Sulla recentissima apertura statunitense a Cuba sono state
architettate le ricostruzioni e le previsioni più fantasiose.
Particolarmente interessanti, da questo punto di vista, sono state le
ricostruzioni degli elementi più ideologizzati, in particolare a
sinistra, che hanno visto in questo avvenimento un tradimento nei
confronti della causa. Ora, secondo noi, sarebbe più opportuno valutare
tutta la faccenda da un punto di vista più pragmatico che ideologico.
In questi cinquant’anni il quadro geopolitico latinoamericano si è fortemente evoluto, cambiando completamente faccia. Dagli Anni Sessanta fino agli Anni Novanta, quando Cuba in seguito al crollo dell’URSS ed allo scioglimento del Comecon fu costretta a varare il durissimo “periodo speciale”, L’Avana era solo una piccola monade isolata nel contesto latinoamericano, caratterizzato da paesi che salvo rare eccezioni limitate nel tempo e nello spazio erano tutti fedeli componenti del “cortile di casa” nordamericano. Poi sono arrivati i Chavez, i Lula, i Morales, i Correa, i Kirchner, a modificare in modo tangibile la fisionomia politica di un continente fino ad allora completamente in mano agli “yanqui”. E Cuba è diventata improvvisamente l’esempio da seguire, il riferimento morale di tutti questi nuovi governi socialisti e progressisti, con cui quest’ultimi stabilivano fruttuosi e profondi legami economici, politici, culturali e sanitari. Dalla fine degli Anni Novanta Cuba non è più sola.
Così, paradossalmente, sono oggi gli Stati Uniti a ritrovarsi soli ed isolati nelle Americhe. Se vogliono riavvicinarsi ai paesi latinoamericani, in particolare al Brasile che nel frattempo è diventato una quasi superpotenza, ed ancor più agli Stati membri dell’ALBA, devono giocoforza giocare la carta cubana, ovvero aprire a L’Avana, perchè per Brasilia, Caracas, Quito, La Paz e Buenos Aires essa rappresenta un esempio ed un punto non negoziabile.
Un altro punto, ancor più importante, è rappresentato dalle coraggiose riforme economiche che Cuba ha intrapreso negli ultimi anni e che col tempo la trasformeranno in un’economia socialista di mercato paragonabile al Vietnam ed alla Cina. Si tratta di un’occasione particolarmente ghiotta per l’economia americana, che a pochi chilometri dalle sue coste si ritroverebbe con un nuovo mercato tutto da esplorare, in crescita ed in grado di offrire un ambiente ricettivo per gli investimenti, in cui la stabilità politica ed il basso costo della manodopera costituiscono i due elementi più attrattivi.
Proprio come il Vietnam, la cui economia guardacaso è sempre più integrata con quella americana; e se gli Stati Uniti intrattengono solidi legami commerciali, finanziari e persino politici con Hanoi, ovvero con un paese con cui negli Anni Sessanta e Settanta hanno combattuto una dura guerra riportando un’ancor più dura sconfitta, perchè mai allora non dovrebbero intrattenerli anche con L’Avana? Solo perchè ci sono degli esuli a Miami sempre più male in arnese e sempre meno determinanti ai fini di una vittoria elettorale? La contropartita rappresentata dal commerciare e dall’investire in una Cuba sempre più economicamente “vietnamizzata” è decisamente molto più allettante.
Certo, poi possiamo pensare tutto quel che si vuole. Persino che gli Stati Uniti vogliano blandire Cuba sulla falsariga di quanto già avvenne con la Libia di Gheddafi, che passò dalle sanzioni allo sdoganamento dell’era Bush, con una sempre più viva integrazione economica con l’Occidente poi culminata nella rivoluzione colorata di Bengasi e nella guerra che ne seguì. Ma in quel caso la Libia non voleva dare tutto, ma solo una parte del pacchetto: gli Stati Uniti reagirono come sappiamo. Il risultato è sotto gli occhi di tutti, e certamente anche gli americani ne avranno tratto una lezione. Del pari, anche i vertici de L’Avana avranno compreso quali siano i rischi di certe aperture, e agiranno di conseguenza. Ma, al di là di tutto questo discorso, bisogna pur dire che la Libia, nel 2011, era sola, sganciata dalle principali superpotenze mondiali o comunque legata ad esse solo superficialmente; mentre Cuba ha dietro di sé un meccanismo di relazioni internazionali tale da scoraggiare qualsiasi tentazione di ricorrere all’uso dei bombardamenti.
Senza poi considerare che, se lo facessero, gli Stati Uniti si ritroverebbero con un drammatico ed immenso problema di “boat people” diretti verso le loro coste, in particolare verso la Florida, e che perderebbero tutto il resto dell’America Latina. Sarebbe davvero una mossa suicida. Cuba è davvero inattaccabile come il Vietnam o la Corea del Nord, che hanno ai loro confini la Cina. Ma, del resto, anche una semplice rivoluzione colorata basterebbe ad innescare simili conseguenze umanitarie ed internazionali: ed anche di questo gli Stati Uniti sono perfettamente consapevoli. E allora l’unica cosa che possiamo pensare è che, stavolta, finalmente abbiano fatto una scelta più dettata dal pragmatismo che non dall’ideologia
In questi cinquant’anni il quadro geopolitico latinoamericano si è fortemente evoluto, cambiando completamente faccia. Dagli Anni Sessanta fino agli Anni Novanta, quando Cuba in seguito al crollo dell’URSS ed allo scioglimento del Comecon fu costretta a varare il durissimo “periodo speciale”, L’Avana era solo una piccola monade isolata nel contesto latinoamericano, caratterizzato da paesi che salvo rare eccezioni limitate nel tempo e nello spazio erano tutti fedeli componenti del “cortile di casa” nordamericano. Poi sono arrivati i Chavez, i Lula, i Morales, i Correa, i Kirchner, a modificare in modo tangibile la fisionomia politica di un continente fino ad allora completamente in mano agli “yanqui”. E Cuba è diventata improvvisamente l’esempio da seguire, il riferimento morale di tutti questi nuovi governi socialisti e progressisti, con cui quest’ultimi stabilivano fruttuosi e profondi legami economici, politici, culturali e sanitari. Dalla fine degli Anni Novanta Cuba non è più sola.
Così, paradossalmente, sono oggi gli Stati Uniti a ritrovarsi soli ed isolati nelle Americhe. Se vogliono riavvicinarsi ai paesi latinoamericani, in particolare al Brasile che nel frattempo è diventato una quasi superpotenza, ed ancor più agli Stati membri dell’ALBA, devono giocoforza giocare la carta cubana, ovvero aprire a L’Avana, perchè per Brasilia, Caracas, Quito, La Paz e Buenos Aires essa rappresenta un esempio ed un punto non negoziabile.
Un altro punto, ancor più importante, è rappresentato dalle coraggiose riforme economiche che Cuba ha intrapreso negli ultimi anni e che col tempo la trasformeranno in un’economia socialista di mercato paragonabile al Vietnam ed alla Cina. Si tratta di un’occasione particolarmente ghiotta per l’economia americana, che a pochi chilometri dalle sue coste si ritroverebbe con un nuovo mercato tutto da esplorare, in crescita ed in grado di offrire un ambiente ricettivo per gli investimenti, in cui la stabilità politica ed il basso costo della manodopera costituiscono i due elementi più attrattivi.
Proprio come il Vietnam, la cui economia guardacaso è sempre più integrata con quella americana; e se gli Stati Uniti intrattengono solidi legami commerciali, finanziari e persino politici con Hanoi, ovvero con un paese con cui negli Anni Sessanta e Settanta hanno combattuto una dura guerra riportando un’ancor più dura sconfitta, perchè mai allora non dovrebbero intrattenerli anche con L’Avana? Solo perchè ci sono degli esuli a Miami sempre più male in arnese e sempre meno determinanti ai fini di una vittoria elettorale? La contropartita rappresentata dal commerciare e dall’investire in una Cuba sempre più economicamente “vietnamizzata” è decisamente molto più allettante.
Certo, poi possiamo pensare tutto quel che si vuole. Persino che gli Stati Uniti vogliano blandire Cuba sulla falsariga di quanto già avvenne con la Libia di Gheddafi, che passò dalle sanzioni allo sdoganamento dell’era Bush, con una sempre più viva integrazione economica con l’Occidente poi culminata nella rivoluzione colorata di Bengasi e nella guerra che ne seguì. Ma in quel caso la Libia non voleva dare tutto, ma solo una parte del pacchetto: gli Stati Uniti reagirono come sappiamo. Il risultato è sotto gli occhi di tutti, e certamente anche gli americani ne avranno tratto una lezione. Del pari, anche i vertici de L’Avana avranno compreso quali siano i rischi di certe aperture, e agiranno di conseguenza. Ma, al di là di tutto questo discorso, bisogna pur dire che la Libia, nel 2011, era sola, sganciata dalle principali superpotenze mondiali o comunque legata ad esse solo superficialmente; mentre Cuba ha dietro di sé un meccanismo di relazioni internazionali tale da scoraggiare qualsiasi tentazione di ricorrere all’uso dei bombardamenti.
Senza poi considerare che, se lo facessero, gli Stati Uniti si ritroverebbero con un drammatico ed immenso problema di “boat people” diretti verso le loro coste, in particolare verso la Florida, e che perderebbero tutto il resto dell’America Latina. Sarebbe davvero una mossa suicida. Cuba è davvero inattaccabile come il Vietnam o la Corea del Nord, che hanno ai loro confini la Cina. Ma, del resto, anche una semplice rivoluzione colorata basterebbe ad innescare simili conseguenze umanitarie ed internazionali: ed anche di questo gli Stati Uniti sono perfettamente consapevoli. E allora l’unica cosa che possiamo pensare è che, stavolta, finalmente abbiano fatto una scelta più dettata dal pragmatismo che non dall’ideologia
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