Di recente, le
rivolte delle periferie romane- associate, forse frettolosamente, alle
rivolte in quel di Parigi- hanno catalizzato l’attenzione tutta,
fungendo da diversivo in un contesto politico in cui sembrava prevalere
l’immobilismo e, a parte i tagli, niente di nuovo si profilava
all’orizzonte. Fornendo ai giornalisti ampio materiale per i loro pezzi e
agli opinionisti di che chiacchierare nei salotti televisivi, la
rivolta delle periferie romane ha però fatto emergere un contesto
desolante che i media, di concerto con la classe politica, cercavano di
nascondere . Vanificati i discorsi di papa Bergoglio che invitavano
alla misericordia e all’accoglienza, come pure il tentativo degli
sceneggiati televisivi nostrani di dipingere una nuova società italiana,
sempre più assimilabile al modello americano di società multietnica
perfettamente integrata – queste rivolte si sono invece configurate come
un’espressione di xenofobica intolleranza verso la presenza sempre più
invasiva degli immigrati, in particolar modo nelle periferie delle
città. E invero, c’è chi sostiene che gli immigrati non c’entrino nulla,
ma che il malcontento sia stato ingenerato dalle condizioni di vita
delle periferie, dal degrado crescente aggravatosi con le politiche di
spending review, che hanno sottratto risorse alle periferie. E’
indubbio, tuttavia, che le rivolte delle periferie romane hanno
dispiegato nella sua interezza il problema del precario equilibrio
sociale su cui si regge la nazione. Un’opposizione dicotomica (
favorevoli e contrari all’immigrazione) sembra emergere dai dibattiti
televisivi ed è questa la maggiore preoccupazione, dal momento che la
strada verso la multi-etnicità della società italiana ha tutta l’aria di
essere una strada senza ritorno. E se anche fosse questo il problema,
ci sarebbe ancora la possibilità di pervenire ad un equilibrio, dal
momento che ( sembra scontato) comporre nell’unità una diade non è tanto
difficile quanto mettere insieme i frantumi di un Paese che si sta
disgregando. Pezzi ideologicamente sempre più distanti, fisicamente
estraniati, talmente sparsi che sarà difficile pervenire nuovamente ad
unità se e quando si paleseranno nuovamente le condizioni.
I pezzi che l’Italia sta perdendo- neppure tanto inconsapevolmente- sono quelli del proprio patrimonio artistico-culturale, che le istituzioni abbandonano all’incuria e a cui certo non giova l’indolenza e la sprezzante mancanza di rispetto di tanti turisti che danneggiano e portano via, come se nulla fosse. Chi non ricorda la vicenda degli ennesimi crolli negli scavi di Pompei lo scorso giugno? Dal crollo della Schola Armaturarum a Pompei, avvenuto nel 2010, non si fa che parlare del degrado che affligge uno dei siti culturali più importanti del mondo. Inutile attribuire le cause a cedimenti strutturali, se questi reperti sono rimasti in piedi secoli. La colpa non è del tempo, ma dell’uomo, della classe dirigente. Nonostante le bellezze paesaggistiche e quelle artistiche, l’Italia è solo al quinto posto nella classifica delle mete turistiche più gettonate al mondo, subito dopo Francia, Spagna, Stati Uniti e Cina. Il motivo è da ricercare in un altro dato: l’Italia si piazza al 79esimo posto per la misura con cui il governo ritiene prioritaria l’industria turistica, che vale 161 miliardi di euro (10,2% del Pil) [1]. ‘E figlie so’ ppiezz’ ‘e còre, recita un proverbio napoletano, ovvero “I figli sono pezzi di cuore”. E come tali, con il cuore, con riguardo e sentimento, lo Stato dovrebbe trattare i proprio figli, con un occhio di riguardo alle generazioni più giovani. Nell’era del liberalismo sfrenato, tramontata la concezione paternalista dello Stato, i giovani non sono figli, sono cittadini. I pezzi che il Paese sta perdendo sono anche loro, i tanti giovani che emigrano all’estero alla ricerca di una vita migliore. Nel 2013 sono stati stati 82mila i cittadini italiani che hanno lasciato l’Italia (il 20,7 per cento in più rispetto al 2012).[2]
Il declino, però, non si arresta qui. La nota più dolorosa in una storia di un lento cedimento, sono i pezzi del sistema produttivo italiano venduti ad acquirenti stranieri, fenomeno che già fa parlare di “outlet italiano”. Dal 2008 a oggi sono quasi mille le aziende che sono passate in mani straniere. L’enfasi posta da questo governo su innovazione e start-up, dà ben l’idea di trovarsi in un sistema produttivo (quello italiano) innovativo, dinamico ed in crescita, che risponde con energia e pragmatismo alle sfide della competizione internazionale. Ma i numeri dicono altro: schiacciate dalla burocrazie, abbandonate dallo Stato, sono sempre di più le imprese che chiudono battenti. Le micro. Perché quelle più grandi e appetibili, di tradizione e con un certo “nome” non chiudono. Vengono acqusitate da imprese straniere. Il centro studi Eurispes, in collaborazione con UIL amministrazione, circa un anno fa ha pubblicato un report dal titolo significativo: “Outlet Italia. Cronaca di un Paese in svendita” , nel quale analizzava il fenomeno delle aziende italiane, simbolo della produzione e della tradizione Made in Italy, che hanno cambiato proprietà e bandiera. Il report, si leggeva nel comunicato stampa, “vuole stimolare l’attenzione e la riflessione del sistema politico e istituzionale su un tema forse per troppo tempo trascurato ma che sarà decisivo per il futuro stesso del nostro Paese”. Un appello rimasto inascoltato, la svendita non si è arrestata…
Soltanto nel 2014 sono 18 le imprese tricolore acquistate dalla Germania. Dalle motociclette Mv Augusta alla Ducati, dalla trevigiana Happy Fit alla bergamasca Clay Paky, dalla bolognese Egs, specializzata in protesi digitali e 3D per odontoiatria, aerospaziale e automotive alla milanese Ettore Cella, specializzata in termostati per l’industria chimica. La Germania, come tante altre nazioni, si impadronisce dei gioiellini del Made in Italy, con buoni prodotti e ben inserita nelle filiere internazionali [3]. Le acquisizioni, oggi, a differenza del passato, non hanno più l’obiettivo di accrescere le dimensioni di impresa ma rispondono ad un’esigenza strategica che potremmo definire di attacco: togliere di mezzo gli avversari più temibili, approfittando del momento di crisi e acquistandoli ( a quattro soldi). E’ un’Italia, la nostra, che perde credibilità sulla scena internazionale e fiducia da parte dei suoi stessi cittadini, che perde i pezzi di preziosi affreschi ed altari, che perde la sua identità e le sue tradizioni, che perde perfino l’unica cosa che le può assicurare autorevolezza (ed autonomia) sulla scena internazionale: l’industria. Un paese che nel XXI secolo non possegga una grande industria manifatturiera – scriveva Luciano Gallino in “La scomparsa dell’Italia industriale”- si presenta con i caratteri di una colonia subordinata alle esigenze e scelte di quei paesi che di tale industria dispongono.
I pezzi che l’Italia sta perdendo- neppure tanto inconsapevolmente- sono quelli del proprio patrimonio artistico-culturale, che le istituzioni abbandonano all’incuria e a cui certo non giova l’indolenza e la sprezzante mancanza di rispetto di tanti turisti che danneggiano e portano via, come se nulla fosse. Chi non ricorda la vicenda degli ennesimi crolli negli scavi di Pompei lo scorso giugno? Dal crollo della Schola Armaturarum a Pompei, avvenuto nel 2010, non si fa che parlare del degrado che affligge uno dei siti culturali più importanti del mondo. Inutile attribuire le cause a cedimenti strutturali, se questi reperti sono rimasti in piedi secoli. La colpa non è del tempo, ma dell’uomo, della classe dirigente. Nonostante le bellezze paesaggistiche e quelle artistiche, l’Italia è solo al quinto posto nella classifica delle mete turistiche più gettonate al mondo, subito dopo Francia, Spagna, Stati Uniti e Cina. Il motivo è da ricercare in un altro dato: l’Italia si piazza al 79esimo posto per la misura con cui il governo ritiene prioritaria l’industria turistica, che vale 161 miliardi di euro (10,2% del Pil) [1]. ‘E figlie so’ ppiezz’ ‘e còre, recita un proverbio napoletano, ovvero “I figli sono pezzi di cuore”. E come tali, con il cuore, con riguardo e sentimento, lo Stato dovrebbe trattare i proprio figli, con un occhio di riguardo alle generazioni più giovani. Nell’era del liberalismo sfrenato, tramontata la concezione paternalista dello Stato, i giovani non sono figli, sono cittadini. I pezzi che il Paese sta perdendo sono anche loro, i tanti giovani che emigrano all’estero alla ricerca di una vita migliore. Nel 2013 sono stati stati 82mila i cittadini italiani che hanno lasciato l’Italia (il 20,7 per cento in più rispetto al 2012).[2]
Il declino, però, non si arresta qui. La nota più dolorosa in una storia di un lento cedimento, sono i pezzi del sistema produttivo italiano venduti ad acquirenti stranieri, fenomeno che già fa parlare di “outlet italiano”. Dal 2008 a oggi sono quasi mille le aziende che sono passate in mani straniere. L’enfasi posta da questo governo su innovazione e start-up, dà ben l’idea di trovarsi in un sistema produttivo (quello italiano) innovativo, dinamico ed in crescita, che risponde con energia e pragmatismo alle sfide della competizione internazionale. Ma i numeri dicono altro: schiacciate dalla burocrazie, abbandonate dallo Stato, sono sempre di più le imprese che chiudono battenti. Le micro. Perché quelle più grandi e appetibili, di tradizione e con un certo “nome” non chiudono. Vengono acqusitate da imprese straniere. Il centro studi Eurispes, in collaborazione con UIL amministrazione, circa un anno fa ha pubblicato un report dal titolo significativo: “Outlet Italia. Cronaca di un Paese in svendita” , nel quale analizzava il fenomeno delle aziende italiane, simbolo della produzione e della tradizione Made in Italy, che hanno cambiato proprietà e bandiera. Il report, si leggeva nel comunicato stampa, “vuole stimolare l’attenzione e la riflessione del sistema politico e istituzionale su un tema forse per troppo tempo trascurato ma che sarà decisivo per il futuro stesso del nostro Paese”. Un appello rimasto inascoltato, la svendita non si è arrestata…
Soltanto nel 2014 sono 18 le imprese tricolore acquistate dalla Germania. Dalle motociclette Mv Augusta alla Ducati, dalla trevigiana Happy Fit alla bergamasca Clay Paky, dalla bolognese Egs, specializzata in protesi digitali e 3D per odontoiatria, aerospaziale e automotive alla milanese Ettore Cella, specializzata in termostati per l’industria chimica. La Germania, come tante altre nazioni, si impadronisce dei gioiellini del Made in Italy, con buoni prodotti e ben inserita nelle filiere internazionali [3]. Le acquisizioni, oggi, a differenza del passato, non hanno più l’obiettivo di accrescere le dimensioni di impresa ma rispondono ad un’esigenza strategica che potremmo definire di attacco: togliere di mezzo gli avversari più temibili, approfittando del momento di crisi e acquistandoli ( a quattro soldi). E’ un’Italia, la nostra, che perde credibilità sulla scena internazionale e fiducia da parte dei suoi stessi cittadini, che perde i pezzi di preziosi affreschi ed altari, che perde la sua identità e le sue tradizioni, che perde perfino l’unica cosa che le può assicurare autorevolezza (ed autonomia) sulla scena internazionale: l’industria. Un paese che nel XXI secolo non possegga una grande industria manifatturiera – scriveva Luciano Gallino in “La scomparsa dell’Italia industriale”- si presenta con i caratteri di una colonia subordinata alle esigenze e scelte di quei paesi che di tale industria dispongono.
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