebbe dalle Marche la provincia di Pesaro e accanto alla già citata Adriatica, nascerebbe l'Appenninica, unione di Toscana, Umbria e provincia di Viterbo. Il Lazio scomparirebbe, diventando un unico grande Distretto di Roma Capitale, lasciando le province meridionali alla neonata regione Tirrenica, insieme alla Campania. Sempre al Sud, la Puglia guadagnerebbe dalla Basilicata - soppressa - la provincia di Matera, trasformandosi in Levante. Mentre la Calabria, con l'ingresso della provincia di Potenza, si trasformerebbe nel Ponente. Immutate, infine, Sicilia e Sardegna.

domenica 21 dicembre 2014

VENEZUELA: UE nell'ignoranza totale della realtà latinoamericana

Federica Mogherini difende l'intromissione USA contro la sovranità venezuelana
La funzionaria europea «ha agito come una subordinata all’amministrazione Obama ripetendo le infamie della destra internazionale» dice il viceministro degli Esteri venezuelano Calixto Ortega, che respinge al mittente le infelici dichiarazioni del capo della diplomazia dell’Unione Europea (UE). La signora Federica Mogherini, si è detta «seriamente preoccupata» per la presunta violazione dei diritti umani in Venezuela. Non la preoccupano, invece, le rivelazioni
sulla tortura praticata dalle 16 polizie segrete degli USA, tantomeno i 43 studenti-contadini
messicani eliminati e seppelliti clandestinamente da un governo-narcos che è stretto alleato di Washington.


Ortega ha detto chiaro e tondo che la funzionaria «ha agito come una subordinata all’amministrazione Obama ripetendo le infamie della destra internazionale, rivelando un’ignoranza totale della realtà latinoamericana. Il Venezuela è un paese sovrano che rispetta la libertà di espressione, (…) la signora dovrebbe informarsi adeguatamente sull’America Latina e sul nostro paese, ed effettuare dichiarazioni secondo il proprio punto di vista, non come una subalterna agli interessi di qualcuno», ha sottolineato il vice ministro venezuelano.

L'UE è preoccupata dei diritti del dirigente golpista Leopoldo López che in febbraio chiamò alla guerriglia urbana fino alla caduta del presidente di Nicolas Maduro. Questo significa solo una cosa: "incitare alla guerra civile", e ora i committenti e finanziatori di Leopoldo Lopez, applicano sanzioni contro il paese sudamericano. O ccome la UE, assecondano le espressioni peggiori della Casa Bianca e dei gruppuscoli radicali da essa finanziati. «López ha incoraggiato la violenza delle cosiddette guarimbas quando fece appello a disconoscere la legittimità del presidente Maduro, una mossa che ha provocato oltre 40 morti, di cui il governo non ha alcuna responsabilità».

venerdì 19 dicembre 2014

LA PETROGUERRA CONTRO LA RUSSIA

Da parte dei commentatori economici è stato dato scarso rilievo all'anomalia costituita dal brusco calo dei prezzi del petrolio in presenza di una guerra in Medio Oriente. A riguardo non vi sono infatti precedenti storici, dato che in passato la conflittualità medio-orientale è stata sempre strumentalizzata - e fomentata - per favorire impennate dei prezzi del petrolio. La Guerra del Kippur del 1973 e la Guerra del Golfo del 1991 rappresentano i due casi più noti a riguardo. Alla guerra in Medio Oriente si aggiunge la crisi ucraina, che interessa direttamente le vie di approvvigionamento di una materia prima come il gas; una circostanza che in passato non avrebbe mancato di spingere al rialzo i prezzi della materia prima che è diretta concorrente del gas, cioè il petrolio.
Le attuali analisi economiche teorizzano una sorta di "guerra di tutti contro tutti" tra i produttori di petrolio, una guerra che secondo alcuni penalizzerebbe in egual misura produttori come la Russia e gli USA. La propaganda di marca USA è invariabilmente all'insegna dell'autocommiserazione, perciò non mancano i piagnistei sui poveri Americani, che avrebbero potuto finalmente starsene a casa loro a farsi i cazzi propri, ciò grazie all'indipendenza energetica ottenuta con il "fracking" delle rocce di scisto; ed invece gli USA ora sarebbero ancora costretti a continuare ad interessarsi del resto del mondo a causa della sua cattiveria.
Ma la "guerra di tutti contro tutti" in sé non spiega nulla, poiché essa costituisce una condizione di base dei rapporti internazionali, che non esclude affatto alleanze contro nemici comuni. Si richiama spesso - e si contesta altrettanto spesso - la formula secondo cui la guerra avrebbe "cause economiche". La facilità con cui è possibile contestare affermazioni del genere deriva dalla loro stessa vaghezza. "Economia" è un concetto talmente lato ed astratto che si può argomentare con altrettanta forza in un senso o nell'altro. Se invece si osserva che militarismo ed affari costituiscono un intreccio inestricabile, si fa una semplice constatazione di fatto. La guerra e le armi sono oggettivamente dei business, allo stesso modo in cui il business diventa frequentemente un'arma da guerra. Vi sono poi "merci" che vanno addirittura oltre questa considerazione di carattere generale. Il petrolio, ed anche l'oppio, sono infatti merci in cui il contenuto militaristico e bellico supera di gran lunga aspetti come il costo di produzione o il meccanismo di domanda e offerta. Espressioni come "guerre dell'oppio" o "guerre del petrolio" sono quindi pleonastiche, inutilmente ripetitive, poiché basta riferirsi al petrolio o all'oppio per implicare l'esistenza di uno stato di guerra.
Se la guerra in Medio Oriente non ha determinato un aumento dei prezzi del petrolio, ciò potrebbe essere dovuto al fatto che in questa circostanza è il ribasso dei prezzi ad essere divenuto un'arma da usare contro gli avversari. L'attuale conflitto siro-iracheno vede schierati da una parte gli USA con le petromonarchie sue alleate, e dall'altra la Russia e l'Iran, sostenitori del regime di Assad in Siria. Mentre i media statunitensi offrono una rappresentazione tanto fiabesca quanto cruda e ripugnante dell'Isis (il sedicente Califfato), le milizie dello stesso "Califfato" continuano ad essere finanziate da un fido alleato della NATO, il Qatar. Nel Regno Unito il fatto è talmente noto che persino il primo ministro inglese Cameron ha dovuto recentemente, almeno a livello di mera dichiarazione, prendere le distanze dall'emiro del Qatar, se non altro fingendo di porre sul tavolo la questione dei finanziamenti all'Isis.
La Russia è addirittura impegnata su due fronti che interessano direttamente i suoi confini, dato che oltre che la Siria, dall'anno scorso c'è in ballo anche l'Ucraina. In questo contesto, la politica al ribasso dei prezzi del petrolio è stata avviata dall'Arabia Saudita, che è alleata degli USA ed anch'essa indicata dalla stampa britannica come finanziatrice dell'Isis. Il ribasso dei prezzi costituisce quindi un episodio delle guerre in Siria, Iraq ed Ucraina, cioè un attacco diretto a Paesi come la Russia e l'Iran, più dipendenti dal petrolio per mantenere i propri equilibri finanziari. Il dumping dell'Arabia Saudita non si spinge ovviamente a sfiorare neppure alla lontana il sottocosto, ma il calo del prezzo del petrolio determina ugualmente un crescente stress finanziario per i Paesi più deboli. I ribassi praticati dall'Arabia Saudita, hanno infatti costretto Mosca e Teheran a spingere i prezzi ancora più giù per salvaguardare vendite e profitti. Altrettanto ha dovuto fare l'Iraq.
Non si tratta quindi di una semplice guerra commerciale, dato che in questo caso il commercio è direttamente usato come arma di una guerra già combattuta sul terreno. Come era prevedibile, il calo del prezzo del petrolio ha posto anche il rublo sotto pressione. La scommessa del dipartimento di Stato USA è che il regime Gazprom-putiniano non possa reggere ad un basso prezzo del petrolio.
Le crescenti difficoltà di Gazprom fanno sì che diventino sempre più "economiche" le sue azioni, cosa che rende più facili eventuali ingressi condizionanti da parte di "investitori" stranieri. Nel maggio scorso infatti il gruppo Rothschild ha avviato l'acquisto di azioni Gazprom.

giovedì 18 dicembre 2014

Nuove etichette alimentari: cosa cambia?

Evidenza del responsabile dell’alimento: Tra le informazioni obbligatorie, oltre al nome, deve esserci l’indirizzo del responsabile dell’alimento, ossia l’operatore con il cui nome o con la cui ragione sociale è commercializzato il prodotto. La Coldiretti specifica che tale indicazione non va confusa con quelle dello stabilimento di produzione, obbligatoria per la norma nazionale ma che ora diventa facoltativa, apponibile con l’unica accortezza di non ingenerare confusione nel consumatore stesso rispetto all’indicazione obbligatoria del nome e dell’indirizzo del soggetto responsabile dell’etichettatura.

Allergeni in risalto: Le sostanze allergizzanti o che procurano intolleranze (come derivati del grano e cereali contenenti glutine, sedano, crostacei, anidride solforosa, latticini contenenti lattosio) dovranno essere indicate con maggiore evidenza rispetto alle altre informazioni, ad esempio sottolineandole o mettendole in grassetto nella lista degli ingredienti. Anche i ristoranti e le attività di somministrazione di alimenti e bevande dovranno comunicare gli allergeni, tramite adeguati supporti (menù, cartello, lavagna o registro), ben visibili all’avventore.

Più trasparenza sugli oli e grassi utilizzati: Non sarà più possibile ingannare il consumatore celando, dietro la definizione generica di “oli vegetali” o “grassi vegetali”, l’utilizzo di oli o grassi tropicali a basso costo (es. olio di palma, di cocco o di cotone, che hanno effetti sulla salute). Nella nuova etichetta dovrà essere specificato quale tipo di olio o di grasso è stato utilizzato.

Stato fisico del prodotto: Dovranno essere indicati con accuratezza i trattamenti subiti dal prodotto o anche dall’ingrediente. In tal modo – afferma la Coldiretti – non sarà possibile utilizzare solo il termine “latte”, se si usa latte in polvere o proteine del latte.

Informazioni sul congelamento e scongelamento: In caso di carne e pesce congelato e preparazioni congelate di carne e pesce congelato non lavorato, andrà indicata la data di congelamento. Nel caso di alimenti che sono stati congelati prima della vendita e sono venduti decongelati, la denominazione dell’alimento è accompagnata dalla designazione “decongelato”.

Indicazione di ingredienti sostitutivi: Per tutelare il consumatore da indicazioni ingannevoli, quando si sostituisce un ingrediente normalmente utilizzato, in un particolare prodotto, con un altro ingrediente, come ad esempio i sostituti del formaggio, l’ingrediente succedaneo impiegato – riferisce la Coldiretti – va specificato immediatamente accanto al nome del prodotto, utilizzando per la stessa caratteri adeguati (pari almeno al 75% a quelli utilizzati per il nome del prodotto).

Alimenti contenenti caffeina: Per i bambini e le donne in gravidanza e in allattamento sono previste avvertenze particolari per determinati alimenti contenenti caffeina, per esempio i cosiddetti “energy drinks”.

Scadenza ripetuta sulle monoporzioni: La data di scadenza dovrà essere riportata su ogni singola porzione preconfezionata e non più solo sulla confezione esterna.

Pesce fresco, allevato e congelato: l’etichetta dovrà specificare con che attrezzo è stato catturato il pesce , mentre per quello allevato andrà messo in etichetta il paese di origine. Le confezioni di pesce congelato devono indicare la data di congelamento.

Provenienza delle carni suine, ovi-caprine e di pollame: In virtù di una norma collegata, che si applica a partire dal prossimo aprile 2015, dovranno essere indicate in etichetta luogo di allevamento e di macellazione di carni suine e ovi-caprine, come avviene da anni – ricorda la Coldiretti – per le carni bovine a seguito dell’emergenza mucca pazza.

mercoledì 17 dicembre 2014

Disastro Libia: ecco chi dobbiamo ringraziare

UN FRANCESE, UN’AMERICANA E UN ITALIANO
Un francese, un’americana e un italiano: non è l’incipit di un barzelletta ma coloro che dobbiamo ringraziare per aver imposto con miopia la più assurda tra le assurde guerre che l’Occidente ha condotto in questi ultimi anni in nome dell’imperativo umanitario. Il disastro in Libia e lo spaventoso errore di generare un “regime change” non governato, trasformando quello che era uno dei paesi più stabili e floridi dell’Africa in un cumulo di macerie, hanno tre firme d’autore.

IL FRANCESE
La prima è quella Nicolas Sarkozy, l’ex premier francese, gollista con velleità napoleoniche. Fu lui a volere con tutta la forza l’abbattimento del regime di Gheddafi nella convinzione che la Francia avrebbe recuperato la sua “grandeur” e lui i sondaggi che lo davano peggior primo ministro francese degli ultimi 20 anni (record negativo oggi conquistato da Hollande).
Fu lui a guidare le potenze occidentali al riconoscimento di un governo libico d’insorti che aveva la legittimità di un pinguino nel Sahara e fu lui ad imporre, ad un recalcitrante Obama, i bombardamenti contro l’esercito di Gheddafi che portarono la Nato ad entrare a gamba tesa in una guerra civile schierandosi uno dei contendenti e violando così il principio di non ingerenza negli affari interni di uno Stato sovrano. Fu lui a recarsi nei giorni della fuga di Gheddafi, a Tripoli con al fianco Bernard Henry Levy il filosofo francese di sinistra da sempre protettore delle bombe umanitarie; ufficialmente per rassicurare i libici sul ruolo della Francia nella costruzione della democrazia e per chiudere qualche accordo sullo sfruttamento delle risorse energetiche del ricco paese africano, ufficiosamente per far sparire le tracce sui rapporti non proprio eleganti tra lui e Gheddafi.

L’AMERICANA
Il secondo artefice del disastro è una donna, americana: la democratica Hillary Clinton. Fu lei a trascinare di malavoglia l’amministrazione Obama nella guerra “francese” in nome della difesa di diritti umani che in Libia erano violati più dai ribelli che dai lealisti di Gheddafi; e lo fece applicando un principio del tutto nuovo: quello della guerra umanitaria preventiva (ne parlammo qui). L’idea cioè, che gli Usa, in Libia dovessero intervenire non per i punire crimini commessi dal regime ma quelli che avrebbe potuto commettere. In altre parole, io ti bombardo non per quello che hai fatto ma per quello che io penso, tu farai: una follia nel diritto internazionale.

L’ITALIANO
Il terzo da ringraziare è italiano e si chiama Giorgio Napolitano. Fu lui a spingere l’Italia nella guerra facendoci aderire alla coalizione che doveva applicare la risoluzione Onu, ma di fatto abbattere il regime libico al grido: “non lasciamo calpestare il Risorgimento arabo”. Berlusconi (allora presidente del Consiglio) si era opposto all’intervento militare per ragioni facili da comprendere: primo per un rapporto di fiducia costruito negli anni con il leader libico Gheddafi, fiducia che aveva portato importanti accordi economici tra i due paesi e un impegno della Libia a controllare l’immigrazione clandestina verso le nostre coste (impegno che aveva fatto diminuire gli sbarchi sulle coste italiane del 90%). Secondo, perché sapeva che il vuoto di potere creato sarebbe stato pericolosissimo per i nostri interessi nazionali.
Ma in quei mesi la figura del premier italiano era indebolita, assediata dalle inchieste giudiziarie, dalla perdita di credibilità internazionale dovuta allo scandalo Ruby e dalle manovre in atto di quelle tecnocrazie che avrebbero poi portato al complotto del novembre 2011. Napolitano ne approfittò e, in perfetta obbedienza a quei poteri internazionali per i quali subisce un naturale fascino , impose la nostra entrata nel conflitto non trattando nemmeno i posti a sedere nella gestione del dopoguerra e impedendo che il nostro Paese creasse un’asse neutrale con la Germania (che allo sciagurato attacco alla Libia non partecipò). Anche perché senza le basi italiane e la partecipazione dei nostri aerei sia nelle missioni di bombardamento e interdizione, l’operazione internazionale avrebbe avuto difficoltà a realizzarsi.

Ed è grazie alle loro resposnabilità che ora l’Occidente sta a guardare la disintegrazione della Libia e la trasformazione della guerra civile in un conflitto regionale con il coinvolgimento già attivo di Egitto ed Emirati Arabi, il rischio di allargamento alla Tunisia e l’espansione dell’islamismo.
Sarkozy, Clinton e Napolitano: ecco chi dobbiamo ringraziare se oggi l’integralismo sta dilagando in Libia e i jihadisti sono ormai a due ore dalle coste italiane.

martedì 16 dicembre 2014

La malattia delle grandi opere

Di fronte alla crisi eco­no­mica che viviamo, non c’è serio osser­va­tore eco­no­mico che non affermi che le risorse pub­bli­che devono essere uti­liz­zate con poli­ti­che di medio e lungo periodo. Non ser­vono medi­cine estem­po­ra­nee, spe­cie se hanno dimo­strato il fallimento.
La cul­tura delle grandi opere inau­gu­rata da Ber­lu­sconi e Tre­monti nel 2001 con la Legge obiet­tivo ha vuo­tato le casse dello Stato e non ha dato una seria pro­spet­tiva di svi­luppo al paese.

Un fiume di soldi affi­dato al fame­lico car­tello delle grandi imprese — coo­pe­ra­tive com­prese — che non ha fatto aumen­tare di un mil­li­me­tro l’efficienza com­ples­siva del sistema infra­strut­tu­rale e ha depre­dato le casse dello Stato.

A que­sto mador­nale errore di pro­spet­tiva si è aggiunto il malaf­fare ali­men­tato dalla man­canza di regole e di con­trolli. Dall’affidamento dei lavori ogni ruolo dello Stato scom­pare: Corte dei Conti ed auto­rità degli appalti con­ti­nuano a denun­ciare che le grandi opere ven­gono aggiu­di­cate sulla base di pro­getti ini­ziali impre­cisi e vaghi. Ci pen­sano poi un serie inter­mi­na­bile di varianti in corso d’opera (26 solo per la metro­po­li­tana «C» di Roma), arbi­trati per valu­tare gli ine­vi­ta­bili con­ten­ziosi e finan­ziare studi legali amici. Gli scan­dali del Mose di Vene­zia, dell’Expo di Milano, di Infra­strut­ture lom­barde, dell’attraversamento fer­ro­via­rio di Firenze, sono tutte vicende che si col­lo­cano in que­sto qua­dro. Ma pro­prio il caso della metro «C» di Roma apre la terza — tra­gica — con­se­guenza della cul­tura delle grandi opere e della scom­parsa del ruolo dello Stato: l’intreccio tra imprese e mala­vita. Nell’inchiesta romana è emerso, come era stato da tempo denun­ciato da Report, che imprese in mano alla mala­vita par­te­ci­pa­vano all’appalto.

Con lo sbocca Ita­lia di Renzi e Lupi si con­ti­nua su que­sta strada. Al car­tello di imprese che ruota intorno a Vito Bon­si­gnore, spon­sor dell’inutile auto­strada Orte Ravenna Mestre ed espo­nente del Ncd di Alfano, si vogliono affi­dare 6 miliardi di euro. La Tav è sem­pre ai primi posti dello spreco di denaro pub­blico. Di recente anche alcuni soste­ni­tori dell’utilità dell’opera hanno mani­fe­stato dubbi sul pre­ven­tivo dell’opera, ma sono stati zit­titi: si deve andare avanti. Il mini­stro per le infra­strut­ture Lupi pochi giorni fa ha ria­perto addi­rit­tura la que­stione del ponte sullo Stretto di Mes­sina: sa bene che l’opera non è fat­ti­bile ma l’importante è inviare mes­saggi ine­qui­vo­ca­bili al ristretto numero di potenti imprese.

Forse Renzi ha sof­ferto l’attivismo del mini­stro ciel­lino e ieri è riu­scito a supe­rare se stesso. Ad una Roma che sta affon­dando nel fango di un inchie­sta che ha fatto emer­gere il con­trollo degli appalti pub­blici da parte della mala­vita orga­niz­zata, ha pro­messo altri sei miliardi di euro da spen­dere in nella rea­liz­za­zione delle Olim­piadi del 2024, l’apoteosi della discre­zio­na­lità. Uno degli uomini più entu­sia­sti dell’annuncio è stato Malagò, che di dero­ghe deve inten­dersi abba­stanza avendo par­te­ci­pato alla scan­da­losa vicenda dei mon­diali di nuoto del 2009. Il secondo in ordine di entu­sia­smo è il sin­daco Marino che pro­prio oggi por­terà in un con­si­glio comu­nale l’approvazione della più gigan­te­sca deroga urba­ni­stica degli ultimi dieci anni: un milione di metri cubi in aperta cam­pa­gna rega­lati a James Pal­lotta con la scusa del nuovo sta­dio di cal­cio delle Roma.

Invece di defi­nire poli­ti­che di rilan­cio indu­striale, di met­tere in sicu­rezza del ter­ri­to­rio che frana ad ogni piog­gia e rico­struire regole, chi governa il paese con­ti­nua a per­se­guire l’effimero e per­pe­tuare il porto delle neb­bie. Tanto saranno le fami­glie ita­liane a pagare. Con l’azione di Ric­cardo Man­cini, fede­lis­simo di Ale­manno, quale pre­si­dente dell’Eur sono stati sper­pe­rati cen­ti­naia di milioni di euro in errori e malaf­fare. Con l’ipotesi delle Olim­piadi del 2024, il ver­mi­naio che sta distrug­gendo il paese viene rilanciato.

lunedì 15 dicembre 2014

Tredicesime a rischio per una piccola impresa su quattro

Una piccola impresa su quattro potrebbeessere costretta a non pagare o a rimandare il saldo dellatredicesima. E' quanto emerge da un'indagine condottasu un campione di oltre mille imprese distribuite in tutte le regioniitaliane: il 27% degli imprenditori interpellati, tre puntipercentuali in più rispetto alla stessa rilevazione dello scorso anno, dichiara di non essere in grado di onorare il pagamento; tra questi,il 43% segnala che già l'anno scorso è stato costretto a nonrispettare con puntualità l'appuntamento con la tredicesima.

Tra le ragioni indicate per 'giustificare' ilmancato pagamento della tredicesima prevale l'eccessivaconcentrazione degli adempimenti fiscali in dicembre, indicata dal 63% delle imprese che sono costrette a non pagare; scende rispetto alloscorso anno la quota di imprese, il 35%, che denuncia la mancataconcessione da parte delle banche del prestito necessario a coprirel'esigenza di maggiore liquidità. Un'indicazione, questa, cherifletterebbe un primo, timido, segnale di inversione di tendenza nelsettore del credito.

domenica 14 dicembre 2014

Diecimila a Washington e quarantamila a NY per protestare contro le violenze della polizia

Una folla pacifica, composta da circa 10.000 persone, ha conquistato ieri Pennsylvania Avenue a Washington marciando verso il Capitol Hill. Molti con le mani alzate, a simboleggiare i ragazzi neri disarmati uccisi dalla polizia. Molti con felpe e striscioni con la scritta 'I can't breathe', non posso respirare, la frase pronunciata da Eric Garner poco prima di morire per mano di un agente. La marcia e' in memoria e per chiedere giustizia per i casi piu' eclatanti che si sono verificati negli ultimi anni: da Trayvon Martin a Tamir Rice, da Eric Garner a Michael Brown. A New York, 44mila persone hanno partecipato a un'altra marciada Washington Square fino al quartier generale del New York Police Department a lower Manhattan.

La famiglie dei quattro ragazzi sono simbolicamente riunite nella marcia. E le mamme rilasciano la prima intervista congiunta: ai microfoni della Cnn esprimono il loro dolore, ma anche la rabbia. ''I nostri figli sarebbero vivi se fossero stati bianchi'' affermano. E cercano di spiegare come la comunita' nera vive quella che per loro e' una mancanza di giustizia. I poliziotti che hanno ucciso Brown e Garner non sono stati incriminati. Neanche la guardia privata responsabile della morte di Martin. Decisioni che hanno sollevato critiche e tensioni, come quelle a Ferguson dopo l'uccisione di Brown. E dato vita a un movimento spontaneo che, sotto la guida del reverendo Al Sharpton e della sua National Action Network, e' arrivato alla marcia sulla capitale e nelle maggiori citta' americane. ''Basta violenza della polizia'', ''Black lives matter'', la vita dei neri conta, sono alcuni degli striscioni agitati nella vie delle citta' americane.
A New York circa 3.000 persone marciano verso il quartier generale della polizia per protestare contro l'atteggiamento razzista, confermato con il caso Garner ma gia' emerso in passato con la pratica dello stop-and-frisk, fermare e perquisire, adottata nella maggior parte dei casi nei confronti dei neri. Il caso Garner, l'uomo di colore ucciso a Staten Island, ha riaperto il dibattito. ''Se fosse stato bianco e fosse stato preso a fare la stessa cosa, vendere sigarette, sarebbe stato fermato e non avrebbe perso la vita'' afferma Gwen Carr, la madre di Eric Garner. Il video dell'uccisione mostra come l'uomo, disarmato e con le mani alzate, sia stato attaccato dagli agenti che non si sono fermati neanche quando a terra diceva di non poter respirare

venerdì 12 dicembre 2014

Italia, storia di un Paese a pezzi

Di recente, le rivolte delle periferie romane- associate, forse frettolosamente, alle rivolte in quel di Parigi- hanno catalizzato l’attenzione tutta, fungendo da diversivo in un contesto politico in cui sembrava prevalere l’immobilismo e, a parte i tagli, niente di nuovo si profilava all’orizzonte. Fornendo ai giornalisti ampio materiale per i loro pezzi e agli opinionisti di che chiacchierare nei salotti televisivi, la rivolta delle periferie romane ha però fatto emergere un contesto desolante che i media, di concerto con la classe politica, cercavano di nascondere . Vanificati i discorsi di papa Bergoglio che invitavano alla misericordia e all’accoglienza, come pure il tentativo degli sceneggiati televisivi nostrani di dipingere una nuova società italiana, sempre più assimilabile al modello americano di società multietnica perfettamente integrata – queste rivolte si sono invece configurate come un’espressione di xenofobica intolleranza verso la presenza sempre più invasiva degli immigrati, in particolar modo nelle periferie delle città. E invero, c’è chi sostiene che gli immigrati non c’entrino nulla, ma che il malcontento sia stato ingenerato dalle condizioni di vita delle periferie, dal degrado crescente aggravatosi con le politiche di spending review, che hanno sottratto risorse alle periferie. E’ indubbio, tuttavia, che le rivolte delle periferie romane hanno dispiegato nella sua interezza il problema del precario equilibrio sociale su cui si regge la nazione. Un’opposizione dicotomica ( favorevoli e contrari all’immigrazione) sembra emergere dai dibattiti televisivi ed è questa la maggiore preoccupazione, dal momento che la strada verso la multi-etnicità della società italiana ha tutta l’aria di essere una strada senza ritorno. E se anche fosse questo il problema, ci sarebbe ancora la possibilità di pervenire ad un equilibrio, dal momento che ( sembra scontato) comporre nell’unità una diade non è tanto difficile quanto mettere insieme i frantumi di un Paese che si sta disgregando. Pezzi ideologicamente sempre più distanti, fisicamente estraniati, talmente sparsi che sarà difficile pervenire nuovamente ad unità se e quando si paleseranno nuovamente le condizioni.

I pezzi che l’Italia sta perdendo- neppure tanto inconsapevolmente- sono quelli del proprio patrimonio artistico-culturale, che le istituzioni abbandonano all’incuria e a cui certo non giova l’indolenza e la sprezzante mancanza di rispetto di tanti turisti che danneggiano e portano via, come se nulla fosse. Chi non ricorda la vicenda degli ennesimi crolli negli scavi di Pompei lo scorso giugno? Dal crollo della Schola Armaturarum a Pompei, avvenuto nel 2010, non si fa che parlare del degrado che affligge uno dei siti culturali più importanti del mondo. Inutile attribuire le cause a cedimenti strutturali, se questi reperti sono rimasti in piedi secoli. La colpa non è del tempo, ma dell’uomo, della classe dirigente. Nonostante le bellezze paesaggistiche e quelle artistiche, l’Italia è solo al quinto posto nella classifica delle mete turistiche più gettonate al mondo, subito dopo Francia, Spagna, Stati Uniti e Cina. Il motivo è da ricercare in un altro dato: l’Italia si piazza al 79esimo posto per la misura con cui il governo ritiene prioritaria l’industria turistica, che vale 161 miliardi di euro (10,2% del Pil) [1]. ‘E figlie so’ ppiezz’ ‘e còre, recita un proverbio napoletano, ovvero “I figli sono pezzi di cuore”. E come tali, con il cuore, con riguardo e sentimento, lo Stato dovrebbe trattare i proprio figli, con un occhio di riguardo alle generazioni più giovani. Nell’era del liberalismo sfrenato, tramontata la concezione paternalista dello Stato, i giovani non sono figli, sono cittadini. I pezzi che il Paese sta perdendo sono anche loro, i tanti giovani che emigrano all’estero alla ricerca di una vita migliore. Nel 2013 sono stati stati 82mila i cittadini italiani che hanno lasciato l’Italia (il 20,7 per cento in più rispetto al 2012).[2]

Il declino, però, non si arresta qui. La nota più dolorosa in una storia di un lento cedimento, sono i pezzi del sistema produttivo italiano venduti ad acquirenti stranieri, fenomeno che già fa parlare di “outlet italiano”. Dal 2008 a oggi sono quasi mille le aziende che sono passate in mani straniere. L’enfasi posta da questo governo su innovazione e start-up, dà ben l’idea di trovarsi in un sistema produttivo (quello italiano) innovativo, dinamico ed in crescita, che risponde con energia e pragmatismo alle sfide della competizione internazionale. Ma i numeri dicono altro: schiacciate dalla burocrazie, abbandonate dallo Stato, sono sempre di più le imprese che chiudono battenti. Le micro. Perché quelle più grandi e appetibili, di tradizione e con un certo “nome” non chiudono. Vengono acqusitate da imprese straniere. Il centro studi Eurispes, in collaborazione con UIL amministrazione, circa un anno fa ha pubblicato un report dal titolo significativo: “Outlet Italia. Cronaca di un Paese in svendita” , nel quale analizzava il fenomeno delle aziende italiane, simbolo della produzione e della tradizione Made in Italy, che hanno cambiato proprietà e bandiera. Il report, si leggeva nel comunicato stampa, “vuole stimolare l’attenzione e la riflessione del sistema politico e istituzionale su un tema forse per troppo tempo trascurato ma che sarà decisivo per il futuro stesso del nostro Paese”. Un appello rimasto inascoltato, la svendita non si è arrestata…

Soltanto nel 2014 sono 18 le imprese tricolore acquistate dalla Germania. Dalle motociclette Mv Augusta alla Ducati, dalla trevigiana Happy Fit alla bergamasca Clay Paky, dalla bolognese Egs, specializzata in protesi digitali e 3D per odontoiatria, aerospaziale e automotive alla milanese Ettore Cella, specializzata in termostati per l’industria chimica. La Germania, come tante altre nazioni, si impadronisce dei gioiellini del Made in Italy, con buoni prodotti e ben inserita nelle filiere internazionali [3]. Le acquisizioni, oggi, a differenza del passato, non hanno più l’obiettivo di accrescere le dimensioni di impresa ma rispondono ad un’esigenza strategica che potremmo definire di attacco: togliere di mezzo gli avversari più temibili, approfittando del momento di crisi e acquistandoli ( a quattro soldi). E’ un’Italia, la nostra, che perde credibilità sulla scena internazionale e fiducia da parte dei suoi stessi cittadini, che perde i pezzi di preziosi affreschi ed altari, che perde la sua identità e le sue tradizioni, che perde perfino l’unica cosa che le può assicurare autorevolezza (ed autonomia) sulla scena internazionale: l’industria. Un paese che nel XXI secolo non possegga una grande industria manifatturiera – scriveva Luciano Gallino in “La scomparsa dell’Italia industriale”- si presenta con i caratteri di una colonia subordinata alle esigenze e scelte di quei paesi che di tale industria dispongono.

giovedì 11 dicembre 2014

Riforme o conseguenze spiacevoli per l'Italia"

"Riforme o conseguenze spiacevoli per l'Italia". Si rinnova la minaccia, avvertimento, comunque lo si voglia chiamare, all'Italia, da parte di Jean Claude Juncker, presidente della Commissione Ue.

In una intervista rilasciata al quotidiano Frankfurter Allgemeine Zeitung, Juncker parla anche della Francia, affermando che se Roma e Parigi non metteranno in atto le riforme annunciate, la conseguenza sarà "un inasprimento della procedura sul deficit". E "se alle parole non seguiranno i fatti, per questi Paesi non sarà piacevole".

Il presidente, tuttavia, dice anche che bisogna avere fiducia nei due Paesi. "Dovremmo dare fiducia gli italiani e ai francesi. E poi vedremo, proprio a marzo, come sarà andata". "I governi ci hanno garantito che faranno quanto annunciato".

mercoledì 10 dicembre 2014

L’inganno del pareggio di bilancio

Nei suoi pen­sieri sparsi, Lud­wig Witt­gen­stein, annotò che: «Niente è così dif­fi­cile come non ingan­nare se stessi». Quale migliore spie­ga­zione del per­ché il legi­sla­tore ita­liano ha inse­rito due anni fa nella nostra Costi­tu­zione il prin­ci­pio del pareg­gio di bilan­cio, modi­fi­can­done l’articolo 81? Ma l’inganno non può durare all’infinito. Sotto i colpi della crisi e di qual­che ripen­sa­mento anche nel campo main­stream, la spa­valda sicu­rezza con cui una mag­gio­ranza – un tempo si sarebbe detto bul­gara – di par­la­men­tari votò nel 2012 la nuova norma costi­tu­zio­nale, pare vacil­lare non poco.

Eppure le avver­tenze alla pru­denza ven­nero fatte anche allora, ma non furono ascol­tate. Nel luglio del 2011 sei premi Nobel per l’economia (Ken­net Arrow, Peter Dia­mond, Char­les Schul­tze, Wil­liam Sharpe, Eric Maskin e Robert Solow) rivol­sero un appello al Pre­si­dente Obama a non pie­garsi alla regola del rag­giun­gi­mento del pareg­gio di bilan­cio annuale, con­si­de­ran­dola del tutto disa­strosa per una cor­retta poli­tica economica.

Più mode­sta­mente, un’assemblea indetta da giu­ri­sti demo­cra­tici a Roma, in pros­si­mità del voto finale in quarta let­tura al Senato, avve­nuto nell’aprile 2012, invi­tava i par­la­men­tari del Pd, facenti parte della mag­gio­ranza che soste­neva il governo Monti, ben­ché favo­re­voli al pareg­gio di bilan­cio, ad abban­do­nare l’aula al momento del voto in modo da non fare scat­tare la mag­gio­ranza dei due terzi che avrebbe impe­dito la con­vo­ca­zione del refe­ren­dum cosid­detto con­fer­ma­tivo. Un refe­ren­dum che si applica alle norme di revi­sione costi­tu­zio­nale che non sono appro­vate in entrambe le camere con la mag­gio­ranza dei due terzi e che – stra­nezza della nostra legi­sla­zione – non pre­vede, a dif­fe­renza dei refe­ren­dum abro­ga­tivi di leggi ordi­na­rie, alcun quo­rum. D’altro canto non era l’Europa a chie­der­celo. Infatti quest’ultima si mostrava indif­fe­rente al tipo di norma che i paesi mem­bri avreb­bero adot­tato al riguardo, se di livello costi­tu­zio­nale o meno. La Fran­cia ad esem­pio non seguì la prima strada.

Se il con­si­glio fosse stato seguito si sarebbe avuta almeno una larga discus­sione di poli­tica eco­no­mica nel nostro paese e ogni forza poli­tica sarebbe stata costretta a pro­nun­ciarsi aper­ta­mente, non potendo ricor­rere all’astensione nel voto referendario.

Rispose Anna Finoc­chiaro, pre­sente all’assemblea nella sua qua­lità di Pre­si­dente del gruppo sena­to­riale Pd, con un cor­tese ma fermo discorso, nel quale pre­ci­sava la diver­sità dei punti di vista e soprat­tutto la sua appar­te­nenza ad un par­tito che non tol­le­rava che, una volta presa una deci­sione, i suoi par­la­men­tari si com­por­tas­sero in modo discorde. Moti­va­zione dav­vero incauta se messa a con­fronto con quanto sarebbe avve­nuto di lì a non molto, quando oltre cento depu­tati nel segreto dell’urna disob­be­di­rono alla indi­ca­zione di voto del loro par­tito sulla ele­zione del Pre­si­dente della Repubblica.

Da allora di acqua sotto i ponti ne è pas­sata parec­chia. La appli­ca­zione della norma tanto invo­cata prima da Ber­lu­sconi, poi da Monti e san­ti­fi­cata da mag­gio­ranze senza pre­ce­denti, ini­zial­mente anti­ci­pata addi­rit­tura al 2013, è stata poi posti­ci­pata da Renzi al 2017. Né sono state da aiuto le elu­cu­bra­zioni sus­se­guenti alla pre­sen­ta­zione del Def 2015 sulla misu­ra­zione del Pil poten­ziale da cui si deri­ve­rebbe il c.d output-gap in base a cui si valu­te­rebbe la distanza dal rag­giun­gi­mento del pareg­gio strut­tu­rale. I con­tor­ci­menti sulle dif­fe­renze fra Pil reale e Pil poten­ziale, fra pareg­gio di bilan­cio con­ta­bile e quello strut­tu­rale nascon­dono solo la cat­tiva coscienza di chi ha com­preso che la norma non sta in piedi ma non si ras­se­gna alla brutta figura di fare mar­cia indietro.

Ma anche que­sto gioco a nascon­dino ha il fiato corto. Venerdì un arti­colo molto pun­tuale del Sole24Ore get­tava la maschera ed affer­mava chia­ra­mente che “è tempo di ripen­sare l’utilità del pareg­gio di bilan­cio”, fino a defi­nire che l’idea di dimi­nuire il nume­ra­tore del rap­porto Debito/Pil, su cui si basa tutta la poli­tica di auste­rità e il fami­ge­rato fiscal com­pact, è “una con­ce­zione priva delle più ele­men­tari basi logico-razionali”.

Quindi quella norma va abo­lita.

martedì 9 dicembre 2014

Pensionati: il 41% vive con meno di mille euro al mese

La spesa pensionistica è in continuo in aumento, ma l’assegno si fa sempre più esiguo. E’ questa la fotografia scattata da Istat e Inps sui dati relativi all’anno 2013.

Lo Stato ha speso, nell’anno preso in considerazione, 272.7 miliardi per i trattamenti di previdenza. Un ammontare in crescita dello 0.7% rispetto al 2012, andando a toccare il 16.85% del Pil. Nonostante questo, una buona fetta dei pensionati italiani non riesce ad arrivare alla fine del mese.

Sono infatti il 41.3% del totale i pensionati che percepiscono un reddito inferiore ai 1000 euro al mese, il 39% si colloca invece nella fascia immediatamente superiore. Significa che l’80% complessivo non supera i 2000 euro. Il 13.7% riesce a centrare lo scaglione successivo, mentre solo il restante 6% supera i 3000 mensili.

L’analisi condotta dall’istituto nazionale di statistca prosegue sottolineando come il numero -in valore assoluto- dei pensionati sia sceso, sempre fra il 2012 e il 2013, di 200.000 unità. Allo stesso tempo è calato anche l’assegno per chi si è appena ritirato dal lavoro, con un reddito medio pari a 13.152 euro, di gran lunga «inferiore a quello dei cessati (15.303) e a quello dei pensionati sopravviventi (16.761), coloro cioè che anche nel 2012 percepivano almeno una pensione».

lunedì 8 dicembre 2014

L’unico modo per fermare l’Impero

gli ultimi giorni dell’Impero USA si stanno avvicinando rapidamente. Forse la sua fine sarà lenta e graduale, forse rapida e catastrofica; avverrà in modo caotico, oppure organizzato.
Nessuno può sapere come si presenterà, ma la fine dell’Impero è certa come il giorno segue la notte e il sole segue la pioggia. Gigantismo, sovra-arricchimento e sovra-indebitamento chiederanno il loro prezzo, come hanno scoperto tutti gli imperi del passato.

Gli Imperi sono come batteri in una capsula di Petri: spensierati, ciechi e insensibili si espandono fino all’esaurimento del cibo o alla contaminazione dell’ambiente con i loro rifiuti e poi muoiono.
Sono automi, e non possono farne a meno: sono programmati per espandersi o morire, espandersi o morire e alla fine espandersi e morire.

“Dollars On A Plate”- Di cosa si nutre l’Impero? Si nutre di denaro e di paura; i vostri soldi e la vostra paura, entrambi ottenuti con la vostra collaborazione.

E’ più forte adesso che quando doveva affrontare un avversario reale come l’Unione Sovietica.

La Russia oggi non è un avversario: tutto ciò che vuole è essere un Paese normale, in pace con il mondo. Ma l’Impero non glielo consentirà, vero? Deve creare nemici.

Chi sono i nostri nemici? Secondo gli autori della Guerra Infinita sono la Corea del Nord, Iran, Siria e terroristi islamici.

Qualcuno di loro è effettivamente in grado di minacciare gli Stati Uniti? Beh, sì, ma sono tutti abbastanza facili da scoraggiare. Ma il piano degli autori della Guerra Infinita non è quello di scoraggiarli, è di chiuderli in un angolo attraverso l’instabilità politica e le sanzioni mentre frustrano la popolazione sui due fronti in una frenesia terrorizzante.

Sappiamo tutti che il complesso militare-industriale degli Stati Uniti è diventato un organismo auto-riproducente e incontrollabile, proprio come Dwight D. Eisenhower aveva avvertito nel 1961.

Tutti conoscono la frase e l’avvertimento di Eisenhower – è parte della nostra memoria collettiva. Con un bilancio di mille miliardi di dollari l’anno, in crescita e oltre 1000 basi sparse per il pianeta, si è esteso ben oltre ciò che Eisenhower avrebbe potuto immaginare nel suo incubo peggiore.

Non possiamo dire che non lo sapevamo: ci aveva avvertito.

Dopo l’episodio Nazional-Socialista in Germania, molti buoni tedeschi si sono rammaricati per non aver parlato chiaro e forte, sostenendo che non sapevano ciò che era stato fatto in loro nome.

Ma noi non abbiamo questa scusa: sappiamo tutto da sempre e non è la prima volta che veniamo avvertiti.

Il Generale Smedley Butler ce lo disse nel 1933 e le sue parole sono ancora con noi, pubblicate on-line. Come mai tutti, generali inclusi, diventano improvvisamente saggi appena vanno in pensione? Butler ci ha offerto una spiegazione: la sua mente “era in uno stato alterato mentre prestava servizio come soldato eseguendo gli ordini”. Nel 1933 Butler ci disse che egli “era un truffatore, un gangster per il capitalismo”. Disse:

“Ho aiutato a rendere il Messico, in particolare Tampico, sicuro per gli interessi petroliferi americani nel 1914. Ho aiutato a rendere Haiti e Cuba posti tranquilli per gli affari dei ragazzi della National City Bank. Ho aiutato a razziare una mezza dozzina di Repubbliche centro-americane per gli interessi di Wall Street. La lista è lunga. Ho aiutato a ripulire il Nicaragua per l’International Banking House dei Brown Brothers nel 1909-1912… Ho portato la luce nella Repubblica Dominicana per gli interessi della American Sugar nel 1916. In Cina ho contribuito a fare in modo che la Standard Oil lavorasse indisturbata“.

Questo Impero non è nulla di nuovo, sappiamo da sempre che cos’è e che cosa fa. Non possiamo dire di non saperlo.

Da sempre abbiamo visto come gli Stati Uniti hanno represso ogni rivolta popolare contro autocrati e oligarchi locali, posto Paesi sotto il loro controllo e aiutato ad organizzare e formare gli squadroni della morte che sterminavano l’opposizione. Pensate all’Indonesia, all’Argentina, o all’Honduras. Abbiamo visto come l’Impero ha schiacciato ogni governo democratico che minacciasse gli interessi commerciali statunitensi con il falso pretesto dell’ “anti-comunismo” a partire dall’Iran nel 1953, Guatemala nel 1954 e proseguendo con Congo, Haiti (più volte), il famoso e infame golpe in Cile nel 1973 (con l’assassinio del presidente Salvador Allende l’11 settembre), Nicaragua nel 1980, e molti, molti altri. (Per altri dettagli vedi William Blum, Killing Hope).

Naturalmente molti di noi hanno vissuto attraversando le gigantesche menzogne e il genocidio di milioni in Vietnam, Laos e Cambogia durante la cosiddetta “Guerra del Vietnam”: sapevamo, guardavamo e abbiamo pagato le tasse per i proiettili e le bombe.

Più recentemente abbiamo visto le sfacciate bugie dell’Impero a disposizione di tutti in Iraq, Libia, Siria, Afghanistan, Somalia, Georgia, Pakistan, Yemen, Ucraina… Non finiscono mai!

Ma gli intrighi che sobilliamo in giro per il mondo non sembrano mai tornare a casa e suonare il nostro campanello, non è vero? Forse è per questo che continua a funzionare. Pensiamo che si possa semplicemente ignorarli e andare avanti con la nostra vita – che non ci riguardino. O ci toccheranno?

Mettiamo da parte la distruzione della democrazia che sempre accompagna gli stati di polizia fascisti e militarizzati, quello che sono gradualmente diventati gli Stati Uniti. E ignoriamo anche la violenza che pervade la società statunitense o il vasto gulag di carcerazione dove finiscono tutti gli “inutili non-contribuenti”. Consideriamo che l’unico attacco militare sul suolo degli Stati Uniti che ha realmente segnato un successo tangibile dai tempi di Pearl Harbor è stato l’ 11 settembre.

Pearl Harbor era alla periferia, lontano, in mezzo al Pacifico: “Un giorno che vivrà nell’Infamia”, tanto più che la FDR sapeva che stava per accadere e ha fatto di tutto per provocare l’interruzione dei rifornimenti di petrolio al Giappone, provocando quindi l’attacco.

Ma le Hawaii sono una periferia, mentre l’11 Settembre ha colpito il cuore dell’Impero, il centro finanziario di New York, quello che aziona la pompa della ricchezza imperiale e il Pentagono, incaricato della missione di dominio degli Stati Uniti nel mondo.

Credere che 19 arabi armati di taglierini, incapaci di pilotare persino un aereo a elica, siano stati in grado di far crollare tre edifici del WTO in caduta libera, come in una demolizione controllata (sì, gli edifici erano tre, vedi Edificio 7) e distruggere una parte del Pentagono, o credere che si sia trattato di un lavoro “interno”, non ha importanza. Il punto è che in quell’atto di distruzione le guerre causate dall’Impero in giro per il mondo sono tornate a casa.

Qual è stato il risultato? Questi eventi ci hanno indotto o no a riconsiderare ciò che stiamo facendo? Ovviamente no! Invece, siamo tutti pronti per la guerra. Ricordate, l’Impero è un automa, un organismo auto-perpetuante che si alimenta di denaro e di paura.

Quale modo migliore per generare nuova paura se non quello di inscenare, provocare o fallire nel prevenire, un attacco alla “Patria” – che è, tra l’altro, un termine della propaganda nazista?

Lo scopo della guerra è semplicemente quello di causare più guerra, perché è molto redditizia e, infatti, viene usato il termine (inappropriato) di “industria della difesa”.

Butler ci disse nel 1933 che “la guerra è un racket” e ha documentato i massicci profitti durante la prima guerra mondiale. Immaginate quanti soldi stanno facendo Lockheed, Northrop Grumman-Boeing, General Dynamics, Raytheon e gli altri dalla “Guerra al Terrore”? Cifre astronomiche.

Mentre leggete queste parole, l’Impero è impegnato nel suo lavoro in Ucraina. Ecco come funziona. In primo luogo si rovescia il governo eletto in un colpo di stato sostenuto dagli Stati Uniti, poi si induce il regime fantoccio locale a scatenare un attacco militare e a organizzare squadre della morte per soffocare quella parte della popolazione nella zona orientale che non intende sostenere il colpo di stato pro-statunitense: in questo caso utilizzando veri e propri squadroni della morte di stampo nazista, completi di svastiche. (Chiunque può verificare facilmente questi fatti con una semplice ricerca su Internet). E per il consueto tocco finale imperialista, si vota alle Nazioni Unite (insieme al Canada) contro una risoluzione che condanna i nazisti ucraini e altri assassini razzisti, mentre gli europei vergognosamente si astengono. Questo tipo di programma ha sempre funzionato bene e l’Impero continua a replicarlo incessantemente, anche se i risultati sono sempre peggiori.

Un gran numero di cittadini Americani sostiene le guerre di conquista statunitensi poiché queste consentono loro di poter mantenere i loro fastosi stili di vita. E sono quelli che ci disturbano più di altri. Molti di noi sono totalmente contrari alle guerre ma solo pochi considerano umanamente ed emotivamente insopportabile la distruzione di milioni di vite umane a nostro nome e con i nostri soldi. Qual è la differenza? Non so, bisognerebbe chiederlo ad uno psicologo.

La domanda per quelli che si oppongono alla guerra infinita è: cosa abbiamo fatto a questo proposito? Il movimento di massa che nel 1960 portò alla rivolta un vasto segmento della società, aveva qualcosa a che fare con la fine del conflitto in Vietnam. Ma nonostante queste proteste, l’Impero fu in grado di prolungare il conflitto di altri cinque anni, fino al 1973, quando accettò di porvi fine agli stessi termini che furono offerti nel 1968 al premio “Nobel per la Pace” Henry Kissinger.

Da allora non c’è stata nessuna protesta significativa contro la guerra, e tanto meno nessuno in grado di prevenire o porre fine alla guerra. Perché?

In primo luogo, perché la leva obbligatoria è stata abolita. Questo ha messo fine al coinvolgimento delle famiglie medie americane nelle guerre dell’Impero e quindi ha eliminato l’obbligo del consenso da parte dei cittadini. Gli strateghi si resero conto che la coscrizione obbligatoria era un disastro per l’Impero. Il modo nuovo, migliore e più economico per procurarsi carne da macello per la guerra senza fine era quello di arruolare i bambini del sottoproletariato utilizzando l’oppressione economica al fine di privarli di qualsiasi mezzo di progresso, tranne il servizio militare.

In secondo luogo, l’apparato militare è stato privatizzato e questo richiede un sempre minore coinvolgimento delle famiglie statunitensi nel mondo militare e meno bisogno del loro consenso: “Siete tutti volontari, quindi state zitti!”.

In terzo luogo, il campo di azione sempre più esteso del controllo da parte della NSA e di altre agenzie governative ha contribuito a tenere sempre più sotto controllo la popolazione e a soffocare ogni dissenso.

E quarto: lo stretto controllo governativo/economico sui mezzi di comunicazione statunitensi ha consentito una diffusa propaganda e un lavaggio del cervello della popolazione.

In definitiva: è in corso oggi una guerra agli informatori e ai giornalisti che espongono la verità, da Tom Drake a William Binney, Sibel Simons, Jesselyn Radack, Bradley Manning e Julian Assange. Se necessario la polizia, che ora è molto più militarizzata che in passato e il corpo della Guardia Nazionale riescono a schiacciare ogni rivolta come fosse un insetto.

Tutte queste misure impediscono a qualsiasi azione legale di riforma, pur se perseguita in modo non violento attraverso votazioni, scioperi, proteste autorizzate, resistenza civile, ecc., di produrre qualche risultato.

L’unica azione che potrebbe fermare l’Impero è quella di tagliargli i “viveri”, ovvero le tasse con cui vive. La belva va affamata disinvestendo, portando i beni altrove, resistendo alle tasse, protestando contro le tasse. L‘ex Segretario di Stato Alexander Haig ci disse chiaro e tondo negli anni ’80, quando dovette affrontare importanti proteste contro le politiche Americane nel Centro America: “Lasciateli protestare quanto vogliono fin tanto che pagano le tasse”.

Mai parole più veritiere sono state pronunciate da un funzionario statunitense.

Si può forse contraddire questa dichiarazione? Ci sono state altre misure che hanno avuto un qualche impatto sulla macchina da guerra? Onestamente, no.

Milioni di persone in tutto il mondo hanno protestato prima dell’invasione dell’Iraq nel 2003. Queste proteste sono state ignorate. Nessuna protesta o altro sforzo riesce a fermarla perché non vengono tagliati i “viveri” dell’Impero, cioè il denaro e la paura. Solo tagliando i fondi non pagando le tasse si può fermare l’Impero.

Molti hanno detto che gli Stati Uniti non hanno bisogno del denaro dei contribuenti poiché sopravvive grazie al debito infinito. E’ vero, l’Impero vive di debito, ma la capacità di vendere il debito si basa sul rating dei buoni del tesoro statunitensi. Recentemente, in Giugno 2014, la S&P ha dato agli USA un AA+ con “prospettive stabili”.

Se nascono dubbi sul rating USA, può essere messa in discussione la possibilità di vendere il debito per continuare a finanziare l’Impero. La capacità di incassare le tasse è ciò che mantiene alto il rating delle obbligazioni degli Stati Uniti. In presenza di una qualsiasi riduzione del rating delle obbligazioni statunitensi i tassi d’interesse dovrebbero salire per continuare ad attrarre maggiori investimenti. Di conseguenza gli interessi sul debito diverrebbero incontrollabili trasformandoli in debito non rimborsabile, questo senza considerare il debito originario che non ha nessuna intenzione di ripagare.

In questo ambito gli sforzi del Tea Party per bloccare il governo federale rifiutando di aumentare il tetto del debito per una volta si sono rivelati utili anche se per motivazioni diverse.

Pensavano che fosse il welfare a mandare in rovina il paese, ma questa è un’affermazione ridicola perché la spesa sociale è trascurabile rispetto alle spese militari. Tuttavia, per una volta sono riusciti a far abbassare il rating delle obbligazioni. Bloccare il governo federale è comunque un passo nella giusta direzione e poiché negli ultimi anni solo il Tea Party è riuscito a farlo, concediamogli il giusto merito.

Se gli USA non fossero più in grado di raccogliere le tasse in modo affidabile diminuirebbe la loro capacità di finanziare l’Impero con il debito: dovrebbero ricorrere ad un aumento delle imposte, una scelta politicamente inaccettabile, soprattutto nell’era del Tea Party, con un elettorato totalmente contrario a qualsiasi nuova imposizione fiscale.

Risulta quindi chiaro che l’unica cosa che potrebbe fermare l’Impero è una rivolta fiscale. E non dovrebbe essere neanche tanto clamorosa: al minimo dubbio circa la capacità del governo federale di riscuotere le tasse si ridurrebbe il rating delle obbligazioni.

Anche una minima riduzione potrebbe far alzare i tassi d’interesse abbastanza da rendere il debito degli Stati Uniti non rimborsabile.

Andiamo al sodo: come poter evitare di pagare le tasse quando l’IRS (agenzia delle entrate Americana, NdT) le trattiene i nostri stipendi aggiungendo circa il 15% in più del necessario (poi l’80% delle persone ottiene un rimborso)? Una coincidenza?

No, è un prestito senza interessi di un anno preso dai contribuenti.

In realtà è abbastanza semplice non pagare le tasse. Basta procurarsi un modulo W-4, scrivere ESENTE nell’apposito spazio e consegnarlo al vostro ufficio Risorse Umane. Al datore di lavoro non è consentito cambiare niente se non dietro precisa indicazione dalla IRS.

Normalmente non hanno alcun motivo per contestarlo.

Ecco cosa è successo l’ultima volta che è stato sperimentato su vasta scala: nel 2007 Code Pink si unì alla War Resisters League per organizzare un progetto nazionale di rifiuto della tassa di guerra per “fermare le guerre di Bush”. Non fu una vera e propria rivolta fiscale, ma più che altro un referendum per comprendere quante persone avrebbero potenzialmente aderito a trattenere simbolicamente una certa cifra dalle tasse dovute. La petizione online chiese alla gente se fosse disposta a trattenere volontariamente dalle tasse dovute anche solo 1 dollaro se almeno altre 100.000 avessero accettato di fare lo stesso. Su una popolazione di 316 milioni di persone, quanti credete abbiano firmato la petizione? Circa 2.000.

Quindi, come potete vedere, non ci sono molti segnali che la gente sia disposta a fare l’unica cosa che potrebbe realmente fermare l’Impero: una vera e propria rivolta fiscale alla Tea Party.

Questo significa che l’Impero continuerà a prosperare, che il debito continuerà ad accumularsi senza mai poterlo ripagare e che quindi il collasso totale è inevitabile.

Le conseguenze di un collasso totale sono imprevedibili: forse ci sarà un atterraggio morbido, forse no. Ma se non si è disposti a impegnarsi in una qualche forma di rivolta fiscale, il crollo finale non si potrà evitare.

Dovrete scegliere tra due cose: impegnarsi in una rivolta fiscale ora o affrontare il crollo futuro.

Siete sicuri di voler tentare la sorte del crollo? I risultati di una rivolta fiscale individuale sono prevedibili: punizioni con sanzioni e interessi applicati dalla IRS; vivere nella paura di vedersi portare via stipendio, beni, proprietà e anche la casa dagli agenti federali (anche se queste misure estreme non avvengono tanto spesso, ma basta solo il pensiero ad instillare in noi la paura).

Forse perderemo i nostri beni e forse anche il lavoro.

Perdere il posto di lavoro porterebbe alla depressione, a un divorzio, alla droga e all’alcol, ecc. Così finiamo con il preferire il crollo: dopotutto si tratta solo di perdere i propri risparmi, non avere elettricità e riscaldamento per la casa, non avere più nessuno che raccoglie i rifiuti urbani, trovare negozi saccheggiati o chiusi, vedere in giro bande armate che pattugliano le strade.

A voi la scelta.

Comunque il collasso potrebbe anche finire bene! Nel cuore di un americano fiorisce sempre la speranza. Siamo o non siamo (o meglio – eravamo) le persone del “We Can”?

Chissà, magari sappiamo crollare meglio di chiunque altro.

Ci vengono tuttavia dei dubbi dopo aver letto la presentazione di Dmitry Orlov – Collapse Gap.

E’ probabile che le conseguenze del crollo prossimo venturo saranno peggiori di quelle di una rivolta fiscale oggi. Soprattutto dal momento che all’IRS ci vogliono anni per arrivare ad identificare dei finti “ESENTI”. E sarebbe più difficile da reprimere se fosse fatto in massa. Ma è perfettamente comprensibile scegliere di non fare nulla e attendere le conseguenze future, mettendo a tacere la propria coscienza impegnandosi in proteste inutili e inefficaci.

Probabilmente avete una famiglia da mantenere, o un hobby costoso, o qualche altra scusa.

Così si decide di tentare la sorte del collasso futuro. In fondo per voi il collasso potrebbe rivelarsi un fatto positivo, chissà.

Questa psicologia è abbastanza comprensibile. Spero davvero che questo crollo sia indolore come si spera, ma chissà perché ne dubito.

Buona fortuna, però!

Qualunque cosa accada, dovrete vivere per tutta la vita, sia essa lunga o breve, accettando le conseguenze della decisione che avrete preso.

sabato 6 dicembre 2014

Il mondo di mezzo è lercio. Ma il mondo 'di sopra'?

I magistrati che hanno avviato la clamorosa inchiesta sull'intreccio tra malavita, politica e affari nella Capitale, hanno chiamato questa operazione "Mondo di mezzo".
La denominazione è stata mutuata dall'intercettazione di un boss della fascio-malavita che così definiva la propria "posizione di rendita". Ci sono quelli che stanno sopra e quelli che stanno sotto, nel mondo di mezzo ci sono quelli chiamati a fare il lavoro sporco a favore del "mondo di sopra" a tutto discapito di quelli di sotto. Sintesi perfetta, ancorché involontaria, del ruolo storico dei fascisti: braccio armato dei padroni (un secolo fa i latifondisti e poi gli industriali, oggi palazzinari e finanzieri).

A fare questo lavoro sporco, come abbiamo denunciato e documentato in questi quattro anni su Contropiano, c'è un'area grigia fatta da malavitosi e fascisti, mazzieri e pistoleri, soldati e boss che interagiscono con "la politica", il mondo delle imprese - cooperative, industriali, finanziarie o di servizi - o le aziende municipalizzate per ottenerne benefici economici in cambio di fette di consenso politico, gestione dei "problemi" non sempre risolvibili a rigor di legge, ecc. Con le spicce quando serve, oliando con i soldi funzionari, dirigenti, assessori o sindaci quando è possibile; e in modo totalmente trasversale con la destra (dove ci sono vecchi amici e camerati), con la "sinistra" (dove identità e dignità politiche sono state soppiantate da figure mediocri ma rampanti).

Il mondo di mezzo appare dunque lercio per autodefinizione, soprattutto quando è fatto da personaggi (fascisti o meno che siano) che animano i pogrom contro immigrati e rom nelle periferie e poi si scopre che ci campano sopra, gestendo il "business dell'accoglienza".
"Si guadagna di più con gli immigrati che con il traffico di droga", dice in un'intercettazione uno degli arrestati, a modo suo un boss dell'"assistenza sociale", nuova e purulenta piaga coincidente con aziende e cooperative del "terzo settore", l'unico beneficiario - privato - dello smantellamento del welfare e dei servizi sociali pubblici. Quello a cui Renzi vorrebbe affidare tutto in nome di una sussidiarietà alla rovescia, tanto per intendersi; eliminando lo Stato a favore dei "mezzani".
Ma questo è ancora soltanto il mondo di mezzo.

Dalla conferenza stampa della Procura di Roma la sensazione è che sia ancora poca roba.
Manca infatti il convitato di pietra: il mondo di sopra, quello citato esplicitamente da Carminati come il "committente" della sua personalissima "intermediazione non convenzionale".
Diciamola così: è possibile un'indagine a Roma sull'intreccio tra malavita, affari, politica, amministrazioni locali, aziende del terzo settore, che non incontra mai i palazzinari?
Può tenere fuori il nucleo centrale di quella borghesia romana atipica che su rendita fondiaria e cemento ha fondato fortune e imperi economici che fanno ancora il bello e il cattivo tempo nella Capitale?
Si può evitare di vedere quelle cene o feste di compleanno in cui trovi insieme assessori di destra o "di sinistra", consiglieri regionali-provinciali-comunali "ambidestri" e costruttori vecchi e nuovi, magari imbronciati tra loro e bisognosi di un "aiutino", un terreno da rendere edificabile, uno scambio?
E si può evitare di dare un'occhiata al piano regolatore della Giunta Veltroni o alle varianti urbanistiche di Alemanno e Polverini, in parte riprese anche da Zingaretti, che hanno gettato sul territorio milioni di metri cubi di cemento, tirando su palazzi senza servizi che oggi rimangono vuoti in attesa di tornare utili per qualche "emergenza" o una banale "sanatoria"?

Ci permettiamo di suggerire alla Procura di Roma un "allargamento di vedute" nelle inchieste sul malaffare a Roma, nel rapporto tra costruttori, politica, malavita e amministrazioni locali.
Ad esempio: la vicenda dei Piani di Zona per l'edilizia convenzionata, esplosa di recente anche sul piano giudiziario, o dei fondi Sgr sulle case degli enti previdenziali, allargherebbe sicuramente l'orizzonte dal mondo di mezzo al mondo di sopra.

Sarebbe utile buttare un occhio sulla vicenda dei Punti Verde Qualità, delle cui opportunità di business si parla esplicitamente in una telefonata tra l'imprenditore "nero" Mokbel e il boss della malavita del litorale, Fasciani.

Sarebbe interessantissimo non lasciar andare in prescrizione le indagini sui biglietti dell'Atac clonati, distribuiti parallelamente a quelli ufficiali, che hanno fruttato 68 milioni di euro ai "fortunati" beneficiari (bipartisan, naturalmente), invece che alle casse di una azienda municipalizzata di trasporto oggi alle prese con un deficit stellare.

Sarebbe auspicabile dare un'occhiata da vicino ai concessionari e proprietari della "Las Vegas" di case del gioco d'azzardo legalizzato, delle palazzine gonfie di slot machine, dei casinò all'amatriciana, sorti come funghi nelle ex fabbriche e capannoni della Tiburtina Valley, della Prenestina, ecc.

Sarebbe opportuno incrociare le indagini con la Corte dei Conti per sapere perché, se il Ministero dei Beni Culturali decreta che l'aggio dei concessionari privati nelle attività di gestione dei beni archeologico-culturali non deve superare il 30%, ben il 68% del valore di ogni biglietto per il Colosseo o altri musei riempie le casse di società private invece di quelle pubbliche.

Sarebbe sensato anche verificare la correttezza del progetto per l'Autostrada Roma-Latina (già prenotata in "concessione" ai privati) e la cui gara di assegnazione dei lavori vede i grandi del mondo di sopra asfaltare i piccoli del mondo di sotto.

Infine, ma non per importanza, sarebbe opportuno andare a vedere un po' più da vicino il mondo delle cooperative, in cui sono prosperati specularmente precarietà per chi ci lavora, arricchimenti personali degli amministratori e degrado dei servizi sociali offerti al posto dei servizi pubblici.

Ci sarebbe dunque tanto, tanto materiale per esplorare da dentro anche il "mondo di sopra". Per i magistrati si pone però un problema. Il governo, ad esempio, ha varato due decreti - Il Decreto Lupi sulla casa e il Decreto Sblocca Italia - che consegnano nella mani del "mondo di sopra" tutte le carte da giocare, impippandosene dei "lacci e lacciuoli" previsti dalla legge. Su entrambi incombe l'indignazione popolare. E sul secondo anche le preoccupazioni dell'Autorità Anticorruzione, visti i varchi che offre al riciclaggio di denaro.

Ma se queste sono le leggi, questa diventa la legalità formale. E se queste sono le regole, siamo ormai di fronte e dentro un sistema, una governance della politica, dell'economia e della società. Diventa allora troppo facile dare in pasto all'opinione pubblica il solo mondo di mezzo salvaguardando però il Mondo di sopra.

Questo mondo di sopra si presenta ormai come "nè di destra, né di sinistra", è contemporaneamente fascista e sedicente antifascista (come disse un lungimirante Pasolini).

E' il mondo degli interessi materiali di quelli che vivono, appunto, nel mondo di sopra e che - per gestire i sempre conflittuali rapporti tra il proprio mondo e "quelli di sotto" - hanno arruolato da sempre un lerciaio di mercenari, mazzieri e mercanti per "mantenere le distanze". Anche a Roma.