Con una
tempistica assai sospetta, ieri mattina alle 9 e mezza il ministero
del Lavoro ha reso pubblica «un’anticipazione dei dati sulle
Comunicazioni obbligatorie relativi al terzo trimestre del
2014». Mezz’ora dopo — «come da programma reso noto anno per anno» —
l’Istat ha diffuso i dati sugli occupati del mese di ottobre. E alla
stessa Istat — nonostante lo sciopero dei precari in attesa di
rinnovo che ha fatto saltare la presentazione del bollettino —
ammettono di non ricordare un altro caso di comunicato del
ministero, specie se in controtendenza con i loro dati.
Numeri «come mele e pere, da non mettere assieme»: nel primo caso riguardano i contratti avviati da luglio a settembre; nel secondo il saldo delle persone che risultano occupate nel mese di ottobre. Dati che difatti hanno un segno praticamente opposto.
Lecito dunque pensare che il ministero del Lavoro abbia voluto dare una buona notizia — «oltre 400mila nuovi contratti a tempo indeterminato in tre mesi con un aumento del 7,1 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente» — anticipando i dati negativi dell’Istat. Il tasso di disoccupazione tocca un nuovo massimo storico: 13,2 per cento, in aumento di 0,3 punti percentuali rispetto al mese precedente e di 1,0 punti nei dodici mesi. Così come cala il tasso di occupazione — al 55,6 per cento, meno 0,1 punti rispetto al mese precendente. La disoccupazione giovanile — Under 25 — è pari al 43,3 per cento, in aumento di 0,6 punti percentuali rispetto al mese precedente e di 1,9 punti nel confronto tendenziale.
Se «mele e pere non sono paragonabili», il frutteto è sempre lo stesso: il mondo del lavoro in Italia, che non se la passa di certo bene. La verità sta nel mezzo. I dati dell’Istat sono obiettivamente molto negativi, ma ne contengono uno positivo: la diminuzione degli inattivi — coloro che un lavoro non lo cercavano neanche — dello 0,2 per cento rispetto al mese precedente (-32mila unità) e del 2,5 per cento rispetto a dodici mesi prima (-365 mila). «Un dato che è sintomo di una maggiore mobilità del mercato del lavoro, sebbene in un quadro altamente altalenante», fanno sapere dall’istituto. Per il resto i dati del terzo trimestre dell’Istat sono «non destagionalizzati» e quindi poco attendibili.
D’altra parte, nello stesso comunicato del ministero del Lavoro ci sono dati tutt’altro che positivi. Le cessazioni dei rapporti di lavoro da luglio a settembre sono state 2milioni 415mila, con una aumento dello 0,9 per cento rispetto all’anno precedente. Tra le cause di cessazione che spiegano anche l’aumento dei nuovi contratti — va sottolineato il deciso aumento di pensionamenti: addirittura il 55 in più rispetto al 2013.
Ma il segno «più» basta al governo per lasciarsi andare alla propaganda, affermando che «questi dati, in continuità con quelli relativi al secondo trimestre, confermano che il cosiddetto decreto Poletti ha prodotto l’esito che era auspicabile, cioè un incremento dei contratti a tempo indeterminato e dei contratti di apprendistato».
Da Catania invece Renzi continuava con la disinformazione: «Il tasso di disoccupazione ci preoccupa ma guardando i numeri il dato di occupati sta crescendo. Da quando ci siamo noi ci sono 100mila posti di lavoro in più», nascondendo invece che da quando è in carica il suo governo (marzo) i posti sono in calo di 31mila unità.
La situazione la spiega bene il professor Carlo Dell’Aringa, studioso della materia e ora parlamentare della minoranza dialogante del Pd. «In questa situazione i dati sono soggetti a parecchie accidentalità: siamo costretti a manifestare entusiasmo un mese e costernazione il mese successivo». Per Dell’Aringa «una certa tendenza da parte dell’imprese a scegliere contratti più garantiti rispetto al passato, sostituendo quelli precari con tempi determinati, comunque c’è». Allo stesso tempo «è facile prevedere che i nuovi contratti a tempo indeterminato negli ultimi mesi dell’anno saranno ridotti in attesa dell’entrata in vigore del Jobs act — col contratto a tutele crescenti — e della legge di stabilità — con gli sgravi fiscali sulle assunzioni». Il quadro però è ancora sconfortante. «Anche la dimininuzione degli inattivi è dovuta alla disperazione della povertà che porta tutti — specie al Sud — a cercare un lavoro purché sia: un aumento dell’offerta di lavoro, un funzionamento marginale della periferia, mentre il centro del lavoro è ancora in grandissima sofferenza, come dimostrano i dati sugli ammortizzatori sociali».
Numeri «come mele e pere, da non mettere assieme»: nel primo caso riguardano i contratti avviati da luglio a settembre; nel secondo il saldo delle persone che risultano occupate nel mese di ottobre. Dati che difatti hanno un segno praticamente opposto.
Lecito dunque pensare che il ministero del Lavoro abbia voluto dare una buona notizia — «oltre 400mila nuovi contratti a tempo indeterminato in tre mesi con un aumento del 7,1 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente» — anticipando i dati negativi dell’Istat. Il tasso di disoccupazione tocca un nuovo massimo storico: 13,2 per cento, in aumento di 0,3 punti percentuali rispetto al mese precedente e di 1,0 punti nei dodici mesi. Così come cala il tasso di occupazione — al 55,6 per cento, meno 0,1 punti rispetto al mese precendente. La disoccupazione giovanile — Under 25 — è pari al 43,3 per cento, in aumento di 0,6 punti percentuali rispetto al mese precedente e di 1,9 punti nel confronto tendenziale.
Se «mele e pere non sono paragonabili», il frutteto è sempre lo stesso: il mondo del lavoro in Italia, che non se la passa di certo bene. La verità sta nel mezzo. I dati dell’Istat sono obiettivamente molto negativi, ma ne contengono uno positivo: la diminuzione degli inattivi — coloro che un lavoro non lo cercavano neanche — dello 0,2 per cento rispetto al mese precedente (-32mila unità) e del 2,5 per cento rispetto a dodici mesi prima (-365 mila). «Un dato che è sintomo di una maggiore mobilità del mercato del lavoro, sebbene in un quadro altamente altalenante», fanno sapere dall’istituto. Per il resto i dati del terzo trimestre dell’Istat sono «non destagionalizzati» e quindi poco attendibili.
D’altra parte, nello stesso comunicato del ministero del Lavoro ci sono dati tutt’altro che positivi. Le cessazioni dei rapporti di lavoro da luglio a settembre sono state 2milioni 415mila, con una aumento dello 0,9 per cento rispetto all’anno precedente. Tra le cause di cessazione che spiegano anche l’aumento dei nuovi contratti — va sottolineato il deciso aumento di pensionamenti: addirittura il 55 in più rispetto al 2013.
Ma il segno «più» basta al governo per lasciarsi andare alla propaganda, affermando che «questi dati, in continuità con quelli relativi al secondo trimestre, confermano che il cosiddetto decreto Poletti ha prodotto l’esito che era auspicabile, cioè un incremento dei contratti a tempo indeterminato e dei contratti di apprendistato».
Da Catania invece Renzi continuava con la disinformazione: «Il tasso di disoccupazione ci preoccupa ma guardando i numeri il dato di occupati sta crescendo. Da quando ci siamo noi ci sono 100mila posti di lavoro in più», nascondendo invece che da quando è in carica il suo governo (marzo) i posti sono in calo di 31mila unità.
La situazione la spiega bene il professor Carlo Dell’Aringa, studioso della materia e ora parlamentare della minoranza dialogante del Pd. «In questa situazione i dati sono soggetti a parecchie accidentalità: siamo costretti a manifestare entusiasmo un mese e costernazione il mese successivo». Per Dell’Aringa «una certa tendenza da parte dell’imprese a scegliere contratti più garantiti rispetto al passato, sostituendo quelli precari con tempi determinati, comunque c’è». Allo stesso tempo «è facile prevedere che i nuovi contratti a tempo indeterminato negli ultimi mesi dell’anno saranno ridotti in attesa dell’entrata in vigore del Jobs act — col contratto a tutele crescenti — e della legge di stabilità — con gli sgravi fiscali sulle assunzioni». Il quadro però è ancora sconfortante. «Anche la dimininuzione degli inattivi è dovuta alla disperazione della povertà che porta tutti — specie al Sud — a cercare un lavoro purché sia: un aumento dell’offerta di lavoro, un funzionamento marginale della periferia, mentre il centro del lavoro è ancora in grandissima sofferenza, come dimostrano i dati sugli ammortizzatori sociali».
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